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Autore: ifeelconnection    30/12/2014    2 recensioni
Trailer ff (solo dal pc) : https://www.youtube.com/watch?v=Qo_-XTvXL18&list=UUkTpHJdJ_jh70flk4GhRISg
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E’ l’ultima settimana al Norwest Christian College e Juliet non potrebbe essere più contenta. Con lei c’è Ashton, tra loro c’è sempre stato feeling , ma Ashton e Juliet sono come la corrente elettrica: non sai mai quando può saltare. Una sera si rendono conto che c’è qualcosa di sbagliato nel loro amore, un filo invisibile che li lega, troppo stretto per lasciarli andare ma troppo lungo Poi ci sono Luke e Violet: non sono amici, non sono fidanzati, non sono da etichettare, non ce n’è bisogno. Luke ed Ashton sono in una band, i 5 Seconds of Summer, con Calum e Michael. Calum è un Romeo, ma forse le cose non devono andare come vorrebbe. Michael invece non si fa capire da nessuno, tranne che da Violet. In quel giorno di Gennaio le cose cambiano,quel pomeriggio arriva : forte , terribile , inevitabile. Sarà una lotta tra vita e morte per salvare loro stessi. Le convinzioni saranno stravolte, dovranno combattere per riavere quello che erano e faranno i conti con qualcosa di più grande. Rimane solo una certezza: la loro musica. Avranno il coraggio di ricomciare?
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Feeling Connected

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Giorno 3, settimana 5, Calum Hood: sopravvissuto
Sfogliavo le pagine di un libro che avevo deciso di leggere per zittire tutto quanto. Non ero mai stato un lettore accanito, tutt’altro. Mi ricordo che quando avevo dei libri da leggere per la scuola li lasciavo sulla scrivania della mia stanza per giorni e al termine di consegna non avevo letto più di un capitolo. Nonostante ciò, frequentavo molto spesso la biblioteca da quando avevo messo piede alle superiori. Mi piaceva andarci e sentire tutta la calma che io non riuscivo ad avere. Mi sentivo circondato da persone che potevano trasmettere qualcosa attraverso le parole, quello che anche io cercavo di fare con le mie canzoni. Eravamo più o meno alla pari e la loro compagnia non mi dispiaceva. Ero andato in biblioteca con l’intento di finire parecchie canzoni, come se tutti quei libri mi avrebbero fornito la strofa mancante. 
In quel momento mi trovavo nella stessa situazione. Il  grosso volume blu scuro, poco decorato e con le lettere sbiadite recitava qualche storia dal sapore classico e sofisticato. Chiedevo al defunto Dickens di mandarmi un segnale per scrivere qualcosa di sensato. Avevo sempre scritto nei momenti di difficoltà e l’avevo trovato liberatorio, mi aiutava ad esprimere i miei sentimenti come spesso non riuscivo io stesso, ma questa volta non era semplice; ad essere sincero non era mai stato così difficile trovare le parole giuste. La prima volta che avevo scritto una canzone pressochè seria avevo l’esperienza di un sedicenne ingenuo e inesperto. Non che tre anni dopo le cose fossero cambiate troppo, ma le circostanze purtroppo sì. Quel giugno già rigido me ne stavo in camera mia con la voglia di vivere sotto i piedi. Non ricordo precisamente quello che era successo, però Carrie e i suoi capelli biondi me la ricorderò sempre. Avevo sedici anni e non sapevo come comportarmi. Carrie era la ragazza più timida che io abbia mai conosciuto. Le piaceva passare inosservata e lo era anche per me, fino a quando la professoressa Bailee decise di affiancarmela in scrittura creativa perché pareva non andasse bene. Era molto riservata, non le piaceva chi parlava troppo o la osservava. Parlava quasi sussurrando, trasaliva se qualcuno la sfiorava e teneva sempre gli occhi bassi. All’inizio mi dava parecchio fastidio come si comportava, pensavo che fosse del tutto stupida. Giorno dopo giorno, Carrie mi mostrava una parte diversa e quasi sconvolgente di sé. Giorno dopo giorno, lei si lasciava far conoscere e io imparavo ad apprezzare ogni cosa. Non smetteva mai di sorprendermi. Nessuno avrebbe mai detto che sapesse giocare a calcio meglio di molti ragazzi della scuola. Nessuno avrebbe mai detto che l’unico motivo per cui stava sempre zitta erano proprio le persone di quella scuola. Carrie era convinta fossero tutti completamente insensibili e accecati dalla popolarità. Non le interessava né della gente, né tanto meno della scuola. Il suo unico obiettivo era il calcio. Diceva sempre che voleva far capire al mondo che il calcio femminile è serio quanto quello maschile. Non mi sarei mai dimenticato le treccine che portava fra i capelli lisci, la delicatezza con cui mi teneva la mano e come le piaceva giocarci. Carrie era infinitamente delicata. Era stata per me la prima in tutto, persino a spezzarmi il cuore. Non finiva mai di sorprendermi, chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stata lei, così pacata e cortese, ad andarsene con un ragazzo del college e piantarmi in asso, facendomi sentire solo un altro stupido sedicenne. Lei riusciva a farmi dimenticare i numeri e tutto il resto. Questo fino al giorno in cui aveva deciso di innamorarsi di un tipo del North Coast e ignorarmi. Fu da quel momento, da Carrie che iniziai a scrivere per me e non per la scuola. Quel giugno, Luke mi aveva raggiunto a casa e aveva trovato la strofa mancante a Bad Dreams, la prima canzone che abbia mai composto. Era sempre stato così  con Luke, completava quello che io non riuscivo a finire. Realizzai solo in quel momento quanto effettivamente mi mancasse. 
“ La-Re-Fa diesis ?Hood cosa mi combini?!” 
Avrebbe detto con il suo tono più sarcastico, avrebbe decisamente disapprovato. Mi lasciai invadere dalla fantasia del mio amico accanto a me, come ai vecchi tempi. 
“Calum?” 
Mi girai evidentemente intontito, come se tornassi bruscamente a una realtà a cui non appartenevo. L’infermiera Jona mi aveva appena chiamato dalla soglia della stanza. Era stata lei a rimettermi in forma, una volta arrivato in ospedale. Si era anche sorpresa delle mie condizioni fisiche: a quanto pareva,  ero uno dei pochi a non aver riportato nessuna lesione grave. Dopodiché, ero diventato abbastanza inutile per l’ospedale che mi avrebbe dimesso all’istante, se non fosse stato per la città rasa completamente- o quasi- al suolo. Da quel momento ero diventato una specie di aiuto in più alla marea di infermieri e medici che popolavano i corridoi bianchi del Cumberland Hospital. Giocavo con i bambini, portavo il pranzo o la cena a chi era in brutte condizioni e non poteva partecipare alla mensa, davo una mano in generale e tenermi occupato non mi dispiaceva. 
Annuii incitandola a continuare
“Potresti portare queste scartoffie nell’ufficio del dottor Powell e poi raggiungermi nella stanza 527? Ho bisogno di una mano con certa roba.”
 Aveva un tono molto piatto, era stanca. Non immaginavo nemmeno la fatica di doversi occupare di così tante persone e non avere nemmeno il tempo per occuparsi di se stessi o di cercare i famigliari. Doveva essere terribile. 
“Nessun problema.” 
Chiusi il libro, infilandoci dentro foglio e penna per poi appoggiarli sul comodino di fianco al mio letto d’ospedale. Mi sistemai la felpa e afferrai i fogli. L’ospedale metteva a disposizione dei pazienti parecchi vestiti che dovevano essere devoluti al Terzo mondo. Ultimamente però, il Terzo mondo era Sydney per cui, almeno una volta alla settimana ci dirigevamo in una grande stanza al secondo piano dove si trovavano scatoloni su scatoloni di abiti. Era stato difficile trovare qualcosa che mi andasse anche solo senza cadermi. Ero dimagrito notevolmente, soprattutto da quando Katherine era morta e avevo avuto una fase di rifiuto verso qualsiasi cosa, specialmente del cibo. Non ero più il diciannovenne perennemente stretto nei suoi jeans neri e maglie di bands che avevano segnato la mia adolescenza. Non potevo lamentarmi comunque, dopo tutto quello che avevo visto succedere, mi ero convinto di essere davvero uno dei pochi veramente salvi. 
L’ufficio di Powell era piccolo e buio, straboccava di scartoffie sistemate in disordine in pile in base al colore. Fra tutte quelle pile stavano una scrivania e una sedie illuminate solo da una lampada da lettura. Tutt’intorno finestre trasparenti coperte da tapparelle rigorosamente abbassate davano sull’ingresso dell’area d’accoglienza. Non era la prima volta che ci entravo, anzi, il dottor Powell poteva persino ricordarsi il mio nome, tante volte gli ho consegnato gli ennesimi documenti. Puntualmente, alzava gli occhi dalla scrivania, riponeva la penna nel taschino del camicie bianco e mi dava il buongiorno. Poi prendeva quello che avevo da dargli e lasciava quella stanzina per occuparsi di chissà quale caso. Troppo spesso mi ero trovato a pensare a quanto fosse chiusa, la vita da medico. Ti svegli alla mattina, cerchi di salvare gli altri e non salvi mai te stesso. Certo, le soddisfazioni, certo, la solidarietà, ma alla fine se non sai più chi sei che senso ha occuparsi degli altri? I dottori mi avrebbero sempre messo tristezza, anche se nell’ultimo periodo, mi piaceva non pensare a me stesso, ma occuparmi del resto. Era rassicurante, scappare dalla realtà, anche perché quando avevo del tempo per me, cercavo di evadere scrivendo e i ricordi riaffioravano assieme, riportandomi al punto di partenza. 
Più tardi, passai in caffetteria, ordinai il solito macchiato e mi diressi al terzo piano come mi avevo illustrato un’infermiera. Raggiunsi quest’area che lessi si occupava di “interventi respiratori” o qualcosa di simile. La 527 era l’ultima di una serie di troppe porte. Uguale alle altre, bianca, lunga, anonima. Porta d’ospedale. Girai la maniglia ed entrai nella stanza con lo sguardo basso.  Era una stanza grande, con le pareti di un verde nauseante, un letto bianco e qualcuno steso sopra. Sembrava dormisse. Le lenzuola si alzavano e abbassavano in modo irregolare, sul cuscino una testa di capelli biondo sporco e troppi tubi attaccati al corpo del ragazzo addormentato. Aggirai il letto per raggiungere Jona e solo allora mi accorsi che non era affatto addormentato. Aveva gli occhi spalancati e fissava un punto nell’ignoto. Osservai tutto come se non fosse possibile che ero io, che era lui, che lo vedevo, che avrei potuto persino toccarlo.
“L-Luke” 
formulai senza accorgermene. Il ragazzo spalancò gli occhi ancora di più, se possibile. Tentò di muoversi, ma gli era impossibile. Jona stava facendo qualcosa al macchinario che manteneva a Luke un respiro decentemente domato. 
Mi avvicinai al biondo senza fare nessun rumore, paralizzato più del ragazzo attaccato a centinaia di tubi. Continuai a guardarlo.
“Ca…” cercò di prendere un respiro più profondo, senza successo. “Ca-lum” mi rilassai al suono di quella voce così familiare, che casa mia forse non era così lontana, che forse una speranza ancora c’era. 
Era lui. Era vivo. Il mio primo impulso fu di correre e abbracciarlo, come farebbe un migliore amico, il secondo fu di chiedergli di Juliet, ma poi mi venne un’idea migliore.
“Calum, per favore, passami quella sacca alla tua destra.”
 Disse noncurante Jona. Feci come mi era stato detto e tornai a preoccuparmi del mio amico. Faceva bene e terribilmente male vederlo lì. Se da una parte, sapere che era vivo, a pochi passi da me mi rassicurava, dall’altra vederlo tenuto in vita da una macchina, su un letto bianco che accecava non era mai stato così soffocante neanche nei miei incubi più sfrenati. Improvvisamente la stanza parve girare e le gambe sembravano voler toccare il pavimento, era davvero troppo, l’aria era poca. Camminai quei pochi passi fino alla porta con un’estrema fatica e decisi che avevo bisogno di evadere, evadere assieme a Luke. Mi accasciai contro il muro e cominciai a prendere respiri profondi, tentando di realizzare. Una volta che mi sentii più vivo, corsi –letteralmente- nella stanzetta minuscola che potevo definire camera mia per prendere il foglio dove avevo iniziato a scrivere qualcosa e una vecchia bic nera. Tornai al terzo piano con una strana frenesia in corpo. Le sensazioni erano state così diverse e strane che mi sembrava di star sognando. Incontrai Jona nel corridoio, che ora mi sembrava fosse infinito. 
“Jona, mi occupo io di Hemmings, quello della stanza 527.” 
Questa annuii senza fare troppe domande e proseguì per la sua strada. Entrai nella camera a grandi falcate e con il fiato corto. Il mio sguardo corse precipitosamente al letto, come se volessi accertarmi che fosse effettivamente vero, la mia mano si appoggiò alle barre dietro la sua testa e le uniche parole che vennero fuori, tra un respiro ansante e l’altro, furono
“Hemmings, prima di dire qualcosa, ho bisogno che tu legga questo.”
Gli porsi il foglietto spiegazzato, le righe storte e imprecise, la grafia disordinata. Lui lo prese, se lo rigirò tra le mani e poi lo abbassò, guardandomi sorpreso.
“ ‘Beside you’ ? Calum  ma… e-è…”
“Avevo deciso che sarebbe stata sulla distanza, ricordi?”
Ribattei in cerca di conferme. Il biondo annuì, e mi fece cenno di aiutarlo a mettersi più dritto, cosa che sembrò spezzargli il fiato in due. Mi guardò tendendo leggermente le braccia e io mi avvicinai per abbracciarlo, e lui scoppiò a ridere. Senza capirne il motivo, feci il suo stesso gesto, e lui dovette interrompere la risata per parlare, seppur con fatica.
“Calum, n-non è che… io non sia contento… Ma come la scrivo una canzone senza una penna?”
Concluse tendendo di nuovo le braccia.
 
22 GENNAIO 2012
“Luke! Muoviti, dobbiamo andare da Michael!”
Mi urlò Juliet dalla sua camera, con il tono di chi non ammette repliche.
“No, io non vengo.”
Risposi con tono annoiato dal tavolo della cucina, mentre tentavo di concentrarmi su un foglio e una matita, senza ben sapere cosa farci, così , mentre ascoltavo dei passi rapidi e leggeri scendere le scale, cominciai a scartare le alternative: non ero mai stato un campione d’arte, quindi niente disegno; Non avevo la minima idea di come scrivere una storia che avesse senso, e soprattutto quale senso darle. Dovevo creare qualcosa, sentivo che c’era qualcosa da dire.
“E va bene, vado da sola. Inutile fratello.”
Mi distolse Juliet, lasciandomi un piccolo schiaffo in viso. Non appena la sentii uscire dalla porta cominciai a scrivere tutto quello che mi passava per la mente. La prima parola fu ‘Michael’. 
No, non avevo voglia di vederlo. Troppo freddo e distante, troppo arrabbiato con il mondo. Lo era sempre stato e lo conoscevo bene, troppo bene, per sapere che dietro il suo stato di apparente apatia doveva esserci qualcosa che sicuramente mi avrebbe fatto preoccupare. Michael era un pensiero negativo quel giorno, così usai il gommino rosso dietro la matita per cancellare il suo nome dal foglio, lasciando comunque qualche riga grigio chiaro che indicava che sotto c’era stato scritto qualcosa.
‘Biscotto’
Fu la seconda parola. Cancellai anch’essa dopo circa due secondi, era semplicemente il segnale che avevo fame. 
Dopo aver quindi addentato un cookie al cioccolato mi rifiondai sulla mia opera di scrittura creativa, ancora senza apparenti successi. Questa volta avevo un problema ancora più grande, ero davvero ispirato. Finalmente il nome che mi aveva vorticato in testa tutto il tempo si era deciso ad uscire a tracciare linee precise e scure sul foglio.
‘Violet’
Il problema era che con lei avevo la tendenza a interpretare a pieno la mia sottile bipolarità. Mi sentivo in un modo che cercavo di celare comportandomi totalmente nell’opposto. Quel giorno però mi sentivo nudo, come se tutto avesse smesso di avere importanza e ci fossi solo io, da solo con i miei sentimenti e pensieri. Mi trovai a pensare che magari Juliet aveva ragione, magari stavo diventando gay. Risi ripensando alle sue prese in giro e cominciai a girare sullo sgabello della cucina con il pensiero fisso di una biondina in testa.
‘Mi sembra di giocare a nascondino’
Mi aveva detto qualche giorno prima mentre era assorta nel disegnare, lei che sapeva farlo. Aveva lentamente alzato lo sguardo e si era portata la penna alle labbra, scrutandomi con attenzione. Mi ero avvicinato cautamente quando non guardava e volevo baciarla, ma a un passo dal riuscirci lei aveva indietreggiato dicendo
“Ah-ha. Non si sbircia il lavoro di un’artista prima che sia completo. Passo indietro Hemmings.”
“A me piace infrangere le regole , Hudson.”
E alla fine ce l’avevo fatta, l’avevo baciata, resa mia per un secondo, trovata.
Il pensiero continuava a tormentarmi e riflettei che era proprio il senso di vago che c’era tra noi ad essere la base di tutto. Violet non era scontata. Non era la ragazza che cercavi di conquistare perché la volevi, era quella di cui cercavi l’attenzione, volevi che fosse lei a conquistare te.
Forse era quella la base da cui potevo partire. Avevo una matita, un foglio, Violet in testa e una chitarra dietro la porta. Sapevo esattamente da dove cominciare.
Due minuti dopo ero sotto casa Hood, incerto su come chiamare quel deficiente, e sperando che i suoi non fossero in casa.
“Calum, porta giù quel tuo culetto che fa impazzire mia sorella e porta anche il basso!”
Urlai verso la finestra della sua camera.
“Io appoggio Luke!” rispose una voce femminile “Togliti dai piedi invece di nerdare davanti ai videogiochi!”
Arrossii istintivamente, riconoscendo che si trattava di una Mali Koa che mi sorrideva dalla finestra del salotto con aria divertita. La salutai velocemente, prima che un ragazzo con l’aria di qualcuno che non esce da giorni e un fodero di velluto nero sottobraccio mi superò, facendomi cenno di seguirlo con la mano, senza dire una parola.  Arrivammo nel giardino sul retro e lui tirò fuori un basso vecchio e consunto, molto diverso dal povero Gibs, e cominciò ad accordarlo, cantando una melodia che lui stesso aveva composto e che non aveva mai finito, probabilmente era in cerca di qualcuno a cui dedicarla. O forse, dopo l’ultima volta, aveva smesso di dedicare canzoni.
“Calum ascolta, ho bisogno che finiamo una volta per tutte quella canzone, ho solo bisogno che tiriamo fuori qualche parola.”
“Bad dreams. Si chiama così. Ed era per Carrie, non possiamo metterci Violet di colpo.”
Aveva l’aria turbata, come se avesse capito che io volevo invadere il suo spazio, quando non era così.
“Amico, ascolta. Mettiamo insieme quello che hai scritto tu con quello che penso io. Proviamoci.”
Mi guardò titubante e poi mi mostrò quello che aveva scritto. Cominciammo a suonare le note che aveva scritto e scoprii così che riguardo al testo gli mancava solo l’ultima strofa. All’improvviso però, capii che quella canzone non poteva contenere Violet. Calum aveva ragione, era solo Carrie, e solo Carrie doveva rimanere. 
“Sai cosa, hai ragione, non posso scrivere niente per questa canzone. Secondo me dovresti solo ripetere il ritornello un’ultima volta.”
Il moro mi guardò perplesso e poi alzò le spalle, riprendendo a cantare
‘cause if you wanna take me home
You know I’m ready to leave…”

                                                                                                                                     Luke’s POV

“Don’t ever leave” she said to me
C’era scritto sul foglietto portatomi da Calum, le ultime cose che aveva scritto prima di portarmelo. In un pomeriggio non eravamo riusciti a trovare le parole giuste per continuarla, nonostante avessimo molto da dire e molto da mettere dentro quelle parole. Già una volta avevo evitato di scrivere i miei sentimenti per una ragazza in una canzone, non poteva accadere una seconda volta,e sapevo che Beside You era la canzone per lei. Fiducioso che la sera mi avrebbe portato ispirazione, rimasi lì fermo, a guardare fuori dalla finestra un cielo notturno di un blu cangiante, lo stesso cielo dove a chilometri, forse decine e decine di chilometri da me, c’era Violet. Probabilmente stava dormendo, sapevo che non le piaceva fare troppo tardi la sera, e anche io cominciavo a sentirmi assonnato. Il pensiero, un attimo prima di chiudere gli occhi, era un susseguirsi di cieli e di lei, probabilmente fu proprio questo a darmi la forza di riprendere il foglietto dopo aver subito spalancato le palpebre
But when we both fall asleep
Underneath the same sky
Calum dormiva felicemente appoggiato sulla spalliera dietro il mio lettoma dai suoi movimenti intuivo he stava per svegliarsi,doveva essere davvero scomodo. Sentivo che l’ispirazione tanto attesa era finalmente arrivata, sentivo il cuore battermi forte, come se lei fosse lì con me e mi domandavo se potesse capire che pensavo a lei,come se la distanza non fosse nulla finchè scrivevo quello che sentivo
To the beat of our hearts at the same time
So close but so far away
Can you hear me?
Io non c’ero, magari lei era a casa, i soccorsi l’avevano trovata, stava bene, ma era sola.
She sleeps alone
 Io non c’ero. Anche io volevo tornare a casa, lo volevo con tutto me stesso. Rivedere tutti, rivedere lei.
My heart wants to come home
Non c’ero. Ero lontano, distante, forse vivo ancora per poco, e tutto quello che volevo era tornare a casa, tornare da Juliet, dai miei genitori, ma in quel momento, soprattutto tornare da lei.
I wish I was, beside you.
Nel giro di cinque minuti avevo scritto quello che sarebbe potuto essere il ritornello della canzone, ma non potevo interrompermi, non proprio quando ero finalmente riuscito a tirare fuori qualche vero sentimento. Solo adesso mi accorgevo che Calum si era alzato e spostava lo sguardo da me al foglietto continuamente, esortandomi a continuare.
“Luke, e se Violet si sveglia che succede?”
Mi provocò spavaldo, doveva sempre rovinare i bei momenti, ma quella volta mi fu d’aiuto
She lies awake
Era un verso che ci stava. Come si sarebbe sentita Violet quando svegliandosi avrebbe pensato che probabilmente io ero morto? Cosa le avrei detto quando l’avrei rivista?
I’m tryna find the words to say
Probabilmente le avrei solo detto che mi era mancata, che volevo solo essere con lei
I wish I was , I wish I was, beside you.
Per quella sera vevo scritto abbastanza, strinsi in mano la penna e crollai sul cuscino, sempre il solito pensiero in testa.
All’alba della mattina dopo trovai Calum che scriveva,e mi misi a guardarlo, fino a che non feci cenno di passarmi il foglio, dove di nuovo erano scarabocchiate solo tre righe più precise e leggibili delle mie.
Another day and I’m somewhere new
Diamine se non aveva ragione. I giorni passavano e ogni mattina mi ritrovavo in quest’ospedale lontano e sconosciuto, a cui ero arrivato chissà grazie a quale uomo in tuta rossa.
I made a promise that I’ll come home soon
I ricordi affioravano adesso. Acqua, fredda e nera. Stava per abbattersi su di me ma io tenevo lo sguardo fisso già più lontano, ero già caduto nel momento in cui avevo visto Michael baciare Violet, ero solo in attesa che quell’onda lavasse via tutto quello che io non potevo. 
‘Ti cercherò’
Aveva sussurrato una voce diretta verso una ragazza di fronte a me, probabilmente lei non lo aveva nemmeno sentito, e adesso sapevo di chi erano quelle parole.
Bring me back, bring me back to you.
E adesso nemmeno lui poteva. Le aveva promesso di cercarla, ma non poteva. Sapevo che Calum non mi avrebbe mai lasciato solo, non adesso, e sapevo che Juliet era molto più lontana di Violet. Doveva essere difficile per lui, non mi ero mai reso conto di quanto fosse forte il sentimento che lui aveva per lei. Mi sentii improvvisamente egoista e chiesi al moro di passarmi di nuovo la penna.
When we both wake up underneath the same sun.
Sarebbe stato così, ci saremmo svegliati sotto lo stesso sole, quel sole maledetto che c’avrebbe accarezzato la pelle come a dire ‘io ci sono’, come a ricordare tutte le carezze che non ci eravamo ancora dati.
Time stops, I wish that I could rewind.
E allora ci saremmo immaginati, insieme. Ci saremmo ricordati, insieme. Con tutte le nostre abitudini e le tutte le cose che avremmo potuto ancora fare. Avremmo maledetto quel sole dannato, che sarebbe meglio dimenticare. Si sarebbe fermato tutto, anche il sole. Anche il dolore. 
Mi girai verso Calum e lo trovai con gli occhi chiusi. La musica ci aveva sempre connessi, in un modo straordinario e disumano. Io sentivo lui, lui sentiva me. Sapevo benissimo cosa stava pensando, a chi stava pensando, cosa provava. 
“Ripeti il ritornello, lì.” Esordì, tenendo ancora gli occhi serrati. Poi li aprì di scatto e si girò verso di me. Tentai di sorridergli, ma non potevo mentirgli. Così lo guardai e basta. Ci bastava questo. Io sapevo, lui sapeva. Annuì impulsivamente mentre io piegavo il foglio e glielo porgevo. 
“Per oggi” borbottai senza fiato “è abbastanza.” Conclusi con fatica. Appoggiai la guancia contro il cuscino e rilassai i muscoli. Qualsiasi cosa, adesso, era diventata un’impresa. Soprattutto respirare. O pensare. Decisamente pensare era l’impresa più complicata di tutte. Mi rendeva la vita un inferno, altro che tutte le ferite che avevo ai polmoni. Pensare mi toglieva il fiato dieci volte più dolorosamente. Sentii Calum mormorare qualcosa per poi lasciarsi andare sulla sedia vicino alla finestra. 
Verso le quattro di mattina, o che so io, un orologio non l’avevo, il sole sembrava essere sul punto di sorgere, mi svegliai perché respirare era diventato fastidioso se stavo steso. Tutto sommato, era stata una notte tranquilla. Potevo sentirmi almeno in parte rincuorato, avevo Calum, che era distrutto, ma era anche in piedi, che era spezzato, ma continuava ad essere la mia roccia. Onestamente, non avrei mai capito come facesse a tenere un tale autocontrollo, una tale forza d’animo. Sapevo che in fondo stava male almeno quanto me, ma nonostante tutto riusciva ancora ad avere speranza. Sapevo che ancora sperasse, perché altrimenti non avrebbe mai scritto. Anzi, avrebbe gettato qualsiasi cosa gli avrebbe potuto ricordare la sua vita di prima. Si sarebbe chiuso in se stesso. Probabilmente non avrebbe più parlato. E invece era in piedi. E lottava. Lottava come non l’avevo mai visto fare. Se c’era uno che fra di noi si sarebbe meritato di andare avanti, quello era Calum. 
Dopo poco il sole, quel dannatissimo sole, sorse e tinteggiò quella stanza verde vomitevole di un rosa delicato e quasi poetico. Quella mattina, Calum sembrava essersi già svegliato, sempre avesse chiuso occhio e aveva lasciato il foglio sopra le mie lenzuola, andandosene probabilmente in caffetteria. Scossi  la testa divertito. Non sarebbe mai cambiato. Era così impulsivo che non avrebbe mai permesso a qualcosa di rimanere incompleto. Afferrai il foglio e scorsi con lo sguardo verso la fine, dove la sua fitta calligrafia aveva tracciato lettere e le aveva poi cancellate, ricalcando una frase che sembrava averlo convinto più di altre.
There are pieces of us both
Under every city light
And they’re shining as we fade into the night
 


Writers' Space:

OKAAAAAY. Dopo decenni siamo ancora qui, Martina e Viola, a presentarvi il nostro ultimo capitolo! *clap clap*
Bene. E' stato un capitolo difficile anche per noi, molto, troppo, emotivamente distruttivo.
Eccoli qua, Calum e Luke, anche loro vivi. Sappiamo che sembra piuttosto irreale ma... se avete visto il film The Impossible sapete che i miracoli accadono in queste situazioni quindi, capiteci e amateci. (e amate loro ovviamente). Chi manca all'appello? Mr. Clifford. Che fine ha fatto Juliet? Che cos'ha Luke? Chi ha trovato Violet sulla spiaggia? 
Lo scopriremo nella prossima puntataaaaa.
xoxo (Gossip Girl) ((lmao))
Tita e Vio 
  
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