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Autore: A lexie s    21/12/2014    7 recensioni
Chi non conosce il Titanic?! E' una delle mie grandi passioni, non solo in termini filmistici.
Non ci troviamo sulla Jolly Roger, bensì sull'imponente piroscafo affondato nel 1912, ma sempre di una nave si tratta.
Le vicende seguono, più o meno, quelle del film (dico più o meno perché ovviamente ci saranno delle novità).
Dal capitolo: Erano trascorsi settantotto anni ed Emma poteva rivederlo nella propria mente, ogni ricordo era nitido come se davvero si trovasse lì. La consistenza della ringhiera fredda e bagnata dalla rugiada, l’odore di vernice fresca e il rumore del mare. Il Titanic era considerato la nave dei sogni e lo era, lo era davvero.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino
Note: Movieverse, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Titanic

Capitolo 10

Erano trascorse altre due ore prima che la Carpathia arrivasse. Due ore in cui nessuno aveva osato proferire parola, tutti avevano preferito mantenere un religioso silenzio non solo per rispetto di chi aveva perso la vita, ma perché non avevano proprio nulla da dire. Nessun discorso profondo avrebbe mai potuto compensare la tragedia, nessuna chiacchiera poteva alleggerire gli animi di chi era sopravvissuto e tantomeno avrebbe potuto affievolire la tristezza per la perdita delle persone amate.
Passarono due ore a guardarsi intorno con gli occhi vacui ed i visi spenti, i corpi freddi ed i cuori spezzati.
Le scialuppe si erano nuovamente allontanate di qualche centinaio di metri e rimanevano distanti anche tra loro, ed interiormente Emma era grata di questo, ma solo di questo, perché il risentimento che sentiva verso tutta quella situazione era enorme e disperato.
Non sapeva se qualcun altro delle persone in mare fosse sopravvissuto, non sapeva nemmeno come stesse sua madre ed il suo animo era combattuto tra la voglia di rivederla e quella di non trovarla mai più.
E lo sapeva che poteva sembrare insensibile, persino crudele però abbracciava l’idea del cambiamento che lui le aveva suggerito. Voleva onorare la sua memoria, voleva vedere il mondo e permettergli di vederlo attraverso i suoi occhi e poi rimanere ferma a piangere per ore perché quel maledetto freddo non gli aveva nemmeno permesso di piangerlo. Le lacrime si rifiutavano di uscire ed aveva bisogno di sfogarsi, di buttarle fuori, di rannicchiarsi su se stessa per cercare di riattaccare i pezzi tra loro.
Il cappotto sulle sue gambe si era ormai asciugato, tornò a metterlo e guardò davanti a lei. La Carpathia era lì, grande ed imponente come lo era stato anche il Titanic.
 
*
Le operazioni per riportare tutti sulla nave durarono parecchi minuti, Emma non aveva voglia di rimanere lì a guardare, così si avvolse più stretta nella calda coperta che uno dei membri dell’equipaggio le aveva dato e si accucciò su una panchina, finendo per addormentarsi. I primi raggi del sole mattutino la svegliarono ed uscire dallo stato d’incoscienza fu traumatico, la realtà le piombò addosso prepotentemente mentre si guardava intorno e vedeva tutti nelle sue stesse condizioni.
La maggior parte delle stanze erano regolarmente occupate, soltanto qualcuna rimasta libera fu occupata da alcuni membri di prima classe mentre gli altri si ritrovarono in due grandi sale comuni.
I membri di terza classe invece dormivano un po’ dove capitava, ovviamente la nave non era stata progettata per tutte quelle persone quindi tutti cercarono di adattarsi, condividendo letti improvvisati, panchine e coperte.
Tutti avevano imparato che avere un luogo caldo e una scodella di minestra era più che necessario, senz’altro meglio di trovarsi in acqua a temperature bassissime e nonostante le abitudini fossero dure a morire, anche i passeggeri di prima classe che si ritrovarono tutti insieme in un unico spazio non si lamentarono.
Emma non aveva rivelato il suo ceto sociale, non parlava molto in realtà e di lei conoscevano soltanto il nome. Le era capitato più volte di vedere Neal passare da un corridoio o l’altro, ma aveva sempre fatto in tempo a nascondersi od a cambiare strada. D’altronde lui la credeva morta, affogata insieme al suo amore quindi non aveva pensato proprio a cercarla.
“Signorina, qui non può entrare.” Sentì una voce alle sue spalle, si voltò e vide una giovane donna che trasportava lentamente un carrellino.
Emma tolse la mano dalla maniglia ed indietreggiò per lasciarla passare, dalla tenuta e da ciò che trasportava sembrava proprio essere un’infermiera.
“Mi scusi, ma cosa ci fa in questa parte della nave?” Chiese poi, voltando le spalle verso di lei e guardandola con espressione interrogativa.
“Mi ero persa” mentì la bionda, in realtà era fuggita per evitare d’incontrare qualcuno di sua conoscenza e voleva soltanto rifugiarsi in una stanza da sola, dove nessuno potesse parlarle e rivolgerle domande.
La donna annuì bonariamente verso di lei ed aprì piano la porta, richiudendosela alle spalle.
C’era qualcosa di strano in quel luogo, uno strano magnetismo che la spingeva ad entrare, una forza d’attrazione che non riuscì a comprendere e rimase lì, indecisa a fissare quella porta bianca.
“Signorina che ci fa ancora qui?” Domandò nuovamente la donna, aprendo la porta per tornare ad uscire.
“Stavo andando via” si scusò Emma, mentre scacciava via quella sensazione e le voltava le spalle.
“Può prendermi le coperte che ci sono in quel carrello?” La interruppe nuovamente quella, prima che lasciasse il piano, la ragazza annuì ed afferrò tre grandi coperte dal primo ripiano in vetro, poi si avvicinò per riporle nelle mani della donna. Cercò di sbirciare dentro, ma non riuscì a vedere nulla se non una tendina bianca che copriva sicuramente una serie di letti.
“Grazie” sussurrò l’infermiera, tornando nuovamente dentro ed Emma andò via spaesata.
 


Il secondo giorno era successa una cosa che l’aveva sconvolta.
Voleva farsi un bagno caldo ed indossare dei vestiti puliti che gentilmente altri passeggeri avevano messo a disposizione, così aveva preso tutto il necessario ed aveva raggiunto il bagno comune.
Riempì la vasca, dopo aver riscaldato l’acqua. Quando si ritenne soddisfatta del lavoro appoggiò le bacinelle lì vicino e si apprestò a togliersi i vestiti, non li aveva ancora cambiati da quando era salita su quella nave, non aveva avuto la forza ne la voglia di fare molto.
Quando lasciò scivolare il cappotto sul pavimento, qualcosa cadde a terra facendo più rumore del tonfo sordo che si sarebbe sentito altrimenti.
Le lac des cygnes rotolò via, rivelandosi in tutto il suo splendore. Emma rimase interdetta per un momento, bloccata con il braccio a mezz’aria non sapendo se raccoglierlo o meno. Successivamente si decise, prese il diamante e si rigirò la catenina tra le dita.
Un flashback.
 “Voglio che tu mi ritragga con questa addosso, solo con questa addosso.”
Scacciò velocemente il pensiero di lui e delle sue mani che si muovevano rapide sul foglio bianco, scacciò dalla sua mente i suoi occhi languidi che fissavano il suo corpo nudo mentre la ritraeva. Appoggiò bruscamente la collana sul mobile e si svestì rapidamente per immergersi nella vasca, l’impatto con quel tepore fu un sollievo. L’acqua bollente sciolse i suoi muscoli ancora tesi, ma sciolse anche i suoi pensieri tanto da non riuscire più a frenarli.
Quando l’acqua cominciò a diventare fredda uscì come un automa, senza rendersi veramente conto di quello che stava facendo si asciugò e si rivestì.
Capì subito che non sarebbe più riuscita a sopportare il freddo perché, anche adesso in quel luogo caldo, continuava a sentirlo dentro le ossa.
Prese la collana e tornò a metterla nella tasca del cappotto, trascorse tutto il resto del giorno così, passeggiando solitariamente e pensando a cosa fare.
Non voleva rischiare di andare da Neal per restituirgliela, ma non poteva nemmeno tenerla e non sarebbe riuscita nemmeno a venderla. Ed anche se non sapeva come sopravvivere al momento, dove andare o dove dormire non appena sarebbe sbarcata in America, non voleva ottenere qualcosa in quel modo e non voleva privarsene per darla al miglior offerente. Era pur sempre un simbolo, aveva condiviso uno dei più entusiasmanti momenti della sua vita con quella addosso.
Pensò nuovamente a cosa aveva provato quando stesa su quel divanetto, lui l’aveva vista indugiando più volte sulle sue curve morbide. Pensò a come si fosse sentita viva nel suo sguardo e libera, non poteva darla via così.
Quando la notte calò inesorabile come sempre, si ritrovò a sgattaiolare via verso il ponte. In giro non vi era praticamente nessuno, era una notte serena, il cielo era ricco di stelle ed il mare era così calmo.
Si avvicinò alla grata ed estrasse nuovamente il gioiello dalla tasca, da quando aveva scoperto che fosse lì il cappotto sembrava pesare molto più di quanto non avesse fatto in precedenza.
Lo portò più vicino agli occhi per vederlo meglio un’ultima volta e poi lo lasciò cadere, ed era il mare che nuovamente si prendeva qualcosa di suo.
Fu quasi una liberazione lasciarlo andare, calde lacrime sgorgarono dai suoi occhi e si ritrovò inginocchiata su quelle assi di legno.
Aveva bisogno di farlo, di piangere, di sfogarsi. Il dolore doveva pur venir fuori in qualche modo, solo così avrebbe potuto affrontarlo, perché come si può affrontare qualcosa che non viene fuori?
 
*

“Hai preparato la colazione” constatò felice, girandole intorno e posizionandosi dietro di lei per cingerle la vita con le mani.
Emma si voltò lentamente, notando amabilmente quanto il suo petto nudo fosse caldo e accogliente, le sue labbra strisciarono tracciando il contorno dei suoi addominali scolpiti, percorrendoli fino a giungere al collo e poi alla bocca già dischiusa.
“Per inaugurare la nostra nuova casa” mormorò. Un bacio, poi un altro ed uno ancora.
“Credevo che l’avessimo già inaugurata stanotte” arricciò le labbra, prima di farle scorrere piano dietro al suo orecchio scatenandole una miriade di brividi lungo la schiena.
“Abbiamo inaugurato solo una stanza” ribatté lei, le braccia si attaccarono al suo collo mentre le mani di lui passavano sotto al suo sedere per tirarla su. Emma rispose subito, circondandogli la vita con le gambe lunghe e passando una mano tra i suoi capelli neri. Li scompigliò piano, erano così morbidi e belli, amava accarezzarli.
Gli occhi chiusi assaporavano quelle lente carezze.
“Dobbiamo rimediare allora.” Le sue parole la colpirono piano e con un sussulto aprì gli occhi per essere inchiodata subito dal suo sguardo azzurrino. Mugugnò piano in segno di assenso e riappoggiò le labbra sulle sue.
Il vento freddo del mattino le scompigliò i capelli, insinuandosi sotto gli strati di vestiti che aveva addosso. Si portò una mano sugli occhi, stropicciandoli un po’ fino a quando riuscì ad aprirli. Sbatté le palpebre un paio di volte per mettere a fuoco dove si trovasse, non vi era nessuna casa accogliente, nessuna colazione o braccia a cingerla. Non vi era niente di quel calore che aveva sentito fino a qualche momento prima, ma vi era soltanto una panchina fredda ed ancora il mare. Capì di essersi addormentata lì la sera prima, probabilmente in lacrime dato le condizioni in cui versavano i suoi occhi e le sue guance.
Chiuse nuovamente gli occhi in modo deciso, stringendosi nelle braccia per darsi conforto. Voleva assolutamente fuggire da lì e tornare nel suo sogno, tornare in quel posto caldo, tornare tra le sue braccia. Ed era così irrazionale volersi rifugiare in una fantasia, qualcosa che ormai non era più realizzabile. Non era solo irrazionale, era anche stupido.
<< Lasciarsi andare alla speranza non è mai stupido, Emma. >> Le parole di sua madre risuonarono nelle sue orecchie, provocando un gran trambusto. Portavano ancora il ricordo dolce amaro di quello che era prima di perdere il marito. Mary Margaret era una persona diversa, dolce e solare. Profondamente innamorata di suo marito, così tanto da andare via con lui quando era morto. Quello che traspariva adesso era solo una scorza dura e incattivita dagli eventi, la sua parte buona, la sua parte dolce era andata via con David. Quando il cuore dell’uomo aveva cessato di battere, anche quello della donna aveva perso una battito, non riusciva ad essere più quella di prima. Nemmeno per sua figlia, nemmeno per il bambino che aspettava e che aveva perso in seguito allo shock. Ed adesso a distanza di anni, c’era ancora qualcosa che bruciava in lei e che la uccideva ogni volta che vedeva il suo David negli occhi verdi di Emma.
<< Lo è, quando non vi è più speranza. >> Lo disse ad alta voce, ripetendolo a se stessa come un mantra per cercare di convincersene.
Voleva soltanto sognarlo ancora, voleva vivere con lui almeno lì, nei suoi sogni ed invece adesso era più sveglia che mai, i raggi del sole si erano fatti alti nel cielo e la gente cominciava a popolare il ponte. Questo voleva dire non avere più l’opportunità di dormire, anzi sarebbe stato meglio tornare nell’ombra.
Si alzò lentamente per avviarsi verso gli interni quando una voce la costrinse a voltarsi.
“Emma, sei tu?” L’uomo le corse in contro, fermandosi a pochi centimetri da lei. La guardò bene, era lei nonostante gli occhi rossi e le occhiaie profonde.
La bionda annuì piano, cercando di tirare su le labbra in un debole sorriso ma fallendo miseramente.
“Emma, dov’è Killian?” Una pugnalata, il coltello le penetrò il cuore in modo forte e deciso, poi le si rivoltò dentro per farla soffrire ancora di più perché un taglio netto non bastava.
Non disse nulla, non riuscì proprio a parlare. Un singhiozzo le salì in gola, così che quando aprì bocca per dare fiato alle parole non vi riuscì e dovette richiuderla. Voltò semplicemente la testa a destra e a sinistra, mentre continuava a guardare Robin.
Si portò una mano in bocca per impedire ai singhiozzi di uscire e si lasciò andare nell’abbraccio caldo dell’uomo.
Anche quello era visibilmente scosso, si era affezionato così tanto a quel ragazzo e sapere che non ce l’aveva fatta era straziante.
Emma si ritrasse, doveva essere forte perché era quello che lui voleva. Poteva rimanere a compiangersi soltanto altri due giorni, il tempo di arrivare in America, poi avrebbe dovuto prendere in mano la sua vita e rispettare la promessa che gli aveva fatto.
Con una mano si asciugò il viso, ciocche di capelli le ricaddero davanti in maniera scomposta e cercò di riportarle indietro per evitare che si attaccassero alle lacrime.
“Regina invece?” Non sapeva cosa aspettarsi, Robin era visibilmente sconvolto per la notizia che aveva appena ricevuto ed anche lui quasi sul punto di piangere.
“Lei.. Lei sta bene.” Abbassò gli occhi, quasi mortificato dal fatto che entrambi ce l’avessero fatta mentre i suoi amici no. Lei lo vide e gli afferrò una mano tra le sue, “sono contenta per voi” mormorò piano, cercando in ogni modo di sorridere ma facendo uscire solo l’ennesima smorfia.
“Vieni, sarà davvero contenta di vederti” le poggiò una mano dietro la schiena e la condusse dentro con sé.
 
*

Emma aveva trascorso tutto il resto della giornata con loro. Regina era stata molto contenta di rivederla, le aveva stretto le mani nelle sue e, quando aveva saputo della brutta notizia, l’aveva abbracciata forte.
Era stata grata della compagnia dei suoi amici, ma vederli insieme era così doloroso.
Si sentì in colpa più volte durante la giornata, maledicendosi mentalmente per quei pensieri. Loro stavano bene ed erano insieme, e lei era felice per loro, felice davvero. Tuttavia, c’era un’altra sensazione che le stringeva forte il petto, una sensazione che non avrebbe voluto provare, il rammarico.
“Io vorrei rimanere da sola adesso, perdonatemi.” Si scusò, mentre si alzava dalla panchina in cui avevano trascorso parte del pomeriggio, e si congedò.
Ritornando dentro, fu percorsa dalla voglia di riscendere nel luogo in cui aveva incontrato quell’infermiera. Non sapeva per quale motivo si sentisse così legata a quel luogo, come se uno strano magnetismo la spingesse a scendervi, aveva cercato di ignorare quella sensazione e vi era riuscita per parte del tempo, ma adesso era ritornata prepotentemente e non poteva fare altro che cedervi. Cedere davanti alle sue sensazione e alla sua curiosità.
Percosse velocemente il corridoio e si accinse a scendere le scale. Pochi minuti più tardi era nuovamente davanti a quella porta chiusa.
Una mano andò a posarsi, involontariamente, sulla maniglia in ottone.
“Ti serve qualcosa cara?” Nuovamente una voce alle sue spalle, la stessa voce, l’aveva beccata anche stavolta. Si chiese come mai quell’infermiera continuasse ad entrare ed uscire da quella stanza ma accantonò velocemente quel pensiero per voltarsi verso di lei.
“Ah, sei ancora tu.” Sottolineò la donna, avvicinandosi a lei bonariamente.
“Io, io mi chiedevo se potevo dare una mano” propose Emma.
“Ti ringrazio cara, ma riesco a cavarmela da sola. Ci sono persone che hanno solo bisogno di altre cure e riposo, sono sicura che potrai renderti utile al piano di sopra, magari in cucina.” Le concesse, un sorriso gentile ad illuminarle il volto.
La ragazza annuì e nuovamente sconfitta si recò al piano superiore.
Fece come l’infermiera le aveva consigliato però, non riusciva più a stare ferma a far nulla. La sua mente vagava troppo nei meandri di pensieri dolorosi e questo rischiava seriamente di farla impazzire. Doveva impegnarsi in qualcosa, tenersi occupata o sfiancarsi tanto da crollare addormentata non appena si fosse messa a letto, o in qualsiasi luogo della nave in cui potesse appoggiarsi a riposare.
Era quasi ora di cena, per cui si recò silenziosamente nelle cucine e pregò perché le facessero fare qualcosa, così trascorse qualche ora immersa tra alimenti e stoviglie da lavare, tuttavia la sua mente non riusciva proprio a distrarsi ed il dolore non si affievoliva per nulla. Colpiva costantemente ad ondate continue, senza un attimo di pausa, senza nemmeno darle il tempo di fare un respiro.
Non aveva ottenuto il risultato sperato, ma almeno si era resa utile in qualche modo.
Lasciò le cucine una volta che la cena fu servita a tutti, portandosi dietro un piatto di brodo caldo. Non aveva fame, ma aveva la costante sensazione del freddo sulla pelle e così bevve quella poltiglia bollente nella speranza di trarne sollievo.
Mancava appena un giorno, soltanto un giorno e avrebbe rimesso piede sulla terra ferma. Sicuramente diversa da com’era quando dieci giorni prima si accingeva a lasciare il porto di Southampton, forse più forte ma segnata da qualcosa che non sapeva come lasciare andare.
E dire che gli aveva promesso che lo avrebbe fatto, che se lo sarebbe lasciato alle spalle. Come aveva potuto essere così stupida?
Prese una coperta e si adagiò in un angolino, sperando di essere abbastanza stanca d’addormentarsi senza pensare così da potersi lasciare andare prima ai sogni e magari, se avesse avuto fortuna, rivederlo lì.
Rivederlo mentre si occupavano di quella quotidianità che non avevano avuto il tempo di sperimentare, o semplicemente sentirlo vicino mentre si abbracciavano tra le coperte calde, sul divano o in qualsiasi altro posto purché fossero insieme almeno nei sogni.
 
*

Il risveglio fu più doloroso di quello del giorno precedente, il motivo le fu subito chiaro. Non aveva sognato nulla, o forse come diceva Freud – ricordava di aver letto un suo scritto sull’interpretazione dei sogni – semplicemente lo aveva dimenticato. E se lo aveva dimenticato era impossibile che si trattasse di lui, lui che era stato al centro dei suoi pensieri fin dal primo momento, a meno che non si trattasse di un evento così doloroso che la sua mente si era rifiutata inconsciamente di riprodurre.
In ogni caso, il risveglio era stato pessimo. Forse doveva semplicemente essere grata che non le venisse nuovamente sbattuto in faccia tutto quello che non avrebbe avuto, ma non lo era.
Si alzò lentamente, e si preparò per affrontare quell’ultima giornata su quella nave. L’arrivo era previsto per il tramonto, ora più, ora meno.
Durante la mattina vide Robin e Regina, che con sua grande sorpresa erano in compagnia di Filippo e Aurora, anche loro ce l’avevano fatta quindi. Sorrise, era felice per loro ma non se la sentiva di parlargli. Non voleva vedere lo sguardo che sapeva le avrebbero rivolto e la pietà che inconsapevolmente nasceva dopo.
Rimase appartata, vide sul volto di Filippo la felicità scemare piano e trasformarsi in dolore. E poi, lo vide chiaramente mentre stringeva il corpo di Robin per ricevere conforto.
Si dispiacque per lui, ma non se la sentiva proprio di avvicinarsi e, anche se lo avesse fatto, non avrebbe comunque saputo come confortarlo visto che non riusciva a confortare nemmeno se stessa.
- Magari un giorno, magari riuscirai a parlare con loro - si disse, mentre voltava le spalle per tornarsene dentro.
 

Le operazioni di sbarco erano durate parecchio tempo, aveva sentito chiaramente le eliche smettere di girare ed il tonfo profondo della grossa ancora che veniva gettata in mare. Era rimasta sul ponte, in un angolo appartato, per assistere chiaramente a tutte le operazioni che si stavano svolgendo. I capelli bagnati dalla pioggia le ricadevano davanti appiccicandosi al suo viso, ma a lei non importava granché, non le importava proprio in realtà.
Una grande quantità di persone ingombrava le strade del porto, probabilmente alcuni stavano aspettando per avere notizie di parenti, amici, colleghi. La notizia doveva pur essersi diffusa in quei giorni, l’allarme di SOS era stato lanciato subito dopo l’impatto, e difatti c’era pure qualche giornalista che sicuramente voleva documentare la scena.
In ogni caso, avevano dato istruzioni di non allontanarsi dal porto perché dovevano segnare i nomi di tutti i passeggeri per comprendere quale fosse la reale situazione e quanti fossero i sopravvissuti. Non l’avevano fatto prima perché a bordo della nave risultava parecchio difficile stabilire un ordine, mentre adesso che erano arrivati sarebbe stato più facile.
 
*

Emma si trovava davanti alla statua della libertà da alcuni minuti, era così grande, molto più di quanto ricordasse.
Era tornata a casa, ma non si sentiva sollevata. Non aveva più una casa in cui tornare, forse l’aveva ma non voleva tornarvi. In realtà, non sapeva nemmeno dove avrebbe trascorso la notte. Una grande avventura l’attendeva, un’avventura chiamata vita.
Passò diverso tempo ad interrogarsi su cosa avrebbe fatto, ma non aveva risposte. La prospettiva di vivere alla giornata era meno spaventosa quando pensava che sarebbe stata con lui.
Invece adesso era un grande e preoccupante punto interrogativo.
Notò un ufficiale che s’incamminava verso di lei, probabilmente per avviare le pratiche di riconoscimento. La pioggia continuava a battere violentemente sul suo viso, e nonostante il freddo continuava a starsene ferma.
“Signorina, può dirmi il suo nome?” Chiese, coprendola con l’ombrello che teneva tra le mani.
“Emma” pronunciò piano, voltandosi verso di lui e poi tornando ad osservare l’enorme monumento. L’ufficiale appuntò il nome in un taccuino aspettando che la ragazza gli dicesse anche il cognome, ma quella sembrava persa in chissà quale pensiero e perciò dovette attirare nuovamente la sua attenzione.
“Il suo cognome?” Chiese piano, quasi dispiaciuto dal doverla distrarre.
“Jones” sussurrò lentamente, scandendo in modo chiaro ogni lettera. Rivolse nuovamente lo sguardo verso di lui, aspettando che scrivesse anche il cognome dopo di che l’uomo annuì e andò via, lasciando che la pioggia tornasse a bagnarla.
“Non sapevo che fossimo già sposati” una risata cristallina la colpì alle spalle, provocandole un tumulto interiore che non seppe controllare. Si voltò automaticamente e lo vide.
Lui era lì, i capelli neri bagnati gli ricadevano sulla fronte ed i suoi occhi azzurri erano più luminosi che mai.
Tutto successe in un attimo poi, lei non era più ferma immobile ma era nuovamente tra le sue braccia. Fu tutto un incontro di braccia che si stringevano e labbra che si assaporavano ancora una volta. Killian portò le sue mani sul viso della sua Emma, scostandole i capelli davanti e appoggiando la fronte sulla sua prima di baciarla ancora.
La pioggia si confuse con le sue lacrime mentre continuava a stringerlo così forte da mozzargli il respiro, da fargli male, ma lui non disse nulla. Si lasciò abbracciare e ricambio con altrettanta intensità, ed anche dai suoi occhi sgorgarono calde lacrime che si fusero con quelle di Emma in un intreccio d’amore e speranza.
“Tu eri lì, com’è possibile?” Singhiozzò forte la ragazza, non voleva staccarsi per paura che svanisse, che fosse tutto frutto della sua immaginazione che voleva farle male.
Non poteva essere, lui era lì, il suo corpo era caldo, le sue lacrime reali e sentiva il suo respiro sulla pelle. Non poteva essere un’illusione.
“Sono qui, Emma.” La cullò ancora tra le sue braccia, continuò ad asciugare le lacrime che le rigavano il viso ed a stringerla contro il suo cuore.
“Io ero così persa” pianse ancora, immergendosi con il viso nel suo petto e lui le accarezzò i capelli e le baciò il capo, la fronte e qualsiasi punto potesse raggiungere.
“Mi sono sentito perso anch’io, ed ho avuto paura di non ritrovarti. Poi mi sono convinto che fosse impossibile, ti ritroverò sempre.” Il panico era chiaro nella sua voce, voleva soltanto stringerla e stare abbracciato a lei per tutta la vita. Non gli importava di mangiare, di bere o di respirare, voleva stare soltanto lì abbracciato a lei e non lasciarla mai andare.
“Non mi perderai mai più” un singhiozzo sfuggì alle sue labbra, “ma-a dove sei stato? Come..” Mille domande affollavano la sua mente stanca, non riusciva a capire come avesse potuto non vederlo se erano stati cinque giorni sulla stessa nave.
“Ti spiegherò tutto, solo non adesso.” Lei annuì, non le importava delle spiegazioni, importava soltanto che lui fosse con lei.
“Ti amo.” Disse a gran voce, puntando i suoi occhi verdi nell’azzurro. Killian sorrise di un sorriso puro e genuino. Tutto il suo corpo si protrasse verso di lei in automatico come se fossero due calamite ed Emma sentì nuovamente quello strano magnetismo, quella sensazione che la spingeva a voler aprire quella porta.
“Ti amo anch’io, Emma.” Quello era davvero l’inizio, il loro inizio!
  
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