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Autore: Strega_Mogana    13/11/2008    9 recensioni
La maschera che lo proteggeva é caduta. Quello che rimane é solo un uomo stanco.
Storia scritta per la sfida "La Cruciatus" del magiesinister forum
Genere: Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ginny Weasley, Hermione Granger, Minerva McGranitt, Severus Piton
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Maschera a pezzi

Correva. Non poteva fare altro.
Anche se non aveva le forze necessarie. Anche se le mancava il fiato nei polmoni.
Doveva correre.
Arrivare alla Sala Grande e avvertire la McGranitt.
Era il suo unico pensiero al momento.
Chiamare qualcuno. Pregare che tutto finisse presto. Sperare che fosse solo un brutto sogno.
Ma i brutti sogni di Harry erano spesso molto di più che semplici incubi. Per questo, quando le urla l’avevano svegliata, sapeva esattamente quello che stava succedendo.
Harry stava sognando. Stava guardando attraverso gli occhi del Signore Oscuro. Di nuovo.
Attacchi li chiamava la McGranitt.
Una crudele maledizione, li definiva lei.
Svoltò l’angolo. Senza accorgersene mise il piede in una pozzanghera formatasi durante la notte, quando l’acqua si era infiltrata da una profonda crepa nel muro. Scivolò a terra, picchiando un fianco. Per qualche istante vide un lampo di luce dietro le palpebre serrate.
Accantonò il dolore in un angolo della mente. Aveva altro a cui pensare. Si issò sulle gambe tremanti e riprese a correre. Arrivò alle scale e corse giù. Si maledisse per aver avuto l’insana idea di dormire nella torre di Grifondoro in ricordo dei vecchi tempi.
- Il passato è passato. – pensò, mentre saltava il penultimo scalino della terza rampa per non incappare nel maledetto trucchetto che, più di una volta, le era costato una brutta caduta – Volevo far finta che non fosse successo nulla per una notte. Una sola dannatissima notte.
Ma nulla era cambiato. Non si poteva fingere. Tutto era vero. Tutto quello che era successo era reale.
Il passato felice di qualche anno prima le sembrava solo una fugace favola che i genitori raccontano per far addormentare i figli piccoli.
Finalmente vide le porte della Sala Grande e sorrise.
La McGranitt avrebbe trovato soluzione.
***

Il dolore era lancinante. Il suo corpo era percorso da spasmi e fitte terrificanti in ogni punto in cui la maledizione l’aveva colpito.
Aveva perso la cognizione del tempo.
Gli pareva di esser prigioniero da ore. Forse anni. Ma era quasi sicuro che la tortura era iniziata solo da pochi minuti.
Una vita intera.
Era in ginocchio, a terra. Il duro pavimento di pietra era ghiacciato; funi invisibili avevano stretto le sue braccia verso l’alto. Era ferito; il viso coperto da una maschera rossa, così diversa dalla maschera argentata che solitamente avvolgeva il suo volto. Maschera che spesso nascondeva un’espressione indignata dalle crudeltà che vedeva in continuazione. Sentiva il sapore dolciastro del sangue in bocca. Ne avvertiva l’odore metallico nel naso.
I suoi vestiti erano ridotti in brandelli. Della candida camicia non restava che uno straccio inzuppato di sangue. La casacca era sparita quasi immediatamente. I bottoncini neri giacevano a terra come occhi vuoti di bambola. Così simili ai suoi, ai tempi in cui aveva ucciso per una motivazione che non ricordava più. I pantaloni erano bruciati in più punti. La carne sottostante era annerita e ustionata. Alcuni lembi perdevano gocce di denso sangue. Rubini che rotolavano sullo scuro tessuto.
Le tracce della Cruciatus.
Molti avevano preferito non sporcarsi la bacchetta, picchiandolo a mani nude. Bellatrix, invece, aveva infierito sul suo corpo con una luce folle negli occhi.
Le mani erano completamente prive di sensibilità. La posizione scomoda e i legacci avevano fermato la circolazione; se cercava di muoverle, mille spilli roventi gli trapassavano i muscoli, aggiungendo altro dolore a quello che già provava.
Nella cella buia dove era rinchiuso sentiva il rosicchiare sommesso di qualche topo, l’odore pungente della muffa e della polvere umida. Non c’era luce, non c’era aria. Solo la puzza del suo sangue e quello della sporcizia.
Qualcosa gocciolava dal soffitto, colpendolo in testa. Poteva essere solo acqua. Ma, comunque, non era interessato a scoprire cosa fosse né, tanto meno, a scoprirne la fonte.
Dopo quelle che gli parvero vite intere qualcuno aprì la porta. La forte luce invase la piccola cella. Chiuse gli occhi, riparando il più possibile il volto tumefatto con la spalla. Quando il chiarore si affievolì e la porta si richiuse, cercò di abituare di nuovo gli occhi all’oscurità.
Non era certo della sua fine. Potevano benissimo lasciarlo morire di fame o farlo sbranare dai topi.
Se era fortunato non avrebbe sofferto molto.
Ma raramente era fortunato.
Molto probabilmente nessuno avrebbe provato pena per lui.
Uno spiraglio di aria gelida gli fece rizzare i peli del collo. Sentì un dito sottile, ghiacciato, percorrergli la spina dorsale, sfiorandogli la pelle. Rabbrividì per il freddo intenso che provò all’improvviso. Era come se anche la sua anima, o quei pochi brandelli che ne restavano, si fosse ghiacciata all’istante.
Cercò di guardarsi attorno con una finta espressione minacciosa in volto.
- Di tutti i tradimenti che mi aspettavo... – gracchiò la voce metallica di Voldemort, risuonando in modo sinistro nella stanza vuota – il tuo è stato il più deludente.
- Ho fatto la cosa giusta. – sibilò, cercando nell’oscurità il mago che un tempo chiamava Maestro.
Si sentì afferrare per i capelli. Con uno strattone Voldemort gli reclinò la testa all’indietro. Non riuscì a trattenere un gemito soffocato quando avvertì la fredda pelle a contatto con la sua guancia gonfia.
- Implorami di risparmiarti la vita… - gli alitò Voldemort sul collo – supplicami di non ucciderti.
Aveva lo stesso odore della morte.
Il prigioniero si passò la punta della lingua sulle labbra viola.
- Mai… - soffiò con enfasi.
Il mago oscuro lasciò la presa. Il fruscio della tunica sulla pietra era l’unico rumore presente nella piccola cella. Neppure il suo cuore osava fare rumore.
Due rubini fendettero l’oscurità che lo circondava.
Fu allora che Severus Piton capì che stava per morire.
***
Hermione Granger stava leggendo distrattamente un libro in Sala Grande mentre masticava svogliatamente un toast che sapeva di plastica bruciata.
Hogwarts era semidistrutta. Dopo la battaglia alla scuola, i Mangiamorte e il Signore Oscuro si erano ritirati portando con sé un numero non indifferente di prigionieri e lasciandosi alle spalle decine di morti.
Tonks piangeva ancora la morte del marito cercando, contemporaneamente, di placare i vagiti del figlio che non avrebbe mai conosciuto il padre.
Molly e Arthur avevano appena seppellito Fred, mentre Ron aveva perso tre dita di una mano combattendo contro un Mangiamorte che nessuno aveva riconosciuto.
Lei ne era uscita solo con una lieve distorsione alla caviglia sinistra. Una spalla lussata per colpa di una caduta e una bruciatura in via di guarigione sotto l’occhio destro, dove una maledizione l’aveva appena sfiorata.
Ma le ferite più profonde erano nell’animo e nel cuore. Ferite che avrebbero continuato a sanguinare per parecchi anni, prima di rimarginarsi del tutto. Ferite che non avrebbe mai permesso a nessuno di vedere.
In quei giorni stava studiando per aiutare madama Chips a guarire i feriti. Aveva abbandonato Mille e una pozioni per la guarigione e aveva iniziato a leggere Il manuale delle fasciature perfette.
Harry e gli altri ragazzi che erano rimasti leggermente feriti stavano aiutando i professori a ricostruire la scuola.
Il resto del mondo magico si stava curando le ferite nell’attesa del prossimo attacco. Un po’ come un gatto che si lecca le ferite dopo la lotta.
Hogwarts, comunque, era tornato il luogo più sicuro per i maghi e le streghe che cercavano un riparo.
Anche senza Silente, Harry era riuscito a vincere quella battaglia. Ma le perdite subite erano maggiori delle aspettative e ognuna pesava sull’anima pura del suo amico a cui era tocccato un destino forse più grande delle sue capacità.
Era dubbiosa sull’esito della guerra. Si era convita che tutto avrebbe avuto una fine quella notte, quando Harry aveva affrontato direttamente quel demone. Invece non era cambiato nulla.
Avevano combattuto, ma non avevano vinto.
La minaccia era ancora presente come un’infernale spada di Damocle.
Ma non era precisamente questo quello a cui pensava mentre masticava l’ennesimo boccone di toast gommoso con la Sala Grande quasi deserta e un silenzio desolate che le ricordava i freddi pomeriggi di Novembre mentre assistevano ad una lezione nell’aula di pozioni, riscaldati solo dal tepore del fuoco sotto i calderoni di peltro.
Dopo la scomparsa di Voldemort era fuggita dalla confusione e dalle lacrime per i morti, per andare a piangere sull’unico cadavere che voleva stringere tra le braccia.
Aveva zoppicato fino alla stanza nella Stamberga dove aveva assistito impotente alla fine di Severus Piton. Stava già piangendo in silenzio quando strisciò fuori dal nascondiglio per immergersi in quella casa ammuffita e sporca di sangue.
Aveva aperto la porta cigolante con mano e cuore pesanti, ricordando a se stessa che la ferita che aveva visto non poteva lasciargli scampo.
Ma sul pavimento non c’era nessun corpo.
Solo una chiazza rossa scura che si stava coagulando sopra le assi semimarce del pavimento.
Era caduta in ginocchio alzando una nuvoletta di polvere stantia, mentre le lacrime le rigavano il volto sporco di terra.
Si era domandata più volte il motivo che aveva spinto Lord Voldemort a recuperare il corpo senza vita del professore di Pozioni. Non capiva cosa potesse volere ancora da un freddo cadavere.
Con questi pensieri nella testa girò pigramente pagina mentre addentava un’altra fetta di pane tostato sporco di marmellata al lime.
Non che avesse fame.
Ma se voleva aiutare Madama Chips in infermeria doveva avere le forze necessarie. O sarebbe passata velocemente da infermiera a paziente.
Passò al capitolo sulle pomate per le ustioni quando una voce femminile ruppe il silenzio in Sala Grande, facendo sobbalzare le poche persone che stavano facendo colazione.
Ginny Weasley, con la nuca fasciata, un evidente occhio nero e un’andatura zoppicante, irruppe urlando e correndo, o almeno cercando di correre, verso il tavolo degli insegnanti che era rimasto intatto al suo posto; una delle poche cose rimaste inalterate della Vecchia Hogwarts. Come la chiamava segretamente lei.
Lasciò perdere libro e toast, alzandosi di scatto come se un petardo cinese le avesse appena bruciato il sedere con le sue poderose fiamme.
Ginny biascicò qualcosa verso la Mcgranitt, che osservò i presenti posando il suo sguardo su di lei.
Non ci fu bisogno di parole o altri gesti. Immediatamente dimenticò tutto e corse verso il tavolo dei professori.
***
Ginny ansimava pesante appoggiandosi al tavolo di legno massiccio con la mano destra, mentre la sinistra premeva sul petto che si alzava ed abbassata seguendo il ritmo del suo fiato accelerato.
La ferita alla testa pulsava, ovattando i suoni attorno a lei. Trasformando ogni singolo rumore in un martellante tamburo che le stava dando una leggera nausea. Una volta aveva ricevuto un bolide nello stomaco, ma neppure allora aveva sentito così tanto dolore.
La botta sul fianco tornò a farsi sentire aumentando le sue vertigini
Con lo sguardo offuscato dalle lacrime vide Hermione correre verso di loro e parlare fittamente con la professoressa di Trasfigurazione.
- Chiama subito i membri rimasti dell’Ordine, Hermione – disse la strega pallida in volto – Dobbiamo muoverci velocemente.
- Cos’é successo professoressa?
- Harry ha avuto un attacco. - Ginny si portò una mano alla testa; il mondo cominciò a ballarle attorno – Ha visto Severus. E’ vivo. Lo stanno torturando.
L’ultima cosa che vide fu lo stupore sul volto della sua amica.
Poi cadde a terra e tutto il mondo fu avvolto da una pesante coperta nera.

***
Camminava su e giù davanti alla porta dell’infermeria.
Non riusciva a stare calma. L’avevano trovato su indicazione di Harry. Più morto che vivo ovviamente; abbandonato nel cimitero di Godric’s Hollow davanti alla tomba di Lily Potter.
L’Oscuro Signore aveva sempre avuto un pessimo senso dell’umorismo.
Deglutì spostando dietro l’orecchio una ciocca di capelli ribelli. Non l’aveva ancora visto, aveva solo intravisto la barella dove Arturh Weasley, aiutato dal figlio Bill e Charlie, l’avevano adagiato per portarlo in infermeria. Non le era stato concesso entrare. Chiuse gli occhi, cercando di non ricordare i macabri dettagli che Harry aveva dato al suo risveglio, sudato e pallido mentre aveva assistito inerme alla tortura di un uomo.
L’uomo più coraggioso che avesse mai conosciuto. Così l’aveva definito più di una volta mentre fissava le fiamme del camino meditando su quanto era successo.
Si mordicchiava la punta del pollice; l’unghia era sparita già da diverse ore.
Era nervosa e non sapeva neppure bene il perché.
O, forse, lo sapeva perfettamente, ma non voleva più dare retta a quella fastidiosa vocina che le sussurrava frasi insensate all’orecchio da quasi un anno.
Tu lo ami.
Scosse la testa eliminando quel pensiero, ma senza allontanarsi dalla porta dell’infermeria. Troppo preoccupata solo per immaginare di fare altro. Troppo presa dal suo dolore per occuparsi di quello degli altri.
Ci vollero altre due ore prima che quella maledetta maniglia della porta si abbassasse e che qualcuno uscisse per darle informazioni.
Minerva uscì dalla porta visibilmente affaticata, pallida come mai l’aveva vista prima. Neppure quando Harry aveva gridato che era stato Piton ad uccidere Silente aveva assunto quel colore. I suoi occhi, appannati dalla stanchezza dietro le lenti rettangolari, la squadrarono per un breve istante.
- Cosa ci fai ancora qui, Hermione?
- Voglio sapere come sta. – disse risoluta, facendo uscire un tono di voce così diverso da quello a cui era abituata la professoressa.
- E’ in coma, ci resterà per parecchi giorni. Forse settimane. I medici del San Murgo non vogliono portarlo in ospedale, dicono che non é il caso di muoverlo. E’ ferito e gli unguenti che prepara Madama Chips non basteranno per le sue ferite.
- Posso occuparmene io. – fece la giovane spinta da un furioso desiderio di rendersi utile – Ho studiato tutti i libri di pozioni medicamentose. So cosa devo fare.
La professoressa annuì, forse non aspettandosi altro dalla sua ex studentessa.
- Potrai usare l’aula di Pozioni e la dispensa. Severus ha sempre provveduto affinché fosse ben rifornita, anche dopo l’arrivo di Lumacorno. Puoi iniziare quando vuoi.
- Professoressa... - mormorò Hermione con un esile sussurro. La sua determinazione era sparita improvvisamente – posso vederlo?
- Al momento no. – rispose la donna stancamente – Il cammino della sua guarigione sarà lungo. E molto doloroso. – aggiunse togliendosi gli occhiali e pulendoli con un fazzoletto preso dalle tasche nascoste nelle pieghe della gonna blu scuro.
- Ma guarirà vero? Insomma é riuscito a sopravvivere al morso di quel serpente.
- Nagini non é velenosa e sono certa che tu già lo sappia.
La ragazza si morse un labbro annuendo. Aveva fatto ricerche dopo la sconvolgente scoperta nella Stamberga. Aveva letto qualcosa riguardo ai serpenti come il familio di Voldemort.
- Le ferite erano molto profonde. – ricordò la Grifondoro – Tutto quel sangue...
- Non so risponderti a questo, Hermione. Forse Severus aveva bevuto qualche pozione. Questo non lo so. So solo che i segni sul collo sono stati medicati. L’hanno fatto stare meglio, per poi torturalo.
Hermione chiuse gli occhi solo per non mostrare le lacrime alla donna.

***
- Lumos!
La punta della bacchetta si illuminò inondando la stanza di una luce diffusa mostrandole la desolazione dell’aula di Pozioni deserta.
Si avvicinò alla cattedra, percorrendo lo stretto corridoio tra i banchi ben allineati.
La battaglia non aveva intaccato quel luogo del castello. Tutto sembrava immutato. L’abbandono era percepibile solo notando il sottile strato di polvere sui banchi vuoti.
Passò un polpastrello sulla superficie dura della cattedra. Seguì la linea di una venatura più chiara del legno, immaginando quelle stesse mani che lei amava così intensamente fare lo stesso gesto, forse in un momento di solitudine. O mentre prendeva decisioni importanti.
Era un po’ come toccare lui. Appoggiò la fronte al piano legnoso della cattedra ormai lisciato dal tempo e dall’usura. Inspirò la leggera fragranza del legno e dei fumi delle innumerevoli pozioni che erano bollite tra quelle mura. Trovandovi anche il suo profumo. Alzò la testa di scatto consapevole di quello che stava facendo. Scosse piano il capo facendo ondeggiare i ricci castani e si guardò attorno.
- Cosa devo fare? – la sua voce echeggiò nella stanza senza trovare una risposta. Si mosse cautamente verso la dispensa degli studenti, cercando gli ingredienti che le servivano per le pozioni medicamentose.
Prese alcuni vasetti, sistemandoli in ordine sul primo banco vuoto a sua disposizione.
Fece volteggiare un calderone fino al focolare spento in mezzo alla stanza e accese il fuoco. Le lingue rosse e arancioni lambirono il metallo, accarezzandolo come un amante affettuoso. Restò a fissarle per qualche minuto, godendosi il tiepido tepore. Chiuse gli occhi mentre la luce proiettava ombre in tutta la stanza, creando mistiche immagini sulle pareti di pietra umida.
Hermione iniziò a versare gli ingredienti, concentrata sulla grammatura di ogni singolo elemento e sull’ordine da seguire. Davanti a lei un libro aperto sulla pagina esatta, pagina che leggeva ad ogni passaggio per non rischiare di sbagliare.
Qui non era a lezione. Qui doveva fare tutto alla perfezione, c’era in gioco la vita di un uomo.
C’era in gioco la vita di Severus.
Ricacciando indietro quel pensiero che la confondeva, la ragazza versò un denso liquido ambrato nel calderone. Il colore intenso e il profumo le fecero tornare alla memoria il whisky incendiario che aveva visto alla Testa di Porco la prima volta che vi aveva messo piede.
Sembrava passata una vita intera da allora.
Il fratello di Silente aveva chiuso la taverna dopo lo scontro con l’Oscuro. Aveva lasciato tutto ed era partito. Troppo vecchio per combattere una guerra che lui riteneva persa. Si domandò se, per caso, Silente avesse fatto in tempo a parlare con lui prima della sua morte.
Sorrise al pensiero dei due maghi intenti a discutere davanti ad un sorbetto al limone, sistemando le cose prima che fosse troppo tardi.
Forse avrebbe dovuto farlo pure lei.
La pozione iniziò a bollire pigramente. Alcune bolle scoppiarono sulla superficie del liquido rosso mentre la ragazza mescolava in senso antiorario cercando di ricreare lo stesso movimento del polso che aveva visto fare al professore diverse volte.
Ci volle quasi un’ora, prima che la prima pozione fosse pronta.
Dopo averla sistemata in un vasetto la inviò direttamente a Madama Chips in modo che potesse usarla il prima possibile. Mentre puliva il tavolo da lavoro, la ragazza si guardò attorno.
In quell’aula era nato il suo amore nascosto per il professore più severo della scuola. Aveva imparato ad amare i suoi modi bruschi. Le sue frasi acide. I suoi sguardi carichi di cinismo. Aveva fissato le sue mani per ore, spesso immaginandole sul suo volto o sul suo corpo. Aveva fantasticato ben sapendo che il suo sentimento non poteva esser ricambiato. Aveva pianto quando era alla ricerca degli horcrux con Harry, lasciando credere all’amico che le sue lacrime fossero solo per Ron.
Aveva imparato ad amare e ad odiare se stessa per quel sentimento che non riusciva a comprendere appieno. Per quello che lei riteneva sbagliato, senza però trovare una soluzione.
Aveva iniziato a vergognarsi per quel misto di sentimenti che le chiudeva lo stomaco quando lo intravedeva nei corridoi o in biblioteca.
Aveva paura di quello che provava. Era capace di offuscarle la mente, non era se stessa e questo non le piaceva. Era abituata a tenere sempre il controllo della situazione, razionalizzare tutto con mente lucida. Ma, con lui così vicino e così lontano nello stesso momento, non riusciva neppure a ricordare il suo secondo nome.
Il banco era stato pulito. Gli ingredienti sistemati al loro posto e una nuova pozione stava sobbollendo lentamente sul fuoco dalle basse fiamme.
Si sedette, con un po’ di timore, sulla sedia che aveva occupato il professore fino all’anno prima e appoggiò la testa sulle braccia osservando il calderone e il fuoco che lo stava scaldando.
Chiuse gli occhi e sperò di trovare una soluzione.

***
Severus era certo di essere morto. E, per un attimo, ebbe paura.
Era abituato al dolore. Ed era stato un processo molto più semplice di quanto la gente pensasse.
Ora quella totale mancanza di dolore fisico lo preoccupò.
Non dolore dell’anima. Quello non se ne sarebbe andato neppure con la morte. Ma era abituato perfino a quello.
Ogni suo errore. Ogni azione ignobile che aveva commesso, o che aveva indirettamente permesso che accadesse, era come una macchia rossa su un manto di neve candita.
La sua anima era la neve. Intonsa. Immacolata. Piena solo di speranza e grandi sogni. Poi erano arrivate le macchie. Scarlatte come il sangue che grondava dalle sue mani. Ed ogni macchia distruggeva un sogno. Intorpidiva il futuro.
Fino a quando non restò solo, e non vi fu più neve bianca. Ma solo sangue.
Ogni assassino è destinato a restare solo.
Attorno a lui solo silenzio e ombre. E tra le ombre si era sempre sentito a casa.
Cercò di muoversi. Un lieve cigolio giunse alle sue orecchie.
I cancelli remoti della memoria si spalancarono. Ricordava quel rumore. La sua immagine gli proiettò lui, ancora studente, sdraiato in un letto con il braccio fasciato. La ferita profonda partiva dalla spalla e arrivava fino a gomito. Anche se la ferita più grossa era insediata nell’orgoglio.
Poi arrivò l’odore. L’odore delle medicine. Degli unguenti. Della pulizia e del sangue.
Del suo sangue.
Ma c’era altro. Un dolce profumo di ciliegia che non ricordava.
Non era morto.
Ma, forse, lo avrebbe preferito.
Iniziò a prendere coscienza della sua posizione. Era supino in un letto. Il corpo era indolenzito, ma non provava del vero e proprio dolore. Erano solo lievi fitte che poteva sopportare senza problemi. Mosse appena la mano destra e si accorse che aveva qualcosa di morbido tra le dita. Respirò piano, cercando di ordinare al suo corpo di reagire. Gli sembrò di aver dormito mesi.
Aprì lentamente gli occhi, anche se la semplice azione di alzare la palpare gli costò una fatica immane. La vista era sfocata. Si sentiva uno zigomo ancora gonfio e un taglio sul labbro. Per il resto gli sembrò di stare bene.
Alzò appena la testa, giusto per qualche secondo, per guardarsi attorno. Mugugnò quando i suoi sospetti si rivelarono fondati.
Non voleva essere lì.
Quella gente si sarebbe aspettata qualcosa da lui. Qualcosa che gli avrebbe portato altro dolore. E lui era stanco.
Stanco di tutta la sua vita.
Era stanco dei doppi giochi. Delle continue menzogne. Era stanco di chiedere un perdono che, sapeva, non sarebbe mai arrivato. Era stanco di lottare per una guerra che gli aveva portato via tutto. Anche la voglia di vivere.
Ma, soprattutto si era reso conte che era stanco di soffrire.
Cercò di ordinare al suo corpo di muoversi. Ebbe solo un leggero spasmo per la troppa immobilità.
Mosse il braccio destro e avvertì un movimento e un leggero lamento. Qualcuno si mosse. Cercò di parlare, ma la voce non voleva uscirgli dalle labbra. Rimase in gola producendo uno strano suono gutturale.
Cercò di muoversi di nuovo, mormorando qualcosa, cercando di chiamare qualcuno.
Sperando di stancarsi così tanto da costringere la vita ad uscire da quel suo corpo vecchio ed inutile.
Ci fu uno scatto improvviso e un leggero urletto che lo fece spaventare.
Anche se soffocato, quel rumore inaspettato gli aveva perforato i timpani. Il materasso che lo sosteneva si abbassò sotto il peso di un’altra persona. Nel suo campo visuale entrò una figura a lui nota. Una ragazza dai cespugliosi capelli castani e dai lineamenti ormai più da donna che da ragazzina.
- Si è svegliato. - mormorò Hermione non riuscendo a trattenere le lacrime – Professor Piton, mi sente?
Il mago chiuse gli occhi e cercò di annuire. Una lacrima della ragazza cadde sulle sue labbra smorte.
- Vado a chiamare Madama Chips. – gli sussurrò all’orecchio mentre iniziava a cadere di nuovo nell’oblio – Torno subito.
Severus dischiuse le labbra permettendo alla lacrima di bagnargli il palato.
L’ultima cosa che pensò, prima di cadere di nuovo nell'oblio, fu che avevano un buon sapore.

***
Hermione piangeva.
Appoggiata ad una delle colonne del portico che univa il cortile d’entrata al lato est del castello.
Era autunno. Le settimane erano passate in fretta e, con loro, i mesi si erano susseguiti come bambini che si rincorrevano.
Era il tramonto. Lingue di fuoco stavano tagliando il cielo azzurro come lame che grondavano sangue. Sangue che presto, troppo presto, avrebbe bagnato nuovamente la terra.
La lotta finale si stava avvicinando. Lo sentiva. Tutti avvertivano l’imminente scontro. L’ultima battaglia. L’ultima speranza per il mondo.
Ma lei non pensava a quello. Si odiava per i pensieri stupidi che affollavano la sua mente. Doveva dedicarsi solo sulla preparazione della scuola per radunare tutti i maghi che volevano combattere. Non ci riusciva. Non trovava la concentrazione adatta.
L’unica cosa che sapeva fare era piangere.
Le porte della scuola si aprirono con un debole cigolio. Dei passi risuonarono nel cortile, echeggiando nel corridoio vuoto.
Chiuse gli occhi e strinse un pugno sulla fredda e dura superficie di pietra.
Qualcuno la superò. Un mantello la sfiorò appena.
- Non puoi farlo… - sussurrò con voce strozzata - non puoi andartene così.
Severus Piton si fermò. Si era svegliato dal coma dopo quasi sei settimane dal sogno che aveva portato i Weasley al cimitero di Godric’s Hollow. C’erano voluti due mesi e decine di pozioni per guarire totalmente ma, finalmente, stava meglio. Il corpo avrebbe riportato varie cicatrici. Di questo, non se ne curava.
Hermione aprì gli occhi, lo sguardo offuscato dalle lacrime e dalla tristezza che le colmava il cuore.
- Non puoi abbandonarci...
- Sono troppo stanco, Hermione. – rivelò il mago, le rughe solcavano il suo volto più emaciato del solito – E non ho più alcuna maschera che mi protegga. Questa non é più la mia guerra. Sono morto troppe volte per avere ancora le forze per combattere. Per ricominciare.
La strega si morse un labbro cercando di placare i singhiozzi.
- Non possiamo vincere senza di te. – due grosse lacrime scintillarono sotto gli ultimi raggi di sole – Non posso vivere senza di te.
Glielo aveva detto.
Si era trattenuta fino a quando il segreto non era diventato doloroso. Come una lama perennemente infilata nel cuore.
Severus fece un leve cenno con la mano. Aveva capito da tempo la natura dei sentimenti della strega. Non era stato difficile, era lampante l’amore che provava per lui. I suoi occhi erano lo specchio di quello che celava dentro. Traboccavano di un sentimento così profondo che era impossibile non notarlo. E, anche in quel momento, si chiedeva cosa avesse visto in un mostro.
- Sei una donna intelligente e molto bella. Saprai trovare la tua strada lontano da me. Il tuo amore é solo un fuoco di paglia che si estinguerà con il tempo. Molto prima di quanto tu possa immaginare arriverà qualcuno che ti farà dimenticare la mia tenebra. Che porterà luce nella tua vita.
- Io voglio la tua.
- Non vi é più luce in me. Solo sofferenza e una coltre di tenebre che nulla può dissipare. Il mio posto non é più con voi. La mia battaglia é finita. Io ho perso la mia guerra.
- Severus...
Il mago voltò lo sguardo verso il sole morente. Le ombre sul viso affaticato lo fecero sembrare più vecchio di quanto fosse in realtà. Agli occhi della donna sembrava un re deposto dal suo trono.
- Mi dispace, Hermione. – fece l’uomo senza guardarla – Ma ho fallito. E, ormai, è troppo tardi per poter vivere un’altra vita.
Si incamminò verso i cancelli della scuola. Fuori dalle mura del castello così da potersi smaterializare nel posto dove avrebbe aspettato la sua fine inesorabile. Lontano da tutti e da tutto.
Solo con il suo dolore.
Hermione cadde a terra in ginocchio. I pugni stretti sulle gambe mentre, con lo sguardo offuscato, osservava la tremolante figura nera allontanarsi.
Quando sparì, il cielo era tinto di sangue.

FINE
   
 
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