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Autore: Alex Wolf    28/12/2014    2 recensioni
Storia prima denominata "La frusta dell'esorcista."
Dal capitolo 7°.
«Siete spregevole!» La mano di Thierry sfiorò la mia guancia, prima che la mia stessa Innocence gli imprigionasse il polso in una morsa ferrea. Riuscii a vedere il mio riflesso nei suoi occhi sorpresi, spaventati: una macchina assassina che non prova pietà per nessuno, neppure per coloro che combattono nella sua stessa fazione.
«Sono un diavolo, scelto da Dio ma pur sempre un diavolo, e in quanto tale è nella mia natura essere spregevole» sibilai, strattonandolo da una parte. Il corpo dell’uomo volò attraverso la foschia, tagliando la nebbia e creandovi un corridoio che si andò a riempire qualche minuto dopo il suo passaggio; dopo di che, atterrò sotto l’albero del Generale. Richiamai a me l’innocence, tornando a vedere a colori abitudinari e sistemai entrambe le braccia sui fianchi. Gli puntai un dito contro, affilando lo sguardo quasi a volerlo tagliare. «Prova a sfiorarmi ancora e la tua vita finirà in quell’istante.»
Genere: Generale, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Allen Walker, Nuovo personaggio, Rabi/Lavi, Un po' tutti, Yu Kanda
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 8.


Pensieri.


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Innocence lost.
 

Con una folata di vento, l’esterno mi accolse intraprendente. Il mantello dalle decorazione argentee dell’Ordine Oscuro ondeggiò come la marea, così fecero i miei capelli corti. Anita si chiuse nel suo giubbino color sabbia. Metà faccia scomparve sotto la sciarpa nera.
Ad attenderci fuori dall’ospedale stava una carrozza; i cavalli che aspettavano pazientemente il nostro arrivo sbuffarono nel vederci, e il cocchiere non si fece pregare e saltò giù ad aprirci la porta. Rifiutai il suo aiuto per entrare, allontanando malevolmente la mano guantata che mi porgeva. Ero una ragazza, e su questo non ci pioveva, ma non per ciò dovevo essere aiutata in tutto. Salire su una carrozza potevo benissimo farlo da sola. Come tutto il resto.
La rossa diede indicazioni all’uomo, in modo che non partisse finché non fossero arrivati gli altri, aspettò che la porta si chiudesse e poi mi riservò uno sguardo glaciale. Inarcando le sopracciglia mi spaparanzai contro il comodo sedile di pelle.
«Signore, quanto sei rude» si lamentò. «Una bella ragazza come te potrebbe avere tutto da tutti, e invece guardati: acida come la mela di una strega.»
«Scommetto che tu sei la strega. L’aspetto è quello» risposi prontamente, aggiudicandomi il secondo sguardo truce.
Non potevo non pensare a lei se non in quel modo. Sin da quando l’avevo conosciuta quella donna si era divertita ad usarmi come portantina, alcune volte aveva persino tentato di farmi fare il piccione viaggiatore –inutile dire che le sue lettere, i rapporti e le varie scartoffie che mi appioppava le avevo bruciate tutte durante il percorso. Il più delle volte che tentavo di evitarla, poi, mi compariva magicamente davanti; e, come se questo non la rendesse simile a una qualche specie di stolker, Anita era una patita del Bon Ton e tutta quella roba signorile li. Indi per cui detestava me e il mio comportamento, a suo dire “mascolino e rozzo”. Certo, c’erano state delle volte in cui aveva dimostrato una certa apprensione nei miei confronti, ma quelle le si poteva contare sulle dita. Il più del tempo passato a conviverci nella Home era, al contrario, trascorso fra battutacce da parte mia e sibili, maledizioni e paternali da parte sua. Crescendo le cose non si erano fatte molto diverse.
Anche adesso, mentre estraeva dall’interno del suo giubbotto un fascicolo contenente le nuove informazioni, la sua schiena era perfettamente retta, le gambe allineate e i movimenti fluidi. Le labbra pitturate del medesimo colore dei capelli stavano piegate con leggerezza verso l’alto. Un’impeccabile mente calcolatrice travestita da donna.
Accavallai le gambe e mi disfeci dei guanti, mostrandole per la prima volta dalla mia dipartita dalla sede la bruciatura fatta in Germania. Lei si bloccò, inorridita e sgomenta, poi distolse lo sguardo poggiandolo nel mio.
«Inquietante» sussurrò, prima di porgermi i fogli.
«Tzk. Il tuo abbigliamento, qui, è l’unica cosa inquietante.» E così lanciai un’occhiata ai suoi pantaloni neri e le strane scarpe rosse.
No, di certo non correva buon sangue fra noi. E non sarebbe mai corso, e questa era una cosa palpabile.
«Dovevi nascere uomo, Evangeline» affermò lei, porgendomi il dépliant. Un’esigua pila di fogli plastificati, bianchi come la purezza macchiata da lettere nere.
La ignorai e aprii ansiosa di sapere. Davanti agli occhi si presentò la foto dell’unica persona che pensavo non avrei mai rivisto. Certo, mi tenevo informata sulla sua vita, i suoi affari, ma vederlo con i miei occhi era così strano. Non aveva nulla di quel ragazzino che avevo imparato a conoscere. Persino gli occhi erano cambiati; la luce che era solita avvolgerli sembrava essersi dissipata come la nebbia in un giorno di sole. Così diverso. Così cresciuto. Riconoscere in lui quei tratti fanciulleschi che mi riportarono all’infanzia fu difficile. E fece più male al cuore di qualsiasi informazione negativa riguardante la mia Innocence. Mi riscoprii a ingoiare un fiotto di saliva, mentre le mie dita tremanti andavano a comporre i contorni di quella sagoma.
 Così diverso da allora. Così cresciuto. Così lontano.
 
Si è infantili quando nel corso di un gioco qualcuno che non sei tu vince, e allora senti la rabbia che ti sale e inizia a gridare e piangere. Si è infantili quando, dopo aver ingurgitato la cena con foga per il dessert, il tuo dolce ti sembra più piccolo di quello del bambino che ti è vicino –ma non è così- e allora inizi a fare i capricci. Si è infantili quando… quando si ha quell’innocenza che luccica negli occhi, che non sparisce neppure durante un pianto. E io l’avevo, sapevo di averla, ma mi andava bene così. Mi piaceva l’idea di avere ancora in me l’innocenza. A quei tempi non mi preoccupavo molto di non essere me stessa. Nel bene e nel male. Che questo significasse gridare a pieni polmoni per disappunto, oppure ridere a crepa pelle per la felicità. Mi piaceva esternare i miei sentimenti, a tutti.
Ricordo che il giorno in cui mamma e papà vennero dalla nonna a trovarci, io lei e lui eravamo tutti davanti al fuoco. Ignari della loro visita imminente la vecchia donna ci stava leggendo una fiaba, fermandosi nei punti principali per fare aneddoti riguardanti papà da piccolo. Rammento che lo trovavo noioso, ero sempre ansiosa di sapere che succedeva, ma al contempo m’interessava conoscere qualcosa di più su mio padre. Così, quando mai l’avessi rivisto, avremmo potuto scherzarci su.
Era il giorno del mio tredicesimo compleanno quando mamma varcò la soglia di casa, inaspettatamente. Fuori pioveva a dirotto e la sua mantella nera era fradicia e gocciolante. Lo stemma dell’ordine oscuro che brillava come l’occhio del diavolo. I corti capelli neri le si erano appiccicati al viso, ma lei non se ne preoccupò. Con le labbra piegate all’insù, tese le braccia verso di me e io le andai incontro incurante della pioggia che la rivestiva. Quando mi strinse a se il calore del suo corpo, in netto contrasto con il freddo del mantello, bastò a darmi quella parvenza di famiglia normale. Bastò a farmi sapere che lei era li concretamente, non stavo sognando.
La nonna e lui, al contrario di me, si alzarono con calma, sorridenti. Già. Lui non era mai stato un tipo troppo spumeggiante, gli piaceva fare le cose con la calma dovuta.
Poi fu il turno di papà. Entrò borbottando qualcosa contro il mal tempo, si chiuse la porta alle spalle e tolse il cappuccio dai corti capelli neri. Li spazzolò, le gocce che si fiondavano su tutto e tutti. Sua madre che lo riprendeva, lui che rideva. Poi, i suoi occhi color ossidiana si fermarono su di lui, poco prima che gli accarezzasse i capelli scuri con enfasi, beccandosi una maledizione amorevole. Io non potevo crederci. Erano tutti li. Tutti a casa. Tutti felici.
Non potevamo sapere cosa sarebbe successo da li a pochi giorni.
Passammo una bella serata davanti al fuoco, mentre mamma e papà ci raccontavano dei loro viaggi in giro per il mondo –senza mai nominare gli akuma. Io e lui credevamo lavorassero per una ditta, l’unica a sapere la verità era la nonna.
«Eve, tesoro» disse a un tratto la mamma. Alzai gli occhi verso di lei e le sorrisi, mentre con gentilezza la donna mi accarezzava i lunghi capelli. Erano così morbide le sue carezze, e lei profumava di muschio e mare. «Ti abbiamo portato un regalo.»
Il mio cuore prese a battere all’impazzata. Mi piacevano i regali. Il gusto dell’attesa che ti portava ad immaginare cosa ci fosse nel pacco; l’adrenalina che la curiosità ti induceva.  Si, si mi piacevano.
Papà mi disse: «Chiudi gli occhi.» E io lo feci. Mi prese le mani, stringendole leggermente fra le sue grandi e calde, e un po’ ruvide, mentre mi scoprivo a ridere divertita da quel tocco che provocava solletico. Lo sentii ridere a sua volta. Poi qualcosa di freddo si poggiò sul mio palmo, formicolando con più intensità. Una profonda risata lasciò le mie labbra: non lo sopportavo proprio il solletico. Perciò, ansiosa di vedere di cosa si trattasse, aprii gli occhi. La piccola pietra, perché certo non era grande, occupava a malapena il mio palmo e riluceva di un brillante verde. I suoi raggi si sprigionavano ovunque nella stanza, creando ombre in contro cui quelle del fuoco non si degnavano di gareggiare. Quel frammento era troppo luminoso, le fiamme troppo poco.
«E’… Beh, non si più dire che non brilla» ammisi, rigirandomelo fra le dita. Nonna soffocò una risata trattenuta, mentre lui scosse il capo e poi alzò gli occhi al cielo. Tutta via, intravidi un leggero scatto delle sue labbra verso l’alto.
«Brilla, brilla» asserì papà, sorridendomi. Alzai il volto verso di lui e gli diedi un piccolo, leggero bacio sulla guancia. Quelli che schioccavano come botti li riservai alla mamma, che non trattenne le risate e i mugolii di contentezza.
Il resto della serata passò fra le risate, e i racconti. Non potevo essere più contenta.
Fu quando, il giorno successivo, i miei genitori mi dissero che per usare il mio regalo dovevo partire con loro che persi tutto l’interesse per la piccola pietra. Provai a ridargliela, ma loro dissero che era mia e che non potevano riprenderla. Che apparteneva a me. Che mi aveva scelta, come invece non era accaduto a lui. (Ma questo lo scoprii più tardi)
Piansi un po’. Non volevo abbandonare la nonna, ne tanto meno lui.
«Oh, smettila di piangere e fai la grande Evangeline. Hai tredici anni, dopo tutto, e questa è una grande opportunità. Viaggiare con mamma e papà, verso l’Inghilterra, è un’esperienza unica. Basta frignare, cresci e prenditi le tue responsabilità. E poi, non sei curiosa di sapere qual è il tuo vero regalo?» Era stato così severo con me, quando entrando in camera mia mi aveva trovato in lacrime.
 Lui le odiava, quelle gocce. L’aveva sempre fatto. E io lo invidiavo, perché sapeva sempre come comportarsi, nonostante tutto. Certo, a volte avevo paura che portasse pesi più grossi di se sulle spalle, ma  anche fosse stato così non lo dava a vedere. Era fatto di adamantio, lui, mentre io ero come un ramo pronto a spezzarsi al minimo soffio di vento.
Mi ripromisi di diventare forte, che quando ci saremmo rincontrati lui non mi avrebbe riconosciuta tanto ero cresciuta. Sia di fisico che di carattere. Non l’avrei deluso.
Così prima di partire abbracciai forte la nonna, e ancora di più lui. Ci promettemmo di rivederci presto. Di girare il mondo assieme.
Ma se avessi saputo cos’era realmente quella pietra, sarei partita comunque? Se avessi saputo che quel regalo mi avrebbe distrutto la vita, l’avrei accettato comunque? Se avessi saputo che avrei dovuto rinunciare a lui e alla nonna per sempre, li avrei lasciati? C’erano troppi “se”, e così poche risposte a quel tempo.
E così, dopo quella partenza, non l’avevo mai più rivisto.
 
Non fino ad adesso, almeno. Il suo volto era così cambiato, i capelli erano più lunghi, aveva messo su muscoli. Chissà se poi aveva iniziato a girarlo il mondo, anche da solo. Chissà se c’era andato al funerale della nonna. Chissà se a me ci pensava, anche raramente. Era così doloroso pensarci, che non mi resi conto di stare soffrendo finché l’Innocence non iniziò a pulsami al braccio, nel tentativo di attivarsi. Il mio dolore era il suo. La mia rabbia era la sua.
«Cos’è questo?» La voce uscì con ruvida acidità dalle mie labbra, cogliendo Anita alla sprovvista.
I suoi occhi azzurri annasparono sul mio viso, alla ricerca di qualche movimento del mio corpo che le dicesse che stavo scherzando. Che non ero seria. Che non ero furiosa. Ma per lei fu impossibile, perché non sarebbe stata la verità. La mia mascella era contratta, i muscoli tesi, la raccolta d’informazioni stritolata all’interno del mio pugno ustionato. La foto di lui ridotta a un ammasso di pieghe.
«Un regalo, una specie ecco. Visto quello che ti è successo ultimamente, Komui e io pensavamo che sapere qualcosa di più su di lui ti avrebbe tirato un po’ più su il morale. Sai… Si, insomma»
«Beh, PENSAVATE MALE!» gridai talmente tanto che mi fece male la gola. Il suono uscì graffiato, librandosi nella vettura come lo spettro di un fantasma. La scienziata rimase incollata al suo posto, sorpresa dalla mia reazione. «Non ho bisogno che voi, ipocriti che usano anime di innocenti per servire una causa dove tanto non ci sarà mai un vincitore, che continuano imperterriti a mascherarla come giusta, vi preoccupiate per me che –guarda caso- sono una di quelle. Certo, magari non sarò la più linda, ma questo non i da l’autorizzazione a riesumare persone che non dovreste neppure conoscere. Non ne avete il diritto! Non siete nessuno per permettervi di frugare nella mia vita passata, fare ricerche a mia insaputa su qualcuno a cui tengo.»  E poi, avvicinandomi di più a lei, come un serpente pronto a rilasciare il proprio veleno nella preda: «Non mi avete già rubato abbastanza? Volete privarmi anche dell’ultimo, importante segreto che mi appartiene veramente? La mia vita, per la vostra stupida causa, non è abbastanza?» Furono frasi sibilate, cariche di odio e disprezzo che non diedero via di fuga alla donna.
Non rispose. Non fiatò. Rimase ferma, spremuta contro il suo sedile con gli occhi sbarrati. Solo quando mi allontanai, riprendendo coscienza del mio corpo e gettando lo sguardo oltre il finestrino, lei riprese a respirare. La gola mi bruciava, i polmoni sembravano sul punto di scoppiare. Il cuore batteva più veloce delle ali di un colibrì.
«Al diavolo, Anita. Al diavolo voi e la vostra merda di missione! Questa cosa» e indicai Rose «non è altro che una catena che tiene noi esorcisti legati a un palo, come cani da guardia ben addestrati. Non abbiamo neppure più il diritto di avere segreti nostri, privati? Se questa è la libertà che ci dona la causa che serviamo, la chiesa, l’Ordine Oscuro non oso immaginare cosa succede a chi decide di ritirarsi.»
Le pozze azzurre di Anita ebbero un tremolio. Era visibilmente scossa. «E allora perché non lo scopri?! Avanti, ribellati all’Innocence, a noi e guarda cosa succede. Scommetto che staremmo tutti meglio senza una che continua a lanciare malumore ai colleghi come ci fossero le svendite» mi spronò poi, con un moto di voce improvvisamente furioso.
«Magari mi vedrai» risi amaramente, «consumata dalla stessa Innocence che ho giurato di servire ciecamente. Si, lo farai di sicuro. Dopo tutto, infili sempre il naso in faccende che non sono di tua competenza e sei venuta a sapere della data della mia morte. So, come minimo sarai in prima fila quando accadrà. Ma ti dirò: non ho intenzione di lasciare questo schifo di posto prima di aver saldato il mio debito. Perciò apri bene le orecchie, piccola bastarda: credo che dovrai aspettare ancora mesi prima di vedere la terra che circonda il mio corpo, come succederà a breve con quel vecchio che hai visitato poco prima.»
La scheda delle informazioni scricchiolò nel mio pugno, poi si ruppe. La plastica si sfasciò nella mia mia mano, gracchiando, e i fogli la seguirono. Poi silenzio. Silenzio per interminabili minuti, mentre fuori ricominciava a piovere e le gocce si fiondavano sui finestrini rigandoli e appannandoli.
Mi ero comportata da ingrata, me ne rendevo conto. Alla fine Komui e Anita avevano pensato che con quelle informazioni mi avrebbero rallegrata, ma la rabbia che mi aveva procurato quell’intrusione solo io potevo conoscerla. Era come se qualcuno avesse frugato fra i miei organi vitali e poi, di punto in bianco, avesse trovato il cuore. Era come se qualcuno si fosse divertito a tentare di strapparlo, gettarlo lontano da me. C’era una persona a cui tenevo più di Lenalee e il Generale Cross, e Komui ed era lui, di cui nessuno avrebbe dovuto sapere ma che ora conoscevano. L’unica ombra che avrei voluto portare con me in eterno, adesso era abbagliata dalla luce. Scoperta.
Era frustrante.
A porta della carrozza si aprì di punto in bianco, e un Allen umidiccio fece il suo ingresso nell’abitacolo. Si bloccò con un piede dentro e l’altro ancora poggiato sullo scalino. Gli occhi pallidi che correvano dalla figura della scienziata a me, e viceversa.
«Gente, che atmosfera gelida» sussurrò. Tim annuì, prima di alzarsi dalla sua spalla e volare fuori, sopra la chioma scura di Lenalee. «Sembra che ci sia un frigorifero ap…»
«STA ZITTO!» sbraitammo in coro entrambe, per poi tornare ad ignorarci. Un’ombra calò sul suo volto. Entrò senza dire nient’altro, seguito a ruota da Lenalee.
Venne fuori che Komui doveva fermarsi almeno un’ora ancora, perciò avevamo il tempo di riposare un poco. «Perfetto» dissi. «Vado a farmi due passi.» «Ma Eve, sta piovendo» borbottò l’esorcista cinese, guadagnandosi solo un’occhiataccia che la mise a tacere. Non aspettai altri commenti, me ne andai dalla carrozza, atterrando in una puzza di fango e con le mani in tasca mi misi in cerca del primo cestino della spazzatura. Prima mi disfacevo di quel fascicolo, prima avrei sbollentato la rabbia.
 
Avevo preso più acqua in quei giorni che in tutti gli altri. Ma che potevo farci? Alla fine era colpa mia, che persistevo nell’intento di girare senza ombrello e con un cappuccio troppo piccolo. Idiota. Potevo sentire chiaramente la vocina nella mia testa insultarmi senza ritegno, senza pensarci due volte. C’era realmente bisogno di fare così? Sei sempre troppo aggressiva. A lui non piaceresti.
«Lui non sa neppure che sono viva» sussurrai. Gettai la schiena contro la panchina e innalzai la faccia al cielo. Fredde, pungenti le gocce mi cadevano sulla pelle e colavano delineando i contorni degli zigomi, delle guance. Non avevo freddo, non troppo almeno.
Ma se lo sapesse, eh? Ci hai pensato almeno a cosa ti vorrebbe dire? Tzé, sei arrivata a trattare male persino tua sorella.
«Lei non è mia sorella.» Era la prima, vera volta che lo dicevo a voce alta. In un certo senso era strano; dolorosamente vero. Ammettere che Lenalee non era mia sorella era un po’ come prenderla, stringere la sua immagine che mi aveva sempre fatto da ancora per poi vederla sgretolarsi. Oh, la verità è sempre così dolorosa. Perciò decisi di non pensarci più, abbandonandomi alla pioggia.
Un movimento catturò la mia attenzione dopo poco, portandomi a sospirare. Con tutta quella gente tra i piedi chi mai avrebbe sperato di avere qualche attimo di pace? Io, ma la mia fiducia era mal riposta.
 «Che vuoi, Moyashi?» Era impossibile non riconoscere i suoni che produceva. Sarebbero stati troppo leggeri per qualcun altro, non per lui però.
«Fare due chiacchiere.»
«Mhh. Che risposta spiccia, non è da te.» Evangeline, la maga del sarcasmo. Quella vocina proprio non voleva abbandonarmi. Attesi che lui si sedesse prima di rivolgergli un’occhiata fugace, senza però abbandonare la mia posizione. Rimasi con la schiena inarcata quanto me lo permetteva la panchina, i gomiti poggiati sul profilo di ferro in alto. «Dovresti almeno avere un buon argomento per venire a disturbarmi, non trovi?»
Walker poggiò i gomiti sulle ginocchia, inarcandosi in avanti, poi ci ripensò e si erse. «Anita-san mi ha detto che avete litigato.»
«Dannazione, ma quella non se li sa proprio fare i fatti propri è? Tzk.» Addio al preludio di pace. Ma poi, perché ci avevo sperato in un qualche attimo di pace, pur avendo Allen vicino?
«Evangeline-chan, io non so cos’è successo e nemmeno lo voglio sapere, ma se c’è qualcosa che posso fare per farti stare meglio non esitare a chiederla. Siamo una famiglia, dopo tutto.» Risi. Amaramente, scioccamente ma risi.
«Oh Allen» sussurrai fra la pioggia, rizzando la schiena per avvicinarmi a lui. Gli presi il mento fra l’indice e il pollice, incurante del suo sguardo sorpreso. Certo potevo ben capirlo, in quel momento dovevo sembrargli alquanto strana e diversa dalla solita Evangeline. E lo ero, senza ombra di dubbio.
Incollai i miei occhi ai suoi, sorridendo meschinamente. «Sei così ingenuo, Allen-kun. Un tenero bocciolo di pesco, pallido come la neve, che crede ancora in tutti quegli ideali preconfezionati con cui ti addestrano.» Lo lasciai andare, inarcandomi sulle mie stesse ginocchia. «La verità? Non c’è nessuna casa, solo un grande castello nero come tutto il resto.» Sentivo il cuore pesante. Troppe verità dette con troppa poca noncuranza. Stavo cadendo; stavo per sfracellarmi al suolo come quel rametto che ero stata anni addietro. Se crollavo ora, non mi sarei più rialzata. «Non esiste “una casa”, ne tanto meno “una famiglia”. Siamo solo persone, con vite rovinate dal cristallo di Dio, che lottano per arrivare a fine giornata. Siamo solo questo. Nulla di più di esseri umani» sospirai. «Esseri mortali a cui viene chiesto di essere spediti al macello per una causa persa in par» e mi arrivò uno schiaffo. Secco, sonoro e doloroso.
Non mi ero neppure accorta che l’albino si era alzato, presa com’ero dal mio sproloquio. Avevo continuato a elargire sentenze senza calcolarlo minimamente. Eppure lui c’era li, in carne ed ossa e come risultato della sua concretezza, adesso, avevo una guancia in fiamme. Il viso rivolto verso l’ospedale.
Stupita. Non penso ci fosse altro aggettivo che potesse definirmi. Quando alzai gli occhi per incontrare quelli di Allen, lui era rosso in viso. «Scusa» borbottò. «Scusa ma non ci riesco a sentire qualcuno parlare così, con arrendevolezza. Evangeline-chan, quand’è che hai perso la speranza? Quand’è che hai smesso di credere nella causa per cui combatti? EH?»
«Non lo so.» E in parte era vero. Quand’è che avevo smesso di sperare che il Conte del Millennio potesse essere battuto? Presi un bel respiro. «Ah, ormai perdo colpi Allen-kun. La mia determinazione scema man mano che ci avviciniamo a Cross-sama. In questo momento m’importa solo di trovarlo e farla finita.»
Lui si ravvivò i capelli bagnati. «E’ così, davvero importante per te trovare Marian Cross?» Lo vidi rabbrividire nel pronunciare quel nome. «Perché? Che ha di così speciale? Non credi che sia tempo di abbandonare quell’ombra che ti tiene incastrata nel passato per iniziare a vivere nella luce del presente?»
Rimasi in silenzio per qualche minuto. Che diavolo mi stava succedendo? Perché a un certo punto mi ero ritrovata a autocommiserare la mia vita, per di più con Allen accanto? E da quando permettevo agli altri di schiaffeggiarmi?
«Belle domande, Moyashi. Meriterebbero risposte altrettanto belle, ma posso solo dirti che credo di dover molto al Generale Cross, dopo tutto mi ha salvata. Lo voglio trovare per saldare questo debito, ricordargli che non ho dimenticato quello che ha fatto per me. Tutto qui, a prescindere che la sua ombra mi tenga incatenata nel passato o no» eppure non mi sento così legata a lui, non com’ero prima di conoscerti Walker. Che la mia forza di volontà mi stia abbandonando?
 Mi alzai, sovrastandolo con i centimetri che ci differenziavano. Non avevo mai fatto caso alla differenza di statura. «Diamine, sei davvero uno scricciolo Moyashi. Mh… il mio pugno è all’altezza della tua testa. Non dovrebbe essere difficile colpirti» constatai, mi accarezzai la guancia. « La prossima volta che provi a tirarmi uno schiaffo, ti sotterro. Vedi di non dimenticarlo.» Rose fremette al mio braccio, scivolando sul collo di Walker come una vipera. L’esorcista si bloccò. Riuscii a vedere il suo calore corporeo passare da giallo ad arancio, e infine rosso. Risi, ma forse parve più un sibilo roco. «Intesi?» Annuì.
 
 
La strada era accidentata. Ed era una fortuna. Con tutti gli scossoni che ci riservava, la carrozza ondeggiava a meraviglia nascondendo i miei tremiti di freddo. Anche se ero avvolta in una coperta calda e avevo cambiato i vestiti potevo ancora sentirle, le gocce fredde che penetravano oltre la stoffa e mi bagnavano. Pungevano la mia pelle come gli spilli di Bookman, che in quel momento stava spiegando ad Allen cosa fosse il “cuore”.
Ricordavo di averne sentito parlare tempo addietro, quando prima di far fuori un akuma di secondo livello l’avevo stretto nella mia morsa lui mi aveva sputato in faccia prima di pronunciare la sua ultima frase: «Il cuore pulsa già, fra le mani del Conte del Millennio. Esorcisti, il mondo che tanto vi affannate a proteggere è già sul punto di morire» e poi gli avevo staccato la testa. Successivamente mi ero fatta spiegare meglio da Komui il significato delle parole, del “cuore”.
 «Sicuramente, se esiste qualcuno adatto a un’Innocence del genere, dev’essere forte almeno quanto un Generale» dedusse Lavi, con lo sguardo per nel vuoto. Mi ritrovai ad annuire, catturando lo sguardo stupito di Komui. Non succedeva molte volte di vedermi d’accordo con qualcuno che non fosse Lenalee, lo riconoscevo.
«Cosa ne pensi, Evangeline?» mi domandò appunto l’uomo.
Allontanai la fronte dal finestrino e rizzai la schiena, voltandomi a osservarlo. Dopo la chiacchierata con Allen non ero stata molto loquace –ma alla fine, non è che lo fossi sempre-, e mi sentivo leggermente scossa. Le domande che mi aveva rivolto ronzavano ancora nella mia testa, ogni volta con risposte diverse. La sua affermazione, poi, sovrastava ogni quesito. Cross era davvero una delle ombre che mi tenevano legata al passato, a pensarci bene. E ad un tratto ebbi la consapevolezza che la voglia di trovare Marian stava vacillando. Lo capivo dal modo in cui piano piano i ragionamenti di Allen ne mettevano in moto altri miei, che mi allontanavo dall’idea che trovarlo fosse possibile. Forse era come diceva Walker. Si, il Generale non era altro che un’ombra del mio passato che non volevo dimenticare. Proprio come lui. Il fatto è che non ne avevo la forza, di allontanarmi per sempre dalle due sole cose che mi rimanevano. Dai due soli ponti che portavano scritto sulla fiancata: “passato”. La verità è che non volevo rinunciarci. NON POTEVO!
PERCHE’ STO DANDO RAGIONE AD ALLEN? E COSA C’ENTRA ADESSO?
Interiormente, mi tirai i capelli e iniziai a scuotere il capo; interiormente, soffocai uno sbuffo. «Il Coniglio ha ragione. Questo spiega perché il Conte ha aggredito uno dei Cinque: ha fatto il nostro stesso ragionamento. Purtroppo per lui, ma meglio per noi, Yeegar non era quello giusto.» Scrocchiai le nocche, poi il collo. «Io proporrei di richiamare tutti i restanti Generali nella sede dell’Ordine, li di certo potremmo tenerli d’occhio.»
«E tu avresti l’opportunità di rivedere il tuo maestro, non è così Eve-chan?» Scherzò Lavi, sfoderando uno dei suoi sorrisi da bonaccione.
«Taci, stupido. E smettila di chiamarmi così, sai che non lo sopporto» incrociai le braccia al petto.
«Evangeline-san ha avuto un maestro fra i Generali?» Allen sembrava spiazzato, del tutto preso alla sprovvista. Certo, doveva essere una cosa naturale dopo tutto. Lui era arrivato all’ordine solo da qualche mese.
Lavi annuì, senza togliersi il sorriso dalle labbra. Quel suo occhio verde luccicava vispo, più acceso e vivo della fiammella di una candela. «Esattamente. Anche se per poco più di due mesi, il Generale Sokaro ha accettato di insegnare a Evangeline ogni tecnica del combattimento.»
«Sokaro? Che tipo è?» A quanto pareva l’albino era davvero curioso. Strano ma vero, quel lato di lui iniziava a piacermi.
«Un tipo molto affabile, Allen-kun. Davvero gentile, il ritratto della dolcezza.» E sorridendo velenosamente, aggiunsi: «Scommetto che ti piacerebbe.»
«Il Generale Sokaro è una macchina assassina» intervenne Lenalee, fulminando sia me che il rosso con un’occhiataccia. Lei odiava le bugie, anche se era a fin di divertirsi. E Anita, agganciandosi al discorso della giovane: «Ed Evangeline è rimasta con lui meno di due mesi, non perché lui fosse ingestibile ma perché lei stava prendendo troppo la mano alle sue maniere. Ti sei mai chiesto il perché del suo così crudo comportamento? Ci è cresciuta, con gli insegnamenti di quello.»
«Fino a prova contraria, per quanto i suoi metodi siano poco ortodossi, il suo è un lavoro eccellente. Grazie al Genere, di fatto, sono in grado di strappare la testa da un corpo umano senza sporcare nemmeno la tappezzeria. Proprio come piace a Komui-kun, non è così?» lanciai uno sguardo veloce all’uomo, che assisteva alla scena interdetto.
Trovandosi messo di mezzo sussultò. «Evangel»
«Vogliamo provare, Anita-san?» domandai subito dopo, interrompendo a metà la frase del supervisore. Anita aveva fatto due passi falsi quel giorno 1) aveva fatto ricerche su di lui 2) aveva promulgato ideali che facevano apparire il mio maestro un mostro. Nessuno doveva permettersi di offendere li Generale, specialmente chi non ci aveva mai lavorato assieme.
«Provaci, ti farò vedere di che pasta sono fatti gli scienziati dell’Ordine» mi sfidò. Aveva una strana luce negli occhi, così viva da far paura. Internamente sorrisi. Allora ce le aveva le palle!
«Questa era l’aria di cui parlavo quando sono entrato in carrozza, prima» borbottò sottovoce Allen, ritirandosi vicino a Lavi. Lenalee sospirò, scuotendo il capo.
«Si… Dunque dicevamo, fronteggiare tutti quegli akuma –insieme ai membri della famiglia Noah, per giunta- è decisamente troppo, anche per un Generale» e sono sicura che mi guardò perché avrebbe voluto aggiungere: “Ne abbiamo avuto le prove oggi stesso”, ma non lo fece perché sapeva quanto mi sentissi in colpa. «Perciò sto’ pensando a Cloud, Sokaro, Cross e Tiedoll.» Inarcai le sopracciglia, mentre lui si sistemò gli occhiali. «Per proteggere i restanti Generali, tutti gli esorcisti sono stati suddivisi in quattro squadre, e le abbiamo assegnate a loro come guardie del corpo.»
Gli occhi mi brillarono. Una missione di salvaguardia, se così la si poteva definire, era l’ultima cosa di cui volevo occuparmi visto l’esito dell’ultima esperienza. Eppure, in ballo questa volta non c’era la possibilità di scortare Yeegar, bensì Cross. Certo, la possibilità erano uno a quattro ma, avendo il discepolo di Marian dalla nostra, sapevo che Komui ci avrebbe affidato quella missione. Doveva affidarcela. Doveva affidarmela. Perciò, prima che elencasse i nomi dei componenti della squadra incrociai di nascosto le dita.
«Perciò Allen-kun, Lenalee, dovreste incontrarvi immediatamente col Generale Cross.» E prima che potessi protestare –cosa che avrei fatto immediatamente. Lui mi conosceva troppo bene, per non capirlo- aggiunse:  «Tu, Evangeline, sei stata richiesta espressamente da Sokaro. Vuole e te, in quanto sua allieva.» Non lo contradissi.
 

 
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Isil: Questo capitolo è alquanto confuse.
Evangeline: Tu sei alquanto confusa.
Isil: Giusto.
Anita: State andando d’accordo? Dio santo, che vi prende?
Evangeline: A natale siamo tutti più buoni, e in questo momento non ho voglia di litigare. *Anita socchiude le labbra* SI LO SO CHE NATALE E’ PASSATOOOOO!
Anita: Tzk, che antipatica. Anyway passiamo subito ai ringraziamenti: a te, che hai recensito/letto lo scorso capitolo (Eve: aggiungerei orrendo), un abbraccio forte, forte, fooooooorte.
Isil: Yep yep. Scusateci la fretta, ma il computer da i numeri e dobbiamo portarlo ad aggiustare. Perciò… perciò… sigh. Sigh.
Evangeline: Idiota. Portiamo il computer ad aggiustare, quindi non ci sentiremo per un po’. Addio.
Anita: Addirittura “addio”, oh Evangeline-chan come sei drammatica.
Evangeline: E COSA AVREI DOVUTO DIRE?!
Anita: A PRESTOOOOOO :3
 

 
 
 
  
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