Traccia 3
Bumblebee – 4.14
Il rumore della pioggia era un contorno perfetto al caldo
del letto di Turner. Abbracciai più forte in cuscino che sprigionò una folata
di profumo. Sorrisi, affondandovi il viso.
"I'm caught up in love, and I'm in ecstasy
What can I do now, when nothing's the same?"
Lo sentii avvicinarsi, ma non mi mossi. Lentamente le
lenzuola mi scivolarono via dalle spalle e una mano calda le sostituì. Turner
percorse l’intera lunghezza della mia schiena con due dita. Seguendo la mia
spina dorsale. Si fermò all’altezza dei reni.
«Hai una schiena bellissima» disse assorto.
«Ti piacciono le cose strane» dissi voltandomi verso di lui. Era su un fianco,
faceva leva su un braccio per potermi sovrastare. Il lenzuolo gli era scivolato fino sul fianco. Mi persi
nella pallidità del suo petto nudo.
"And all that i know, I wanna do it again
Life is so simple when you are with me"
Turner non disse niente. Mi prese la spalla sinistra e la
tirò verso di se costringendomi a voltarmi verso di lui. Prima che me ne
accorgessi la sua bocca era già sul mio costato. Gli infilai le dita tra i
capelli e chiusi gli occhi vittima del desiderio quando cominciò a lasciarmi
dei baci seduttori sul seno.
Ogni volta mi stupivo di come una persona così pallida
potesse essere così calda.
«A me piacciono le cose semplici» disse alzandosi per baciarmi.
«A te piace solo il sesso» ridacchiai e mi sistemai meglio sotto di lui.
«Potrebbe essere» sorrise ed io lo feci di rimando. Turner aveva uno strano
potere su di me, non sapevo dargli un nome, ma quando ero con lui il mondo si
fermava e scompariva.
Aveva la spaventosa facoltà di diventare il mio tutto.
"'Cause when we're together, I'm in ecstasy
I'm in ecstasy
I'm in ecstasy
I'm in ecstasy...."
Quando
sentii suonare il citofono ero già pronta da ormai quarantacinque minuti. Anche
se mentalmente non ero pronta affatto.
Anzi, non
ero nemmeno sicura di quello che avevo deciso di indossare visto che non potevo
immaginare dove Turner mi avrebbe portato a cena. Troppo elegante? Troppo poco
elegante?
Forse facevo
in tempo a….
Al signorino non piaceva aspettare.
Non
riconobbi il ristorante che Joe mi aveva indicato, ma eravamo rimasti in auto
per almeno quaranta minuti quindi non mi stupii.
«Rockstar
sushi bar» lessi.
Sorrisi tra
me e me “Rockstar”, Turner, davvero?
Il posto non
sembrava smodatamente estroso, l’insegna bianco-rossa non era nemmeno troppo
appariscente, non che mi aspettassi mi portasse da Scalini, ma un sushi bar mi
pareva un po’… scialbo?
Tuttavia, appena
misi piede all’interno del locale le mie impressioni vennero subito smentite.
Il posto era bellissimo, molto giapponese ovviamente, ma lo stile era moderno e
pulito. Una attraente donna in kimono rosso mi si avvicinò dedicandomi un
sorriso abbagliante.
«Posso
aiutarla?» oh, amavo l’accento giapponese.
Tentennai. Non
sapevo bene cosa dire, preferii evitare di fare il nome di Turner «Credo che
qualcuno mi stia aspettando» dissi incerta.
«Mi dice il
suo nome, per cortesia?» La donna estrasse dalle enormi maniche del suo
abito una penna ed un quaderno rosso anch’esso. La guardai accigliata, come
poteva stare lì dentro?
Insomma
voglio dire, quelle maniche non erano così grandi…
«Signorina?»
«Si?»
«Il nome»
«Non abbiamo nessuna Lyla»
Sgranai gli
occhi «No?»
«No»
Il panico mi
prese lo stomaco. Per un attimo pensai di scappare fuori nella speranza che Joe
non se ne fosse già andato.
E se questo
fosse solo un brutto tiro di Turner? magari ora era nascosto da qualche parte a
ridere di me.
O magari,
molto semplicemente, mi aveva preso in giro.
E ora? Mi
domandai con quasi le lacrime agli occhi. Non potevo sopportare l’idea che lui
non fosse venuto, il mio orgoglio e la mia autostima non mi avrebbero dato tregua
se fosse davvero stato così.
Proprio
mentre credevo di essere in caduta libera «Ophelia» quasi strillai. La
giapponese fece uno scatto all’indietro, decisi di non curarmene «Cerchi:
Ophelia» ripetei sperando di avere ragione.
La cameriera fece scorrere gli occhi sul quaderno. L’ultima volta che mi ero
sentita così nervosa davanti ad una donna con un libro è stato quando ho dato
il mio GCE.
Il sorriso
sul volto della giapponese si fece ancora più grande quando, finalmente, trovò
la mia prenotazione. «Mi segua, prego»
Attraversammo
tutta la sala, senza fermarci. Mi stava portando nelle cucine?
Proprio
quando stavo per chiederglielo, imboccammo una scaletta a chiocciola nascosta
dal resto della sala. Arrivammo direttamente in una stanzetta arredata come il
resto del locale, ma meno illuminata. Il tavolo era accanto alla finestra e
Alex Turner guardava fuori assorto nei suoi pensieri di poeta.
Capii che
quella stanza doveva essere stata espressamente richiesta proprio da lui, che
mi regalò un sorriso istintivo appena i nostri occhi si incontrarono.
«Ce ne hai
messo di tempo»
«Il tempo è
relativo»
«Vero»
concordò «probabilmente avevo solo voglia di vederti» abbassai lo sguardo,
consapevole che quella non sarebbe stata l’ultima volta che lo facevo.
Don Giovanni del cazzo.
Finalmente
la cameriera se ne andò lasciandomi sola con lui. Mentre mi toglievo la giacca,
Turner si alzò per scostarmi la sedia accanto a lui, ma io mi sedetti di
fronte.
Sorrise
ironico.
«Come vedi»
cominciò una volta seduto «mantengo le promesse. Ti ho portato a cena» Feci un
mezzo sorriso. Certo, l’ultima volta che l’avevo visto era stato meno di una
settimana prima, ma il suo invito a cena era arrivato al nostro primo incontro:
quasi tre mesi fa.
«Con tre
mesi di ritardo» gli ricordai, infatti.
«Dettagli
trascurabili» fece un cenno stizzito della mano.
Mi guardai
intorno. L’atmosfera era più romantica di quanto mi sarei aspettata. Deglutii a
vuoto ricordandomi del motivo per cui avevo accettato il suo invito: farci
vedere insieme. Facile a dirsi, ma Turner sembrava aver preso tutte le premure
possibili.
«Joe si è
comportato bene?» domandò rompendo il silenzio.
«Ha parlato
tutto il tempo»
«Tipico»
«Mi
aspettavo venissi tu» azzardai.
«Ho
preferito evitare le solite… seccature» capii che si riferiva ai paparazzi. Ottimo. Come cavolo sarei riuscita a
farci beccare se lui partiva così già dal primo appuntamento?
«Avresti
potuto avvisarmi»
«Mi
piacciono le sorprese»
«A me no»
precisai. Turner sogghignò alzando le mani in segno di resa.
«Pardon»
disse con tono strascicato.
Notai solo
ora che portava gli occhiali da sole. Caratteristico di Turner indossarli nei
posti chiusi e poco illuminati. Lui era sempre così perfettamente studiato che mi sembrava di finire in uno dei
videoclip di AM ogni volta che lo guardavo.
Portava il
ciuffo perfettamente spettinato.
La bocca perfettamente socchiusa.
La camicia perfettamente sbottonata.
Quest’ultima
mi stava dando dei problemi. Era una semplice camicia rosa antico, ma il modo
in cui la indossava. Mio Dio. Potevo
vedere il suo busto e ogni volta che si muoveva avevo un assaggio del suo
pettorale, ma la camicia perseverava con ostentazione a precludermi la vista
del capezzolo. Era ridicolo eppure quella danza di seta mi stava facendo
innervosire. Non che io abbia mai avuto un culto singolare per i capezzoli
maschili, ma il sapere che era lì e che non potevo vederlo mi torturava. Si
trattava di una questione di millimetri, potevo quasi distinguere il punto
preciso dove la pelle cominciava ad incupirsi attorno all’aureola, ma niente!
Sembrava che anche le pieghe della sua camicia fossero perfettamente studiate. Il fastidio era tale che mi sembrava di
essere appoggiata ad un muro di pietra e che una delle rocce mi si puntasse in
mezzo alle spalle.
Mi resi
conto dell’assurdità della situazione, era lui che doveva fissarmi il decolté e
non il contrario! Eppure non potevo farne a meno. Turner era come un fuoco,
ammaliante, ipnotico e dichiaratamente pericoloso.
Si mosse di
nuovo e io capii che dovevo farlo smettere.
«Puoi
abbottonarti la camicia?»
Aggrottò le
sopracciglia e mi guardò stranito «Come scusa?»
«Per l’amor
del cielo abbottonati la camicia!» sbottai distogliendo lo sguardo che era
stato di nuovo catturato dalla sua pelle pallida.
«Questa sì
che è una richiesta strana» disse allacciandosi un bottone.
Bè si era sprecato.
«Altre
richieste?» decisi di cogliere la palla al balzo.
«Via gli
occhiali» mi rispose con una smorfia da bambino, ma non mi arresi «via»
insistei.
Quando
cedette rimasi stupita dal vedere sul suo viso delle profonde occhiaie
nerastre. Aveva le pupille dilatate e gli occhi stanchi, ma dormiva quell’uomo?
«Anche io
avrei una richiesta» alzai un sopracciglio facendogli intendere che poteva
continuare. «Vieni più vicino»
Col piede
scostò la sedia che avevo ignorato poco prima. Smisi di respirare per un paio
di secondi.
«Se stiamo
di fronte è più comodo parlare» dissi cercando una scusa.
«Da lì non
sento il tuo profumo» Cosa potevo rispondere a questo?
Lo
accontentai.
Mi accomodai,
l’odore di tabacco misto ad un costoso dopobarba mi colpì come uno schiaffo. I
miei sensi sembravano tutti all’erta, come se mi fossi buttata in una pozza
d’acqua gelata. Quel profumo, lo potevo quasi sentire mentre si attaccava alla
mia pelle. Centimetro per centimetro.
«Sai quando
un uomo scosta la sedia ad una donna, lei è tenuta a sedersi sulla sedia che
lui le ha gentilmente scostato. Proprio quella.»
puntualizzò riferendosi a poco prima.
«Altrimenti
lui la minaccia di tenere gli occhiali da sole per tutta la serata?» Piegò la
testa di lato e sghignazzò.
«Non
permettendomi di fare il cavaliere hai messo in dubbio la mia virilità»
Sorrisi e
feci di no con la testa.
«Turner» parlai come se stessi spiegando ad uno
studente che il brutto voto non era frutto della complessità della materia, ma
della sua poca attitudine allo studio. «sei un uomo, di un metro e ottanta
scarso» feci scorrere lo sguardo su di lui, fingendo di soppersarlo «peserai sì
e no 70 kg, e oltretutto, hai addosso una camicia rosa. Se tra di noi c’è
qualcuno che mette in dubbio la tua virilità: non sono io»
Rimase zitto
per un po’, poi aprì la bocca e strizzò gli occhi «ouch» disse portandosi una
mano sul cuore «questa fa male»
«Quale
parte?» mi lasciai scappare un sorriso che cercai di fermare mordendomi il
labbro inferiore.
«I 70 kg»
spiegò «ne peso 65! Dove me li vedi 5 kg in più?» Verso la fine della frase
scimmiottò una cadenza omosessuale che mi fece scoppiare a ridere.
La sua risata non si aggiunse alla mia. Si limitò a sorridere, appagato
dall’avermi fatto ridere per la prima volta da che ci eravamo conosciuti.
Quando
tornai seria i nostri occhi si incontrarono in un minuto vuoto. Non eravamo più
al Rockstar Sushi Bar non eravamo più da nessuna parte. Si bagnò le
labbra e quel semplice gesto mi parve così sessuale
che non ebbi la forza di respirare. Mi passai una mano sul collo, stringendomi
nelle spalle e abbassai lo sguardo. Ero arrossita.
Se mai un
giorno qualcuno mi avesse chiesto di descrivere Alex Turner in tre aggettivi,
da quel momento seppi, che carnale avrebbe fatto parte di quel gruppo.
Nonostante
la testa china sentivo che mi stava ancora guardando. Questa situazione non
prometteva nulla di buono. Io ero lì con uno scopo! Non dovevo distrarmi.
Eppure non riuscivo a capacitami di come quei maledetti occhi neri mi
piacessero così tanto.
Forse era l’idea
di piacergli che mi affascinava? Credo che fosse il desiderio sporco col quale
mi guardava. Era la lussuria di quello sguardo che mi faceva sentire un beat
nella testa. All’improvviso avevo un’idea che mi rimbalzava contro le pareti
della mente e volevo darle delle parole.
Sentivo il
bisogno inguaribile di scrivergli una canzone.
Eravamo in
silenzio da un paio di minuti ormai. Dovevo dire qualcosa oppure quel ritmo che
avevo in testa mi avrebbe fatto impazzire. Non mi lasciava nemmeno lo spazio
per pensare.
Finsi di
interessarmi alla gente che passava fuori dalla finestra «Perché mi hai portato
qui?» Scosse la testa, come se lo avessi ridestato da un non so quale pensiero.
«Mi sei
sembrata una tipa da sushi e qui fanno quello migliore di tutta Londra»
appoggiò un gomito sul tavolo e si avvicinò «Ti piace il sushi, Ophelia?»
Io adoravo il sushi.
«Non mi fa
schifo» mi scostai
leggermente da lui «Ho un’altra richiesta: Non chiamarmi Ophelia»
Turner fece
un’espressione strana, come il principio del broncio di un bimbo. «Ma è un nome
così bello»
«A me non
piace»
«E’ poetico,
bohémienne!»
«Non mi
piace!» mi impuntai.
Turner
sbuffò e con naturalezza prese a giocare con una ciocca dei miei capelli. «E
come dovrei chiamarti, sentiamo?» Appoggiò il viso alla mano con la quale non
era impegnato a mandarmi brividi per tutto il corpo.
«Lyla»
Mi abbagliò
con un sorriso «She’s the queen of all
I’ve seen.» canticchiò «Sei quella Lyla?» Avrei dovuto aspettarmi il
riferimento agli Oasis da uno che era cresciuto a pane e accordi di chitarra.
Non era di certo il primo che me lo faceva notare ed io mi ero scelta quel
soprannome di proposito, ma comunque mi lasciò muta. Cosa mi stava facendo?
Turner era il ragno ed io la sua preda. Mi sentivo come se ogni suo gesto fosse
un filo aggiunto alla tela che mi stava costruendo attorno. Ma perché?
Deglutii a
vuoto ed abbassai lo sguardo.
«Alex, perch…»
«Siete
pronti per ordinare?»
Alzai la
testa con uno scatto, ma quando accidenti era entrata la cameriera? Con un
gesto rapido liberai i miei capelli dalle dita magre di Turner, che mi guardò
contrariato, ma non si scompose più di tanto.
«Ehm..»
borbottai aprendo per la prima volta il menù. Possibile che mi fossi
dimenticata che eravamo in un ristorante e che in un ristorante bisogna
scegliere cosa mangiare? Cazzo, io ci lavoravo in un ristorante! «Io…. non so»
Tutta, tutta colpa di Turner e della
sua voce da incantatore di serpenti! Ogni suono che usciva dalla sua bocca mi
leccava il lobo dell’orecchio e scivolava verso il timpano con un fremito.
«Ci porti un
po’ di tutto» si risolse l’uomo e la voce dei miei pensieri. Lo guardai
accigliata, il suo tono si era fatto stranamente scortese.
«Certo» fece
la cameriera esibendosi in un inchino prima di scomparire giù per le scale.
Stavo ancora
guardando la strana acconciatura della giapponese che si inabissava al piano di
sotto quando Turner richiamò prepotentemente la mia attenzione: Mi prese il
mento tra pollice e indice facendomi voltare verso di lui.
«Cosa stavi
dicendo prima che ci interrompesse?» Scossi la testa, stupita dal suo
comportamento. Ora non ero più sicura di voler toccare quell’argomento.
«Non era
importante»
«Voglio
saperlo» ordinò con un tono brusco che con me non aveva mai usato. «Per la
prima volta mi hai chiamato per nome, quindi doveva essere importante» Lo
guardai indecisa, cercando di capire cosa gli stesse passando per la mente.
Speravo che qualcosa nel suo atteggiamento lo tradisse, ma lui sembrava sempre
impassibile e annoiato.
La mano che
poco prima giocherellava coi miei capelli ora giaceva, abbandonata, accanto al
piatto. Notai un tremolio nervoso del quale non riuscì ad immaginare la causa.
Sembrava che qualcosa lo turbasse. Per un momento credetti che non stesse bene,
ma un tremore alla mano non era di certo sintomo di influenza.
Non so se
Turner si accorse della mia attenzione verso la sua mano, fatto sta che la
nascose sotto al tavolo.
«Ti piace
farti pregare» constatò «peccato che a me piaccia quando le persone fanno
quello che dico»
«Sei un
prepotente»
«Può darsi,
ma ho imparato che i prepotenti ottengono sempre quello che vogliono»
«E dire che
io pensavo fossi uno timido»
«Cosa te lo
fa pensare?» mi morsicai l’interno della guancia. Perché cazzo avevo detto una
cosa del genere? Cosa potevo rispondere? Che lo avevo letto su internet perché
avevo passato il pomeriggio a scrivere “Alex Turner” su Google?
Sorrise
sghembo. Aveva capito di avermi colto in fallo «Sai, Lyla, a volte Wikipedia
mente»
Chiusi gli
occhi per qualche secondo e lasciai che tutta l’aria all’interno dei polmoni mi
uscisse dal naso. Forse speravo di morire sul colpo e salvarmi dalla plateale
figura di merda che avevo appena fatto.
Purtroppo
respirai.
«Sai,
Turner, a volte le persone mentono» mi sorrise compiaciuto della risposta che
gli avevo dato e sinceramente anche io ero abbastanza fiera di me stessa. Mi
era uscita una risposta sagace e non ci avevo nemmeno pensato troppo. Forse era
proprio grazie a Turner. L’essere ambigui e misteriosi doveva essere
contagioso.
Di nuovo ci
incantammo l’uno nel viso dell’altra ed i nostri sguardi si separarono solo
quando la donna col kimono ci mise due piatti stracolmi di sushi sotto al naso.
«Servitevi
pure» Turner le rispose con un cenno della testa.
Lasciò uscire forte l’aria dal naso e fece un mezzo sorriso. «Ho paura di te, Lyla, perché sembri uscita da una delle mie canzoni»
Cornerstone
Chiedo umilmente
perdono. Faccio un mea culpa con tanto di inchino e chiedo venia.
Purtroppo me ne sono successe di ogni in questi giorni. Pensate che il
capitolo era pronto per il 19, ma il mio computer ha deciso di morire.
Aggiungeteci le feste di natale e il tempo per riscriverlo sul computer
di mio padre ed ecco spiegato il tremendo ritardo. Chiedo scusa davvero.
Per farmi perdonare ho messo la slice of life più sconcia tra le bozze che avevo (buongustaie!)
e ho anche deciso di dividere il capitolo in due parti. Riscrivendolo,
infatti, mi sono venute in mente nuove idee e siccome da questo
incontro dovrebbero delinearsi i carattere dei miei personaggi (ah! magari Turner fosse mio) ho pensato di dedicarvi più tempo.
Spero che questo capitolo vi piaccia e vi ringrazio per le recensioni
alle quali corro a rispondere e a chi ha messo la storia tra le
preferite/seguite ho visto che siete aumentati e questo non può
fare altro che rendermi felice!
La canzone di questo capitolo è Bumblebee, ancora dell'ultimo
album dei Kasabian, personalmente ad un primo ascolto mi sembrava solo
una gran miscellanea di rumori, ma ora la adoro con tutto il cuore!
Spero che piaccia anche a voi!
P.s. Non sono sicura che vi serva, ma se non sapete di cosa parlano non potete capire la battua: Nell'ultimo dialogo Alex e Lyla fanno un gioco sul nome "Annie Wilkies" che è una dei protagonisti del romanzo di Spielberg "Misery non deve morire" la battuta del martello si rifà a Annie che per non lasciar scappare il suo scrittore preferito (lei si considera la sua fan numero uno) *SPOILER ALERT* decide di rompergli entrambe le caviglie con un martello.
Vi saluto e vi auguro un buon anno <3