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Autore: fuoritema    28/12/2014    2 recensioni
{69esimi Hunger Games; OCs; guerra; triste; un po' introspettiva}
***
Camminò a ritroso ancora e ancora, gli occhi aperti come per captare ogni singolo cambiamento del paesaggio, ma il fantasma continuava a incombere su di lui. Era alto quanto bastava per farlo sentire inquieto, perché ricordava – e ne era certo – che Volpe fosse ormai più bassa di lui. Forse la morte rendeva più alti o forse la sua mente gli stava giocando dei brutti scherzi. Il ragazzo strizzò gli occhi nuovamente, convenendo che la seconda ipotesi era la più probabile se non voleva cadere nel sovrannaturale.
"I fantasmi non esistono, idiota."
E i fantasmi non esistevano fino a prova contraria, ma gli Strateghi sì: tra tutte le diavolerie che potevano aver inventato per terrorizzare i Tributi, quella poteva benissimo essere la vincente.
***
I 68esimi Hunger Games visti da Tributi di distretti totalmente diversi. Una delle edizioni dimenticate, una delle edizioni che hanno troncato la vita a ventitré giovani. Perché ci sono giochi a cui è meglio non partecipare.
Mai.
Genere: Avventura, Guerra, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Altri tributi, Finnick Odair, Presidente Snow, Tributi edizioni passate, Vincitori Edizioni Passate
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'We are not iron children, our shields are shattered glass '
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Banner stupenderrimo fatto da ThanatoseHypnos, che ringrazio molto <3

 

(XV)
It's too cold outside for angels to fly.
 
 
 



Stretta attorno a lui, Mahinete sembrava poco più che una bambina, rannicchiata nel sacco a pelo che avevano preso alla Cornucopia. Era indifesa, pura, bianca: come la Sirena della fiaba che aveva provato a narrargli quando se n’era andato via perché non gli sarebbe servita a nulla. Solo Nat era rimasto ad ascoltarla e alla fine della serata era andato a riferirgliela senza giri di parole. “Il principe non la riconobbe e lei, pur di non vivere senza il suo amore, decise di diventare spuma del mare” aveva finito, osservando l’albina. Erano arrivati alla stessa conclusione, solo che dieci era stato il primo. Sembrava passata un’eternità da quell’istante, quando la tempesta non si era ancora abbattuta su di loro – o forse sarebbe stato meglio dire lo tsunami?
Raika si passò le mani una sull’altra, le bruciature ghiacciate che aveva su tutto il corpo lo stavano distruggendo dall’interno. Non si sarebbe stupito se fossero diventate blu e gli si sarebbero staccate: durante il vero Inverno succedeva questo ed altro. L’acqua gli gocciolava lungo tutto il viso, innocua. Eppure solo poche ore prima lo aveva soffocato, riempito, resuscitato. Ancora non riusciva a capacitarsi di come fosse ancora vivo. Forse era morto e quello era l’Inferno, adatto ad un delinquente come lui. Forse avrebbe rivisto Rebekah e non il suo fantasma, avrebbe trovato un po’ di pace – ma c’erano troppi forse e poche certezze. Le ipotesi potevano essere scartate, in quel momento. Avrebbe dovuto cominciare in un altro modo, elencando quello che poteva esser dato per certo. Mahinete era ancora viva. A quel pensiero fece un leggerissimo sorriso, ma anche i muscoli del suo volto erano indolenziti. Ogni sua singola articolazione gridava “dolore”, mentre si tirava su, appoggiandosi ad una lastra di ghiaccio. Sbatté forte gli occhi e si guardò intorno: alcune gocce gli erano rimaste impigliate tra le ciglia e vedeva a tratti. Passandosi la mano sul viso, continuò ad osservare la ragazzina del quattro. Avrebbe dovuto lasciarla andare prima, vivere lui e mandarla da qualche altra parte. Quello era spirito di auto-conservazione, no? E allora perché non si sentiva in dovere di salvarsi la pelle? Ripensò ai primi insegnamenti che gli aveva dato Rebekah, conditi a occhiatacce che ben presto si erano trasformate in schiaffi.
“Quelli che non temono la morte sono stupidi.”
E lui era terrorizzato. Non era così stupido come l’aveva considerato lei, quando aveva risposto il contrario. Sentiva già il  caldo alito della Mietitrice sul collo e, per un momento, gli fece quasi piacere. Morire al caldo sarebbe stato meglio, si disse, anche se la sua speranza rimaneva farlo da vecchio, in un comodo letto. D’un tratto, il senso di colpa lo avvolse tra le sue spirali. E strinse.
Aveva lasciato Nat a morire. Certo, era stata l’acqua a farlo andare via, ma lui non l’aveva aiutato. Avrebbe dovuto tendergli la mano e trascinarlo con sé. L’albina non gliel’avrebbe mai perdonato, ma dieci doveva morire. Di Vincitore ce ne sarebbe stato solo uno, e Mahinete era destinata a diveltarlo. Era la preferita  del pubblico, degli Sponsor. Di tutti.
“Idioti. Sacrificarsi è da idioti.”
Si stava scavando la fossa da solo, eppure non gli dispiaceva. Strinse un fiocco di neve tra le dita, chiudendole poi a pugno. Sarebbe stato schiacciato dal destino proprio come la neve che gli stava cadendo addosso. Si chiese se ne valeva la pena, quando Mahinete diede segno di essere sveglia.
 «Raika, dov’è Nat?» chiese in poco più di un sussurro.
Il ragazzo le strinse il braccio, prevedendo la sua reazione che sicuramente non sarebbe stata buona. In quelle ore che aveva passato con la testa ciondoloni sul braccio aveva cercato una qualche scusa da raccontarle in quel momento. Ora il momento era arrivato, e quelle poche parole che si era preparato erano scappate via dalla sua testa. Si maledisse mentalmente.
«Dov’è?»
«Non lo so. Io… Non lo so.»
«Dobbiamo andare a cercarlo! – iniziò a dire lei, tirando l’alleato per un braccio, proprio come lui aveva fatto con lei per salvarla – Siamo una squadra.»
«Una squadra che non può vincere tutta insieme, Neth.» Doveva capire, proprio come aveva capito lui la prima volta che dei suoi compagni erano stati beccati dai Pacificatori.
«Cambieremo le regole.» L’albina cercò di liberarsi dalla stretta, inghiottendo un singhiozzo. Non era possibile… Non era vero: Nat non poteva essersene andato così. Si accorse di star tremando, ma si staccò da Raika e corse via dal sacco a pelo.
«Non si possono cambiare.»
«Non è ancora morto.»
«Lo sarà tra poco.»
Immaginò per un attimo il corpo del ragazzo del dieci, buttato per terra mentre un sottile rivolo di sangue gli colava fuori dalla ferita. Chiuse gli occhi, mentre la visione continuava a figurarle nella mente. I colori le rimbombarono in testa. Infine li riaprì, lasciando che una lacrima solitaria le scendesse lungo la guancia, assolutamente non invitata.
«Non è vero! Bugiardo!»
«Non essere stupida. Vince solo uno.»
«Ma non può morire così. È colpa mia» sussurrò, fissando Raika negli occhi e lui capì subito dove voleva andare a parare. «Ed è colpa tua.» Lei gli si avvicinò nuovamente, asciugandosi la guancia con la mano guantata.
Era sempre stata colpa sua: c’era sempre stato un piccolo, insignificante particolare che era riconducibile a lui. Prima Rebekah, poi Nat. Non volle neppure pensare a ciò che sarebbe successo se lui avesse vinto, se Neth fosse morta. Alzò lo sguardo dai suoi piedi, restituendolo alla ragazza.
«E ne sono felice. Ogni cannone è un alleato in meno da ammazzare[1]» concluse, senza neppure pensare. Sentì un bruciore alla guancia, dove Mahinete lo aveva appena colpito, e pensò che se lo meritava. Non aveva fatto nulla di buono, ma forse – l’ennesimo, nei suoi pensieri – lei avrebbe capito che non erano più umani, che i sensi di colpa non avrebbero dovuto urtarli.
Eppure, nel guardarla andar via strisciando i piedi, l’unica cosa che gli venne in mente erano le battute che si era scambiato con Nat, con un suo amico.
 
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Non aveva mai sentito così tanto dolore in vita sua. Al confronto, le cinghiate di suo padre erano carezze. Nat osservò la ferita, digrignando i denti per non far uscire neppure il più piccolo gemito dalle labbra. Il sangue aveva inzuppato tutta la garza che aveva utilizzato per fasciarla e l’odore di infezione cominciava ad arrivargli alle narici. Odore di morte, pensò, con una smorfia. Non riusciva più neppure a sfiorare la pelle e togliere la fasciatura lo fece urlare, forte. Non aveva speranze. Una volta aveva visto una ferita così, durante i Giochi, e solo con una medicina della Capitale avrebbe potuto curarsi. Non sarebbe durato a lungo, solo il tempo per soffrire le pene dell’Inferno e buttarsi a terra, aspettando che la Morte lo venisse a prendere – o i Favoriti. Eppure non avrebbe cambiato il corso delle cose, pur sapendo come sarebbe andata a finire. Era felice per Mahinete, perché lei poteva farcela e Raika l’avrebbe protetta fino alla fine. Magari gli avrebbe perfino salutato Gea.
A quel pensiero una lacrima gli bagnò la guancia, prontamente asciugata dalla sua mano. La sua migliore amica lo stava guardando, stava soffrendo per lui e piangere non sarebbe servito ad altro che a farla sentire peggio. Le aveva promesso di tornare a casa e aveva fallito. Forse, prima o poi, lo avrebbe perdonato anche per questo, come per tutte le volte che aveva stroncato un suo tentativo di soccorrerlo dopo una battuta particolarmente forte.
Il Tributo del dieci si trascinò sotto un albero. Almeno avrebbe potuto vedere il cielo, senza più quel soffitto ghiacciato che lo copriva, impedendogli di vedere le stelle che Gea conosceva tanto bene. Ripensò a Cassiopea, la sua prima alleata, e la immaginò in una di quelle, come gli aveva confidato il terzo giorno nell’Arena. Con lei non ce l’aveva fatta, era rimasto a guardare mentre Golia la trafiggeva al petto, ma aveva protetto Mahinete. Dopotutto, qualcosa di buono lo aveva fatto nella sua vita da bastardo. Quel piccolo particolare sul suo conto non aveva avuto il coraggio di raccontarlo a Gea: troppa vergogna, forse.
I capelli gli ricaddero scomposti sugli occhi – la sua stilista gli aveva proibito di tagliarseli, insistendo che stava meravigliosamente bene così –, fradici di neve. Elise aveva cercato di spiegarle che non sarebbe stato comodo, ma la donna non le aveva dato retta. La sua Mentore non era molto capace a dare ordini: li impartiva a sua figlia, e da un orecchio le entravano e dall’altro le uscivano, ai preparatori e perfino lui le aveva disubbidito, affezionandosi ai suoi alleati come a degli amici. Se la rivide davanti, che gli scompigliava i capelli come una madre, pur avendolo appena conosciuto. Della sua morte ne avrebbe risposto lei, a sua figlia.
Sperò con tutto il cuore che Gea non la facesse soffrire ancora di più, accusandola di averlo lasciato morire senza aiutarlo. Una speranza vana, però, perché sapeva che la ragazzina non avrebbe mai accettato che lui non era adatto per vincere i Giochi. Se solo non avesse avuto quell’infezione… Cosa stava dicendo? Sarebbe morto in un altro modo, più doloroso, magari. Non aveva mai avuto possibilità di vincere i Giochi: sapeva tendere un arco, incoccare una freccia, non uccidere.
Strinse la garza con forza, cercando di impedire al sangue di uscire a fiotti. La pelle era arrossata, infettata, ma non si fece scrupoli a versarci un po’ d’acqua sopra, lottando disperatamente per non piangere. Ormai lo sapeva fare fin troppo bene. Se suo padre lo avesse seguito da casa, forse avrebbe perfino sorriso perché finalmente suo figlio era stato coraggioso. Ma chi voleva prendere in giro? Qualsiasi cosa lui avesse fatto sarebbe stata sbagliata, come tutte quelle volte che si era sforzato di soddisfarlo durante gli anni. Poi era arrivata Gea, e con lei la fine di quei vani tentativi.
Nat si diede uno schiaffetto sulla guancia, per rimanere sveglio. Vedeva perfino sfocato, ora. Le forze lo stavano abbandonando e sapeva che la sua vita in quello stato non sarebbe durata a lungo. Sperò con tutto il cuore che lo zio di Gea l’avesse allontanata dalla TV, mandandola a letto per non vedere in che condizioni fosse il suo migliore amico. Sperò anche di essere in un sogno e che un unguento piovesse dal cielo come era successo per Mahinete, e un piccolo biglietto gli cadde ai piedi. Strabuzzò gli occhi, eppure era un sogno così bello! Alla fine lo aprì, con le mani che tremavano, e cercò di leggere quelle parole sfocate alla sua vista.
 
Mi dispiace, Nat. Mi dispiace tanto.
Non siamo riuscite a salvarti.
– un sassolino qualsiasi

 
Un sassolino qualsiasi. Nat sorrise, pensando che Gea non aveva perso la dolcezza che la contraddistingueva. Lei lo stava guardando, stava tifando per lui, e aveva perso una battaglia. Ma non aveva perso la guerra. Forse, con il tempo, si sarebbe perdonata per non aver potuto far nulla per la sua vittoria. Il suo cane l’avrebbe consolata – lo stesso che avevano trovato insieme – e piano piano avrebbe tornato a sorridere.
A quel pensiero si addormentò, mentre la sua mente vagava tra tutti i ricordi che aveva con Gea. E dimenticò il dolore, la tristezza, la morte. Ma non lei.
 
«Carter? Sei tu?»
Il ragazzo non si girò neppure verso la voce che ormai riconosceva anche da lontano. Continuava a guardarsi i piedi, appoggiato su una delle travi sotto il palco. Una lacrima gli brillava sulla guancia pallida. Gea gli si avvicinò con calma, dimenticando di riempire il silenzio con gesti o parole. Era raro che cambiasse espressione così, da un momento all’altro, ma non impossibile. 
«Cosa ti ha fatto?» la bambina lo fissò con lo sguardo carico di apprensione, poggiandogli una mano sulla spalla. Nat la scostò bruscamente, con un gemito. Non alzava lo sguardo.
«Nat, per favore! Ti ha picchiato, vero?» Il ragazzo non rispose di nuovo, asciugandosi le guance con il palmo della mano. Sembrava molto più giovane, un bambino in confronto al Nat che vedeva ogni giorno. Il Nat calmo e pacato che badava al suo gregge in quel momento era così lontano. Gea gli si avvicinò nuovamente, le labbra serrate, pronta ad essere respinta e gli circondò le spalle con un braccio, stringendolo a sé. 
«Mi dispiace» sussurrò con un leggero tremore nella voce. Un angolo della bocca di Nat si incurvò verso l’alto, mentre il ragazzo le passava una mano tra i capelli rossi. 
«Shh, sassolino.» La ragazzina lo guardò attentamente notando il taglio che spiccava sulla sua fronte, gli occhi lucidi di chi ha pianto per troppo tempo. L’aveva sempre chiamata così, per sottolineare quanto fosse piccola e indifesa rispetto a lui. In quel momento, però, sembrava lui quello da proteggere, da consolare. Gea si sedette vicina a lui, poi gli passo la mano su una delle lacrime. 
«Sai, una volta qualcuno mi ha detto che piangere non è stupido, anzi, quelli che non lo fanno non riescono a provare nulla» Gli si accoccolò vicina, posando la testa sulle sue gambe.
«Sbagliava» ribatté il ragazzo. La vicinanza di Gea gli fece tornare il sorriso – anche se piccolo rispetto a quelli che le rivolgeva di solito – e per un attimo dimenticò il dolore alla schiena.
«A cosa pensi?» Nat le scosse la mano davanti alla faccia. «A nulla.» 
«Non ci credo affatto» Il maggiore prese a farle il solletico, facendola ridacchiare e contorcersi per sfuggire a quella “tortura.” Gea si lasciò cadere per terra, simulando un’arrabbiatura in modo buffo. «Secondo te che c’è oltre le stelle?» esclamò sognante. Passò il dito su tutte le costellazioni che conosceva, accarezzandole leggermente.
«Boh, suppongo altro cielo.»
«E dopo il cielo?» spalancò gli occhi a dismisura, come per scorgere quello che c’era dopo le stelle.
«Una bambina che non dovrebbe fare domande del genere» rispose allora l’altro, scrollandosi la terra di dosso. La piccola non amava avere delle risposte del genere. C’era stato un tempo, neppure troppo lontano, in cui Nat amava farsi quelle domande, parlando di cose che anche lei stentava a capire; poi però era cresciuto e aveva smesso. Forse non trovare una risposta faceva svanire i sogni, forse anche lei avrebbe dimenticato tutto, forse quello significava diventare “grandi.”
«Non voglio crescere» mormorò infine, seppellendo la testa nella giacca dell’amico.
«Nemmeno io.»
 

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Quando Mahinete infine tornò, con gli occhi arrossati di chi ha pianto a lungo, si lasciò cadere sul sacco a pelo e non disse una parola. Raika ringraziò il buon senso che aveva avuto ad asciugarsi le lacrime, evitando che si ghiacciassero sulla sua pelle. Non cercò neppure di iniziare una conversazione: aveva detto troppo, era stato troppo ingrato, ma non ripiangeva il discorso che le aveva fatto. Strano che non le avessero spiegato come funzionavano i Giochi, pensò, che non sapesse quanto avrebbe dovuto soffrire per arrivare alla tanto ambita vittoria. Si chiese come avrebbe reagito alla sua morte, ma preferì accantonare il pensiero nell’angolo più remoto della sua mente. Aveva ancora paura della morte, il solo pensiero lo terrorizzava, eppure era riuscito quasi ad accettarla.
Fu lei a parlare per prima, armeggiando con la spada che le avevano mandato i suoi Sponsor.
«Tu vuoi sacrificarti per me, non è così?» chiese seria, «beh… Non ne vale la pena.»
Che tutti alla fine degli Hunger Games volessero diventare eroi a Raika non era mai parso tanto normale, così come quelli che decidevano di allearsi con marmocchi di dodici o tredici anni per pura pietà. Lui la pietà non sapeva neppure cosa fosse: ognuno doveva badare a sé stesso. E allora perché continuava quell’assurdo teatrino sul proteggere Mahinete? Si rispose da solo. “Perché mi sono rammollito, ecco perché.” Sarebbe stata la stessa frase che gli avrebbe detto Rebekah, con ogni probabilità, ma lei non era lì per ripeterglielo.
«Non vale neppure la pena che vinca io. Quindi… Devi farlo tu.»
«Tu puoi vincere, io sono solo d’impiccio.»
«Ma mi hai visto? – Raika indicò prima il suo zaino, quasi vuoto, poi sé stesso – Nessuno mi appoggerebbe.»
«Io sì.»
«Appunto: nessuno.» La sua alleata parve sul punto di andarsene per una seconda volta, quando il cannone suonò il suo canto di morte e il silenzio s’impadronì della loro conversazione. E rimase ferma, quasi abbandonata. Raika non ebbe il coraggio di dire che potessero essere morto Golia, Sigma o addirittura gli altri due Tributi che non ricordava neppure chi fossero. Il ricordo della battaglia che avevano fatto con i Favoriti per l’arco continuava a passare nella mente dell’albina. Nat che le si era parato davanti, per incassare il colpo al posto suo. Nat, che le aveva confidato di vedere in lei un po’ della sua migliore amica, che aveva ascoltato i suoi pensieri ad alta voce senza una parola, che aveva risposto alle sue domande, sebbene gli facesse male anche solo pensare a come si fosse procurato quelle cicatrici.
Il mio alleato è morto.
Si ripeté, per essere certa che il suo subconscio avesse accettato la notizia. Ne ebbe la conferma solo quando le lacrime ricominciarono a tracciare due linee sinuose sulla sua pelle. Incurante del freddo, si lasciò cadere nella neve e detestò la Capitale e i suoi abitanti come mai aveva fatto prima. Avrebbe continuato a tirare pugni sulla neve, se Raika non le avesse fermato le mani.

«Lo odio» aggiunse infine. Sapevano entrambi a chi si stesse riferendo e che avrebbe dovuto tacere per vivere. Così inghiottì quel nome come bile, lasciando che la mano di Raika le accarezzasse le guance nuovamente umide . E fu proprio in quel momento, con la ragazzina tremante tra le braccia, che il Tributo del nove decise di posarle un bacio sulle labbra e stringerla ancora di più a sé, per farla smettere di tremare.

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Iris sbuffò, distogliendo lo sguardo dalla televisione, che continuava imperterrita a trasmettere i Giochi. Era una bimbetta di otto anni, che smaniava di scoprire chi sarebbe stato il Vincitore di quell’anno. Il Presidente le mise una mano sulla spalla e le diede un paio di colpetti, invitandola a sedersi accanto a sé. Stava trattenendo il respiro, in attesa di scoppiare in un pianto sconfinato.
«Mi avevi promesso che non si sarebbero fidanzati» sbottò, arrampicandosi sulla gamba del nonno. Snow aggrottò le sopracciglia.
«Ti avevo promesso che non lo sarebbero stati per molto, piccola.» La mano dell’uomo strinse quella della nipote, ancora intenta ad osservare la trasmissione. In realtà non capiva cosa quella bambina trovasse nel Tributo del nove, un giovane delinquente che, a quanto gli avevano comunicato i suoi collaboratori, era stato il prescelto della ragazzina che era morta nei sessantaseiesimi Hunger Games, una delle tante fiammate di speranza che erano state stroncate dall’inizio. Ricordava perfettamente quando aveva dato l’ordine di risparmiarla, così come aveva deciso di sopprimerla. Gli era bastato solo uno schiocco delle dita e l’onda l’aveva travolta – lo stesso trucchetto che aveva provato ad utilizzare anche per i due fidanzatini.
Iris riprese a dondolare le gambe, scuotendo la testa. La telecamera continuava a riprendere l’albina del quattro, stretta tra le braccia del ragazzo.
«Se vince, posso sposarmelo?» chiese infine.
«Questo ed altro per la mia stella.»
«Rosa» lo corresse lei, roteando esasperata gli occhi. Per un attimo parve distratta dalla televisione, e un sorriso soddisfatto si fece posto sulle sua labbra rosee.
«Sì, la mia rosa» convenne suo nonno, sorridendole a sua volta. Prese il bicchiere di vino e ne bevve un sorso, senza smettere di guardare la scena che, nel frattempo, era cambiata. Iris sbuffò nuovamente e Snow capì che avrebbe dovuto uccidere i due Tributi in velocità, perché quelle due scintille erano troppo forti per non essere contenute.
«Allora lo sposerò.»
Le immagini delle scommesse sostituirono le mosse dei Favoriti, contrassegnate da dei puntini rossi su una mappa neutra, quando il Presidente si decise a rispondere.
«Non preferiresti un fidanzatino della tua età?» azzardò.
Iris scosse la testa, ridacchiando. «No… I maschi della mia età sono scemi e puzzano. Tanto.»
Gli occhi dell’uomo tornarono alla televisione, per scrutare il viso  del preferito della nipote. Le scommesse su di lui erano poco più che nulle, ma Rose aveva deciso – anzi, Iris aveva deciso – di mettere una bella sommetta sulla sua vita.
“Stroncarlo subito. Devo stroncarlo subito” pensò, osservando la mappa dell’Arena in bianco e nero, dove spiccavano dei puntini rossi che indicavano i movimenti dei vari ragazzi. Sigma era ancora vicina a loro, mentre Golia avanzava verso la giovane dell’undici e la piccola del sette. D’un tratto diede un leggero colpetto sulla schiena della nipote, comunicandole che la trasmissione era finita.
«Mamma ha detto che oggi andiamo a comprare il vestito per l’intervista del Vincitore. Devo farmi bella per lui.» Rivolse uno sguardo complice al nonno, prima di saltellare fuori dalla stanza.
“Stupide speranze bambinesche” pensò l’uomo, riflettendo su quanto si sarebbe adirata la piccola nel vedere il suo protetto morire. Se avesse potuto, lo avrebbe risparmiato, si disse, ma ormai non poteva più farlo. Quel ragazzo era un pericolo, uno dei tanti Tributi che avevano le capacità per vincere e dovevano essere stroncati prima che la loro scintilla diventasse troppo alta.
Sorseggiò nuovamente il vino. Il problema era quando neutralizzarlo, come e in che modo. La televisione fece rivedere il bacio tra quei due ragazzi, accompagnato dagli “ow” meravigliati del pubblico. Lo amavano, e amavano anche la ragazzina.
«Dalle un pupazzo di Finnick Odair, sarà molto più contenta. Raika è già andato» aveva spiegato a Rose, poco prima che la nipote entrasse. Sua figlia aveva capito all’istante la situazione, facendo uno dei tanti sorrisetti melliflui che sfoggiava in pubblico. «O magari Finnick Odair.» Non aveva capito quanto fosse importante quel Vincitore per lo svago della Capitale.
Snow tossì, portandosi il tovagliolo alla bocca, e una macchia di sangue lo macchiò al centro.
Magnus aveva di nuovo sbagliato diagnosi: lo avrebbe fatto uccidere.


[1] La frase è volutamente molto simile a quella che dice Finnick nel secondo film.

 
Angolino dell’Autrice:
 
La mia voglia di pubblicare sta scemando sempre di più – e continuo a scusarmi per questo – ma mi sto un po’ avvilendo perché quasi nessuno segue più la long e, anche se so di dover scrivere per me, tutto ciò mi demotiva. Poi boh, credo dovrei farmi un iniezione di voglia di badare all’html per bene, che ci metto due ore solo per impostare il carattere *picchia il PC*
Passando al capitolo, il titolo è una citazione di “The A-Team”, che associo molto a ciò che pensa Raika di Mahinete. Outside è l’Arena e non sapevo in che altro modo chiamare il capitolo, quindi shh ^^
E ricompare Rebekah, perché non posso fare a meno di nominarla quando sono sul suo PoV. A proposito di lei, vi invito molto a dare una sbirciatina alla mia mini-long su di lei (Invece sto ridendo di te e non mi vedi). Come credo si sia notato, il mio piccolo nove è spesso iper-protettivo e geloso con la sua alleata, ma non insensibile. Il problema è che capisce di tenere a una persone sempre in ritardo *lo patta*
Non sapete quanto è stato difficile per me scrivere la seconda parte del capitolo, sul serio. Iniziai ad abbozzarla quest’estate, e mia cugina stava per strozzarmi – tanto per la cronaca, è innamorata di Nat. Mi ha rincorsa per tutta la casa, e io non potevo difendermi perché un po’ me lo meritavo ed è pure più piccola. Sono fortunata ad essere ancora viva, insomma <.< E niente… Faccio le mie condoglianze a coloro che, come me, adoravano questo piccolo pecoraio(?) Diciamo che un bacio vale una morte, forse *sorride e inizia a correre* Riguardo invece ad Iris, ho supposto che Snow, avendo già una settantina/ottantina di anni, potrebbe avere anche una nipote sugli otto durante i 69simi Hunger Games. E sì, si è innamorata pazza di Raika e vuole annientare Mahinete – si nota che è parente del dittatore, eh? Quindi bau, i nostri eroi se la potrebbero vedere molto male, ma si proteggeranno a vicenda U-U
Ringrazio tutti quelli che sono arrivati alla fine di questo infausto capitolo,

Talking Cricket
PS: Si ringrazia SpiritocoliLumos14 per il sostegno morale. Ne avevo proprio bisogno <3
 
 
  
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