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Autore: Artemisia_Amore    22/12/2014    5 recensioni
La trama di questa storia si svolge su due piani temporali.
{I fili del presente si intrecciano continuamente con il passato dove è ambientata la maggior parte della narrazione.}
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Break riapre gli occhi dopo una sanguinosa battaglia. Ha da tempo perso l’uso della vista, e il suo cuore stanco vortica inesorabilmente intorno a quel ricordo che lo ha a lungo perseguitato. Nel frattempo, Reim ripercorre i passi che lo hanno portato alla scoperta di un sentimento inconfessabile, mentre Sharon rivive il giorno in cui cessò per sempre di essere una bambina.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Nuovo personaggio, Reim Lunettes, Sharon Ransworth, Xerxes Break
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Sincope

 

Nubi. Fitte nubi bianche su un cielo ancor più gelido e candido. Volute di aria calda che si congela a ogni respiro. Silenzio. Questo silenzio disumano che tuttavia non mi infastidisce. Fa appello a qualcosa di profondamente sepolto dentro di me. Dolore, forse? Mi sento nostalgico.

Tic.

Tic tic.

Tic.

Il primo rumore che riesce a catturare la mia attenzione. Da quanto tempo sto fissando il cielo?

Tic tic.

Abbasso lo sguardo. Cerchi perfetti di sangue scarlatto imbrattano la neve che sommerge le mie caviglie. Sono ferito, dunque? Ruoto la mano, osservo il palmo ricoperto dalla stoffa bianca. Scie cremisi l’hanno solcato, rotolando giù lungo il polso, l’avambraccio, la spalla. Sono stato colpito alla spalla, quindi. Lascio ricadere la mano lungo il fianco. Tic. Tic. Tic. Non m’importa.

Avanzo lentamente di qualche passo, e mi vedo presto costretto a muovere faticosamente le braccia nel tentativo di spostarmi. La neve rallenta i miei movimenti, e comincio ad avvertire la sgradevole sensazione del ghiaccio che scivola dentro gli stivali e raggiunge i miei piedi. Sto cominciando a perdere sensibilità. Sento dolore. Posso facilmente immaginare che le dita siano ormai diventate blu. Respiro - ghiaccio pungente che si diffonde nei polmoni - e mi chino per afferrare la testa mozzata dell’ultimo Tramp che ho abbattuto. Il suo cadavere giace poco più avanti, accasciato a terra sul suo stesso fumante sangue viola. Che visione volgare. Eppure basta quel pensiero per farmi inarcare le labbra in un sorriso di puro sarcasmo. Oh, quanta voglia di ridere. L’avevano definita “una situazione senza controllo” e “una missione suicida”. E alla fine non riesco più a trattenermi, e rido. Oh, rido a squarciagola mentre lancio la testa grondante sangue sulla pila di cadaveri dei sette Chain sterminati. Che basti un po’ di neve innocua a scoraggiare gli agenti della Pandora? Appoggio la schiena contro il tronco solido di un abete e mi lascio crollare a terra, le gambe ricoperte di fiocchi bianchi.

No. La verità è che non è cambiato niente, in fondo. Oggi come allora, questo posto dimenticato da dio rimane la fucina dell’inferno.

“Regnard?”

“Quei Regnard? I Regnard di Alaistar?”

“Non porterà niente di buono. Questo marmocchio dovrebbe spalare letame nelle stalle!”

“Perché accidenti l’hanno mandato qui?”

Otto anni. Un’età splendida per imparare il mestiere dell’assassino. Non che ci voglia molto, dopotutto, quando si è nati ad Alaistar. Tutto ciò che occorre è una buona dose di disprezzo da instillare nel cuore di un bambino imperfetto. Con i miei occhi dello stesso colore del sangue, con i miei capelli dello stesso colore della neve, ero per tutti l’incarnazione del Male, il genere di demone che può crescere solo nel grembo di Alaistar, in cima alle montagne, dove gli uomini scavano rifugi nella roccia, e le donne adempiono al loro compito di riproduttrici.

Avevo una sorella. Anche lei era una riproduttrice. Il suo sangue macchiò la neve là dove un mercenario decise di profanare il suo ventre. La pietra che scagliai contro la testa dell’uomo fu la prima arma che utilizzai per uccidere.

“Il bambino è vostro, mio signore. Vi servirà fedelmente”.

Ceduto. Regalato. Venduto. Mio padre aveva servito i Sinclair per tutta la vita. Era giunto il momento di offrire un dono ai signori. E quale dono avrebbe mai uguagliato la creatura per tutti nata col solo istinto di uccidere?

E poi una mano. Una mano gentile sui miei capelli di ghiaccio.

“Tu e mio figlio avete quasi la stessa età. Comportati bene, e diventerai il suo cavaliere. Ne sarai in grado?”

Amore. Per la prima volta da quando le montagne mi avevano regalato il loro gelido soffio di vita, mi sentii amato. Voluto. Desiderato. Roman Sinclair credeva in me. Per lui avrei dato la vita. Per il mio signorino, Kenneth, avrei persino venduto l’anima.

Quando riapro gli occhi, il candore del cielo è ormai diventato un inerme testimone del violento incendio del tramonto. Stringo le mani a pugno, cerco di muovere i piedi. Comincio ad essere vecchio per tutto questo gelo. Non sono più abituato a sentire il cuore stretto in questa prigione di ghiaccio. Non dopo che il fuoco, dopo anni, ha trovato un modo per scioglierlo; non dopo che il calore ha iniziato a insinuarsi nelle vene, circolando in tutto il mio corpo, ricordandomi perché sono ancora vivo, e per chi lo sono.

Mi rimetto in piedi e raggiungo il cavallo. La missione è completata, ho annientato i nemici che gli altri membri della Pandora avevano troppa paura di affrontare, nelle montagne infernali che gli altri membri della Pandora avevano troppa paura di sentir nominare. E’ sempre un piacere tornare a casa, mi ritrovo a pensare, mentre le vette innevate alle mie spalle si allontanano lentamente nel più ovattato silenzio. Il bacio d’addio che Alaistar riserva alle mie labbra non è altro che misera desolazione. Solo tre ore più tardi mi rendo conto di aver sottovalutato i tranelli della mia terra natia.

La nebbia ha avvolto la realtà, occultando il sentiero a questo mio occhio stanco. Secondo i miei calcoli, dovrei essere in prossimità di Villeich, ma non riesco a scorgere la luce delle lanterne. Nessun odore di pane caldo e birra nell’aria. Nessun suono di risate ubriache. Ovunque mi volti, riesco a percepire solo il boato costante del vento che scava cunicoli in questa coltre opprimente. Poi, improvvisamente, qualcosa striscia al mio fianco, sfregando inavvertitamente contro il mio piede. Porto la mano alla spada, la sfodero, ghigno. Questo alito fetido ti tradisce, stupido Grim. Fatti avanti, forza. Lanciati all’attacco, la mia lama ti attende.

Ma lo stupido verme non avanza. Al contrario. Sento le foglie sul terreno scricchiolare, come se il corpo flaccido del Chain stesse arretrando, animato da una qualche frenetica emozione. Paura? Rido. E da quando i Grim hanno paura del loro spuntino? Non ho intenzione di lasciarti scappare e darti l’occasione di trovare una preda più innocua. Mi getto in un galoppo cieco, sfidando il velo della nebbia, la sete di sangue che ancora brucia nella mia gola. Il primo affondo della lama è uno sfogo alla rabbia di essere stato allontanato da lei. Il secondo affondo è vendetta per la fiducia mal riposta in quel pezzente di Lunettes. Il colpo con cui decapito Grim è invece per me, per ricordare il disprezzo che ha sempre accompagnato questa mia esistenza che porta solo sciagura. Guardo la testa del verme volare, cadere a terra, urtare un masso, rotolare per qualche metro. E quando sollevo lo sguardo dalla scia di sangue viola sul suolo, il castello dei Sinclair, muto e diroccato, mi osserva, disapprovando il mio operato.

Come… come sono finito qui? 

Sento un dardo trafiggermi il cuore, una mano stringerlo, affondandovi dentro le unghie taglienti come lame. Sento il sangue sgorgare da esso, zampillare in tutto il mio corpo, offrendo in sacrificio dolore, colpa, dolore, amarezza, dolore, la più profonda disperazione. Riesco a malapena a smontare da cavallo, a ricordare come si mette un piede di fronte all’altro per camminare, e quando raggiungo il portone divelto, le gambe tremano, le dita pure. Non riesco ad accarezzare se non con lo sguardo lo stemma dei miei signori, mentre un silenzio di morte avvolge il luogo dove un tempo sono stato felice.

Avanzo di pochi passi, e mentre i tacchetti dei miei stivali risuonano sui lastroni di pietra che migliaia di ombre ormai dimenticate hanno calpestato, il buio lascia spazio ai colori là dove il mio sguardo vibrante di lacrime si posa. Le scale. Quelle scale che ho corso e percorso innumerevoli volte, l’ultima delle quali mi ha condotto tra le braccia del mio padrone esangue. Il corridoio. Il lungo corridoio dove risuonava il canto semplice e gentile delle donne che ricamavano con la piccola Emily. Lo studio di Kenneth. Quello studio dentro il quale avevo conosciuto la vita, per la prima volta, e il calore aveva iniziato a sciogliere le stalattiti che trafiggevano il mio cuore atrofizzato. La camera di Florence-sama, il cui profumo di camelie raggiungeva i miei polmoni anche quando la porta era chiusa e la padroncina non era in casa. Sento i denti affondare nelle labbra per impedire loro di gridare con tutto il fiato che ho in corpo. Quel profumo. E’ come se quel profumo aleggiasse ancora nell’aria, sfidando il tempo, sfidando la morte. Non riesco a impedirmi di premere le dita sul legno consumato dai tarli della porta, e così entro, senza permesso, nella camera della signorina. Un sorriso amaro, e scuoto la testa per scacciare in fretta questo pensiero: mi ha ricordato un cuscino che mi è stato scagliato contro da una signorina ben più vivace e che non mi è più concesso proteggere.

In questa realtà non ci sono schizzi di sangue a imbrattare le pareti. In questa realtà, Florence-sama non ha lottato per la sua vita, mandando in frantumi lo specchio nel tentativo di ostacolare i suoi aggressori. In questa realtà, Florence-sama non è morta qui dentro, ma nella sua carrozza, a poche miglia da Ébauche. Le mie dita percorrono il mobile da toletta della padroncina, lasciando alle loro spalle una scia netta e precisa nella polvere accumulatasi in tutti questi anni. Ne osservo la consistenza filamentosa sui miei polpastrelli. Come si saranno spiegati la mia assenza, in questo mondo? Mi avranno detestato? Kenneth-sama… mi avrà mai perdonato per non essere stato al suo fianco?

Chiudo gli occhi, mentre il profumo di camelie che impregna i miei ricordi si fa sempre più opprimente, soffocandomi nel rancore, nell’odio per tutte le promesse che non sono riuscito a mantenere, nella consapevolezza di non essere stato all’altezza della fiducia accordatami da Padron Roman. Devo uscire di qui. Devo tornare alla Pandora, devo fare rapporto, devo affogare il mio dolore in qualsiasi cosa sia in grado di annebbiare la vivida luce della mia memoria, sia essa oppio o morfina. Mi volto di scatto per dirigermi verso la porta, ma un vago dolore alla coscia richiama la mia attenzione. Mi rendo conto di aver sbattuto contro un cassetto lasciato evidentemente aperto da qualche ladruncolo in cerca degli ultimi tesori di una nobiltà sprofondata nell’oblio. Sbuffo, disgustato dalla grettezza dell’animo umano, e mi piego a terra per raccogliere una scatolina che non avevo notato al mio ingresso. Che strano. Non può essere caduta dal mobile, non l’ho urtato con così tanta violenza. Sollevo lo sguardo per analizzare meglio la traiettoria, e scorgo un ingegnoso intreccio di fili sotto la base del cassetto. Inarco un sopracciglio e  faccio scorrere lentamente la scatolina tra i fili di seta. Oh. Davvero scaltro, Florence-sama. Un nascondiglio perfetto per un ricordo prezioso. Non posso impedire alle mie labbra di inarcarsi in un sorriso divertito. Stavate cercando di nascondere a vostro padre il pegno d’amore di uno spasimante? Perché questa dev’essere la natura del ciondolo levigato che lascio scorrere tra le dita: una goccia di resina dentro la quale riposa una farfalla, eternamente fragile, eternamente giovane. Stringo il ciondolo al cuore, e vi chiedo perdono, mia signora, ma porterò questo pegno d’amore con me.
 

***


“E’ sporco di sangue?!”

“Da quando non serve più le Rainsworth si è trasformato in un animale…”

“E’ il quarto bicchiere di vino che trangugia…”

“Non si è nemmeno preso la briga di andare a cambiarsi…”

“Puzza di Chain…”

“Non lavorerei con lui neanche se mi pagassero il triplo…”

Quanti brusii fastidiosi. Non ho voglia di alzare lo sguardo dal mio bicchiere di vino per intimare il silenzio a questi bambini. Che ne sapete, voi, della morte? Siete così giovani. Che ne sapete, voi, della lealtà? Sareste disposti ad abbandonare il vostro signore tra le fauci della morte, pur di non ferirvi quelle guance imberbi. Il sangue sul mio volto vi disgusta? E’ il sangue dei Chain che ho ammazzato per voi. Dovreste essermi grati: vi ho risparmiato un viaggio verso le montagne da cui non sareste sicuramente tornati indietro.

Butto giù d’un fiato il vino rimasto, e mi decido ad alzarmi. Ne ho abbastanza del vostro disprezzo. Il mio è sufficiente, e decisamente più impietoso del vostro sguardo nauseato. Attraverso la sala comune e spalancate gli occhi quando il mio sguardo si posa, ad uno ad uno, sui vostri visi. Che cosa c’è, pensavate che fossi stupido? Che fossi sordo? Le vostre parole senza soggetto raggiungono le mie orecchie: avreste bisogno di ben altri metodi per parlare alle mie spalle senza che lo venga a sapere. Ma sono veramente troppo stanco per pensare a voi. Raggiungo il corridoio proprio mentre la testa ha ricominciato a vorticare. Ho bisogno di un bagno caldo, devo sciogliere la prigione di ghiaccio che ha inevitabilmente preso possesso di tutto il mio corpo.

“Dovresti cambiarti, Xerx. Non puoi certo presentarti così…”

Reim. Metto a fuoco il suo viso, le sue labbra tirate in una smorfia di severa disapprovazione. Vorrei condividere il sangue che ho addosso con te, macchiarti la faccia solo per farti un dispetto, solo per nausearti e ridere del tuo animo debole. Sei un traditore. Sei la peggiore feccia esistente al mondo. Dopo di me, s’intende.

“Dico sul serio, Xerx. Lavati la faccia. Posso prestarti la mia divisa. Non può vederti così…”

“Che accidenti vuoi?”

Ti avvicini al mio orecchio. Contrariamente a quanto mi aspettavo, non noto smorfie sul tuo viso. L’odore di morte che impregna i miei abiti non ti tocca.

“Sharon-sama. Ho trovato un modo. Ma non abbiamo tempo. Usa la mia stanza, lavati e seguimi. Ti porto da lei”.

Spalanco gli occhi, e una scaglia di ghiaccio pare staccarsi dalla superficie pulsante del mio cuore. Quando cade nell’abisso oscuro della mia disperazione, i suoi frammenti tintinnanti rimbombano di speranza. Sei… dalla mia parte… Reim?

 

***


E’ quando inciampo per la terza volta nei pantaloni che mi hai prestato che sono felice di essere alle tue spalle. Stupido quattrocchi spilungone. Dovevi proprio essere così alto? Stringo i denti e qualcosa nella mia dignità di uomo manda segnali di minaccia al mio cervello mentre mi piego per arrotolare i pantaloni fino alle caviglie. Non molto virile, lo ammetto, ma quantomeno eviterò di essere rallentato da un dettaglio così infimo. Dopotutto, mi hai concesso solo due ore da quando abbiamo lasciato la Pandora. Devo sfruttare ogni secondo che mi è rimasto.

“Non preoccuparti della servitù. Quando Barma-sama non è in casa, si rintanano tutti nelle loro stanze a riposare. Adesso va’. Troverai la finestra del balcone aperta. Non sono mai riuscito a convincerla a chiuderla. Dice che le dà una parvenza di libertà…”

Ojou-sama. Come ho potuto permettere che tutto questo accadesse? Come ho potuto permettere che sperimentassi la prigionia?

“Xerx! Hai poco più di un quarto d’ora! Muoviti!”

Le parole di Reim mi scuotono. Un quarto d’ora? Farò sì che duri una vita intera, a costo di impedire alla luna di raggiungere lo zenith! Mi sporgo dalla finestra del corridoio per analizzare la situazione. Reim ha davvero superato se stesso con questa storia del suo “passaggio segreto”. Sorrido. Bene, meno di due metri per raggiungere il balcone di ojou-sama. Pochi punti d’appoggio. Posso farcela. Posso farcela nonostante il dolore alla spalla che non sono riuscito a medicare. Posso farcela nonostante la stanchezza che mi attraversa le ossa. Posso farcela, e ci riuscirò.

Mi accovaccio sul davanzale, e calcolo la distanza che mi separa dal primo appiglio. Dovrei raggiungerlo con uno slancio non troppo energico. Prendo un respiro profondo e abbandono la pietra solida e liscia a favore della roccia ruvida e irregolare della parete esterna di villa Barma. Chiudo gli occhi mentre le dita fanno leva sul porta asta del vessillo dei Barma. Sono tentato di sfilare lo stendardo e scagliarlo a terra con tutta la forza che ho in corpo. O, in alternativa, potrei sputarci sopra. Ma, per quanto si possa essere indignati, sputare controvento non è mai stata una buona idea.

Stringo i denti e mi impongo di ignorare la sensazione sgradevole della ruggine che sfrega contro il mio palmo e lo graffia mentre mi lascio dondolare per acquistare più velocità. Poi, finalmente, arriva il momento di sostituire il primo appiglio con una delle colonne levigate del balcone. A questo punto, tirarsi su è una mera questione di addominali. Che cercano di ribellarsi e tremano di dolore dopo le fatiche della giornata, ma sono sordo alle loro suppliche. Tutto ciò che conta è la mia ojou-sama. La mia…

“Sharon…”

La chiamo non appena atterro sul balcone, in ginocchio per attutire l’energia del mio slancio. Vedo la sua sagoma sottile sollevare la testa oltre le tende bianche che danzano nell’aria, secondo il ritmo dolce e misterioso del vento della sera.

“X-xerx…?”

Percepisco le lacrime nella sua voce e, per la prima volta, non mi infastidiscono. Al contrario, scivolano giù lungo la parete di ghiaccio del mio cuore, sciogliendola gentilmente, carezza dopo carezza.

“Ojou-sama… State… state bene, vedo…”

Che cosa sto dicendo? Perché non riesco a muovermi? Con le spalle rivolte alla finestra da cui sono entrato, fisso la mia padroncina, più magra, più pallida, più spenta, e tuttavia non avanzo. Rimango immobile, incapace di sollevare una mano per sfiorare il suo viso, incapace di allargare le braccia per stringerla a me. Non potrei, dopotutto. Sarebbe inopportuno.

“Xerx… Io… S-sì, immagino di sì. Anche… anche tu stai bene, sì?”

Decisamente. Sarebbe decisamente inopportuno. La sua voce distaccata, il suo sguardo che non incontra il mio, tutto nel suo portamento rivela quanto la mia visita le sia sgradita. Forse… Forse non avrei dovuto disobbedire agli ordini di Lady Sheryl. Forse avrei dovuto capire prima che ojou-sama è una donna, una donna rispettabile. Le attenzioni innocue che avevo per la bambina che era non sono più accettabili adesso che ho di fronte il bocciolo di una donna. Forse… ojou-sama è giunta a questa stessa conclusione. Forse ha deciso di essere pronta… per uno sposo.

“Meravigliosamente, ojou-sama. E’ stato bello rivedervi…”

Rivolgo un largo sorriso da pagliaccio alla bambina che mi ha offerto un fiore per alleviare le ferite del mio animo oscuro, e mi inchino. Qui cade l’ultima goccia di serenità che aveva reso la mia esistenza finora sopportabile. E tuttavia, mi ritrovo a pensare, tuttavia fa meno male di quel che credessi. Forse perché amare qualcuno significa lasciarlo libero di seguire il proprio cammino, di realizzare i propri sogni. Annuisco a me stesso, chiudo gli occhi, mi volto.

“Addio, ojou-sama… Siate felice…”

Mi allontano, raggiungo le tende bianche, vaglio l’ipotesi di gettarmi dal balcone e porre fine a questa farsa tragicomica che osano chiamare “vita”. Ma poi mi ritrovo a sorridere. Sento il calore tornare a scorrermi dentro le vene, frizzante di follia, frizzante di desiderio e autodistruzione. Non mi importa. Non mi importa che sia inappropriato. Non mi importa che sia inaccettabile. Non mi importa che desideri uno sposo.

Mi volto di scatto, percorro in pochi passi veloci la distanza che mi separa dalla mia ojou-sama. Non le concedo il tempo di parlare, di trasporre in parole che mi trafiggeranno inevitabilmente il cuore ciò che i suoi occhi grandi e lucidi gemono, paralizzati. Avvolgo la sua vita tra le braccia. E’ sempre stata così piccola, la mia ojou-sama? E’ sempre stata così fragile? Chiudo gli occhi, respiro il profumo di glicine dei suoi capelli ramati, mentre i fiori raggiungono il mio stomaco e lì sbocciano, tutti insieme, frenetici, innumerabili. Piego appena la testa, costringo la mia ojou-sama a sollevarsi, a incontrare le mie labbra disperate, che baciano le sue come se dal suo respiro dipendesse la mia vita. La stringo forte contro il mio petto e le impedisco di scappare mentre bevo la sua bocca piena e rosea, l’unico rimedio alla sete voluttuosa che mi consuma.




 
   
 
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