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Autore: Invader_from_Hell    03/02/2005    3 recensioni
L’astronauta può essere piacevolmente tentato dal pulsante rosso, l’unico che gli assicuri una fine rapida e che gli possa evitare di contemplare il fallimento della sua impresa. Sul più bello, si sa, non è raro che questo succeda.
Genere: Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sub gelidi aetheris axe

Sub gelidi aetheris axe

 

Abbandonò il sonno, consigliere che sul momento non si confaceva minimamente alla situazione che era chiamato ad affrontare.

Ebbe il tempo di fissare i corpi immobili che coprivano il suolo con lo scioglimento delle ansie e delle fatiche del giorno. Se avesse voluto, quello sarebbe stato il momento migliore per ucciderne uno, oppure tutti. Trovò stupefacente la sensazione che d’un tratto lo destava da una tarda veglia. Erano istanti preziosi, momenti in cui poteva rendersi assassino o redentore, spietato o misericordioso; li poteva scorgere, nonostante il buio avesse ormai reso ogni contorno meno netto, coricati sul suolo verde e generoso.

Senza il benestare dei raggi solari, però, quella verzura non avrebbe differito molto dal gorgo di una palude gravida di insidie. Ma, ancora una volta, proprio lui poteva scegliere se essere l’insidia. Questo assurdo e inaspettato dono di onnipotenza giungeva come ricompensa per una sua strenua resistenza. Una volta che si fossero tutti destati, sarebbe stato il suo turno di addormentarsi e di lasciare che sul proprio pendessero scuri affilate e parole lunghe e complicate. E adesso, che il loro sonno era reale e necessario, a lui era concessa la possibilità di valutare la propria momentanea potenza, la loro necessaria e sempre ventura debolezza. Si dice che il sonno rinfreschi corpo e mente dalla fatica e dalle preoccupazioni; senz’altro vero. E tuttavia, quello era il momento adatto, quella notte stellata e gelida, per stabilire quale delle due sorti abbracciare. Quella di assassino efferato, o quella di coraggioso redentore.

Non volle tuttavia prendere in consegna quella riflessione accessoria, poiché il suo posto aveva iniziato a prendere forma da quanto la notte era calata sugli occhi dei viventi. Uomini si coricavano avvertendo sulla propria schiena lo sconvolgimento ideologico di ogni epoca, mentre usignoli e passeri chinavano la testa sotto un’ala in segno di completa discrepanza con ciò che tuttavia stava accadendo fuori. La pianura vista dal colle si distendeva ai piedi delle alture come la brace di un fuoco che non si estingue. Un formicolio incessante e sereno di luci si incatenava al vuoto, resistendo tra la valle e il vuoto dell’anima di chi poteva osservare uno spettacolo simile. Stette in ascolto, il vento strepitava lisciando il manto erboso che al suo passo scalzo appariva sempre più freddo e umido. Pettinava casualmente i fili d’erba, e l’acconciatura appariva da millenni vitale. Giungeva, quella fredda voce, fino all’ala dell’usignolo che riposava tra le fronde di un albero. Tingeva il contorno dell’eterna protezione e si dissipava in un fruscio che – lui ne era sicuro- avrebbe comunicato ai viventi una qualche visione in sogno. Era una notte stellata e senza luna, piena di spettatori che non avrebbero applaudito. Sarebbe stato una lettura di poesie tra uomini raffinati, che si sarebbero intesi senza parlare, e senza l’intervento della loro padrona, della luce alla quale si sarebbero volentieri assoggettati tutti. Rimase a lungo informalmente paralizzato dalla visione degli alberi, scheletri frondosi che dall’alba della loro placida esistenza vegetale lo ammonivano. Il loro rimprovero era tanto notturno e autorevole che nessuno in condizioni normali si sarebbe permesso di superare i loro tronchi, quell’alta muraglia che circondava i bordi supremi dell’altura, per giungere alla sporgenza ultima del crepaccio. Essi avevano probabilmente fissato ogni Enea in quel modo per secoli; le loro lunghe barbe si agitavano al vento frusciando e sibilando, ed erano quel carattere fisionomico proprio dei re e dei grandi ordinatori di eserciti. Suonavano inni di guerra e diffondevano tramite il vento sagge sentenze probabilmente riportate su libri pesanti e polverosi. Lui, però, si trovava nella condizione di dover avanzare, lui unico rappresentante dei veglianti sulla faccia della Terra, lui solo che era dunque animato dalla sottile esaltazione di chi si trova solo con in mano il pugnale che potrebbe uccidere i compagni o salvare lui stesso. Ma troppo sangue era stato versato, e per questo in fondo erano saliti fino a quella frondosa altura, ed erano venuti al cospetto dei verdi guardiani. Se c’era una qualche speranza di portare tutti alla salvezza, era necessario che lui rimanesse sveglio all’insaputa di tutti, pronto all’apparizione del dio Tiberino o alla caduta in quel multiforme formicolio che erano le opere umane là sotto.

Con passo leggero e misurato attraversò il manto umido, fino a giungere oltre la cerchia di alberi. Lo lasciarono passare, non si abbatterono su di lui e non si serrarono. Un rito che durava da secoli si era ripetuto, e non c’era ragione per cui non dovesse avere luogo proprio in quel momento, in quel luogo.

Il crepaccio pareva inghiottito dalla luminaria a terra. Il vuoto era nero ed indistinto, pareva di poter schiacciare quelle luci vagheggianti con uno scarto di pochi centimetri dal bordo. Pareva che scivolare sull’erba bagnata non sarebbe stata una tragedia.

 

 

Nox erat et terras animalia fessa per omnis

Alituum pecudumque genus sopor altus habebat :

Cum pater in ripa gelidique sub aetheri axe

Aeneas tristi turbatus pectora bello, ...

 

[ Virgilio – Eneide, VIII]

 

La ninnananna cosmica non si sarebbe arrestata, e senza mai guardarlo negli occhi l’avrebbe condotto tramite una fune nella buia sorgente di tutte le luci, quel luogo dove ogni fondamento s’incontra con la sua morte, un infinito e morbido telo nero, genitore e ultima dimora di tutte le cose. 

Rischiarato dalle luci della città l’Illimitato godeva e goloso si avvicinava a lui, attirandolo ai piedi del colle.

Appariva allora chiaro il bisogno di una scelta rapida e cosciente.

Certo, la collina non era più stabile e rigogliosa come lo era nei primi tempi dopo la loro ascesa. C’erano state feste, conviti, c’era stata la Natura e c’erano state notti illimitate e stellate. Tuttavia, le scosse un giorno erano giunte anche le scosse. Si trattava di un sisma strano, che gli strumenti non registrano facilmente, ma uno di quelli che scuote una collina fino a far tremare i cuori di chi la abita. Prima erano state le gracili capanne, leggere come canne vuote, poi le crepe avevano ornato anche la terra, infine le voci. Nondimeno, la voglia di parlarne era a tutti sfuggita da sotto il naso, come un treno che sghignazzando dimentica di effettuare una fermata in una stazione di campagna. Era sua, adesso che stava sulla punta dell’Illimitato, la possibilità di scendere ai piedi della collina ed indagare in quell’immensa madre quale fosse lo stato delle pendici. Sarebbe potuto scendere fino alle radici della Cosa per capirne e curarne le malattie.

Tutto sommato, però, non c’era un solo modo di farlo. Il peso della situazione gravava pesantemente sulle sue spalle, come un astronauta che esce nello spazio aperto per riparare un guasto alla navicella, pena una morte certa. Il povero esploratore cosmico è sempre preda di questa sensazione, l’assoluta necessità del proprio operato, l’aspettativa e la salvezza altrui che dipendono strettamente da un suo gesto o da una sua parola. Non di rado, sembrerà strano, a questa sensazione corrisponde una reazione ancor più angosciante, ma estremamente allettante. Il rischio può apparire tanto grande, e la riuscita tanto poco probabile che l’ipotesi di lasciar perdere appare tutt’altro che indigesta. L’astronauta può essere piacevolmente tentato dal pulsante rosso, l’unico che gli assicuri una fine rapida e che gli possa evitare di contemplare il fallimento della sua impresa. Sul più bello, si sa, non è raro che questo succeda. L’attore principale può essere vinto dallo spavento e dalla disperazione, alle volte la parte da interpretare sembra proprio troppo alta.

E si può ben immaginare che questo fosse all’incirca il suo pensiero mentre contemplava l’intermittenza dello splendore degli insediamenti umani sulla matrice di ogni Cosa. L’oscurità aveva ormai avvolto ogni contorno, e la luna era stata lentamente ricoperta da un modesto strato di nuvole passeggere ma tanto dense che la sua luce non filtrava che in minima parte. La cima della collina era piombata nel buio più totale, rischiarato forse dalle braci fluorescenti che poche ore prima avevano riscaldato una loro vegli serale.

Il pulsante rosso non distava che un passo, solo volendolo avrebbe avuto la possibilità di raggiungere la matrice nel modo più veloce, gettandosi nel vuoto, scorgendo nei pochi attimi della caduta le rotelle fuori posto nell’ingranaggio, e finendo quella corsa folle con una solenne alzata di spalle.

In occasioni del genere non è chiaro se il coraggio che manca sia quello di morire o quello di proseguire nella propria opera accettando il proprio ruolo ed il proprio compito. A dire il vero, sarei in imbarazzo anche dovendo esprimere un mio personale parere riguardo il coraggio che appunto mancava a Lui. Se da una parte la tentazione della morte era chiara nella sua situazione, io non lo direi totalmente privo di fiducia. Senza dubbio era incredibile in Lui il senso di responsabilità, e la paura di vedere le pendici della collina ormai devastate e prossime alla frana decisiva certamente giocò un ruolo decisivo nella scelta che lo trovò risoluto.

E tuttavia io non credo che la sua scelta di portare a termine il suo compito – la sua missione- sia stata suggerita solamente dalla fiducia in ciò che con fatica aveva in quei mesi costruito insieme agli Altri. Per quanto lo riguardasse, non esistevano certezze dello stato di salute della collina.

 Quello che davvero lo spinse a scendere armato di pazienza e determinazione potrebbe essere stata una naturale predisposizione al dolore, voglio dire, un compiacimento per quella sorte tutt’altro che sorridente.

Forse si era immedesimato nella parte e si era convinto che se anche fosse morto dopo aver compiuto l’impresa sarebbe stato ricordato con uno di quelli eroi epici che si studiano a scuola. Magari invece era sceso per contemplare l’entità del suo fallimento e per rallegrarsene abbracciando una qualche teoria nichilista. Credo che dal canto nostro, di semplici osservatori, non possiamo infine azzardare un’ipotesi decisiva.   Non escludo però che, riflettendo su quanto fece poi, ognuno possa giungere ad una propria soddisfacente conclusione. Qualcuno di voi contemplò la scena dal vivo? Lo escludo, ma siccome mi è stata riferita da lui stesso, proverò a riferirvela in modo tale che sia gradevole alla lettura e che sia materia di un racconto né troppo scarno né eccessivamente enfatico.

 

Come appoggiò il primo piede – quello d’appoggio- sulla rupe scoscesa, vide gli alberi iniziare a sparire dalla sua vista. Dopo che ebbe fatto quattro passi molto misurati nel pendio, gli alberi non si vedevano più. La Luna, però, nel frattempo si era liberata delle nuvole che la stavano momentaneamente oscurando, e questo fu per lui un bene, un po’ di luce era esattamente ciò di cui aveva bisogno per tentare la discesa della rupe nel modo più sicuro possibile. In ogni caso capire dove andava a mettere i piedi era cosa difficile. Allungava la gamba nel vuoto nero, aspettando che dall’oscura madre di tutte le cose uscisse una sporgenza, un qualche valido appiglio che potesse reggerlo nella sua discesa. La terra era bagnata e avvertiva il formicolio dell’erba sotto i piedi in alcuni punti, segno che la crescita della vegetazione non si era arrestata, ma anzi stava interessando anche la rupe.

 

 Ibant oscuri sola sub nocte per umbram

Perque domos Ditis vacuas et inania regna.

 

[ Eneide, VI ]

 

Chissà se, mentre si struggeva nell’eventualità che il suo appoggio cedesse, l’idea di tornare indietro balenò nella sua testa. Non ebbe in realtà molto tempo per avvertire il dolore alle mani, né tanto meno per rendersi conto dell’imponenza del vuoto che stava andando ad incontrare. Le luci umane si facevano più vicine, mentre il fruscio degli alberi sulla collina non era che un ricordo ansioso. La luce, che pur sottile gli permetteva di distinguere le proprie mani dalla terra della parete, gli impediva di rendersi pienamente conto di essere ormai entrato nel vuoto da molto tempo. Questo fu un bene, perché in effetti la possibilità che spaventandosi cadesse non era così remota.

Ma scendeva imperturbabile e seccato, credeva che la situazione fosse troppo paradossale per poter provare davvero paura. Con la certezza di morire, poco importa se la fatalità è una mano che perde la presa o un masso che si stacca dalla parete e rotola. Era una discesa troppo veloce e irrilevante per essere narrata con una qualsiasi fervore letterario, scendeva e basta. E in quel momento, non c’era molto altro che potesse fare. Aveva ormai perso l’occasione per uccidere gli Altri, e l’ipotesi di un suicidio pareva sovrapporsi perfettamente a quella stranissima impresa. Improvvisamente il cento si levò più forte. Gli alzò la maglietta accarezzando il suo addome, e gli ricordò che alla fine di quella discesa si sarebbe trovato a contatto con la madre di tutte le cose, quella bolla nera ed illimitata dalla quale tutti ci separiamo nascendo e alla quale aneliamo senza tregua e senza ritegno fino alla morte. Dopo, non si sa se essa accetti di riprenderci al suo interno, o se la sorte che aspetta le nostre sostanze sia totalmente differente. Non ci interessa.

 

Si scosse.

 

L’ultimo passo non era riuscito. Non riusciva a proseguire più in basso, e convinto di dover morire, si stupì non poco accorgendosi di aver toccato terra senza nessun tipo d’impaccio. Alzò immediatamente gli occhi al cielo. La luce non mancava,  finalmente poteva distinguere tutti i contorni come in una normale serata per le strade del centro illuminate dai lampioni.

Credette di sbagliarsi pensando che vera e propria noia fosse subentrata al posto di quel senso di responsabilità provato all’inizio.

La matrice si estendeva ai suoi piedi, ma non era niente di più di un enorme telo nero dal quale continuamente si staccavano i contorni delle cose che immediatamente prendevano forma di case, alberi, uomini, colline…  vi camminò sopra per qualche minuto, avanti e indietro, era morbida. Non c’era una soddisfacente distinzione tra il cielo stellato e l’immensa massa genitrice che avvolgeva la terraferma.

Come avrete tutti capito, due possibilità si aprivano alla sua scelta. Poteva attendere che Anchise emergesse e iniziasse a proferire la sua profezia, oppure iniziare ad ispezionare meticolosamente le radici della sua collina per capire quale fosse il suo stato di salute.

 

Qui, purtroppo, finisce il mio racconto. Avrei voluto sentirne la fine, ma le ultime parole mi giunsero poco chiare, giacché il mio amico che aveva sentito questa storia da Lui stesso me le disse da lontano, mentre se ne stava andando. Non vi saprei dire davvero cosa abbia scelto di fare. Potete scegliere se immaginarvelo stanco ed annoiato, che si aggira sulla membrana della matrice grattandosi la testa, come un eroe in un tempo dove gli dei non scendono in aiuto neppure di Enea.

Ma potete anche pensare che abbia indagato lo stato di salute di ciò che aveva costruito, e che infine sia tornato risalendo la collina per comunicarlo agli Altri.

Non lo so.

  
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