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Autore: jesuisstupide    28/12/2014    0 recensioni
Crono è stato sconfitto. Pian piano tutti i mezzosangue del mondo vengono portati al Campo e riconosciuti dal loro genitore divino e tra loro c'è anche Katrina Volger, ragazza di 14 anni che mai avrebbe immaginato di non essere del tutto umana. E dato che nessuno semidio può permettersi di non avere problemi anche Katrina si troverà presto coinvolta in un'impresa che la porterà a scoprire una nuova minaccia per il mondo e per l'Olimpo.
Il rating potrebbe cambiare
Genere: Avventura, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: gli eventi narrati in questa fanfiction avvengono circa un anno dopo la prima serie “Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo” e non tengono conto della serie “Eroi dell’Olimpo”. Tuttavia alcuni elementi e personaggi della seconda saga saranno presenti anche nella mia storia, come ad esempio le stanze sotto la Cabina di Efesto.

Finally, welcome home.

La prima cosa che notai del Campo furono le zone coltivate; erano immense, si estendevano a perdita d’occhio ad Ovest del pino.
“Sono campi di fragole” mi spiegò Mirna “Vendiamo fragole per finanziare il campo. E le usiamo come copertura con i mortali”
Oltre i campi riuscivo a scorgere alcune strutture, tra cui una sorta di arena, e oltre ancora c’era un grande bosco dall’aria cupa. A destra dell’albero c’erano invece una grossa casa colonica bianca, un gruppo di edifici disposti in modo da formare una U con due braccia, dei comunissimi campi sportivi e una parete per l’arrampicata da cui scendeva quella che sembrava lava (ma che non poteva essere lava, vero?).
“È questo? È questo?” chiese Gary, attaccandosi al braccio di Brian e iniziando a saltellare.
“Non credo ci siano molte interpretazioni per la frase Benvenuti al Campo Mezzosangue” sbottò il satiro senza però scalfire l’entusiasmo del ragazzino.
“Com’è che la gente normale non lo nota? Cioè, non è che sia piccolo” intervenni “E come fanno i mostri a non entrare: non ci siano recinzioni, laser o altro”.
“L’albero di Thalia crea un campo di forza che impedisce a qualsiasi mostro non invitato di entrare”
“Cos’è Thalia?”
“CHI è. Thalia Grace figlia di Zeus è una ragazza. Sacrificò la sua vita per permettere a due suoi amici di giungere sani e salvi al Campo e per questo suo padre la premiò rendendo immortale il suo spirito nell’albero”
“Che storia triste” mormorai guardando il pino, provando un’infinita pietà per quella povera ragazza coraggiosa e sfortunata “Deve essere orribile vivere la propria vita come un vegetale”
“Oh, ma non devi preoccuparti. Circa cinque anni fa qualcuno ha avvelenato l’albero, costringendoci a trovare una cura molto particolare” disse indicando un qualcosa di scintillante che pendeva da uno dei rami più bassi “Il Vello d’Oro. QUEL Vello d’Oro - lo disse con una tale enfasi da farmi sentire quasi in colpa di non sapere cosa fosse QUEL vello d’oro – Lo abbiamo usato e ha guarito talmente bene l’albero da fargli espellere Thalia. Ora lei è il luogotenente immortale delle cacciatrici di Artemide”
“Ed è straordinariamente bella” si intromise di colpo Brian, assumendo un’aria sognante.
“Ignorate il satiro”
Ci avviammo lungo la collina quando una gigantesca sagoma nera atterrò davanti a me e Gary, bloccandoci il passaggio. La sagoma apparteneva ad una creatura ricoperta di scaglie dalle varie sfumature di verde, con grandi occhi giallo dorati. Anzi, inquietanti occhi giallo dorati e zanne molto affilate che ci fissava immobile.
“Un drago! Che forza!” urlò il piccoletto esagitato
“Lui è Peleo. Lo abbiamo assunto per proteggere l’Albero ed impedire alle persone di rubare il Vello d’Oro. In pratica protegge l’oggetto che protegge le protezioni del Campo” mentre parlava il drago sbuffo una nuvola di fumo allo zolfo sulle nostre facce “E sembra che gli piacciate! Non dovrete preoccuparvi che vi possa ingoiare quando ha la luna storta”
“Perché? Succede?” domandai allarmata, ma né Mirna né Brian mi risposero
 
Salutando la bestiola scendemmo lungo il pendio della collina in direzione della struttura più grande del Campo, la casa colonica.
“Questa è la Casa Grande, una sorta di base centrale in cui ci riuniamo in caso di necessità, accatastiamo cianfrusaglie varie e dove vivono il direttore del Campo e i suoi collaboratori”.
Ci avvicinammo alla veranda dell’edificio, dove due uomini se ne stavano seduti ad un tavolo, giocando a carte e bevendo Diet Cola; uno era seduto sulla sedia a rotelle, aveva pochi capelli e una gran barba bruna, mentre l’altro sembrava un putto un po’ cresciuto e molto ubriaco, con ricci neri, naso rosso e occhi lucidi.
“Guarda, guarda. Andiamo a prenderne uno e tornano con due. Che fortuna” il putto non sembrava molto felice di vederci “Allora Brian, chi mi hai portato?”
Il satiro, che fino ad ora aveva camminato impettito davanti a noi, sembrò sgonfiarsi e perdere la capacità di formulare una frase di senso compiuto, limitandosi a tenere lo sguardo basso e tremare; Mirna invece, si limitò ad ignorare l’astio emanato da quel tizio e rispose senza la minima inflessione.
“Buongiorno signor D. Loro sono Gary Stonewall e Katrina Volger”
“Katrina?” il “Signor D” scoppiò in una risata fragorosa “Scommetto che sei figlia di Eolo”
Arrossii furiosa, punta nell’orgoglio dalla battutaccia di quell’uomo. Non era nulla di nuovo, una sorta di Katrina l’Uragano in salsa mitologica, ma mi dava veramente fastidio.
“Signor D” lo ammonì il tizio sulla sedia a rotelle; poi si rivolse a noi “Io sono Chirone, responsabile delle attività del Campo, mentre lui è il direttore, il Signor D, il divino Dioniso”
Io spalancai gli occhi… quel tizio ubriaco marcio era un dio; articolai un “lei è un…” prima che Mirna mi rifilasse una gomitata nel fianco.
“In realtà, signore, Katrina è figlia del divino Efesto”
“Efesto, cabina 9. È raro, sapere chi sia il proprio genitore divino” Chirone mi sorrise calorosamente “E tu giovanotto sai chi il tuo genitore divino?”
“No, ma sono certo che mi riconoscerà”
“Ne sono certo anch’io, ragazzo. Mirna che ne dici di mostrare il Campo ai nostri nuovi arrivati? Purtroppo Brian deve ripartire per il Maine e prelevare due semidei segnalatici dal divino Ares”
Mentre ci allontanavamo potei sentire Brian gemere chiedendo con tono disperato “Figli suoi?”
Mirna ci mostrò gli orti di fragole, i campi di pallavolo e basket, il lago con le canoe. Sembrava un normalissimo campo estivo finché non arrivammo nei pressi del campo di allenamento del tiro con l’arco: un nutrito gruppo di ragazzi biondi scagliava frecce contro i bersagli a forma di mostro. Indossavano tutti la stessa divisa fatta di magliette arancioni e pantaloncini e questo insieme al fatto che avessero tutti la stessa espressione concentrata, mi faceva pensare ad un esercito di cloni.
Un ragazzo ci vide e si staccò dal gruppo per venirci incontro: era l’unico diverso, con occhi verde mare e corti capelli neri.
“Mirna! Sei tornata. Loro sono quelli nuovi?” sembrava affabile e ci sorrise allegramente, facendo brillare i suoi occhi “Io sono Percy Jackson, figlio di Poseidone”
“Io sono Katrina Volger, figlia di Efesto e…”
“Io sono Gary, Gary Stonewall!” il ragazzino non stava fermo un secondo, sembrava che qualcuno gli avesse iniettato del glucosio puro dritto in vena “Tu sei davvero figlio di un dio? Cosa controlla tuo padre? Hai dei poteri come Mirna? O sei in parte animale?”
“No ragazzino. Lui è in parte alga” lo interruppe uno dei cloni biondi, una ragazza “Annabeth Chase, piacere. Mia madre è la dea della saggezza Atena”
Si allungò verso di me, porgendomi una mano e una ciocca di capelli grigi le cadde davanti al viso; sembrava una persona simpatica e i suoi occhi mi ricordavano casa, anche perché avevano lo stesso colore della pietra che mia madre ogni tanto usava per le sue mostre (una di queste si intitolava Chi osa sfidare gli occhi di Medusa il che, alla luce dei nuovi eventi, suonava parecchio ironico); Gary non sembrava pensarla alla mia stessa maniera perché, quando Annabeth si voltò a stringere la sua mano lui allontanò di scatto il braccio, borbottando parole incomprensibili, per poi allungarlo di nuovo e stringerle la mano senza entusiasmo, cosa alquanto curiosa visto e considerato che fino ad ora si era comportato come se avesse inghiottito quaranta litri di caffè.
“Che ne dite di provare a tirare?” chiese la figlia di Atena, ignorando il comportamento del ragazzino “Tirare con l’arco è facile. Di solito solo gli idioti non sanno farlo”
“Ehi!” esclamò Percy indignato “Cosa vorresti insinuare?”
“Nient’altro che la verità, testa d’alghe” rispose avviandosi verso i bersagli
“Perseus non è molto bravo con arco e frecce” mi spiegò sotto voce Mirna.
“Perseus?”
“Sì, Perseus. Lui” accennò al figlio di Poseidone con la testa “È il suo nome completo. Odio i soprannomi”
Ci diedero un arco a testa, mettendoci davanti a due bersagli, di quelli normali, circolari, non quelli a forma di mostro; poi ci spiegarono come mettere la freccia sulla corda, come posizionarsi davanti ad un bersaglio e come mirare. Alla fine ci permisero di tirare, dandoci cinque frecce ciascuno, ma solo dopo un imbarazzante balletto di “Vai tu” “No, prego, vai tu” “Ma figurati fai tu” e così via, decisi di partire per prima. Solo due delle mie frecce si conficcarono nel bersaglio, centrando il cerchio esterno, mentre le altre tre non raggiunsero nemmeno l’obbiettivo.
“Non preoccuparti. Per essere la prima volta non è andata male” mi consolò Annabeth “Testa d’alghe sono anni che ci prova e fallisce sempre”
Feci un sorrisino imbarazzato e mi voltai a fissare Gary che si preparava a tirare. Aveva uno sguardo determinato che lo faceva apparire diverso, più grande rispetto al bambino esagitato che era.
TWENG!*
Una freccia partì e colpì il centro esatto del bersaglio.
TWENG!
Altra freccia, altro centro.
TWENG! TWENG! TWENG!
Di fronte allo sguardo sbigottito dei presenti, Gary Stonewall, un soldo di cacio di 11 anni, infilò cinque centri perfetti, uno di seguito all’altro, maneggiando l’arco con estrema naturalezza, come se si trattasse di un estensione del suo braccio. Quasi senza volerlo ripensai al tiro perfetto di questa mattina, con cui aveva colpito Lamia dritto in fronte, distraendola. Ebbi come la sensazione che qualcuno avesse brutalmente calpestato il mio orgoglio.
Quando Gary si voltò verso di noi sulla sua testa fluttuava un’immagine dorata talmente luminosa che se ne distinguevano a malapena i contorni. Sembrava una sorta di arpa.
“Ormai era ovvio” commentò Annabeth accanto a me “Ave Gary Stonewall, figlio del divino Apollo,  dio del Sole, della poesia e della profezia”
 
Dopo la comparsa dell’arpa luminosa, Gary fu sequestrato da uno dei ragazzi biondi, che avevo scoperto essere tutti fratelli di Annabeth, perché lo conduce dagli altri figli di Apollo nell’arena.
“Cos’era quella cosa?” chiesi
“Cosa?”
“L’ologramma luminoso”
“Ah…È stato riconosciuto. Permette a tutti di sapere chi sia il suo genitore divino. Dovrebbe accadere anche a te da un momento all’altro**” mi spiegò Mirna “Anche se tu non ne hai propriamente bisogno, sai già chi è tuo padre. Nel tuo caso si tratta più che altro di un modo per riconoscerti come figlia "legittima", se capisci cosa intendo”.
La frase avrebbe dovuto rassicurarmi, ma ebbe solo il potere di farmi preoccupare ancora di più: se mio padre non avesse mai riconosciuta, mi avrebbero cacciata dal Campo? Mi avrebbero costretta a vivere nel bosco? Non volevo pensarci.
"Ti andrebbe di andare a vedere le capanne? "
"Va bene"
Sorridendo Mirna mi prese la mano e mi trascinò di corsa verso l'agglomerato di edifici più grande. Era un largo spiazzo circolare con un braciere ardente, al cui fianco sedeva una ragazzina in abiti marroni, un'ospite del Campo, probabilmente; intorno alla piazzola c'erano le capanne disposte a formare una U con due braccia laterali - un omega, l'ultima lettera del'alfabeto greco, come specificò la mia guida.
Quando Mirna aveva parlato di "capanne" mi ero immaginata una serie di bungalow in legno, tutti uguali, come quelli di tutti i campi estivi. Questi edifici erano invece tutti diversi; c'era una casa dall'aspetto cadente con le pareti scrostate e una decorata da cristalli lucidissimi che riflettevano la luce formando piccoli arcobaleni; una aveva il tetto ricoperto da un manto erboso e una con del filo spinato; una aveva le pareti incise con strani simboli dall'aria inquietante e una decorata con corone di foglie dorate intrecciate; una era bassa e lunga e una aveva delle alte ciminiere vecchio stile. Non c'era un edificio uguale ad un altro, ma, stranamente, insieme davano una sensazione di armonia.
"Ehi, Mirna!" disse una ragazzina minuscola con capelli biondi e occhi verdi come la fiele, dello stesso verde quasi innaturale di quelli di Mirna "Fai da Cicerone?"
"Beh, l'ho portata io al Campo, credo sia giusto farle io da guida. Katrina lei è Lou Ellen Gray, una delle mie sorelle. Lou lei è Katrina Volger, figlia di Efesto" ci presentò.
Lou Ellen mi sorrise allegra e mi tese la mano. Feci un balzo indietro cercando di allontanarmi; le sue dita erano lunghi serpenti rossi e neri.
“Lou!” la rimproverò severa Mirna.
Proprio in quel momento un suono basso e prolungato si propagò nell'aria.
"Questa è la conchiglia del pranzo. Indica che è ora di mangiare” disse allegra la ragazzina “Ci vediamo a cena Katrina Volger figlia di Efesto” e con una piroetta corse lontano da noi.
“Bimba demoniaca” borbottai.
“No. È solo un po’ dispettosa” mi disse allegramente “Su, andiamo!”
Ci dirigemmo verso un collina sulla cui sommità era posto un ampio padiglione rettangolare inframmezzato da alte colonne greche, ma privo di tetto; sul padiglione c'erano una serie di grandi tavoli coperti da tovaglie bianche e un braciere al centro esatto della struttura. Ai tavoli un gran numero di ragazzi si era già seduto (individuai Percy Jackson ad un tavolo, da solo e i figli di Atena ad un altro tavolo).
Guardai davanti a me e quasi inciampai nel bordo del padiglione per la sorpresa: Chirone, era fermo accanto al braciere con Gary, ma la sedia a rotelle era scomparsa; al suo posto ora c’era il corpo di un cavallo. Il centauro mi fece cenno di raggiungerlo, sorridendo rassicurante quando vide la mia esitazione; lanciai un'occhiata alla mia accompagnatrice, la quale mi fece un cenno gentile invitandomi ad andare, prima di dirigersi verso uno dei tavoli più esterni.
Quando ebbi raggiunto il braciere il centauro attirò l'attenzione dei ragazzi presenti battendo gli zoccoli a terra.
"Diamo il benvenuto a due nuovi campeggiatori: Gary Stonewall, figlio di Apollo e Katrina Volger" mentre parlava sentii il fuoco farsi più caldo alle mie spalle e una luce rossa mi illuminò i capelli; sollevai lo sguardo e osservai un martello rosso infuocato fluttuarmi sulla testa "Figlia del dio Efesto "
Due ragazzi si alzarono da due tavoli differenti e ci invitarono ad unirci a loro, in una sorta di rituale provato e riprovato; quello che si era alzato per me, che si presentò come Jake Mason, era un ragazzone alto e muscoloso, con la pelle abbronzata e i capelli scuri.
"Io sono il consigliere della Cabina 9; vedimi come una sorta di referente" disse sedendosi; poi fece un gesto verso gli altri occupanti del tavolo "Loro invece sono i nostri fratelli e sorelle"
Uno ad un si presentarono tutti: Felix, Elena, Marcus, Kara e altri, una quindicina di ragazzi tutti diversi per età, sesso e corporatura, ma tutti accomunati da occhi neri e carnagione abbronzata. I miei occhi e la mia carnagione.
“Allora il tuo nome è Katrina. Non sei americana, vero?”
“Mia madre è tedesca” mormorai leggermente intimidita da tutte quelle persone.
“Da dove vieni?”
“Washington ”
“Dallo stato di Washington? È un viaggio lunghissimo fino a qui”
“N…no, no. Vengo dalla città di Washington, non dallo stato”
“Come hai scoperto di essere una mezzosangue?”
“Che lavoro fa tua madre?”
“Ti piace il mango?”
Quel torrente di domande più o meno sensate, più o meno importanti (il mango? Seriamente?) mi sommerse, facendomi sentire lo stomaco annodato per la timidezza. Stomaco che scelse proprio quel momento per brontolare, affamato.
“Credo che sia ora di mangiare” ridacchio Jake “E di rimandare le domande”
Sentendomi ancora più imbarazzata, osservai il cibo sul tavolo, prima di riempire il piatto con un po’ di frutta e verdura e una generosa porzione di agnello arrosto, ma prima che potessi addentare anche solo una foglia di insalata, Jake mi fermò prendendomi per un braccio e portandomi nuovamente al braciere.
“Prima di mangiare è consuetudine offrire un po’ del tuo pasto agli dei. Per evitare che si arrabbino.”  E  a mo’ di dimostrazione, buttò una enorme coscia di pollo nel fuoco.
Lo imitai gettano un pezzo di arrosto pensando a quel padre che non avevo mai conosciuto e chiedendogli di aiutarmi in questa “avventura”. Poi tornai al tavolo dei figli di Efesto ed iniziai a mangiare in silenzio, rannicchiata in un angolo, nella speranza di passare il più possibile inosservata.
Finita la cena tutto il campo si riunì nell’arena per cantare davanti al fuoco e arrostire marshmallow. Era straordinario come unissero tratti tipici dei normali campi estivi (come le imbarazzanti canzoncine da campeggio) ed elementi di addestramenti militari.
Quando anche questa attività fu finita, i miei nuovi compagni mi mostrarono la capanna assegnata ad Efesto, la numero 9, la costruzione in ferro e bronzo con le alte ciminiere che avevo notato nel pomeriggio durante la passeggiata panoramica con Mirna: all’interno era molto più grande di quello che si potesse immaginare, con una specie di altarino accanto alla porta, un tavolo ingombro di arte, attrezzi e materiali vari e tanti letti disposti a raggiera interno ad esso; ogni letto era un semplice parallelepipedo in ferro con un pulsante sulla testiera, posto su una piccola predella leggermente rialzata, a sua volta appoggiata su una porzione del pavimento dalla forma circolare, simile ad un otturatore di una macchina fotografica.
“Ogni letto” mi spiegò Jake “E’ munito di un bottone sulla testiera. Se lo premi si ritira in una piccola stanza personale sottoterra. Se lo premi di nuovo quando è giù, riemerge. È facile, ricordati solo di essere sul letto quando premi altrimenti è un po’ complicato recuperarlo. Vero Felix?” chiese con tono ironico lanciando un occhiataccia a un ragazzino più piccolo.
“E’ stato solo una piccola svista!” protestò l’interessato facendo il muso.
“Sì” mi sussurrarono gli altri ridacchiando  “Una svista che si è ripetuta sei volte.”
Di colpo tutti gli eventi della giornata mi piovvero sulle spalle; ero talmente stanca da non riuscire a ridere, così mi buttai sul primo letto disponibile e chiusi gli occhi. Nel dormiveglia percepii qualcuno toccarmi i piedi appoggiandoci qualcosa vicino, per poi allungarsi su dime, cercando qualcosa oltre la mia testa. Prima che potesse accadere altro, crollai.
 
Quando ripresi coscienza ci misi un po’ per capire dove fossi: ero in una stanza rettangolare con pareti, pavimento e soffitto ricoperti da lastre di metallo saldate tra loro, lastre che si interrompevano in un punto esattamente sopra al letto, nei pressi di un largo foro circolare, chiuso. Sulla parete davanti al letto era incastonato un grosso orologio digitale, mentre su quella di destra c’era un semplice armadio di media grandezza.
Mi domandai se per caso non fossi stata rapita e mi stavo preparando ad urlare quando ricordai: Lamia, semidea, Efesto, Campo. Capii che dovevo trovarmi nella “stanza privata” di cui mi avevano parlato la sera prima.
Scesi dal letto e rabbrividii al contatto con il freddo pavimento metallico; ero scalza, ma non ricordavo di essermi tolta le scarpe o i calzini, né di averli appoggiati ai piedi del letto, accanto al mio borsone e ad una pila di magliette nuove, di un bel colore arancione sgargiante.
Sbadigliando lanciai un’occhiata veloce all’orologio, che segnava le 6.48 del mattino. Non ero più stanca e mi sembrava inutile cercare di riaddormentarmi, così presi un paio di pantaloncini grigi e una delle maglie arancioni, le quali recavano il simbolo del Campo Mezzosangue, un cavallo alato in movimento sormontato dal nome del campo, e mi vestii; poi misi i calzini e le mie lerce scarpe da ginnastica.
Sistemai il resto dei miei abiti nell’armadio, poi mi sedetti sul letto e premetti il bottone. La predella su cui il letto poggiava iniziò a sollevarsi e, contemporaneamente, l’otturatore sul soffitto si aprì con un movimento a spirale e in pochi attimi riemersi nella Cabina 9.
La stanza appariva diversa, in qualche modo più grande senza molti dei letti; nessuno dei miei compagni era in giro, a parte Felix, che russava sonoramente vicino al tavolo da lavoro, sdraiato su un futon giallo. Camminando in punta di piedi per non svegliare la “vigile” sentinella, uscii nel cortile del braciere.
 La ragazzina con l’abito marrone era già seduta ai piedi del fuoco e parlava con un ragazzo dai capelli scuri che indossava una giacca da aviatore consunta. La bambina spostò lo sguardo nella mia direzione e mi fece un cenno di saluto con il capo, attirando l’attenzione del ragazzo bruno su di me; i suoi occhi erano nerissimi, cerchiati da profonde occhiaie che spiccavano moltissimo sulla sua carnagione pallida; era come se potessi percepire anche da lontano la sua forza, la sua determinazione, ma emanava anche una strana freddezza, come un’aura di morte.
Qualcuno si parò davanti a me, staccando il mio sguardo da quello del ragazzo sconosciuto.
“Quello è Nico Di Angelo, figlio di Ade. Bravo ragazzo anche se inquietante” lo presentò Jake per poi sorridermi allegro “Comunque buongiorno. Sei una mattiniera. Fantastico! Non avremo problemi a svegliarti”
Stavo per rivelargli che in realtà era un miracolo che fossi sveglia a quest’ora, ma uno ad uno anche gli altri ragazzi della Cabina 9 iniziarono a riemergere dalle loro stanze sotterranee.
“Chi fa il primo turno al bagno?”
“Io!” urlò Felix balzando in piedi di colpo.
“Piantala Felix. La tua punizione prevede che tu dorma fuori da una stanza e usi il bagno per ultimo.”
“Lasciamo che sia la nuova arrivata ad usare il bagno per prima. Non vogliamo che ci consideri come trogloditi, no?”
In poco tempo, tutti furono pronti ci recammo al padiglione per la colazione dove, come la sera precedente, consumai il mio pasto in silenzio continuando a sentirmi imbarazzata e fuori posto.
 
Quando anche la colazione finì, i miei compagni ed io ci dirigemmo all’Arena e mentre gli altri si allenavano a pugnalare e massacrare manichini, Jake Mason mi portò verso quello che, da fuori, sembrava solo uno sgabuzzino, ma che dentro era un’armeria straripante.
“Vediamo un po’…” mormorò osservando le armi con sguardo critico “Proviamole un po’ tutte, ti va?” e senza aspettare la mia risposta selezionò una serie di varie armi.
Mi mise davanti ad uno dei manichini, porgendomi per primo l’arco.
“Non so se sia una buona idea. Ci ho già provato e non è che sia andata alla grande” lo avvertii, ma comunque decisi di riprovare, centrando il palo di legno che sosteneva il manichino
“Non male. Se fosse stato un nemico lo avresti colpito al ginocchio” mi porse un pugnale “Prova con questo”
Mi mostrò la posa da assumere per il combattimento e dove fossero i punti migliori in cui colpire, ma nonostante la sua chiara spiegazione l’unica cosa che riuscii a fare fu perdere il pugnale dopo il secondo colpo.
“Non demordere. E se provassimo con qualcosa di più classico?”
Soppesò un paio di spade, mi chiese di impugnarne alcune finché tra le possibili scelte non ne rimasero due: una aveva un’elsa troppo lunga che mal si adattava alla mia mano, mentre la seconda era più corta, ma anche decisamente più pesante e quando provai ad usarla per poco non decapitai il povero Jake.
“Sei un tipo difficile,  vero? Ma non preoccuparti, è sempre difficile trovare un’arma adatta. Pensa che ci abbiamo messo un giorno prima di capire che la migliore per Alex era un’ascia” disse lanciando un’occhiata ad uno dei ragazzi più piccoli che accettava come un pazzo i bersagli “In genere non gli permettiamo di usarla durante gli scontri qui al Campo, ma contro i mostri è ottima”
“È l’unico ad usare l’ascia?”
“Mi pare di sì, ma non ne sono sicuro. La maggior parte di noi o usa la spada, o l’arco, o la lancia. I pugnali sono già più rari perché bisogna essere svelti E svegli per usarli. E pazienti. Comunque c’è una ragazza di Demetra che combatte con una falce, ma non è ben vista qui al Campo.”
il suo volto si fece scuro per un attimo, ma prima che potessi chiedergli qualcosa, si rilassò di nuovo in un sorriso gentile.
“Continuiamo a cercare la tua arma. Sono certo che tu sia un tipo da lancia.”
Ed, effettivamente, ero il tipo da lancia. Riuscivo ad usarla con movimenti relativamente fluidi, a colpire i bersagli e, contemporaneamente, a non colpire né me stessa, né i miei vicini; in pratica un successo.
Jake era uno spadaccino e conosceva solo le basi del combattimento con la lancia, così chiese ad uno dei nostri compagni più grandi, Zachary Jones, di insegnarmi.
“Non è molto calibrata” fu la prima cosa che mi disse “È troppo lunga. E la tieni in modo scorretto. Devi impugnarla con più forza”
Trascorsi le restanti ore di allenamento sotto l’occhio vigile di Zachary che con tono burbero prese a spiegarmi come utilizzare l’arma al meglio, dichiarando che, anche se molto probabilmente avrei potuto forgiare l’arma adatta a me, era meglio che imparassi ad usare anche lance non calibrate perché “in battaglia quando capita di essere disarmati e trovi un’arma è improbabile che sia calibrata alla tua altezza” (io pensavo che fosse improbabile che un giorno potessi trovarmi in una battaglia, ma fa niente). Quando il mio insegnate finì la sua lezione mi si avvicinò una delle ragazze della Capanna 9, Christina, che mi porse una borraccia piena e un pugnale.
“Ho visto il tuo allenamento e penso tu debba averlo. La lancia è una buona arma, ma penso che sia sempre meglio avere un’arma di scorta. E i pugnali sono i meno scomodi da portare in giro.”
Accettai l’arma: aveva una lama sottile, lunga una ventina di centimetri e un’elsa a croce priva di decorazioni; anche il fodero era disadorno, marrone e incorporato ad una cintura. Mi assicurai la cinta ai fianchi e le sorrisi timidamente.
“Ora che ci fanno fare?” chiesi “Lotta libera?”
“No. Ora andiamo in officina.”
Le ore successive furono un’immersione totale nel mondo della meccanica, degli ingranaggi e delle invenzioni, in pratica, nel Paradiso: alcuni ragazzi stavano lavorando a dei cavalli meccanici studiando alcuni disegni dell’anatomia equina; un altro lavorava ad uno scudo a cui, mediante un particolare meccanismo, spuntavano degli spuntoni; altri ancora erano impegnati nella pulizia delle placche metalliche di un grosso drago automatico. E tanti altri progetti più o meno complessi, più o meno utili e più o meno straordinari.
Mi buttai a capofitto nel lavoro, dando una mano un po’ a tutti, esaltata da tutte le opere in corso e mi fermai solo quando udii suonare la conchiglia del pranzo.
Mentre mangiavo si avvicinò Mirna che con un sorriso mi chiese come stesse andando la giornata.
“Bene, credo. Ho visitato il Paradiso”
“Come, scusa?”
“L’officina. È stupenda! È piena di progetti, studi, lavori. Sono straordinari!” poi abbassata la voce continuai “Sono tutti così… bravi. Non credo di essere all’altezza”
“Non dire sciocchezze” ribatté nel mio stesso tono abbracciandomi le spalle e carezzandomi i capelli, come una madre “Datti il tempo di abituarti”
Quando anche il pranzo fu finito, la Capanna 9 fu presa in consegna da un satiro talmente muscoloso da sembrare un sergente istruttore che li condusse a passo di marcia verso il bosco. Man mano che ci addentravamo nella foresta, il satiro ordinava ad alcuni di noi di allontanarsi o di fermarsi, dando a ciascuno di essi una piccola sacca di tela.
Dato che ero nuova (e facevo schifo ad usare le armi) fui tra le ultime, finendo in coppia con Christina, la ragazza che mi aveva avvicinata quella mattina nell’Arena.
“Un buon numero di mostri vengono sguinzagliati nella foresta” mi spiegò, assicurandosi la sacca alla cintura “Ognuno di essi ha un nastro legato da qualche parte. Dobbiamo recuperarne 2 e tornare al campo base, dove c’è il fiume, non tanto distante da qui”
“Non è pericoloso?”
“Abbiamo questi” ribatté aprendo il sacchetto e tirando fuori una boccetta di profumo e una sottile cerbottana in ferro con uno spago alla fine “Sono un incantesimo per l’invisibilità e un mortaio in miniatura che lancia un segnale luminoso. Se hai problemi tira lo spago. Sparerà il segnale.”
“A cosa serve questa… cosa?”
“L’allenamento sul campo è molto più utile dell’esercizio virtuale. I manichini non reagiscono. In più mette in campo anche la sopravvivenza, in un certo senso, la strategia, il gioco di squadra. Tutte cose utili quando si deve combattere” si scurì in volto “Lo facciamo in memoria di Quintus”
Avevo molte domande in testa (prima fra tutte: perché tutti erano convinti che avrei dovuto combattere?), ma la sua espressione triste mi dissuase. Era una cosa che avevo notato da un po’, anche se ero al Campo Mezzosangue da pochissimo tempo: capitava ogni tanto che qualcuno si rabbuiasse dicendo frasi enigmatiche. Era successo con Jake, con Christina e con altri con cui avevo parlato.
Scossi la testa cercando di allontanare quel pensiero, imponendomi di concentrarmi sull’esercitazione per non finire sgranocchiata da un mostro o impalata sulla mia stessa lancia. Christina aveva iniziato a muoversi verso quello che immaginavo fosse il Nord.
Camminammo per una mezz’oretta in completo silenzio, muovendoci furtivamente per non attirare l’attenzione più del necessario, prima di imbatterci in due grossi SUV neri, o meglio due cani neri grossi come dei SUV.
“Segugi infernali. Come cavolo hanno fatto?! Oh!” Christina si illuminò di colpo “Di Angelo. Quando lo vedo, lo ammazzo”
Dato che avevo già fatto la conoscenza di Nico Di Angelo e della sua inquietante aura di morte dubitai dicesse sul serio, ma decisi di concentrarmi sul pericolo incombente, rappresentato dai cagnoloni; non sapevo proprio come Christina potesse rimanere impassibile a parlare di tutt’altro mentre due macchine assassine formato extra-large si trovavano a pochi metri da noi. Probabilmente, mi dissi, era la forza dell’abitudine.
“Allora? Come procediamo?”
“Non restiamo ferme e strisciamoci sulle piante. I segugi infernali hanno un fiuto eccezionale, ma se lasciamo abbastanza tracce e contemporaneamente confondiamo il nostro odore con quello del bosco. O almeno credo.”
Ci spostammo verso destra, cercando una posizione migliore da cui attaccare fino a che non ci trovammo a fissare il fianco dei due bestioni, nascoste da due cespugli profumatissimi. Christina mi fece silenziosamente cenno di rimanere nascosta e poi si lanciò verso le due bestie. A sua difesa devo dire che la sua strategia, per quanto improvvisata era l’unica possibile; Chris usava una spada dalla lama corta e spessa, con la quale sfruttava la sua forza da fabbro per menare fendenti potentissimi, ma non era molto veloce, mentre io ero poco più di una principiante. Velocità e sorpresa erano le nostre armi migliori e lei le aveva usate degnamente.
Usando tutte le sue forze, la giovane si slanciò verso il più vicino dei due segugi puntandogli la spada al ventre e aprendogli un taglio profondo sullo stomaco. Il mostro emise un guaito di dolore e si disintegrò in un nugolo di polvere dorata. Poi si precipitò verso l’altro avversario mirandogli alla gola e allo stesso tempo io lancia la mia arma verso il muso.
Questo segugio però doveva essere più sveglio del suo compagno perché scansò entrambi i nostri colpi, rimediando solo una leggera ferita sul zampa quando colpì Christina, scaraventandola poco lontano e facendole sbattere la testa contro un tronco poco lontano da me.
Senza pensarci due volte afferrai il mortaio e sparai il razzo di segnalazione dritto in faccia al mostro e scappai lontano, approfittando della momentanea distrazione.  Ero sempre stata molto brava nella corsa campestre, così non ebbi problemi a muovermi sul terreno accidentato, correndo fino a quando non riuscii finalmente ad uscire dalla foresta. Al contrario non ero abituata a dover pensare mentre ero in pericolo di vita, quindi mentre scappavo non avevo pensato di riprendere la mia lancia e mi ritrovavo a combattere contro un mostro formato camion munita solo di pugnale.
Il segugio non si vedeva da nessuna parte così presi un profondo respiro, strinsi l’impugnatura della mia arma ed iniziai a ragionare, guardandomi attorno alla ricerca di un modo per levarmi dai piedi la bestiaccia. Mi trovavo sul fianco di una delle colline che circondavano il Campo, c’erano alcuni alberi e alcuni cespugli, ma nessuno di questi era abbastanza folto per poterlo usare come nascondiglio; c’erano anche alcuni sassi, ma nulla che potesse costituire una vera arma.
Sentii l’ululato della bestia avvicinarsi e mi venne un’idea. Mi arrampicai sulla pianta più vicina stringendo nel pugno la mia unica arma e aspettando appollaiata su un ramo che il mostro sbucasse fuori dal bosco. Era un piano improvvisato, pazzo e decisamente rischioso, ma era l’unico che mi era venuto in mente.
Il segugio infernale uscì dal folto degli alberi, si guardò intorno e, dopo avermi individuata, si lanciò verso l’albero a testa bassa. Io rimasi sul ramo fino all’ultimo secondo, poi saltai sulla testa del mostro e gli conficcai il pugnale in uno dei due occhi. La creatura scrollò il capo lanciandomi lungo il pendio e si trasformò in polvere.
Io feci un piccolo volo rotolai lungo il pendio e atterrai ai piedi della collina, sbattendo la testa; con la vista appannata scorsi un sentiero costeggiato da torce.
Poi svenni.
 
A svegliarmi fu il sapore di cioccolata calda al caramello, la specialità di mia madre per i giorni freddi o tristi. Mentre quel dolce sapore di casa mi scivolava giù per la gola, sentii l’energia ritornare a scorrermi nelle vene.
Nel torpore del post-svenimento sentii una voce femminile chiamarmi insistentemente.
“Ehi! Ehi! Devi svegliarti”
Aprii gli occhi e fui inghiottita in un mondo turchese; davanti a me stava il paio di occhi più azzurri e più luminosi che avessi mai visto. E mi guardavano con preoccupazione.
Non ho mai creduto nell’esistenza dell’amore a prima vista, ma quegli splendidi occhi mi fecero cambiare idea sui colpi di fulmine.
“Come stai? Riesci a parlare?” mi chiese la voce femminile , distraendomi dalla mia contemplazione di quelle meraviglie blu e costringendomi ad allargare il mio campo visivo.
Chino su di me stava un giovane muscoloso con la pelle abbronzata e i capelli mossi biondo cenere; emisi un gridolino di sorpresa quando mi accorsi che gli occhi celesti che mi avevano incantata erano replicati su tutto il corpo dell’uomo: ne aveva sulle guance, sul collo, sulle braccia, sul dorso delle mani… All’inizio pensai fossero tatuaggi, ma quando uno degli occhi sul braccio chiuse la palpebra capii che erano tutti veri. Dopo il primo attimo di stupore, però, la cosa non mi fece più effetto; era strano, certo, ma si trattava di occhi bellissimi e su di lui avevano un’aria esotica (anche se più esotica del normale significato attribuito al termine).
Cercando di non sembrare maleducata, spostai lo sguardo sugli altri presenti: c’erano Chirone, Christina e un’altra giovane con una criniera rossa che non conoscevo.
“Grazie agli dei!” esclamò Christina abbracciandomi “È colpa mia, non ho veramente pensato a come combattere quei segugi.”
Appurato che non ero morta, la ragazza dai capelli rossi si voltò verso Chirone e iniziò una filippica molto arrabbiata:
“Ho cercato di spiegare che questo esercizio è inutilmente pericoloso. Capisco sia in onore di Quintus, ma si potrebbero trovare modi meno rischiosi. Come un labirinto con ostacoli o che so io…”
Mentre Ginger continuava la sua invettiva sulla sicurezza dei campeggiatori (sul serio? Insegnavano a maneggiare vere armi affilate e parlavano di SICUREZZA?), Christina e la Meraviglia-Dagli-Occhi-Blu mi aiutarono ad alzarmi, sostenendomi per le braccia. Barcollai un po’ e dovetti appoggiarmi a Chris, ma alla fine riuscii a rimanere in piedi.
“Grazie” sussurrai sorridendo.
Il giovane mi fissò con tutti gli occhi visibili e chinò il capo, come a dire –Prego– , ma non emise un suono; mi sentii leggermente dispiaciuta ed iniziai a preoccuparmi pensando a che cosa mai avessi fatto per irritalo, pur sapendo che non fosse veramente colpa mia visto che ci eravamo appena incontrati.
“Non preoccuparti se non risponde. Non può parlare” mi consolò Christina sorridendomi “A proposito, lui è Argo, Capo della sicurezza del Campo Mezzosangue. Argo, lei è Katerina…”
“Katrina”
“…Katrina Volger, figlia di Efesto”
Stringendomi gentilmente il braccio, mi condusse davanti a Ginger, interrompendone il monologo.
“Lei invece è Rachel Elizabeth Dare, l’Oracolo di Delfi”
Sbattei le palpebre stupita: Ginger, no Rachel, non doveva avere più di 18 o 19 anni e con i suoi capelli rossi e le lentiggini non assomigliava per niente alla mia idea di oracolo; non che passassi la mia vita ad immaginarlo, ma l’Oracolo di Delfi era vecchio di millenni e mi aspettavo fosse una mummia incartapecorita.
Cercando di non apparire come un cavernicolo senza educazione, mi schiarii la voce e tesi la mano alla ragazza.
“Dare? Come in Dare Corporation?”
“Sì” rispose con un sospiro rassegnato.
“Hanno sponsorizzato una delle mostre di mia madre. Sono Katrina Volger” esitai un attimo, ma poi aggiunsi “Figlia di Efesto”
“Una mostra? E hai detto di chiamarti Volger?” le occhi le si allargarono dallo stupore “Non sarai mica la figlia di Grete Volger?”
“In persona” risposi sorridendo e gonfiando il petto orgogliosa. Adoravo che le persone parlassero di mia madre, che la conoscessero, in pratica adoravo che mia madre fosse famosa.
“Adoro le opere di tua madre! La sua tecnica di lavorazione del ferro è straordinaria. Cos’è che usa? La fiamma ossidrica, giusto? E la sua mostra con le statue di pietra? Era magnifica. Il giocatore di Poker era un vero capolavoro. Era così precisa, in ogni minuscolo particolare, tanto da sembrare viva”
“In realtà quella statua non è opera di mia madre. L’ha comprata da un’artista di Soho bisognosa di soldi che le ha chiesto di presentarla come sua. Era Shelley, Sally, o qualcosa del genere.”
“Mi dispiace interrompere” si intromise Chirone “Ma penso sia meglio che Katrina vada a farsi controllare all’infermeria. Solo per accertarci che non ci siano grossi danni” e detto ciò, mi carico sul dorso e partì al galoppo verso il Campo.
In pochi attimi eravamo tornati nei pressi della Casa Grande dove si erano radunati tutti i miei compagni della Cabina 9, tutti ammassati sui gradini d’ingresso e tutti avevano un’aria decisamente preoccupata; ci misi un po’ a comprenderlo, ma quando, vedendomi arrivare illesa, si rilassarono e sorrisero, capii che la loro ansia era per me.
Jake si fece avanti, mi prese per la vita e mi sollevò, come se pesassi 48 grammi e non 48 chili, mi fece fare un mezzo giro e mi depose a terra esclamando sollevato:
“Stai bene!” poi mi guardò attentamente “Perché stai bene, vero?”
Si fece avanti una ragazza alta e mingherlina, con i capelli dorati.
“Fatti da parte Jake, devo visitarla. E tu” disse indicandomi con aria a età tra il minaccioso e lo scherzoso “Io sono Miki, figlia di Apollo. E sono anche il tuo medico. Decido io quando e se stai bene.”
Mi trascinò nell’infermeria che c’era al piano terra, ma non vi rimasi per molto. Una mezz’oretta e un sacco di esami dopo, Miki si decise a lasciarmi andare, con la promessa che, se avessi per caso iniziato a sentire capogiri o mal di testa, sarei tornata di corsa da lei.
Nonostante la conchiglia del pasto fosse già stata suonata, tutti i componenti della Cabina 9 i avevano aspettati fuori dal padiglione.
“Qual è la diagnosi?”
“Sto bene. Non sembra ci sia nulla fuori posto.”
 
Mentre ci sedevamo non molto ordinatamente al nostro tavolo, mi persi nei miei pensieri: ripensai a stamattina, quando mi ero svegliata sotto le coperte e scalza, mentre ricordavo di essermi semplicemente buttata sul letto; ripensai all’allenamento, a Jake e Zachary che mi avevano sopportata con pazienza; ripensai allo sguardo preoccupato di Christina quando mi avevano trovata svenuta; infine ripensai a tutti i figli di Efesto riuniti per sapere come stessi.
E ripensando a tutti questi eventi, sentii un calore espandersi dallo stomaco in tutto il corpo; l’imbarazzo che avevo provato ai pasti precedenti si era completamente sciolto di fronte all’allegria, alla gentilezza e al calore dei miei nuovi fratelli; ridevo e scherzavo liberamente, senza preoccuparmi dell’impressione che davo, sicura che mi avrebbero accolta comunque.
Avevo trovato una famiglia.
E, per la prima volta da quando ero arrivata, mi sentii finalmente a casa.
 
*perdonatemi ma non ho la più pallida idea di quale sia l’onomatopea per indicare lo scoccare di una freccia.
**non sono sicura che chi conosce già il proprio genitore divino debba comunque essere riconosciuto.
 
SPAZIO ALL’AUTRICE:
sono immensamente dispiaciuta per il ritardo, ma tra università, pigrizia e dubbi non ho avuto il tempo di continuare a scrivere. Questa volta si tratta di un capitolo più lungo di quelli a cui sono abituata, ma volevo provare ad allungare quello che pubblico; non so come sia (a me sembra sempre brutto, ma io sono ipercritica), ma spero vi piaccia.
Un grazie speciale a Farkas per i suoi gentilissimi commenti. Grazie.
  
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