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Autore: Ysera    20/12/2014    0 recensioni
Era notte fonda. Aveva fatto di nuovo quel dannato sogno e stava nuovamente provando quell’agghiacciante sensazione che ogni volta gli lasciava. Non riusciva ad abituarcisi, per quante volte lo avesse fatto.
Si alzò e corse verso la camera della sorella, spalancando la porta. Lei era lì che dormiva tranquillamente, ignara di tutto.
Il ragazzo si avvicinò al letto e le sfiorò la fronte con le labbra.
«Ho fatto di nuovo quell’incubo» sussurrò. «ma non importa, stai bene e sto già meglio. Ormai ci ho fatto il callo, più o meno. Quel sogno mi perseguiterà fino alla fine dei miei giorni a quanto pare. E tu, che sembri così serena dormendo, sorrellina… tu, che cosa sogni?»
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2/2/13
E’ una settimana che un dannato incubo si ripete. Sempre lo stesso, sempre uguale. Succede spesso che un sogno si ripeta per qualche notte, ma ormai abbiamo superato il limite di “qualche notte”. Forse sto drammatizzando troppo, forse non dovrei affatto pensarci… passerà.”
 
“11/3/13
No, no, no. Non va affatto bene. E’ passato un mese dacché continuo a fare, ogni notte, sempre lo stesso sogno. Perché? Com’è possibile si ripeta sempre uguale? Se chiudessi gli occhi riuscirei ad immaginarmelo tutto dall’inizio alla fine, senza bisogno di dormire. L’ho imparato a memoria, ormai. Possibile sia solo una fissazione? Mi sta consumando. Magari… magari se smetto di dargli così tanto peso tutto finirà. Sì, dev’essere così. E se così non fosse, devo almeno provare. Tentar non nuoce e non saprei che altro fare, in fondo.”
 
Conscio, preconscio e subconscio” pensò Aubry, mentre sfogliava nervosamente le pagine del quadernetto dove annotava frammenti della sua vita. Una sorta di diario come quello di tanti adolescenti, infarcito di polemiche, lamentele, gioie e sofferenze di una vita piuttosto tranquilla, almeno fino a quel 27 gennaio in cui qualcosa era cambiato, qualcosa che il ragazzo non riusciva a spiegarsi. “Freud sosteneva che il conscio fosse la parte della psiche contenente tutti i ricordi e le conoscenze di cui siamo consapevoli, che il preconscio, invece, racchiudesse ricordi e conoscenze facilmente riportabili alla mente, quindi ricordabili, e che nel subconscio si celassero ricordi e desideri ritenuti da noi inaccettabili o troppo dolorosi; per questo li abbiamo spinti oltre la soglia dell’autoconsapevolezza nel tentativo di dimenticarcene. Ma non funziona così. In vero, nulla può essere effettivamente rimosso dalla nostra memoria, difatti  il nostro cervello rielabora ciò che è custodito nell’inconscio sotto forma di sogni o di incubi. Tuttavia, entrambi si verificano in eventi singoli, raramente si ripetono e, se anche lo facessero, la cosa non dovrebbe durare a lungo.”
Aubry poggiò il quadernetto sulla scrivania e si lasciò sprofondare nella poltrona di pelle.
E allora cosa cazzo c’è che non va nel mio inconscio? Che cazzo c’è che non va in me? Perché continuo a fare lo stesso incubo da mesi, perché mi tormenta?” Il ragazzo prese a massaggiarsi le tempie. “Eppure le ho provate tutte… Ho provato a non pensarci, a fare finta di nulla, ad ignorarlo… ma lui è sempre lì. Imperterrito si ripresenta ogni volta che mi rilasso troppo e finisco per addormentarmi. Sta mettendo a dura prova i miei nervi e la mi sanità mentale. Fa male”.
Un improvviso colpo alla porta interruppe il vortice di pensieri che aveva travolto il giovane, il quale sospirò quasi sollevato.
«Aubry, posso entrare?»
La voce vellutata di Camille aveva sempre un effetto calmante su di lui.
«Certo» replicò, cambiando posizione sulla poltrona.
«Ti ho portato qualcosa da mangiare. Te ne stai chiuso qui tutto il giorno, mi fai preoccupare, fratellone!» disse la ragazza, poggiando una ciotola colma di fragole sulla scrivania di mogano. «Tieni, mangia» continuò. «So quanto ami le fragole. In più non hai fatto colazione e hai anche saltato il pranzo».
Camille si guardò intorno, attonita. «E poi è ancora giorno, perché te ne stai con le persiane abbassate e la luce accesa? Guarda che aria sciupata che hai! Hai bisogno di luce solare, di aria fresca!» concluse infine, mentre con movimenti esperti e veloci spense la luce e spalancò la porta-finestra, lasciando entrare un po’ d’aria.
Il ragazzo cominciò ad assaporare con calma la frutta mentre osservava la sorella riordinare il caos che era diventata la sua stanza.
Ogni volta che i due erano insieme il tempo sembrava fermarsi, i problemi annullarsi, i pensieri riordinarsi.
Camille, più che una sorella, era un po’ come una figlia per Aubry. In fondo, era come se l’avesse cresciuta lui. A soli 17 anni e mezzo si sentiva già come un padre. I loro genitori erano quasi sempre occupati per questioni di lavoro, di rado si riunivano in casa tutti insieme e alla piccola mancava una figura stabile di riferimento; questo, il ragazzo, lo sapeva bene e lo aveva sempre saputo. Perciò aveva deciso di rivestire egli stesso quel ruolo per Camille.
In realtà, anche se non lo avrebbe mai ammesso, anche a lui serviva un elemento di stabilità permanente nella sua vita fatta di mancanze e solitudine.
«Allora, non mi dici nulla?» chiese Camille, con aria innocente.
«Cosa dovrei dire?» replicò il fratello, tra un boccone e l’altro.
«Non so... raccontami della tua giornata, dimmi che pensi, parlami di qualsiasi cosa tu voglia, ma parla!»
«Non che io abbia molto da dire. Sono stanco.»
«E va bene» sbuffò rassegnata la ragazza. «allora va’ a farti un bagno caldo e dopo vieni a cena. E non azzardarti a saltare anche questo pasto.»
«E’ un’ordine?» la schernì Aubry, sogghignando.
«Esatto.»
«Altrimenti?»
«Altrimenti beccati questo!» urlò Camille di rimando, prendendo un cuscino dal letto e lanciandolo in faccia al fratello. «Ha! I tuoi riflessi non sono più quelli di una volta» sghignazzò. «E sono pronta a riempirti di una scarica infinita di piume d’oca infagottate, se necessario».
«D’accordo, d’accordo. Calma.» concesse Aubry alzando le mani e fingendo un piccolo inchino. «Ai suoi ordini, vostra maestà».
 
La cena fu veloce e arrivò presto l’ora di andare a dormire. Fratello e sorella si diedero la buona notte e Aubry si diresse controvoglia verso la sua camera. A dire il vero, non gli andava affatto di dormire e tentò di tutto per rimanere sveglio, ma la stanchezza era più forte della volontà e il sonno sopraggiunse silenzioso.
~
«Fa dannatamente caldo!»
«Lo so.»
«No, non lo sai! Sono tutta sudata e appiccicosa, mentre tu sei fresco come una rosa. No, non lo sai affatto!»
Aubry sorrise divertito, osservando il viso imbronciato della sorella.
Era una calda – da prenderci fuoco, come avrebbe l’avrebbe definita Camille – giornata estiva e i due, annoiati e stanchi di stare rinchiusi tra le solite quattro mura, avevano deciso di fare una passeggiata per le strade della città.
«Ci penso io a te, aspettami qui» disse il ragazzo carezzando la testa di Camille.
«Perché devo restare qui? Dove vai?» protestò lei.
«E’ una sorpresa!» ribatté Aubry allontanandosi e svoltando dietro l’angolo.
Entrò in un negozio di dolciumi e con calma scelse una consistente varietà di caramelle, le preferite della sorella. I dolcetti la tiravano sempre su di morale e l’avrebbero sicuramenta aiutata a sopportare meglio l’afa. Tutte le volte che Aubry poteva regalarle qualche istante di felicità non esistava minimamente a mettersi in azione perché, in fondo, viveva solo per questo, per i sorrisi di Camille.
Non appena uscì dal negozio, un urlo acuto e una sgommata stridente, susseguita da un tonfo sordo, lo fecero sobbalzare.
Che diavolo…?!” si chiese mentre tornava di corsa nel punto in cui aveva lasciato Camille. Non c’era. Si guardò intorno preoccupato e vide un capannello di gente radunata in mezzo alla strada.
Probabilmente sarà tra quelle persone” si disse, col cuore in gola.
Si avvicinò alla folla, faticando per superarla e chiamando a gran voce la sorella. Nessuna risposta. Forse non riusciva a sentirlo per via del confusionale vociare delle persone.
Tunf fu il rumore che il sacchetto di caramelle produsse finendo a contatto con l’asfalto rovente quando Aubry se lo lasciò cadere dalle mani dopo aver visto cosa si celava oltre quella barriera di gente.
Il ragazzo aveva preso a sudare e a boccheggiare inspirando grandi quantità di aria che sembravano non arrivare affatto ai polmoni. Trattenne a stento un conato di vomito, rischiando quasi di soffocare.
Un uomo, probabilmente il proprietario della Peugeot con i paraurti macchiati di sangue e il cofano leggermente ammaccato che stava bloccando il traffico, se ne stava in piedi con il viso tra le mani a farneticare cose come “Non volevo, è stato un incidente” e “Non doveva succedere”; a terra giaceva, immobile e tutta rannicchiata su se stessa, una ragazza.
Aubry non riusciva a credere che quella che stava guardando fosse proprio la sua amata sorella. Digrignò i denti e si lanciò contro l’autista, il quale non sembrò avere la minima intenzione di reagire, scagliandolo a terra e assestandogli un paio di cazzotti in piena faccia, mentre gli urlava ogni tipo di insulto e bestemmia.
Alcuni passanti lo fermarono e cercarono di immobilizzarlo, ma il ragazzo si liberò dalla stretta degli sconosciuti dimenandosi come un forsennato.
Si inginocchiò di fronte alla sorella, incredulo e tremante. La prese delicatamente tra le braccia, scostandole i capelli biondi incrostati di sangue dal viso orrendamente sfigurato e inverosimilmente tumefatto.
Sentiva il sangue di lei, caldo e denso, scorrergli sulle mani, penetrargli nella pelle, insudiciargli le ossa, macchiargli l’anima fino in fondo.
«Che cazzo è successo?» sibilò a denti stretti.
Un uomo che stringeva in braccio un bambino piangente emerse dal gruppo omogeneo di curiosi e parlò con voce sofferente:
«Questa ragazza ha salvato mio figlio. Eravamo proprio nel parco di fronte e Charles stava giocando con la palla. Si era allontanato un po’ troppo ma riuscivo ancora a tenerlo sott’occhio, così avevo pensato di lasciarlo giocare in pace. Ma mi sbagliavo. La palla è finita fuori dal recinto e prima che potessi realizzare cosa stesse accadendo, Charles era già sfrecciato in mezzo alla strada all’inseguimento del suo giocattolo. Ho visto questa ragazza correre e spingerlo via prima…» l’uomo deglutì rumorosamente, volgendo lo sguardo verso il basso. «Prima dell’impatto.»
Aubry alzò la testa e fissò negli occhi i presenti, uno ad uno. Sentiva che la rabbia stava per prendere il sopravvento.
 
«Dannazione!» urlò Aubry, svegliandosi di soprassalto col cuore che batteva a mille. Controllò la sveglia, cercando di riprendere fiato. Era notte fonda. Aveva fatto di nuovo quel dannato sogno e stava nuovamente provando quell’agghiacciante sensazione che ogni volta gli lasciava. Non riusciva ad abituarcisi, per quante volte lo avesse fatto.
Si alzò e corse verso la camera della sorella, spalancando la porta. Lei era lì che dormiva tranquillamente, ignara di tutto.
Il ragazzo si avvicinò al letto e le sfiorò la fronte con le labbra.
«Ho fatto di nuovo quell’incubo» sussurrò. «ma non importa, stai bene e sto già meglio. Ormai ci ho fatto il callo, più o meno. Quel sogno mi perseguiterà fino alla fine dei miei giorni a quanto pare. E tu, che sembri così serena dormendo, sorrellina… tu, che cosa sogni?»
~
«Buongiorno signora Dupont» la salutò gentilmente il medico, come tutte le mattine.
«Buongiorno» rispose Meryl altrettanto gentilmente. «Come sta oggi?»
Il dottore scosse la testa, pulendo con un panno di velluto gli occhiali spessi e sporchi.
«Non bene. Non c’è segno di miglioramento. Ma prego, venga a controllare lei stessa» la invitò, guidandola per i corridoi dell’ospedale.
Era passato un mese dalla morte di Camille e dal ricovero di Aubry. Il povero ragazzo era rimasto talmente traumatizzato dalla morte della sorella da essere sprofondato in una sorta di mutismo. Si era chiuso in se stesso, protetto da una barriera impenetrabile che non permetteva alcun tipo di invasione esterna.
Era passato tantissimo tempo dall’ultima volta che Meryl aveva sentito la voce del figlio. Ne ricordava bene le grida, però. Ogni notte, prima del ricovero, il ragazzo si svegliava urlando nel cuore della notte e si rifiutava di spiegarle cosa lo turbasse. Aveva smesso di mangiare e aveva tentato più volte il suicidio, così  la necessità di un“aiuto medico” era venuto da sé.
I dottori le avevano spiegato che la mente di Aubry non aveva accettato l’accaduto, trasformando il mondo intorno a lui in un’illusione perenne, in una specie di sogno ad occhi aperti dal quale il ragazzo non poteva svegliarsi.
Se solo fossi stata più presente” si rammaricò Meryl. I sensi di colpa la divoravano fino al midollo, succhiandole via ogni energia vitale. Sia il suo aspetto che la sua anima si stavano lentamente spegnendo e appariva sempre più sciupata e trasandata. L’antica bellezza che le aveva fruttato anni di ammirazioni e complimenti di ogni genere, era ormai solo un ricordo lontano e sbiadito dal tempo. La donna stava appassendo e lo sapeva bene.
Nell’ospedale non si sentiva volare una mosca, fatta eccezione per lo schiocco secco che i tacchi a spillo di Meryl producevano sul linoleum, riecheggiando nei corridoi asettici. Alla donna sembrava di trovarsi in un ambiente soprannaturale che la caricava di un’angoscia insopportabile e opprimente.
Arrivata alla stanza del figlio lo trovò in uno stato pietoso: spettinato, denutrito e rannicchiato su se stesso, intento a scrivere qualcosa sul muro.
«Ciao piccolo mio…» sussurrò, entrando silenziosamente. Diede una rapida occhiata alle frasi che Aubry incideva su quelle pareti che, oramai, erano divenute il suo diario personale e sospirò amaramente. In quei piccoli frammenti di vita il ragazzo parlava di un sogno ricorrente che sembrava non dargli pace e di quanto la mancanza di Camille lo ditruggesse.
Meryl si avvicinò a colui che un tempo era stato un ragazzo brillante, promettente, pieno di vita e di speranze, sfiorandogli impercettibilemte una ciocca scomposta di capelli castano scuro.
La mia negligenza mi ha strappato entrambi i miei bambini. E’ ciò che mi merito. Non ho mai saputo dare importanza alle cose che ne meritavano davvero piuttosto che a quelle quelle futili. In questo caso ho trascurato la famiglia dando un peso eccessivo ad una carriera senza senso. E cosa mi rimane, oggi, se non un pugno di banconote e un vuoto immenso che non potrà mai più essere colmato? Anche vostro padre mi ha lasciata. Mi ha ripetuto fino all’ultimo istante della nostra  ormai decaduta relazione quanto avessi fallito nel ruolo di madre e quanto ciò avesse costato a due poveri innocenti. E, a dire il vero, non sono mai riuscita a darlgi torto” pensò mordendosi le labbra e trattendo a stento le lacrime.
Si avvicinò ulteriolmente a Aubry, allungando il collo e sbirciando oltre le spalle di lui per vedere cosa stesse scrivendo. Il ragazzo stava ricalcando ossessivamente una scritta a cui la donna non riuscì a dare un senso, ma che le trafisse ugualmente il cuore. Sentì lo spesso nodo che aveva alla gola scioglersi lentamente e, infine, si lasciò andare a singhiozzi incontrollati. Piangeva per la morte di Camille, per lo stato in cui si trovava Aubry, per la famiglia che anni prima aveva messo su e che aveva trascurato, pensando a cosa avrebbero potuto essere se solo le cose fossero andate diversamente e piangeva perché non riusciva più a comprendere ciò che il figlio cercava di dirle.
Rilesse la scritta più e più volte. Poi chiuse gli occhi, cercando di riflettere. Se anche non riusciva ad afferrarne il significato sapeva che quelle parole celavano qualcosa di importante, un segreto che Aubry custodiva gelosamente e che, al tempo stesso, era impaziente di rivelare.
«E tu, che cosa sogni?» sibilò il ragazzo, leggendo ad alta voce la frase che non smetteva di calcare e ricalcare.
Così, dopo tanti anni, Meryl risentì la voce del figlio. Ma quella non era la voce di Aubry, no. Quello che la donna aveva appena sentito era un lamento proveniente direttamente dalle terre più remote degli inferi e la cui eco graffiava senza pietà le oramai labili pareti della sua coscienza.
«E tu, cosa sogni?» ripeté Aubry.
«E tu, cosa sogni?» sussurrò Meryl, partecipando all’inquietante cantilena che aveva preso definitivamente il sopravvento sui cuori distrutti della madre e del figlio, unico ricordo di un fantasma candido e innocente che avrebbe per sempre aleggiato nei loro pensieri.
   
 
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