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Autore: Merryweather616    10/11/2008    3 recensioni
“Mi ami?” Ecco la prima. Trabocchetto. Dopo la raffica, se fatta bene, la persona era incapace di mentire. “Potrei”
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Ville Valo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era nata come una one-shot, un delirio mentale avuto durante una lezione di francese. Poi è diventata una 4-shot, poi improvvisamente invece di aver scritto una sacchetto di demenza, mi sono resa conto che forse era spuntata fuori una cosa carina, senza senso, ma carina. Questo grazie a:

-Mr. Johnny Cash, che con le sue canzoni ha ispirato le 20 pagine della storia e che è un mito infinito. E la sua storia d’amore con June mi ispira ogni giorno di più

- A D e S, che l’hanno letta e non mi hanno sputato in faccia, anzi, si sono affezionate e i loro complimenti mi hanno convinta a postarla xD (ragazze siete ancora in tempo per dirmi la verità LOL)

 

 

What happens in Vegas, stays in Vegas

 

 

Valigia.

Portatile.

Bagaglio a mano.

Cellulare.

C’era tutto.

Fissai il letto bianco, coperto da un soffice e decisamente invitante piumone, mi lasciai accarezzare dalla fresca aria condizionata, paradisiaca nell’afa del Nevada, guardai in basso verso la piscina dell’hotel.

Un tuffo non mi avrebbe di certo ucciso.

E invece sì.

Avevo un’ora. Una preziosissima ora, durante la quale dovevo: farmi una doccia, controllare la posta elettronica, preparare almeno dieci domande da fare a uno dei cantanti più strani e lunatici di cui fossi a conoscenza, cercare di darmi un tono.

Questo accadeva quando il responsabile della musica rock decideva di andare in luna di miele a farsi coccolare alle Hawaii e la country rep, che sarei io, doveva inventarsi un’intervista a un completo sconosciuto, in realtà sapevo bene chi era, ma conoscerlo bene a livello musicale era tutta un’altra storia, e fare la solita banale intervista era così triste. Ma a qualcuno toccava farlo e non è che il capo mi avesse lasciato così tanta scelta.

“Andy, ecco i biglietti. Ci vediamo lunedì mattina”.

Queste erano state le mie opzioni, tantissime no?

Non avevo nemmeno voglia di replicare, avrei potuto intervistarlo al telefono, aspettare che la tournee arrivare a New York, o mandargli un piccione viaggiatore. No, Lon era stato categorico, io, me e me stessa dovevamo andare a Las Vegas.

Disgustorama disgustomatico.

Così avevo detto addio ai cupcakes della 27th strada, salutato il mio impianto stereo da triliardi di watt e avevo fatto armi e bagagli pronta ad una settimana nel caldo del Nevada. Un giorno per l’intervista, il resto “potevo prendermelo come ferie, ero tanto stanca”. Dovevo controllare di nuovo i biglietti aerei e scoprire un modo più o meno legale di cambiarli e tornarmene nella grande mela il prima che potevo.

Dieci domande. Come minimo. Cosa diamine potevo chiedergli? Di lui sapevo tre cose.

Il suo nome. Piuttosto singolare tra l’altro.

Il nome della sua band. Facile, non c’è che dire.

La forma del simbolo che aveva inventato e che avevo spesso visto tatuato. Ne ero molto affascinata. Magari in un'altra vita gli avrei fatto la domanda, ma ora come ora sarei stata solo la milionesima giornalista a chiederlo, e io, annoiare un povero cristo che deve stare per contratto a rispondermi, decisamente,  non era nelle mie corde.

Avrei dovuto fare la diplomatica, altro che giornalista, ero decisamente troppo buona.

Aprii il plico lasciatomi da quel traditore di Jack, se lo conoscevo bene ci aveva messo dentro una foto di qualche donna nuda e scritto sopra “buon pesce d’aprile”, ma tanto valeva provare.

C’erano poche righe scritte in una calligrafia netta.

 

Attenta, ammaliatore professionista.

Fuma come un turco.

Sarcasmo che traspira come cioccolato al sole dentro la tasca di una giacca.

Non ho ancora capito se si contraddice o se spara cazzate, se lo scopri fammi un fischio.

 

Enjoy Vegas Hon.

 

“Molto, molto utile Jack. Ora sì che sono a posto” mormorai tra me e me, decisamente sconsolata. Accesi Frost, il mio portatilino color ghiaccio e fissai depressa la schermata bianca di word. Su, su idee arrivate, siete sempre le benvenute lo sapete. Tentai con la respirazione, lo yoga (trenta secondi non di più), una barretta Mars, una sigaretta. Niente, la mia intelligenza aveva fatto i bagagli e se ne era tornata a New York senza di me.

Datemi una lametta che mi taglio le vene.

4.48.

Alle cinque dovevo essere nella lobby.

Time out. Dovevo scrivere qualsiasi cosa e catapultarmi giù. Presi una vecchia intervista standard dal mio archivio, la sistemai, segnai i punti fondamentali su un taccuino e quasi uccidendo qualcuno scesi nell’enorme lobby dell’hotel.

 

Cinque minuti dopo io, Andrea Donovan, ero seduta davanti a Ville Valo, cantante degli HIM. Lui non conosceva me, tanto quanto io non conoscevo lui. Ottimo inizio.

“Vado a prendermi una soda, vuoi qualcosa?”

Fu le prime parole che mi disse. Perlomeno era amichevole, tirai un sospiro di sollievo. Odiavo lavorare con star che si credevano padrone del mondo intero.

“Sono a posto così, grazie mille”

Appoggiai le mani sul candido tavolino di una saletta privata dove si sarebbe svolta l’intervista e iniziai a tamburellare. Senza neanche accorgemene il mio tamburellio seguiva il ritmo di una delle canzoni della mia adolescenza, la canzone che mi aveva fatto desiderare di fare il lavoro che ora facevo.

 

But it ain't me babe
No, no, no, it ain't me babe
It ain't me you're lookin' for, babe

 

“Johnny Cash, uh?”

Ville era tornado con una coca cola in mano e un sorriso sornione in faccia.

Ammaliatore, decisamente. Jack – Andy 1 a 0

“Proprio lui” dissi portandomi la mano in grembo smettendo di mugugnare la canzone.

“Ti piace il country?” mi chiese.

Dovevo fargliela io l’intervista, diamine.

“Ci lavoro, sono la responsabile di questo genere per il giornale dove lavoro”.

“Wow” rispose ridendo. “E io che pensavo che fossi Jack, ormai la chirurgia plastica ha fatto miracoli, sai com’è.”

Una strana risata roca gli uscì dal petto riempiendo l’ambiente e gli si illuminarono gli occhi.

“Simpatico” borbottai. “Adesso basta smancerie, facciamo quest’intervista così ce la togliamo dalle palle, che dici?”

“Agli ordini, capo!” si mise sardonicamente una mano vicino alla fronte in una parodia mal riuscita di un saluto militare. Riuscì a strapparmi un sorriso. Stavo perdendo su tutta la linea.

Tirai un sospiro profondo e partii con la prima domanda.

“Le tue canzoni sono piene di amori spezzati e dolori di cuore, cosa c’è della tua vita amorosa in loro?”

Mi facevo schifo da sola e facevo schifo anche a lui, giudicando la faccia.

“Tutto qui?” chiese iniziando di nuovo a ridere.

Se avessi potuto ringhiare l’avrei fatto.

“Sono un’esperta di country, arrivata per caso qui a fare l’intervista a un cantante che fa un genere unico al mondo, senza sapere nulla di te tranne due cose, non pretendere troppo da me.”

“Almeno sei onesta” disse sfiorandomi la mano.

No, fermo lì brivido. Non hai il permesso di passare per la mia schiena, non siamo in una storia di Maeve Binchy, quindi puoi tornare lì alla simpatica terminazione nervosa che ti ha creato. Grazie mille.

“Facciamo così, ti mando per email la vera intervista, appena il mio collega torna dalla luna di miele, ok?”

Sembrò approvare l’idea, ma non dava cenni di volersi alzare e andarsene.

“E ora che si fa?”

“Ognuno per la sua strada” tentai.

“Ho un’ora libera, intrattienimi”.

Detto questo si sedette comodo sulla poltroncina fissandomi, c’era da dire che incrociava le braccia nella maniera più sexy che avessi visto, se non si fosse trattato di lavoro ci avrei davvero fatto un pensierino.

Come potevo intrattenerlo?

Lapdance?

Karaoke?

“Giochiamo?” chiesi tentennante.

“Ci sto, a cosa? Poker? Roulette?”

“Ho un’idea” dissi. Questa volta toccava a me sogghignare, forse potevo trarre da questa intervista qualcosa di decisamente innovativo. Feci mente locale cercando di ricordarmi un giochino che facevano al liceo, soprattutto alle feste, un po’ per passare il tempo, un po’ perché se ne uscivano sempre dei gran casini.

Una volta ricordato lo stile del gioco e le fatidiche due domande finali, iniziai. Tutto stava nel ritmo del gioco, perderlo significava la sconfitta.

“Ora dirò una parola, rispondi con la prima cosa che ti viene in mente, se ci pensi non vale” dissi categorica.

“Ok!”

Sembrava incuriosito da questo repentino cambiamento di programma.

Ok, si inizia.

“Nero”

“Protezione”

“Dolore”

“Vita”

“Sigarette”

“Necessarie”

“Libri”

Passione”

“Noia”

“Ci tocca”

“Politica”

“Inutile”

“Bush”

“Il demonio

Non devi fermarti, gridavo a me stessa. Ma ero sempre più incantata.

“Amore”

“A trovarlo”

 

“Mi ami?”

Ecco la prima. Trabocchetto. Dopo la raffica, se fatta bene, la persona era incapace di mentire.

“Potrei”

Dovevo fare l’ultima, poi avrei potuto far cadere la mascella che si era già staccata sentendo la sua risposta.

“Vuoi sposarmi?”

“Perché no?”.

 

Ora potevo ufficialmente dire di essere sconvolta. Lo fissai a lungo negli occhi, era illeggibile, e dire che ero brava a capire quando qualcuno mi stava prendendo in giro.

“L’avevi già fatto, vero?” chiesi.

Annuì non smettendo di ridere. Mi fissava e io, dura e pragmatica gli sorridevo di rimando come un’oca giuliva.

“Però ho risposto sinceramente” aggiunse tirando su le gambe e incrociandole sulla poltroncina. Aveva un che di una riccio che cerca protezione, un riccio molto sexy.

“Bastardo” digrignai tra i denti.

“Vero” rispose come se stessimo ancora giocando, poi si alzò di scatto, mi prese la mano e mi trascinò verso la lobby.

“Dove andiamo?”

“What happens in Vegas, stays in Vegas”

Fu l’unica, sibillina risposta che ricevetti prima di essere trascinata nel peggior incubo di tutta la mia vita. O forse il più bello.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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