Capitolo 2
La cosa più
giusta
«Allora, qual era la tanto misteriosa
sorpresa che non vedevi l’ora di dirci?» esordì Davide a un tratto, senza
preavviso.
Eravamo tutti sazi e assopiti dopo la cena
“speciale” di Elena a base di lasagne e pollo arrosto (insalata per Melissa), e
c’era quasi sfuggito lo scopo di quel lauto banchetto: mia moglie aveva una
sorpresa da svelarci. L’aria divenne improvvisamente carica di tensione: ognuno
di noi sperava in qualcosa di diverso. Nella mente di Davide, speranzosa,
baluginava l’immagine di una vincita alla lotteria di qualche milione di euro,
mentre Melissa sperava nella comunicazione dell’imminente adozione di un
cucciolo, magari un piccolo yorkshire. Per quel che mi riguarda, tra le due
aspettative optavo decisamente per quella di mio figlio. Correndo il rischio di passare per un venale,
un materialista, prevedevo che a Settembre Melissa avrebbe iniziato il primo
anno a Medicina, e – lo sapete – lo studio ha un suo bel prezzo: costano i
libri, costa l’iscrizione all’università, costa la retta annuale. Chi, quale
genitore avrebbe avuto il coraggio di negare l’apprendimento a un figlio così
dotato? Io no di certo.
«Giusto, me n’ero quasi dimenticata!» esclamò
Elena, appoggiando il vassoio con il dolce sul tavolo.
«Stamattina ha chiamato Riccardo».
«Che fantastica notizia!» sbottai io, non
riuscendo a frenare il disappunto.
Riccardo era l’ex fidanzato di mia moglie, il
classico bulletto tutto sport niente studio. Non fraintendetemi, era ben
diverso da mio figlio Davide: era un totale imbecille. Lui ed Elena stavano insieme
ai tempi del liceo: quarto e quinto ginnasio, precisamente. Riccardo era il
migliore amico del fratello, e, nonostante la differenza di età, aveva sin da
subito adocchiato mia moglie dopo la morte di Francesco. Con la scusa di
volerla consolare, non aveva fatto altro che avvicinarsi a lei, come
un’anguilla, a poco a poco, approfittando della sua sofferenza. La loro storia
durò a malapena due anni, fino al giorno in cui Elena lo trovò a letto con la sua
migliore amica, e decise finalmente di lasciarlo. Non riuscivo a capacitarmi
del fatto che lo avesse perdonato, decidendo di mantenere un’amicizia, e che
ancora giudicasse “una bella notizia” ricevere una sua telefonata. Attribuivo
questa sua decisione, in apparenza assurda, alla volontà di non “tradire” in
qualche modo il fratello morto, allontanandosi da quello che era stato il suo
migliore amico.
«Scusa, continua» aggiunsi poi, sentendomi un
idiota.
Melissa e Davide ascoltavano rimanendo
educatamente in silenzio, ma scambiandosi degli sguardi perplessi.
«Stavo dicendo … Riccardo mi ha chiamata, stamattina. Voleva dirmi
che un suo amico ha deciso di affittare una villetta in periferia, poco
distante dalla palestra di Davide. E’ una casa su due piani, con un grande
giardino» proseguì Elena.
Un pizzico di speranza pervase tutto il mio
corpo: la villetta di quella mattina, il paradiso terrestre …
«E questa sarebbe la bella notizia? L’ho
vista stamattina, a giudicare dalle dimensioni non è proprio alla nostra portata
… e poi, se non sbaglio, quella villetta è in vendita» la interruppi,
leggermente innervosito.
«Lasciami finire, Edo … come dicevo, il
proprietario è un suo amico, e ha deciso all’ultimo momento di non venderla.
Pare sia troppo carica di ricordi della madre, defunta da poco … ha detto che
può farci uno sconto … 590» concluse.
«590 euro?» chiesi, sgomento. « … al mese?».
«No, al giorno!» esclamò Elena, sarcastica. «Certo
che al mese, che domande fai?».
«Non ci credo, c’è qualcosa dietro … una
villa così grande, almeno centocinquanta metri quadrati … nessuno sarebbe così
folle da affittarla per così poco, in questa città …» sostenni.
La verità era che non mi andava di dovere un
favore a Riccardo.
«Ti ho detto che il proprietario è un amico
di Riccardo, per questo costa così poco! E poi pare che abbia fretta di
affittare la casa, perché si sta per trasferire in un’altra città …» aggiunse
Elena, spazientita.
«Ma perché avete tutta questa volontà di
trasferirvi? Questa casa va benissimo, non ha niente che non vada!» intervenne
Melissa, quasi urlando.
Tutto ad un tratto si era alterata.
«Ha ragione tua figlia, questa casa va bene»
dissi io, affermando esattamente il contrario di quello che pensavo.
Quella casa mi piaceva veramente tanto.
«E tu che centri, papà! Non fingere di essere
d’accordo con me solo perché detesti Riccardo, fino a poche ore fa sognavi di
affittare quella casa! Mi hai persino portata a vederla!» sbottò Melissa.
Era vero. Mia figlia aveva pienamente
ragione, per quanto mi costasse ammetterlo: adoravo quella casa.
«Io … be’, mi sarà permesso di cambiare idea
o no?» dissi, arrampicandomi maldestramente sugli specchi.
«Se è questo che vuoi …» concluse Elena.
Prese un coltello e tagliò la torta,
distribuendone una fetta a tutti, me incluso. La cena terminò nel più avvilente
silenzio: nessuno ebbe più il coraggio di proferire alcuna parola. Verso le
nove, mia moglie sgombrò la tavola, aiutata da Melissa, e si mise a lavare i
piatti. Davide si lasciò cadere sul divano, guardando la televisione, e ben
presto fu raggiunto dalla sorella. Iniziò una lotta all’ultimo respiro fra i
due per il dominio del telecomando: Melissa voleva seguire il suo telefilm
preferito, mentre mio figlio aveva iniziato a vedere un film thriller, uno di
quelli tutto sparatorie niente trama. Lasciando la prole a contendersi
l’egemonia del televisore, decisi di andare subito a dormire: l’indomani loro
sarebbero rimasti a casa, ma io mi sarei dovuto svegliare alle sei per andare a
lavoro, dove non esistono sabato liberi. Adagiandomi sul letto, rimuginai sulla
serata: era stata un completo fallimento, e tutto per colpa mia, per colpa del
mio stupidissimo orgoglio maschile. Potevo veramente rinunciare a una così
stupenda villa, per giunta ad un prezzo così basso, solo perché a procurarcela
era stato Riccardo?
No, mi dissi. Mi venne in mente il testo di
una canzone che Melissa cantava spesso:
“… l’orgoglio
in amore è un limite che sazia solo per un istante e poi torna la fame …”.
Nina Zilli aveva ragione: l’orgoglio in amore è un limite. Non
potevo proprio permettermi di rovinare il rapporto con mia moglie e rinunciare
a quella fantastica casa solo per orgoglio! Mi alzai di scatto dal letto e
corsi in cucina: Elena stava ancora lavando i piatti. Intravidi la sua
espressione, un’espressione triste e amareggiata, e mi sentii ancora più in
colpa, ancora più stupido di prima. Melissa e Davide stavano litigando, e
iniziai a temere che i vicini chiamassero la polizia lamentando un disturbo
alla quiete pubblica. Lentamente e silenziosamente, mi avvicinai a mia moglie e
la cinsi con le braccia, facendola sussultare.
«Edo, sei tu! Hai messo a dura prova le mie
coronarie!».
«Scusami … e non solo per adesso. Sono stato
un vero idiota stasera dissi.
«Infatti, sei stato un imperdonabile
deficiente stasera» aggiunse lei, non riuscendo però a nascondere un sorrisino
soddisfatto.
«Un deficiente, un idiota, tutto quello che
vuoi … hai pienamente ragione ad avercela con me. Ti volevo dire che per la
casa va bene».
Non ho mai saputo scusarmi in vita mia.
«Va bene cosa?» insistette Elena.
Era chiaro che da me pretendeva qualcosa di
più. E dopotutto, ne aveva pienamente diritto.
«Va bene, possiamo andarla a vedere domani,
se il proprietario è disponibile. Domani pomeriggio dopo le due, però, perché
fino a quell’ora sono al lavoro» aggiunsi io, esitante.
Ma perché è così difficile scusarsi? Nei film
lo fanno sempre con effetto, usando paroloni, e il perdono è assicurato.
«Possono venire anche Davide e Melissa, è
giusto che piaccia anche a loro. Quindi tu l’hai già vista?» chiese mia moglie.
«Sì» risposi.
«E’ bellissima» aggiunsi, laconico.
«Sei veramente incredibile» esclamò lei,
baciandomi teneramente su una guancia.
«Visto che questa è la serata delle
rivelazioni» seguitò. « Ho preparato una fantastica cena per due motivi … ho …
ho deciso di tornare a lavorare».
Silenzio.
«Hai capito, Edo?».
Devo ammettere che quella notizia non mi fece
fare i salti di gioia, anzi, tutt’altro, però mi sentivo ancora troppo in colpa
per iniziare un’altra discussione.
«Sono contento» dissi semplicemente.
« Non vuoi neanche sapere di che si tratta?»
esclamò.
«Certo, amore! … di che si tratta?» chiesi in
fretta.
«Complimenti per la spontaneità! Comunque … Alla
palestra di Davide cercano un’istruttrice di pallavolo, e io ho deciso di fare
domanda. Inizio lunedì. Pensavo fosse giusto fartelo
sapere» proseguì.
«Hai fatto benissimo, Elena … anche se avrei
preferito che non ti sforzassi, fa sempre comodo uno stipendio in più, specie
in vista dell’università di Melissa» affermai.
«Sono contenta che ti faccia piacere … mi
impegnerà solo tre volte a settimana, se accettano la mia domanda» aggiunse
poi, quasi scusandosi.
«Non preoccuparti, l’importante è che sia
quello che vuoi» dissi. Ma
dovrai fare i conti con tuo figlio, temo».
«Lo so, ma non diciamogli niente prima di
lunedì, è meglio» si affrettò a dire Elena, preoccupata.
Dopo aver stipulato l’”armistizio”, mano
nella mano, ci recammo in salotto, dove Melissa e Davide, finalmente, avevano
smesso di litigare. Come al solito, aveva avuto la meglio mia figlia, e Davide,
ferito nell’orgoglio, era intento a mandare sms, probabilmente al suo amico di
sempre Giovanni, il figlio di Riccardo.
«Noi andiamo a letto» esordii a voce un po’
troppo alta, guadagnandomi un’occhiata indispettita di Melissa.
«Buonanotte» si limitò a dire, quasi temendo
di perdere una sillaba del telefilm che si era riuscita a guadagnare con tanta
fatica.
«Comunque, se vi interessa, domani pomeriggio
andiamo tutti a vedere la casa» scandì Elena, forse sperando di suscitare un
coro di “evviva!” che non arrivò.
«E come al solito in questa casa la mia
opinione non conta nulla» si limitò a dire Melissa.
Delusi, ci recammo in camera da letto e,
entro poco tempo, dormivamo entrambi come ghiri.
La mattina seguente fu un’impresa svegliarsi,
con tutta la casa in silenzio, assopita. Davide si era addormentato sul divano:
sembrava così piccolo, così innocente, disteso su quel sofà. Presi una coperta
e gliela gettai sulle spalle: eravamo a Maggio, ma faceva ancora freddo. Bevvi
il mio solito caffè in cucina, facendo attenzione a non svegliare nessuno, e
uscii, diretto al lavoro. Passando davanti alla villetta non potei fare a meno
di sorridere: “adesso chi è il pezzente?”, pensai. Premetti l’acceleratore e, nel
giro di dieci minuti, raggiunsi l’ospedale. La mattinata trascorse serena,
sostenuto dal compiacimento per il potenziale realizzarsi del mio sogno sulla
casa, e riuscii addirittura a mettere in imbarazzo Simone – pardon, il dottor Alberini – davanti ad un
paziente. Accorgendomi che stava dimettendo un anziano, a suo dire “guarito”,
con tre milioni e mezzo di globuli rossi e sette di emoglobina, non riuscii a
trattenermi dall’intervenire.
«Ma dottor Alberini, ha visto gli esami
ematochimici del paziente?» chiesi.
Nel frattempo, l’anziano, nonostante fosse
visibilmente sofferente, spostava lo sguardo fra me e Simone, turbato, quasi
chiedendosi chi dei due fosse il medico.
«Sì, quelli di ieri sera. E’ tutto a posto».
«No, quelli di stamattina, quelli che ha chiesto
personalmente la dottoressa Ferrero» continuai.
«Non ce n’è bisogno, non andavano fatti, l’ho
detto benissimo anche a Marta. In questi tempi di spending review dovremmo
evitare certe cose … e comunque a te non devo dire nulla, torna a pulire i pavimenti».
A quel punto, non riuscii proprio a
trattenermi. Se l’era cercato, in fondo.
«Dottore, il paziente ha pochi globuli rossi,
e anche l’emoglobina è bassa. Potrebbe avere un’emorragia interna, il che è
plausibile, considerando che fa TAO» esclamai, cercando di mantenere un tono di
voce piatto, per quanto la situazione non lo consentisse affatto. Il paziente
andava prontamente trasfuso. Fu provvidenziale il passaggio in corridoio di
Marta, che, resasi conto della gravità della situazione semplicemente dal
pallore dell’anziano, chiamò subito un infermiere e ricondusse il paziente in
reparto.
«Complimenti, Simone» si premurò di
aggiungere, prima di allontanarsi verso l’unità operativa di Medicina Interna.
Da parte sua Simone, visibilmente
imbarazzato, quasi più pallido del paziente, non proferì parola.
Incredibilmente, iniziai a provare pena per quell’uomo: in fondo, sembrava
sinceramente angosciato per le sorti dell’anziano, che peraltro era stato
affidato a lui. O forse era più preoccupato di come l’avrebbe presa il primario
alla notizia che uno dei suoi migliori medici aveva rischiato di uccidere un
paziente, chissà.
Erano quasi le due e un quarto quando timbrai
per uscire. Per fortuna, l’anziano era riuscito a salvarsi, grazie
all’intervento di Marta. Eccitato per l’imminente incontro con il proprietario
della villetta, chiamai mia moglie per avere conferma sull’orario e sulla sua
disponibilità. Loro erano già lì, mi disse, “aspettiamo solo te”. Mi misi in
macchina e cercai di fare il più in fretta possibile, per non far aspettare
troppo il proprietario e la mia famiglia. Arrivato a destinazione in soli
cinque minuti, parcheggiai l’auto nel garage della villetta: il padrone fu così
gentile da aprirmi il cancello e farmi entrare con la vettura. Entrando, ebbi
la stranissima impressione di essere osservato. Non ci feci caso, forse
distratto dallo sguardo fin troppo interessato che un ragazzo, affacciato sul
balcone della casa accanto, rivolgeva a mia figlia, che non si era accorta di
nulla. Prendere a pugni il tuo potenziale
vicino non ti aiuterà a fare buona impressione sul proprietario, mi dissi.
Scesi quindi dalla macchina e raggiunsi la mia famiglia.
«Buon pomeriggio, signor Martini» esclamò il
proprietario. Vicino a lui c’era Riccardo, sorridente, che mi fece un cenno con
la mano.
«Buon pomeriggio, signor …» dissi io.
« … Ruffini» concluse lui.
«Molto lieto, signor Ruffini».
«Il piacere è tutto mio! Volete vedere la
casa?» chiese il proprietario.
«E ce lo chiede pure» esclamò mia moglie.
Seguendo il signor Ruffini, finalmente
entrammo in quella villetta che fino a quella stessa mattina mi sembrava quasi
un’allucinazione. Superato il giardino si giungeva a un portico finemente
adornato, oltre il quale era collocata la porta di ingresso, ovviamente
corazzata, che immetteva in un lungo corridoio. Mia moglie fu immediatamente
colpita dalla bellezza dei pavimenti, in marmo. Il corridoio, lungo qualche
metro, terminava con un arco che introduceva nella cucina. E che cucina,
pensai. Quattro volte la nostra. I soli mobili valevano più della nostra casa
di allora. Erano pezzi d’antiquariato, risalenti ad almeno un secolo prima. A
destra della cucina c’era un piccolo bagno, provvisto di una doccia che catturò
l’attenzione di mia figlia. “E’ due volte la nostra, e questo è il bagno
piccolo!”, esclamò. Tornando indietro lungo il corridoio c’era un secondo
bagno, seguito dal salotto, un vero capolavoro di interni. C’erano poi la “sala
studio”, o almeno così la definì il proprietario, e due rampe di scale, una
diretta ai piani superiori, l’altra ad una cantina che avremmo potuto
utilizzare come deposito. Salendo al piano di sopra, ai lati di un secondo,
lungo corridoio c’erano tre ampie stanze e un terzo bagno. Un sogno ad occhi
aperti. Melissa si precipitò ad occupare la più grande fra le due camere
destinate ai “bambini”, che malauguratamente si affacciava sul balcone
dell’irritante ragazzo della casa accanto, e a Davide non rimase che accettare
l’ennesima sconfitta. Visitata la villetta, il proprietario ci invitò a
percorrere il giardino, colmo di alberi con frutti rigogliosi e provvisto
persino di una piscina (fin troppo, mi dissi, per soli 590 euro mensili), e fu
così gentile da insegnarmi ad aprire cancello e garage. Al termine della
visita, eravamo tutti soddisfatti: incredibilmente, anche Melissa sembrava aver
messo da parte la sua ritrosia iniziale, e sospettavo che, a parte i tre bagni
e la camera singola, centrasse qualcosa l’ambiguo vicino, che anche lei aveva
iniziato a scrutare con una certa insistenza. Nessuno aveva intenzione di
rifiutare la proposta del proprietario, e, quando ci chiese cosa avevamo
deciso, firmai quel contratto, convinto di fare la cosa più giusta che potessi
fare.
O almeno così pensavo.