Quando si vive una situazione difficile in un certo periodo della tua vita si ci rende conto di ciò che ti circonda realmente. Si inizia a vedere le cose in maniera diversa, più matura e più egoista. Inizi a vedere e a capire cose che potrebbero avere tutto un altro significato. Ti ritrovi a vedere una mamma che tiene per mano il suo bambino e senti un qualcosa che ti ribolle dentro. Vedi una famiglia felice e rimani a fissarla, e poi fissi il vuoto, e poi di nuovo la famiglia. Infine finisci con il vedere un cane che ti passa davanti e desideri con tutta te stessa di essere come lui. Senza pensieri, senza preoccupazioni, solo accompagnata dall'istinto. Ti ritrovi a desiderare cose che desideravi da tempo, che non hai mai avuto. Desideri un qualcuno che ti stia accanto, degli amici veri che ti sostengano, una madre, un qualcuno. Poi ti giri e sei sola e ti va bene, perché ti piace stare sola e perché ci sei abituata. Finisci con il sederti su un vecchio divano, prendere un libro e divorarlo in un'intera giornata, magari di pioggia. A me piace quando piove, mi è sempre piaciuto sin da quando ero solo una bambina. Ricordo che quando pioveva rubavo una felpa dai vestiti di mio padre, la indossavo e mi guardavo allo specchio. Mi piaceva la sensazione di sentirmi avvolta in un qualcosa più grande di me, mi sentivo così al sicuro e così bene. Dentro me sentivo un calore immenso, guardavo all'interno della felpa e notavo che c'era uno spazio vastissimo, come se quel pezzo di stoffa contenesse l'intero universo. Mi sentivo come un'esploratrice dispersa nei ghiacciai, mentre indossava la sua pelliccia più folta e cercava di sopravvivere col solo calore di essa. Mi sentivo una super eroina, come mio padre. Dopo che finivo di guardarmi andavo alla finestra che avevamo in salotto e mi appoggiavo al davanzale, incrociavo le braccia e mi appoggiavo la testa. Stavo ore e ore a fissare la pioggia e ad ascoltare il rumore ribelle dei tuoni. Mi sentivo così impotente e potente nello stesso momento. Come se il mondo fosse nelle mie mani e mi scivolasse pian piano, poi però riuscivo a riprenderlo e iniziava di nuovo a scivolare e poi lo riprendevo. Quando mia madre entrava in salotto mi guardava confusa, notando la felpa. Io neanche la sentivo e nella maggior parte dei casi mi doveva chiamare due volte per farmi ritornare alla realtà. La guardavo e le sorridevo e lei ricambiava seppur confusa. In quel momento si chiedeva sicuramente perché indossassi una felpa di mio padre e perché fissavo incantata dalla finestra, ma col tempo riuscì ad adattarsi a tutte le mie stranezze. Come quando a sei anni mi ero fissata nel voler un criceto. Ho sempre amato gli animali ma in quel periodo non provavo neanche a chiedere ai miei genitori di avere un cane. Avrebbero detto che era un impegno troppo faticoso a cui una bimba di sei anni non sarebbe riuscita a badare, ed era un essere vivente come tutti noi quindi non si meritava di essere trascurato o addirittura abbandonato. Io dall'altra parte non volevo sentire ragioni dentro di me, io lo volevo un cane. Riflettendoci però mi bastava accarezzare quello del vicino, non volevo che il mio animale arrivato a un certo punto decidesse di scappare o addirittura suicidarsi perché la sua padrona non era riuscita a prendersene cura. Credetemi se vi dico che in quel periodo ero davvero convinta che i cani si suicidassero, per esempio facendosi mettere sotto volontariamente da una macchina ma, comunque sia, avevo solo sei anni. Dopo attente riflessioni optai per un criceto e lo chiesi ai miei. <
La mattina seguente alla passeggiata in spiaggia mi risvegliai un po indolenzita. Non so per quale ragione ma avevo dormito male, di conseguenza un mal di schiena tremendo. In ogni caso la sera prima, di ritorno dalla spiaggia, avevo promesso a Caroline che sarei andata a vedere quanto meno il suo piccolo bar. Sapevo già che l'avrei aiutata, ma se glielo avessi detto probabilmente mi avrebbe vietato di andare con lei. Inizialmente ero indecisa se chiederglielo o no, quindi sono entrata in casa chiudendo la porta delicatamente e mi sono indirizzata direttamente in cucina. Lei era li, stava cucinando qualcosa che alla fine non ho mangiato e gliel'ho chiesto. Solo che ho capito una volta arrivata in camera che avevo sbagliato a rifiutare il cibo. In fondo si era messa ai fornelli pronta per fare uno dei suoi piatti migliori solo per compiacermi ed io, alla fine, ho rifiutato. Ormai comunque ero già stesa sul letto a fissare un punto indefinito del soffitto, di conseguenza ogni mio ripensamento sarebbe stato del tutto inutile. Sarebbe stato inutile sia perché non mi andava di mangiare, sia perché ormai quello che era fatto era fatto e di certo non avevo la faccia tosta di scendere e iniziare a mangiare come nulla fosse magari facendo complimenti di tanto in tanto. Di sicuro mamma non sarebbe stata contenta di me e mi avrebbe rifilato una delle sue frasi stereotipate <
Adesso ero alzata da circa mezz'ora e stavo facendo colazione seduta sul tavolo, di fronte a me Caroline.
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Poco dopo l'avvertii che era sporca così, tra una risata e l'altra, si pulì. Mezz'ora dopo eravamo in macchina per raggiungere il locale situato sulla spiaggia, a circa quindici minuti da casa di Caroline.
Dio come era bello quel posto, se avessi avuto l'occasione lo avrei comprato all'istante. Era un locale modesto, un comune bar sulla spiaggia, ma aveva un qualcosa di magico che ti teneva incatenata a fissare quelle quattro mura. Non so se perché situato sulla spiaggia, o perché venendo dalla Grande mela non avevo mai vista nulla del genere, o perché non avevo mai camminato sulla sabbia prima di entrare in un bar ma quel posto mi fece innamorare. Non un amore materiale, ma un amore concreto fatto di libri e persone. Solitudine e tristezza. Gioia e gratitudine. Inconsapevolmente sarei stata per sempre grata a quel piccolo bar dove l'insegna si reggeva per grazia divina.
Era composto da una piccola veranda fatta di finestroni immensi che lasciavano intravedere tutta quella parte ripiena di tavolini, era la parte esterna. Quel posto che occupavi quando non volevi stare dentro al bar ma volevi ammirare il paesaggio fuori o riflettere e allora ti sedevi nei posti a sedere che erano fuori. Era come le prime sale 3D di un cinema, qualcosa assolutamente da non lasciarti sfuggire. L'interno era modesto, un comune bar. Tavoli di legno scuro, sedie intonate. Sgabelli, bancone color azzurro, pareti color azzurro. In alto a destra, sopra il bancone, oltre allo scaffale per i liquori era appesa una enorme statua a quadro di cera in 3D che raffigurava un pesce spada che usciva fuori sia la coda, sia la testa. Non c'era un Tv, avrebbe rovinato tutto l'ambiente. I clienti erano clienti abituali e si andava avanti in quel modo, soprattutto in una piccola cittadina come Malrose. Nonostante tutto a Caroline andava bene, me lo aveva confermato nei primi dieci minuti di lavoro, quando imparavo come far funzionare la vecchia macchina del caffè. Diceva che a quei clienti, agli “amici” come li definiva lei, doveva tutto perché era grazie al loro che il suo sogno si era reso possibile e non era finito in un secchio di immondizia. Erano vecchi contadini, pescatori o titolari dei negozi vicini che riuscivano a trovare un momento libero per bere una tazza di caffè in bella compagnia. Mia zia conosceva ciascuno di loro e si stupiva quando, entrando nel locale, trovava dei visi nuovi ma, alla fine, anche loro sarebbero diventati familiari trasportati dal carattere esuberante di quella donna bionda. Caroline non l'avevo mai conosciuta, ma avrei imparato a conoscerla negli anni successivi. Col tempo iniziai a capire perché tutti si affezionavano al suo viso e ai suoi modi di fare, iniziai a capire perché ovunque chiedessi tutti rispondevano con commenti positivi. <
Quella mattina il bar non era molto affollato e verso metà giornata quei pochi visi erano diventati familiari anche per me. La cosa che mi stupiva di più era che i clienti non si limitavano a prendere ciò che ordinavano, consumarlo e poi andare via, loro stavano li per tutto il giorno a ridere e scherzare. Per quanto illogico, lo trovavo estremamente divertente. Nel tardo pomeriggio comunque successe un fatto che stravolse un po tutti in quella tipica giornata. Inizialmente non capivo la loro agitazione, era avvenuto tutto in frazioni di attimi. Era entrato un uomo ed era scoppiato un ronzio di voci che erano intente a parlare con chi stava accanto su quell'anima che aveva attraversato la soglia della porta del bar e si era seduta nella piccola veranda esterna. Svolsi il mio lavoro e mi avvicinai a quella figura che, ricurva su se stessa, si sfregava le mani ansiosamente. Avevo paura che da un momento all'altro quell'uomo mi potesse morire d'infarto proprio sotto gli occhi.
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Alzò immediatamente il capo e notai che mi ero sbagliata su tutto. Non era un uomo, ma un ragazzo della mia stessa età o di qualche anno in più. Rimasi pietrificata cercando di capire perché la sua figura fosse così importante da far scatenare un tale scalpore nella quotidianità di un modesto bar sulla spiaggia. Era un ragazzo, un mio coetaneo, che male poteva aver commesso?. Al massimo poteva aver incendiato una panchina comunitaria, dei cassonetti o aver rotto lo specchietto di una macchina, cose che a New York succedevano quotidianamente anche se con adeguate conseguenze. Avevo un espressione preoccupata ma mi limitavo a sorridere. Non mi degnò di una risposta, e mi fece innervosire. Squillò il telefono e rispose.
Cavolo se quella telefonata era stata strana. Inizialmente non aveva neanche salutato, aveva risposto immediatamente con un “Lo so da me, non ho bisogno dei tuoi consigli” poi tutto era decollato in modo precipitoso. Aveva pure urlato qualche frase e, di quello che ho potuto capire, stava parlando con suo padre. Non doveva avere un buon rapporto con lui, dato che aveva esplicitamente detto di provare repulsione per una persona del genere. Eravamo in due, lui odiava suo padre ed io il mio. Ad un certo punto mi ero completamente allontanata mentalmente dalla sua telefonata. Mi sentivo a disagio, come se stessi violando una parte della sua vita che non ero tenuta a sapere. Tuttavia non riuscii a muovermi da quella direzione, ero immobile e lo fissavo pur non seguendo il filo logico. Da piccola mi capitava spesso, soprattutto quando iniziai a vivere con Lexi e Marcel. Non che lo facessi per fargli un torto o perché li odiavo, anzi. Credo che fosse solo quella fase della vita dove l'unica cosa che vuoi fare è isolarti da tutto il mondo perché senti che ad un tratto ti va troppo stretto per continuare a respirare. Per tutta la mia adolescenza ho sentito di aver indossato una camicia di forza, una di quella che l'unica cosa che ti permette di fare è fissare continuamente il vuoto perché non ti lascia passare sufficiente aria nei polmoni per lasciarti gridare. Ho passato momenti tremendi e tutti indossato quella maledetta camicia. In molte situazioni mettevo il frenar mano per paura di inserire la marcia e iniziare a vivere. Così sono stata per tutto il tempo ferma a fissare il vuoto della mia vita, producendo un effetto collaterale chiamato oblio. La mia vita era basata sull'oblio, oblio di un futuro che non riuscivo a vedere, oblio di una vita che non riuscivo a vivere e oblio di una felicità che non avevo mai vissuto, non riuscendo a capire che per superarlo dovevo solamente tuffarmici dentro. Si ha paura di una determina cosa fino al momento in cui non si affronta, ed io i miei problemi non li volevo affrontare ne tanto meno accettare. Avevo paura dell'oblio, ma non di quello che ti faceva dimenticare o non ricordare dagli altri, avevo paura di quello che pian piano mi avrebbe fatto dimenticare me stessa. Ho vissuto metà della mia vita ad evitare le mie paure, a passargli di fianco pur di non andarci contro, e lo sprecata. Ero talmente presa nell'evidenziare i miei problemi che mi sono persa gli anni più belli della vita, anni sprecati che non torneranno mai più indietro e che rimpiangerò fino al giorno della mia morte. Tutt'oggi i problemi sono rimasti, tutt'oggi ho i miei gironi no e non li nego. Oggi posso dire comunque di portare i miei problemi col solo peso delle mie spalle, sono io a governare loro e non il contrario. Con i problemi è rimasta anche l'abitudine di fissare il vuoto o di rimanere immobilizzata in determinate situazioni, ma come essi cerco di gestire al meglio la cosa.
Per questo sono immobile fissando uno sconosciuto che indirettamente mi sta informando della sua vita. Non so se ero curiosa oppure ero davvero immobilizzata dalla strana situazione venutasi a creare ma, fatto sta, ero in piedi davanti al tavolo trentadue con un blocchetto per gli appunti e una penna in mano.
La chiamata si concluse circa dopo quindici minuti e io mi ripresi trovando la forza di fare una qualsiasi cosa.
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Quello sarebbe stato il nostro primo incontro.