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Autore: vegeta4e    22/12/2014    4 recensioni
Haytham e Connor sono alla ricerca di B. Church, colpevole di aver tradito l'Ordine Templare e di aver sottratto a Washington i rifornimenti destinati all'Esercito Continentale. Il birrificio di New York è palesemente abbandonato e questo piccolo dettaglio obbligherà padre e figlio a collaborare, costringendo il Gran Maestro a lavorare separatamente sia con Charles sia con il figlio. Successivamente Haytham li convincerà a cooperare, tentando di metter da parte l'odio tra Assassini e Templari per raggiungere uno scopo più grande, desiderato da entrambe le fazioni: vincere la guerra contro gli Inglesi.
Ma non sarà questo l'unico intoppo. Torneranno vecchie conoscenze, vecchi problemi che H. Kenway credeva di essersi lasciato alle spalle. A cosa dare la precedenza? Ad una richiesta d'aiuto o a Washington che, battaglia dopo battaglia, sta perdendo sempre più terreno?
Questi eventi coinvolgeranno anche Connor e Charles Lee, nel bene e nel male.
Dal testo:
Charles e Connor entrarono nella sala, notandomi assente e pensieroso.
«Signore? Che succede?» Sospirai nuovamente, premendomi due dita alla base del naso.
«Temo di dovervi lasciare soli nelle prossime missioni. Devo tornare in Europa» annunciai tornando in posizione eretta per darmi un contegno.
Genere: Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Charles Lee, Connor Kenway, Haytham Kenway, Jenny Kenway
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Avvertenza: le parti in corsivo sono tratte da “Forsaken” di Oliver Bowden.

 

Capitolo 23

 

Uscii da Fort George con un peso nel petto che non riuscivo a spiegarmi. Era il rimorso per aver stordito Haytham con così poca grazia o per avergli sottratto il diario? Forse era preoccupazione. Preoccupazione per come avrebbe reagito.

Lo sentivo quasi bruciare sotto la tunica. La curiosità che mi punse improvvisamente mi spinse ad accelerare il passo. Potevo conoscerlo, finalmente. Non pensai ad altro per tutto il tragitto, avevo finalmente l’opportunità di scoprire, in parte, chi fosse realmente mio padre.

Quando rientrai alla tenuta notai con piacere che Achille si era ritirato nella sua stanza, quindi salii anch’io al piano superiore. Mi sedetti sul letto con una strana ansia, guardando poi la copertina rigida in pelle del diario di mio padre. Ansia per cosa, poi? Forse non volevo scoprire cose di cui mi sarei pentito. Magari ne avrei conosciute di positive. Sospirai e lo aprii senza riflettere oltre:

 

Io ero uno dei fortunati, con dei genitori che volevano bene a me e alla mia sorellastra Jenny, che mi parlavano di povertà e di ricchezza, […] un privilegiato, non come i bambini che dovevano lavorare nei campi, nelle fabbriche e inerpicarsi su per i camini. A volte, tuttavia, mi chiedevo se quei bambini avessero amici. E se ne avevano, pur non invidiando le loro vite, sapendo che la mia era molto più confortevole invidiavo loro gli amici.

 

Mi sentivo invisibile, come se fossi bloccato in un limbo tra passato e futuro. Attorno a me gli adulti intrattengono colloqui carichi di tensione. I loro volti sono tirati e le signore piangono.

 

Ogni giorno, o a mezzogiorno o dopo cena, a seconda del programma di lavoro di mio padre, ci riunivamo in quella che chiamavamo la stanza dell’addestramento, ma che era semplicemente la stanza dei giochi. E fu lì che la mia abilità con la spada iniziò a migliorare. […] E in quella sala mio padre, gli occhi lucidi, vispi ma gentili, sempre sorridente, sempre pronto a incoraggiarmi: parata, copertura, gioco di gambe, equilibrio, affondo. Ripeteva quelle parole come un mantra, a volte era tutto ciò che ripeteva per l’intera lezione, urlando i comandi, annuendo quando li eseguivo bene, scuotendo la testa quando sbagliavo.

Per me quelli sono, o erano, i suoni e gli oggetti dell’addestramento alle armi: gli scaffali per i libri, il tavolo da biliardo, i mantra di mio padre e suono del… legno.

Sì, legno. Con mio grande dispiacere ci esercitavamo con spade in legno. L’acciaio l’avremmo usato in seguito, diceva ogni volta che mi lamentavo.

 

L’amore che provavo per mio padre minacciava di continuo di sommergermi con la sua mera grandezza: più che amarlo lo idolatravo. A volte era come se noi due condividessimo una conoscenza segreta al resto del mondo.

 

Smisi di leggere per un secondo e guardai fuori dalla finestra. Avrei tanto voluto un rapporto del genere con lui o con mia madre. Un po’ lo invidiavo, ad essere sincero, ma non lo perdonavo per avermi negato quest’occasione, per avermi costretto e rubargli il diario per conoscerlo, per diffidare così di lui. Non c’era modo di provare amore per lui, né come figlio e nemmeno come marito.

Girai pagina:

 

Mio padre era solito dire: «Per vedere in modo differente, bisogna prima pensare in modo differente», e ciò potrebbe suonare stupido o io potrei ripensarci anni dopo e ridere, ma a volte era come se sentissi il mio cervello espandersi per guardare il mondo con gli occhi di mio padre. Lui aveva un modo che nessun altro aveva o così mi pareva; un modo che sfidava l’idea della verità.

 

«Come va l’addestramento alle armi, se posso chiederlo?»

«Molto bene, signore. Miglioro di giorno in giorno, o così sostiene mio padre.»

«Ottimo, ottimo. E vostro padre vi ha mai rivelato lo scopo del vostro

addestramento?»

«Mio padre dice che il vero addestramento inizierà il giorno del mio decimo compleanno.»

«Ecco, mi chiedo cosa avrà da dirvi», disse Birch, accigliato. «Davvero non ne avete idea? Neppure un sospetto?»

«Nossignore. So solo che mi fornirà un cammino da seguire. Un credo.»

 

Un credo. Appresi quindi che mio padre venne allenato fino ai dieci anni senza sapere il motivo, con lo scopo di far parte della Confraternita insieme a suo padre.

 

Corsi verso le scale pensando solo a raggiungere i miei genitori.

L’atrio era buio, ma colmo di grida e piedi che correvano e dei primi riccioli di fumo.

Tentai di orientarmi. Da sopra giunse un altro strillo e vidi delle ombre danzanti sul balcone e, brevemente, il balenio dell’acciaio nelle mani di uno dei nostri assalitori. Stava combattendo con uno dei camerieri personali di mio padre, ma la luce svolazzante mi impedì di vedere il destino di quel povero ragazzo. Udii invece il sordo tonfo del suo corpo quando cadde dal balcone sul pavimento in legno, non molto distante da me. Il suo assassino lanciò un urlo di trionfo e io lo sentii correre verso le camere da letto.

«Madre!» Chiamai, lanciandomi su per la scala nello stesso momento in cui vidi la porta della camera dei miei genitori spalancarsi e mio padre uscire per affrontare l’intruso. Indossava i calzoni e aveva tirato le bretelle sulle spalle nude, i capelli erano spettinati e sciolti.

[…] Ma poi sentii un grido provenire dall’interno della stanza dei giochi e ciò bastò per farmi oltrepassare la porta. La prima cosa che vidi fu che lo scomparto nella libreria era aperto e che dentro c’era la scatola con la mia spada. Per il resto la stanza era come sempre, come l’avevamo lasciata dopo il mio ultimo allenamento, con il tavolo da biliardo coperto e spostato per creare lo spazio per addestrarmi, dove precedentemente quel giorno ero stato istruito e rimproverato da mio padre.

Dove ora mio padre era inginocchiato, morente. In piedi davanti a lui c’era un uomo con una spada infilata fino all’elsa nel petto di mio padre, con la lama che sporgeva dalla schiena da cui gocciolava sangue. Non molto distante c’era l’uomo dalle orecchie appuntite, una grossa ferita in faccia. Ce n’erano voluti due per sconfiggere mio padre, e solo per poco.

[…] e mi ritrovai a terra, stordito, disteso di fronte a mio padre che giaceva sul fianco con la spada infilzata nel petto. Nei suoi occhi c’era ancora vita e le palpebre batterono per un attimo, come se cercasse di mettermi a fuoco. Per un momento giacemmo così, l’uno di fronte all’altro, due uomini feriti.

[…] «Padre…» dissi, ma in quell’istante l’assassino si avvicinò a noi e senza fermarsi si chinò ed estrasse la spada dal corpo di mio padre che sobbalzò, s’inarcò in un ultimo spasimo di dolore, mentre moriva.

 

Sentii gli occhi pungere, quindi li chiusi, passandomi rapidamente la manica sulle palpebre. Eravamo simili, dopotutto. Avevamo entrambi visto morire un genitore. Sapeva cos’avevo passato, e nonostante questo non mi aveva dato conforto.

 

«Mi dispiace, è veramente troppo pericoloso entrare, signorino Haytham», ripeté il signor Birch. Poco dopo mi fece risalire nella carrozza, batté due volte con il bastone sul soffitto, quindi partimmo.

«In ogni caso», aggiunse, «ieri mi sono preso la libertà di recuperare la vostra spada»

[…] «La notte dell’assalto, avete ucciso un uomo», riprese poi, girando la testa per guardare fuori dal finestrino. Era ancora presto. Le strade erano silenziose. «Che cosa avete provato, Haytham?»

«Stavo proteggendo mia madre, signore.»

«Quella era la vostra unica opzione, Haytham», concordò, «e avete fatto la cosa giusta. Non pensate neppure per un attimo di avere sbagliato. Ma l’essere stata la vostra unica opzione non cambia il fatto che non è una faccenda da poco uccidere un uomo. Per nessuno. Non per vostro padre. Non per me. Ma soprattutto non per un ragazzino tanto giovane.»

 

Sfogliai ancora, sperando di arrivare al punto in cui arrivò qui, nel Nuovo Mondo.

 

«Non è molto lontana», mi disse Charles. E io immaginai o sentii veramente il mio cuore battere più forte. Era passato molto tempo da quando una donna mi aveva fatto sentire così. Avevo trascorso la vita o studiando o spostandomi di continuo e, per quello che riguardava le donne nel mio letto, non ce n’era stata una importante: le lavandaie durante la vita militare con le guardie Coldstream, le figlie di miei padroni di casa, donne che mi avevano dato conforto e sollievo non solo fisici, ma che non avrei mai descritto come speciali. Questa donna, invece… avevo visto qualcosa nel suo sguardo, come se fosse la mia anima gemella, un’altra persona solitaria, un’altra guerriera, un altro spirito acciaccato che guardava il mondo con occhi stanchi.

 

L’amo?

Trovo arduo rispondere a questa domanda. Tutto ciò che sapevo era che mi piaceva stare con lei e apprezzavo il tempo passato insieme.

Lei era… diversa. C’era qualcosa in lei che non avevo mai trovato in nessun’altra donna. Quello spirito di cui avevo parlato prima emergeva in ogni sua parola e gesto. Mi scoprivo a osservarla, affascinato dalla luce che pareva infiammarle gli occhi e a chiedermi, a continuare a chiedermi, cosa succedeva dentro di lei. Che cosa stava pensando. Pensavo che mi amasse. Dovrei dire che credo mi ami, sicuramente mi trova simpatico. C’è così tanto di lei che tiene nascosto. E, come me, sa che l’amore non potrà progredire, che non potremo vivere le nostre esistenze insieme, né nella foresta né in Inghilterra, che ci sono troppe barriere tra noi e le nostre vite insieme: la sua tribù, tanto per cominciare. Non vuole abbandonare la sua vita. Il suo posto è con la sua gente, deve proteggere la sua terra, una terra che ritengono minacciata da persone

come me. Pure io ho una responsabilità verso la mia gente. I principi del mio Ordine sono in linea con gli ideali della sua tribù? Non ne sono sicuro. Se mi chiedessero di scegliere tra Tiio e gli ideali in cui mi hanno cresciuto, cosa sceglierei?

Questi sono i pensieri che mi hanno tormentato nelle ultime settimane: anche mentre mi abbandonavo a queste dolci ore rubate con Tiio, mi chiedevo cosa fare.

 

Deglutii a fatica, come se incastrato in gola avessi un sasso abbastanza grosso da soffocarmi. Leggere quelle parole rivolte a mia madre mi fece male al cuore, facendomi sentire in colpa verso Haytham per le cose che gli avevo detto qualche sera prima, a Fort George. Non potevo stabilire se l’avesse amata sul serio, è una cosa così soggettiva l’amore, ma confermai ciò che avevo sempre sostenuto: mio padre non voleva distruggere il villaggio. Già il fatto che si fosse posto il problema di scegliere tra l’Ordine e mia madre mi rincuorava.

 

Il tempo aveva avuto un impatto negativo sul suo aspetto e, sebbene ci fosse ancora un barlume della sua antica bellezza, gli scuri capelli erano ora striati di grigio, il volto era teso e rugoso e la pelle opaca, con scure occhiaie sotto occhi stanchi. […] Mentre la fissavo, Jenny lanciò un’occhiata dall’altra parte del cortile e mi vide. Per un attimo corrugò la fronte, perplessa, e io mi chiesi se, dopo tutti questi anni, mi avesse riconosciuto.

«Jenny, sono io. Sono Haytham».

Mentre pronunciavo quelle parole, mi guardai nervosamente in giro, ma nel cortile era tutto come prima, nessuno si era accorto di ciò che stava accadendo sotto il portico;

«Haytham», mormorò, «sei venuto a prendermi.»

«Sì, Jenny, sì», risposi sottovoce, provando uno strano miscuglio di emozioni, almeno una delle quali era senso di colpa.

«Sapevo saresti venuto», aggiunse. «Lo sapevo.»

«Dimmi che è morto. Dimmi che lo hai ucciso.»

Lacerato tra il desiderio che rimanesse in silenzio e quello di sapere chi intendesse, sibilai: «Chi? Chi devo dirti che è morto?»

«Birch», esclamò e questa volta a voce troppo alta. Oltre la sua spalla vidi una concubina. Mentre scivolava verso di noi sotto il portico, forse diretta alla stanza del bagno, mi era sembrata persa nei suoi pensieri, ma al suono di una voce aveva alzato gli occhi e la sua espressione di tranquilla serenità fu sostituita da una di panico e subito si sporse nel cortile e gridò l’unica parola che avevamo tutti temuto.

«Guardie!»

 

Smisi di respirare. Birch? Tornai indietro di una trentina di pagine e rilessi il cognome. Birch. Reginald Birch che, da quel che avevo intuito, si era occupato di mio padre dopo la morte di mio nonno, diventandone il Maestro. Con che cuore? Con che coraggio aveva preso sotto la sua ala protettiva Haytham sapendo di essere l’assassino di suo padre?

 

Non molto distante da me, Holden ne aveva abbattuti tre, ma ora le guardie ci avevano valutati e si stavano avvicinando con cautela, raccogliendosi per combattere, mentre noi ci riparavamo dietro le colonne e ci scambiavamo occhiate preoccupate, chiedendoci, se saremmo riusciti a tornare alla botola prima di venire annientati.

«Fuggite voi due», mi esortò Holden da sopra la spalla.

«Neanche per idea!» ribattei. Ci battemmo contro un altro attacco. Un eunuco cadde morendo con un gemito. Neppure morendo, neppure con una spada nelle viscere, questi uomini gridavano. Oltre le spalle di uno di quelli che avevamo davanti a noi vidi che altri si stavano riversando nel cortile. Erano come scarafaggi. Ne uccidevamo uno solo per vederne due prendere il suo posto.

«Andate, signore!» insistette Holden «Li trattengo, poi vi seguirò.»

«Non dite assurdità, Holden», urlai, senza riuscire a evitare un tono di scherno nella voce. «È impossibile trattenerli. Vi uccideranno.»

«Mi sono trovato in situazioni peggiori di questa, signore», borbottò Holden, continuando a fendere colpi. Percepii comunque nella sua voce la falsa spacconeria.

«Allora non vi importerà, se resto», replicai, schivando i colpi di spada di un eunuco e sferrandogli un pugno in faccia che lo fece roteare su se stesso.

«Andate via!» gridò Holden.

«Moriamo. Moriamo entrambi», replicai. Ma Holden aveva deciso che non c’era più tempo per la gentilezza. «Ascoltatemi, amico, o voi due ve ne andate di qui o non lo farà nessuno. E allora che succederà?»

Nello stesso istante, Jenny mi stava tirando la mano, la porta della stanza del bagno era aperta, e altri uomini stavano arrivando da sinistra. Esitai, fin quando, scuotendo la testa, Holden si girò bruscamente e gridò: «Dovete scusarmi, signore», e, prima che avessi il tempo di reagire, mi spinse attraverso la porta e la chiuse. […] Dall’altra parte della porta sentii i rumori del combattimento, una strana battaglia silenziosa, e poi un rumore sordo contro la porta, cui seguì un grido, un grido che apparteneva a Holden.

«Forza, castrati, fatemi vedere come ve la cavate contro uno degli uomini di sua maestà…». L’ultima cosa che sentimmo, mentre percorrevamo di corsa il corridoio, fu un grido.

 

Al mercato di Damasco avevo scoperto che Holden non era stato ucciso, come avevo pensato, ma catturato e trasportato in Egitto nel monastero copto di Abou Gerbe, dove trasformavano gli uomini in eunuchi. Per questo motivo ero venuto qui, pregando di non arrivare troppo tardi, anche se, in cuor mio, sapevo che così sarebbe stato. Era troppo tardi.

Con la guardia morta dietro di me, entrai guardingo nel recinto. Era buio e per guidarmi avevo solo la luce della luna, ma vidi che la sabbia attorno era sporca di sangue. Quanti uomini, mi chiesi, avevano sofferto qui, mutilati e poi sepolti fino al collo? Da poco distante giunse un fioco lamento e io strizzai gli occhi e notai una forma irregolare al centro del recinto e compresi immediatamente che apparteneva al

soldato semplice James Holden.

«Holden», sussurrai e un attimo dopo ero accovacciato dove la sua testa sporgeva dalla sabbia, inorridito da ciò che vedevo. La notte era fresca, ma di giorno faceva caldo, un caldo infido e il sole l’aveva scottato così tanto che pareva che la pelle gli fosse caduta dalla faccia, ustionata. Le labbra e le palpebre erano incrostate e sanguinanti, la pelle rossa e screpolata. Aprii una fiaschetta d’acqua che avevo a portata di mano e gliela tenni vicino alle labbra.

«Holden?» ripetei. Lui si agitò, aprì gli occhi e li mise a fuoco su di me, occhi acquosi e colmi di sofferenza, ma mi riconobbe e lentamente sulle sue labbra, spaccate e pietrificate, apparve l’ombra di un sorriso.

Poi, rapidamente come era apparso, svanì e cominciò a contorcersi. Non capii se stesse tentando di tirarsi fuori dalla sabbia o se fosse stato colpito da una convulsione, ma sbatteva la testa da una parte all’altra, la bocca spalancata, e io mi chinai in avanti e gli presi il viso tra le mani per impedirgli di farsi del male.

«Holden», mormorai. «Holden. Smettetela, per favore…»

«Tiratemi fuori di qui, signore», disse con voce stridula, gli occhi lucidi nella luce lunare. «Tiratemi fuori.»

«Holden…»

«Tiratemi fuori di qui», implorò. «Tiratemi fuori di qui, signore, per favore, adesso, signore…»

Più scavavo, più la sabbia era nera di sangue. «Oh, mio Dio, cosa vi hanno fatto?» Ma già lo sapevo e, in ogni caso, ne ebbi conferma poco dopo, quando arrivai alla vita e la trovai avvolta in bende, anche quelle nere e incrostate di sangue.

«Fate attenzione là sotto, signore, per favore», disse sottovoce, e capii che era trasalito, e che si stava mordendo la lingua per il dolore.

 

La prima cosa che sentii al mattino fu un grido. L’urlo di Jenny. Era entrata in cucina e aveva trovato Holden appeso a una corda per asciugare i panni. L’avevo saputo prima ancora che si precipitasse in camera mia, avevo capito cosa era accaduto. Aveva lasciato un biglietto, ma non ne avrebbe avuto bisogno. Si era ucciso per ciò che gli avevano fatto i preti copti. Tutto qui, nessuna sorpresa, realmente.

La morte di mio padre mi aveva insegnato che uno stato di torpore era un buon indice del dolore che sarebbe sopravvenuto. Quanto più uno si sente paralizzato, stordito e sconvolto, tanto più lungo e intenso sarà il periodo del lutto.

 

[…] Charles, la mia mano destra, che si sedeva con me ogni volta che ero nella stanza, la cui devozione era tale che a volte la sentivo come un peso, altre volte come una grande fonte di forza.

 

Che Charles Lee fosse il prediletto di mio padre mi era sempre stato chiaro, ma capii che l’affetto che Haytham riversava su di lui era, forse, quello che non aveva potuto dare a questo Holden. O quello che lui per primo non aveva ricevuto. Non ero sicuro di questa interpretazione, ma pensai istintivamente a Kanen’tò:kon. Conoscevo bene la sensazione che si prova nel perdere un amico, nel caso di mio padre forse l’unico che avesse mai avuto, date le circostanze della sua infanzia.

 

Richiusi il diario tenendo l’indice in mezzo per non perdere il segno. Mi si era chiuso lo stomaco. Riaprii il diario e lo appoggiai sul letto con la copertina rivolta verso l’alto, poi mi alzai, dirigendomi verso il bagno per sciacquarmi il viso. Notai che mi tremavano le mani quando le immersi nel catino pieno d’acqua fresca. Eravamo uguali. Ci distinguevamo solo per alcuni ideali, ma erano più le somiglianze che le differenze. Non era giusto ucciderlo, e in quel momento mi resi conto che sottrargli il diario fu la cosa più sensata che avessi potuto fare. Non avrebbe mai raccontato nulla di tutto questo se gliel’avessi chiesto.

 

***

Per un attimo non credetti ai miei occhi. Sapevo dove mi trovavo, riconoscevo quella radura, quegli alberi e quegli odori. Ero all’interno del  villaggio di Tiio, in parte me lo suggeriva l’istinto, perché nulla era come ricordavo, ma ad aiutarmi furono le capanne in cui vivevano e la staccionata che ne delimitava il perimetro. L’aria era pesante, calda e intrisa di cenere, molte delle abitazioni –primordiali, ma pur sempre tali- erano infuocate e ai nativi poco importava di vedere i loro averi bruciare, poiché troppo impegnati a combattere contro i soldati dell’Esercito Continentale.

Alzai un sopracciglio. Continentale? Avevo visto bene?!

Avanzai di qualche passo senza saper che fare, vidi un armadio indiano combattere a mani nude contro un uomo armato di moschetto, strapparglielo di mano e conficcargli nel ventre la baionetta. Dalla stazza lo scambiai per Connor, ma mi accorsi dell’errore quando vidi il suo volto allarmato girarsi verso di me e guardare oltre la mia figura. Mi voltai seguendo la traiettoria del suo sguardo appena in tempo per vedere due soldati sparare a bruciapelo ad un nativo, il quale cadde con un tonfo, esanime.

Mossi istintivamente un passo verso di lui, ma mi fermai bruscamente quando, alla mia sinistra, vidi mio figlio. E non ebbi dubbi dopo aver visto il tomahawk –seppur non indossasse la tunica da Assassino-. Piantò l’accetta nella fronte di un uomo senza troppi problemi e istintivamente mi avvicinai.

«Ragazzo» posai la mano sulla sua spalla, o almeno, l’intenzione era quella. Passò oltre la sua carne, come se davanti avessi un fantasma «Connor!» Alzai la voce per farmi udire, ma si allontanò senza neanche voltarsi. D’accordo, non ero stato un padre esemplare, affettuoso o altro, ma diamine, l’indifferenza totale era esagerata, no? Gli andai dietro, nonostante questo. Dando una rapida occhiata avevo contato una ventina di nativi, i soldati saranno stati almeno il doppio, non avevano molte speranze, avrei potuto aiutarli. Portai una mano alla cintura e afferrai l’elsa, estraendo la spada e conficcandola nella schiena di un nemico alle spalle di Connor. Niente sangue, niente urla di dolore, solo il clangore della lama contro l’accetta del ragazzo che, fulmineo, si era voltato per parare l’attacco. Inconsapevolmente mi sentii più leggero nel vederlo ancora vivo, e mi trovai faccia a faccia con lui quando il soldato cadde a terra tra me e mio figlio.

«Che sta succedendo?» Gli domandai. Non rispose, si limitò a roteare il tomahawk e correre in soccorso di altri nativi. Rinfoderai la spada e calciai un sasso, frustrato e incredulo del fatto che sembrassi esterno alla situazione. Non meritavo un trattamento simile, cristo, non…

«Che mi venga un colpo» non riuscii a trattenermi quando, esattamente di fronte a me, lontana una trentina di metri, vidi Tiio. Era lei, mi ci sarei giocato le palle, cazzo, l’avrei riconosciuta ad occhi chiusi. Era immobile, circondata da cadaveri, nella mano destra un pugnale, gli occhi fissi su un punto indefinito davanti a lei.

Corsi nella sua direzione. Com’era possibile? Come poteva essere viva se Connor era già ventenne? Mi fermai al suo fianco e ripresi fiato, mi ignorò anche lei. Gesù, mi odiavano così tanto?

«Perché state combattendo contro i soldati di Washington? Che cazzo sta succedendo?» Non ottenni nemmeno la sua attenzione, il che mi fece imbestialire oltre ogni mia aspettativa «Credi che ignorandomi risolverai la situazione? Posso aiutarvi, maledizione» serrai i pugni e aspettai due secondi, poi le passai una mano davanti al viso. Sembrava incantata. Notai i suoi muscoli facciali contrarsi, solo in quel momento mi decisi a voltarmi nella sua stessa direzione per capire cosa l’avesse colpita e per poco non bestemmiai. Non apertamente, almeno. Washington, Putnam e Arnold, in sella ai loro cavalli, ci fissavano ghignando dall’alto delle loro selle. George, al centro, borbottava qualcosa, lo capivo dal labiale.

«Non vorrai fare ciò che penso, vero?» Tornai a rivolgermi a Tiio, che fissava il comandante con astio. «Per carità di Dio, l’hai già atterrato una volta, vattene da qui. Ci penserò io» non mi degnò neanche di uno sguardo.

«Non potrete mai vincere!» Si rivolse a George avanzando di un passo, fiera e senza timore. La seguii con gli occhi, Dio, e vi chiedete perché l’amassi?

Lui rise divertito «Tu. Sei ancora viva? Sorprendente» mi voltai verso Washington poggiando la mano destra sul calcio della pistola che avevo alla cintura «stavolta mi accerterò che tu muoia» tentai di metterlo a tacere, ma ciò che vidi mi fece morire le parole in gola. Aveva la Mela incastonata in uno scettro, l’aria da folle che decisamente non gli si addiceva, proprio no. Insomma, stiamo parlando di George Washington, il comandante con la carriera più patetica della storia, chi se lo immaginerebbe con un’espressione assassina sul volto? Io no, affatto.

«Come l’avete ottenuta?» Domandai, ma nemmeno lui mi rispose, dedicandosi esclusivamente a Tiio.

Fu un attimo, serrò la presa sul pugnale e partì correndo verso di lui.

«No!» Le andai dietro senza pensarci e sfoderai la pistola pronto a sparare, ma Washington sollevò lo scettro, scatenando un fascio di luce dorata che la investì in pieno. La vidi accasciarsi a terra, mollare il pugnale e abbandonare questo mondo ancora una volta. Mi fermai, incredulo: non una ferita, non un segno, sembrava semplicemente svenuta.

Rialzai lo sguardo su George, che fissava il cadavere di Tiio ghignando soddisfatto. Impugnai meglio la pistola e gliela puntai contro «Figlio di puttana» premei il grilletto due volte, colpendolo al petto e al viso, ma non cadde da cavallo. Abbassò lo scettro e proseguì, anche lui privo di ferite, come se non ci fossi.

Gli sparai di nuovo «Muori, bastardo! Muori!»

«Madre!» Mi voltai, vedendo Connor correre verso di me.

 

«Si sta svegliando»

Aprire gli occhi e trovare Jenny e Charles al mio capezzale era una delle ultime voci della lista delle cose da fare. Eppure erano lì, entrambi sconvolti, mia sorella intenta a stringere la mano destra di Lee per trovare un po’ di conforto. Sentii pungere le ghiandole salivari, temendo seriamente di rimettere la cena.

Perché continuavo a sognarla? Ogni volta era una pugnalata al cuore.

«Siete sveglio, finalmente» mi tirai su, la testa dolorante e una gran sete. Non feci domande, ricordavo perfettamente ciò che era successo.

Connor. «Quel grandissimo figlio di puttana» perdonami, Tiio. Tu hai colpe quanto me, cioè zero.

«Haytham» oh, dimenticavo che dinnanzi alla principessina Scott non era ammesso un linguaggio tanto scurrile. Che razza di educazione avevo ricevuto? Mascalzone, signorino Haytham.

«Che cazzo c’è?» Sì, lo facevo di proposito. Mi comportavo da persona matura, insomma.

«Si può sapere che è successo? Ti ho trovato svenuto su letto con un bernoccolo in fronte» ovviamente. Non poteva non lasciare tracce del suo passaggio, il selvaggio. Tastai piano il durone e soffocai a stento una bestemmia, ricordando solo in quel momento il dettaglio principale: il diario. Quella ragazzetta aveva pensato bene di farsi i cazzi miei dall’inizio alla fine.

«Lo ammazzo» furono le prime parole che mi uscirono di bocca. «Parola mia che l’ammazzo»

Charles sgranò gli occhi «Chi?»

«Chi, secondo te?!» Sbottai istericamente «Connor, ecco chi! Figlio o non figlio ha le ore contate.»

Mi alzai incurante del mal di testa e ignorando gli strepiti isterici di Jennifer. Mi urlava di starmene a letto, come se perdere tempo a poltrire potesse calmarmi. Certo, come no. Lei non aveva un figlio di vent’anni, ma adolescente cerebralmente, che si divertiva rubando il diario personale di suo padre. No, quella fortuna era capitata solo a me.

Attraversai il piazzale di Fort George ed entrai nella stalla, sellando il primo cavallo che mi capitò sotto mano e partendo al trotto verso quello sputo di terra di cui tanto si vantava Achille. Che bruciasse, ecco cosa speravo. Lui e quella catapecchia che si ostinava a definire casa.

Vedere in lontananza il tetto della tenuta soltanto all’alba riaccese l’istinto omicida che avevo represso fino a quel momento, e tentai di scaricare la tensione stringendo le briglie. Mi permisi di entrare nelle scuderie Davenport per sistemare il cavallo. Lo legai semplicemente ad un gancio ed uscii, dirigendomi a grandi falcate verso la porta.

«Connor!» Bussai con decisamente poca grazia. «Apri questa cazzo di porta o giuro che la butto giù!» Solo in quel momento pensai che forse dormissero tutti, e in cuor mio speravo fosse così, meritavano un risveglio tutt’altro che piacevole.

 

Salve.

Sì, mi diverto a far sognare Tiio ad Haytham, lol. A proposito, è tratto dal DLC “La tirannia di re Washington”. È una bastardata? Suppongo di sì, ewe. Per chi non sapesse chi è Holden –o meglio, per chi non riuscisse a dargli un volto-, è quel simpatico personaggino -che compare per venti secondi all’inizio di ACIII- che accompagna Haytham a teatro.

Detto questo, ringrazio come sempre chi legge e lascia un commento, a lunedì prossimo :3

   
 
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