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Autore: Nuel    22/12/2014    9 recensioni
Anche Severus Piton è stato un ragazzo, ma a differenza della maggior parte dei suoi compagni di scuola, non ha mai amato il Natale...
♣ Questa fanfiction si è classificata quarta nel contest "Spirito Natalizio" indetto da Matilde di Shabran sul forum di EFP.
♣ Questa fanfiction partecipa al contest "Un'edita per Serpeverde" indetto da beneracconta sul forum di EFP.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Eileen Prince, Severus Piton, Tobias Piton
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Sarà Natale, prima o poi


L’aria era fredda e pungente sul viso dei passanti carichi di borse da cui spuntavano fiocchi colorati e punteggiata di radi fiocchi di neve che scendevano pigri, entrando ed uscendo dai coni di luce dei pochi lampioni che rischiaravano la via. Da lontano giungevano le note allegre di una carola; probabilmente, nella piccola chiesa del paese, il coro stava ultimando le prove per la messa di Natale.
Natale, come ogni anno, era arrivato ed il giovane Severus Piton, come ogni anno, avrebbe aspettato che passasse, come passano i lividi e le vacanze. 
    Impassibile attendeva fuori dal vecchio pub, su una strada illuminata dalle vetrine addobbate: era troppo giovane per entrare e, comunque, sua madre non avrebbe voluto che lui ci mettesse piede, così aspettava che suo padre uscisse, troppo ubriaco per camminare dritto, ma mai abbastanza da scivolare e cadere nel canale. Sua madre avrebbe pianto, sì, anche se Severus sospettava che le lacrime sarebbero state di sollievo e non di dolore e poi avrebbero potuto festeggiare il Natale.
    La porta si aprì, vomitando sulla sera aria calda, satura d’alcool e di voci alte e colme di parole scurrili; un uomo uscì, alto, massiccio, con le mani grandi e callose e lo guardò con gli occhi ottusi tipici degli abitanti di Spinner’s End. Si voltò e urlò verso l’interno del pub: « Piton, c’è tuo figlio qua fuori! » poi lasciò la porta e, scansando Severus, si allontanò mettendo cautamente un passo avanti all’altro sul selciato scivoloso. 
    Il brutto muso di Tobias Piton comparve, arcigno come al solito, sull’ingresso, accompagnato dal sottofondo di risate volgari che si attutirono alla chiusura della porta. « Che vuoi? » gli chiese l’uomo, guardandolo con disprezzo, gli occhi lucidi e le guance accaldate. Rabbrividì, lì all’aria aperta, senza la giacca pesante lasciata nel locale.    
    « Mamma mi ha chiesto di venirti a prendere » rispose stringendo i pugni per resistere alla tentazione di aggredirlo. « È la vigilia di Natale » aggiunse perché l’uomo comprendesse, ma quello guardò la porta alle proprie spalle, il collo si torse per un momento, un invito silenzioso a recidere ogni corda con una lama affilata.
    « Le streghe non festeggiano il Natale! Tornatene a casa, va’! »
    « Pap... »
    « Non osare chiamarmi in quel modo, mostriciattolo! Sparisci! Ho da fare! » si girò e caracollò di nuovo nel pub, dove lo attendevano altre birre ed altre partite a carte e l’aria calda simile a quella della fabbrica in cui lavorava, familiare. 
    A Severus non dispiaceva che non tornasse: finché fosse stato fuori dai piedi sua madre non avrebbe portato altri lividi, ma avrebbe pianto comunque perché quell’uomo lo odiava, ma non riusciva a lasciarlo ed avrebbe voluto cambiarlo o non avergli rivelato mai di essere una strega.
    Non funzionava tra maghi e Babbani. Non funzionava mai.
    Casa non era quella, casa era Hogwarts, lontano da quelle persone che avevano scelto di essere infelici, ma Severus ci entrò cercando nella piccola sala addobbata con un abete dai rami rinsecchiti e qualche ornamento fatto con la stagnola, la figura di sua madre. « Ha detto di non aspettarlo » le disse quando la vide, seduta al tavolo coperto da una tovaglia bianca ricamata con fiocchi rossi e stelle dorate. Il Natale sembrava così Grifondoro che gli faceva pesare ancora di più il trovarsi in quel luogo, lontano dall’unica persona che avesse portato davvero un po’ di calore nella sua esistenza.
    Sua madre, gli occhi al pavimento ed i capelli tagliati corti per non offrire ulteriori appigli al marito, si diresse in cucina a passi svelti, cercando di nascondere al figlio le lacrime, come se lui avesse ancora cinque anni e lei potesse ingannarlo. Il rumore del forno che si chiudeva ruppe il silenzio: non si sentivano carole, laggiù. 
Nemmeno il suono delle campane raggiunge l’Inferno.
Eileen Prince tornò in sala reggendo un vassoio pesante con un tacchino farcito, cosparso di salsa di prugne e circondato di patate arrosto. Se, anziché reggerlo con mani malferme l’avesse fatto levitare, suo figlio l’avrebbe definito degno del cenone della vigilia, a Hogwarts, ma quella donna spenta aveva troppa paura di usare la magia nella casa del suo carceriere.
    « Vuoi tagliarlo tu, Severus? » gli chiese con voce bassa e traballante, come una scopa affatturata.
    « No. Sei tu che ci tieni a queste cose ». Avrebbe preferito cento volte andare a letto senza cena che prestarsi a quella pantomima di famiglia.
    Sua madre serrò nella mano il coltello e Severus immaginò che fosse combattuta: avrebbe potuto sventrare il tacchino oppure suo figlio o persino se stessa. L’idea, in fondo, era dolce, dolce come sputare veleno e rancore sugli idioti felici che si auguravano buon Natale e si scambiavano regali, perché quando sei infelice vorresti che anche gli altri lo fossero.
    Sua madre scelse il tacchino e Severus accese le candele e spense la luce, pensando che c’era un motivo se, prima dell’energia elettrica, si consumavano più pasti in famiglia: anche se ci si guardava in faccia, non ci si vedeva. 
La reciproca presenza doveva essere più tollerabile.
    Un vecchio orologio batté dodici rintocchi. Suo padre non era tornato e mentre sua madre gli sorrideva per forza, augurandogli buon Natale, lui ingurgitò l’ultimo cucchiaio di porridge e si augurò che il canale ingoiasse Tobias. « Buon Natale, mamma » rispose stiracchiando le labbra solo perché era lei. La cena poteva dirsi conclusa: era Natale. Non c’erano regali per nessuno, ma almeno era ora di andare a letto. 

 
* * *

    Del Natale amava il freddo: quello, almeno, era sincero e faceva coprire i volti con le sciarpe, impedendogli di vedere troppe espressioni felici; non gli piacevano le persone felici, specialmente a Natale, quando pesava di più non esserlo.
    Prima di alzarsi, Severus ascoltò il silenzio della sua casa: era presto e sua madre forse era ancora a letto. Dagli scuri storti sui cardini ammaccati entrava un raggio di luce pallida ed il ragazzo fissò la finestra con astio, come se potesse convincere il sole a tramontare su quel giorno infausto e rincorrere gli altri, sul calendario, più in fretta, ma alla fine si alzò, vestendosi rapidamente con gli abiti da lavoro di suo padre che sua madre aveva cercato di riadattare alla sua taglia con un po’ di magia, mentre il marito era a lavoro. 
    Sgusciò silenziosamente fuori dalla sua camera e lungo lo stretto corridoio buio, scendendo le scale fino alla sala, dove la tavola era ancora apparecchiata con la tovaglia bianca, rossa e oro ed i mozziconi di candela consumati. I piatti, invece, dovevano essere accatastati nel lavello della cucina, da cui proveniva il basso singhiozzare di sua madre.
    Severus prese dall’attaccapanni un cappotto consunto e troppo grande ed uscì. La neve doveva essere scesa per tutta la notte, coprendo ogni cosa di bianco. Lasciò vagare lo sguardo per qualche istante: era strano ed inquietante che persino Spinner’s End potesse sembrare un bel posto, coperto di neve, ma si proibì di indugiare su quel pensiero, deciso a non trovare nulla di positivo nell’Inferno. 
    Corse sulla neve che attutiva i suoi passi e gli gelava i piedi nelle scarpe di cuoio dalla suola sottile, mentre il fiato scivolava rapidamente alle sue spalle in sbuffi di calore perduto. Corse fino a raggiungere il parco giochi, fino alle altalene deserte ed il freddo penetrò fino alle ossa, gelandogli le lacrime negli occhi, prima che scendessero. Non c’era nessuno.
    Ovviamente, non c’era nessuno. Era l’alba del giorno di Natale e Lily, doveva essere ancora a letto o forse stava scartando i regali sotto l’albero, assieme alla sua famiglia, nel caldo della sua casa. Era stato uno sciocco a correre sin lì, rischiando di scivolare o di ammalarsi.
    Da lontano, giunse l’abbaiare di un cane e Severus fece una smorfia che voleva essere un sorriso, sentendosi simile e disgustato dalla somiglianza: un cane randagio, intirizzito ed affamato. Buon Natale a chi se lo può permettere, agli altri, invece... che passi presto, che arrivino i giorni normali, quelli in cui non ci si ferma a pensare.
    Mesto, raggiunse le altalene coperte di neve, avrebbe almeno potuto dondolare un po’ al cigolio delle catene. Si piegò a spazzare la neve dal seggiolino e se la trovò tra le mani: una busta bianca, magicamente impermeabile, col suo nome scritto nella grafia piccola e chiara di Lily. Aprì la busta con dita tremanti e si sedette sull’altalena bagnata. 
 
    “Prima o poi, Natale sarà un bel giorno anche per te,
                                                                                                       Lily”
    
    Severus spinse coi piedi sull’asfalto coperto sotto i piedi e si lasciò dondolare lentamente, stringendosi la pergamena al petto come se fosse calda, come se fosse Natale.
 
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Note:
☻ Forse con "Tematiche delicate" ho esagerato, ma meglio mettere le mani avanti. Il Natale è quel momento in cui chi è solo, infelice, chi, durante l'anno nasconde il proprio dolore, soffre di più e questo è il mio Natale, dedicato a chi vive momenti difficili, pensando che nessuno possa capirlo o che a nessuno importi.
Mi sa che non è molto "natalizio" in senso convenzionale ^^'
☻ Questa fanfiction partecipa al contest "Spirito Natalizio" indetto da Matilde di Shabran sul forum di EFP
ed al contest "Un'edita per Serpeverde" indetto da beneracconta.
☻ Come sempre potete trovarmi sulla mia pagina FB per chiacchiere, aggiornamenti e anche per gli auguri di Natale ^^

 
   
 
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