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Autore: BloodGirl    01/01/2015    2 recensioni
"La sveglia risuonò, rompendo il silenzio notturno andatosi a creare quella notte nell’oscura stanza.
Si sentì subito stanco, già stufo di quella giornata appena iniziata. Uguale alle altre precedente. Mostruosamente monotona.
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Accese il suo pc, posizionato sulla scrivania, al centro. Attese che i server caricassero ed iniziò a navigare in rete. Non sapeva esattamente cosa stesse cercando. Non sapeva cosa volesse trovare.
Ma di una cosa era sicuro. Voleva diventare più forte. E da solo non ci sarebbe riuscito.
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Aveva un nome strano, non comune per una sostanza del genere.
Guardò il nome. Ghignò, soddisfatto."

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Salve a tutti! Sono Bloody!
Comincio l'anno pubblicando una piccola fic^^
Perché, si sa, chi scrive a Capodanno scrive tutto l'anno XD
Ma comunque spero che vi piaccia. E se volete lasciare un commento, siete liberi di farlo, anche negativo^^
Buona Lettura!
Genere: Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Afuro Terumi/Byron Love, Kirino Ranmaru, Nathan/Ichirouta, Shindou Takuto, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza
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DARKSIDE
 
La sveglia risuonò, rompendo il silenzio notturno andatosi a creare quella notte nell’oscura stanza. Il ragazzo sotto le pesanti coperte balbettò qualche frase sconnessa, che pareva qualche genere di insulto per il brusco risveglio. Spense l’assordante strillo e si mise a sedere, aguzzando la vista e perlustrando la camera buia. La sua camera.
Si sentì subito stanco, già stufo di quella giornata appena iniziata. Uguale alle altre precedente. Mostruosamente monotona. Quindi sbuffò nell’ombra.
Passarono alcuni minuti prima che decidesse finalmente di uscire dal letto. Scostò le coperte e mise i piedi nudi sul freddo pavimento. Un brivido freddo gli percorse la schiena.
Si guardò intorno, ancora indeciso se valesse veramente la pena di vivere quel giorno. Anche se sapeva cosa avrebbe fatto da quel momento fino a quando sarebbe ritornato nel letto quella sera. Solo due cose: studiare e giocare a calcio. E l’ultima era la peggiore.
Da poco tempo, anche se non sapeva esattamente quanto, aveva iniziato a trovarlo odioso. Non si divertiva più, non era più emozionante come un tempo. Per questo si annoiava. Trovava inutile allenarsi.
Mentre rifletteva sul da farsi, ripensò a quando, in prima media, aveva presentato la domanda di iscrizione al club, insieme al suo migliore amico. Un’azione decisamente sbagliata. Con il senno di poi, l’avrebbe volentieri evitata. Scansata, come si fa con una pozzanghera, durante una bella giornata di sole.
Solo quel piccolo momento gli fece cambiare idea. Sarebbe stato a casa, cambiando il corso di quei giorni uguali uno all’altro.
Così, scese in cucina, cercando di sembrare il più malato possibile, mentre i piedi nudi percorrevano gli scalini. Nella stanza trovò sua madre, intenta a preparare la colazione.
-Mamma, oggi non sto molto bene. Posso stare a casa?-
La madre, senza voltarsi, neanche per vedere cosa avesse il suo bambino, gli rispose che avrebbe potuto starsene tranquillo.
-Vuoi mangiare qualcosa?-
-No, grazie. Non ho fame- e se ne andò, di nuovo, verso la sua camera. Aprì la porta che aveva lasciato socchiusa.
Non voleva accendere la luce. Non ne aveva voglia. Voleva solo dormire. O fare qualcosa che non fosse abituale nella sua routine.
Quindi si mise nuovamente nel letto e cercò di prendere sonno. Solo in quel momento, si sentì a disagio. Non tanto per aver mentito a sua madre. Ma per quanto fosse impotente, debole.
Calde lacrime iniziarono a scendergli lungo le guance. Silenziose. Mentre il silenzio della sua camera si faceva sempre più assordante.
Le coperte gli davano fastidio, come un peso troppo grande per lui. E il cuscino era come una morsa intorno alla sua testa. Lo faceva pensare. Pensare a troppe cose dolorose per lui. E non voleva.
Si alzò di scatto dal letto, sentendo un improvviso gelo che gli congelò le membra.
Si mise seduto su quella che una volta era la sua sedia preferita. Ora, non aveva più un valore. Era semplicemente una sedia. E lo trovò triste.
Accese il suo pc, posizionato sulla scrivania, al centro. Attese che i server caricassero ed iniziò a navigare in rete. Non sapeva esattamente cosa stesse cercando. Non sapeva cosa volesse trovare.
Ma di una cosa era sicuro. Voleva diventare più forte. E da solo non ci sarebbe riuscito.
Quando trovò, su una pagina criptata, una strana sostanza dopante. Una sorta di amplificatore delle proprie abilità. Vi era scritto inoltre gli ingredienti con cui era stata fabbricata. “Sostanze chimiche facilmente reperibili” pensò, continuando a leggere, interessato all’articolo.
Era illegale. Non capiva perché si trovassero queste informazioni. Ma erano comunque interessanti. Poi arrivò alla parte degli effetti collaterali. Erano tantissimi. Infiniti.
Ma non importava. Poteva facilmente prepararsela, quella sostanza. Come si chiamava?
Aveva un nome strano, non comune per una sostanza del genere.
Guardò il nome. Ghignò, soddisfatto.
 
***
Riccardo Di Rigo, il ragazzo così detto perfetto,  stava percorrendo il viale che portava all’ingresso della sede del club di calcio della Raimon. Probabilmente era in anticipo, come sempre. Nessuno dei suoi compagni avrebbe mai usato parte della pausa pranzo per andare al club.
Ma poco importava. Così avrebbe avuto tutta la calma per prepararsi.
Infatti, vide con i suoi occhi che era come se lo aspettava. La sede era deserta. Vi era solo l’allenatore Evans, intento a guardare alcune carte.
-Buongiorno allenatore Evans!- salutò.
-Oh, ciao Riccardo!- ricambiò.
Il centrocampista si diresse subito verso gli spogliatoi. Si abbandonò su una panchina, davanti ad un armadietto. Silenzio. Quanto amava quel suono. Così calmo e tranquillo.
Passarono cinque minuti, solo cinque minuti. Poi arrivarono Arion e Jp. Il silenzio e la pace furono interrotti dalle loro parole.
Pian piano arrivarono tutti. Chi prima e chi dopo. Normalmente.
Si cambiarono velocemente, ansiosi di iniziare l’allenamento. L’allenatore fece un breve appello, e poi iniziarono.
Un allenamento normale. Qualche giro di campo per scaldarsi, per poi passare ai tiri in porta, esercizi di dribbling, tattiche difensive , schemi e quant’altro.
In un paio di ore il sole tramontò dietro all’imponente edificio scolastico. E fu ora di rientrare. Tornare a casa.
Esausti, andarono a cambiarsi la tuta fradicia di sudore. Nonostante fosse stato un allenamento normale, come tutti gli altri, era stato divertente. Come sempre, del resto.
-E anche oggi è finita-
-Non mi dire che sei stanco, Samguk. Non hai fatto nulla-
-Si certo, più di te sicuramente…-
-Io farei volentieri altre due ore di allenamento!-
-Non ti sono bastate, Arion?-
-No! Giocherei ancora fino a notte fonda!-
-Certo che non ti stanchi mai…-
-Qualcuno ha visto i miei pantaloni?-
-Come hai fatto a perdere i pantaloni?!-
-Non lo so!-
Le chiacchiere continuavano a farsi sentire. Chi con frasi senza senso, chi invece, parlava solo per fare commenti sull’allenamento.
Riccardo si stava infilando la giacca della sua divisa, quando vide il suo migliore amico prendere una bottiglia dalla sua borsa. Conteneva un liquido incolore. Acqua, probabilmente.
-Sei assetato, vedo- commentò, allacciandosi il primo bottone.
Gabriel annuì, portandosi la bottiglia alle labbra e bevendo l’acqua che conteneva. Fece una piccola smorfia, ma Riccardo non la vide.
-Acqua!- esclamò Aitor, indicando la bottiglia. Subito si fiondò dal rosa e gliela strappò di mano.
-Aitor, non ti ho dato il permesso- disse Gabi, abbastanza serio guardando, o meglio, fissando la bottiglia in mano all’amico.
-Non te la prederai mica se bevo un po’ della tua acqua?- ghignò Aitor, facendo come per berla, in un gesto meccanico, senza pensarci.
Gabi si alzò dalla panca dov’era seduto. I suoi occhi erano pieni di rabbia, l’espressione deformata, nonostante l’oggetto della lite fosse solo un po’ d’acqua.
Riccardo gli mise una mano sulla spalla, con la giacca ancora semi aperta.
-Non stai esagerando, Gabi? È solo acqua- disse Riccardo cercando di fargli capire che non valeva la pena di litigare per una cosa del genere, come una banale bottiglia di acqua.
-Dammi subito quella bottiglia, Aitor- pronunciò serio Gabi, senza la minima emozione nella voce.
-Altrimenti, cosa mi fai?-
Gabi non disse nulla a quelle parole provocanti, cercò di mantenere la calma. Com’era solito fare. Ma lui non era il solito. Non più. E non valeva la pena ritornare ad esserlo.
-DAMMELA SUBITO!-sbraitò, con gli occhi rossi dalla rabbia. Sembrava un demone con quell’espressione. Un grosso demone, pronto a strappare ogni tuo singolo brandello di carne. Per farti a pezzi e mangiarti, mentre il tuo cuore pulsa ancora nelle tue carni. Un tono di voce mai sentito dai suoi compagni di squadra. Neanche il suo migliore amico l’aveva mai sentito parlare così.
Era come se si sfogasse, utilizzando tutta la voce che aveva in corpo, smossa dall’ira che l’insignificante gesto del numero quindici aveva provocato.
I suoi compagni si spaventarono. Anche Victor, che già di aspetto faceva paura ad un bambino, rimase scosso dal comportamento di Gabriel.
Aitor diede subito la bottiglia a Gabi, o almeno questa era l’intenzione. Quando pensò che fosse uno scherzo, per fargliela pagare di tutti i dispetti che gli aveva fatto. Così credeva. E non gliel’avrebbe data vinta.
Si porto la bottiglia alla bocca e iniziò a berne un sorso. Ma dovette subito sputare quel liquido.
“Questa non è acqua” pensò immediatamente. Andò persino in bagno per risciacquarsi la bocca da quello schifo, mentre gli sguardi degli altri giocatori diventarono sempre più curiosi e preoccupati.
Gabi non cambiò espressione, anzi. Sul suo volto comparì un piccolo ghigno, appena visibile. E quel dettaglio fu visto solo dal suo migliore amico.
Aitor tornò dai servizi e urlò contro il suo compagno più grande:-Cos’era quella roba?!-
-Te l’avevo detto di ridarmela…- rispose solo, riprendendo la bottiglia che Aitor aveva rubato.
-Cosa c’era in quella bottiglia?- chiese più cortesemente Riccardo all’amico, mentre questi la riponeva nella sua borsa.
-Non sono affari tuoi- disse secco, senza nemmeno guardarlo.
-Gabi, cos’è quella sostanza?- provò con un tono più deciso. Ma ottenne la stessa risposta, con la stessa voce.
Il rosa prese la borsa, se la mise in spalla e, senza nemmeno cambiarsi la divisa, se ne andò, lasciando i suoi compagni interdetti e preoccupati.
Gabriel se ne andò al campo al fiume e riprese ad allenarsi, come da un mese a quella parte.
 
***
Il giorno seguente, Riccardo era molto preoccupato. Gabriel non si era presentato agli allenamenti della mattina. E neanche a scuola era presente. Almeno, per quelle prime tre ore.
Era il momento della pausa, ma per la sua mente non lo era. Solo un altro momento per riflettere su che cosa contesse effettivamente quella bottiglia. Perché era cambiato all’improvviso? Non sapeva dare una risposta a quella domanda.  Neanche un piccolo indizio. Ma il suo intuito diceva che, sicuramente, quella bottiglia c’entrava qualcosa.
Camminava insieme a Samguk. Anche lui non sapeva spiegarsi l’improvviso mutamento del suo amico. Ma era più ottimista di Riccardo.
-Stai tranquillo. Gabi non ha mai dato preoccupazioni. Sarà solo un momento un po’ difficile. Magari ha avuto problemi in famiglia…-
-In questo caso me ne avrebbe parlato. Non so. E poi è strano. Ha cambiato atteggiamenti, carattere, come si rivolge alle persone e persino come si allena a calcio. È tutto troppo differente-
-Secondo me invece ti stai facendo solo inutili paranoie. Perché non andiamo a fare due tiri? Mancano ancora cinque minuti prima della fine della pausa…- propose Samguk, cercando di sviare i pensieri dell’amico.
Riccardo annuì e lo seguì verso il campo da calcio esterno della scuola. Ma appena giunsero, videro qualcuno mentre stava tirando in porta, deformando la palla a causa dell’immensa forza in quel tiro.
-Oh guarda! C’è già qualcuno che sta giocando… -gli fece notare il portiere.
Riccardo lo vide distrattamente. Essendo più preoccupato per suo migliore amico. Finché, proprio mentre era assorto in questi pensieri, percorrendo le scale verso il campo, la figura misteriosa che era già ad allenarsi, calciò la palla nella sua direzione. Non fece in tempo a recepire il messaggio del suo cervello di spostarsi, era come paralizzato.
Per fortuna Samguk riuscì a mettersi in mezzo e pararla in qualche modo. Ma la forza delle sue mani non era abbastanza e dovette bloccare il tiro con il busto. Appena la palla toccò il petto del portiere, Samguk sentì i polmoni svuotarsi.  Era un tiro mostruosamente potente. Troppo potente per lui.
La palla schizzò via. Samguk cadde a terra, sfinito per la parata improvvisa.
Riccardo si distolse dai suoi pensieri e aiutò l’amico ad alzarsi, cercando di non fargli male. Quel colpo era stato disumanamente forte. Nessuna persona, neanche con una grande tecnica e potenza, avrebbe potuto  eguagliare quella distruzione.
-Ehy, tu! Cosa avevi intenzione di fare?!- gridò Riccardo verso quella persona. Solo ora si accorse che non indossava nessuna divisa. Era vestito di nero, completamente. E il suo volto era coperto dal cappuccio color pece della felpa che indossava. Non era riconoscibile.
-Mi hai sentito?!- esclamò ancora, spazientito di non aver ricevuto alcuna risposta. Non la ricevette ancora. Così si decise a vedere di persona quali fossero le intenzioni di quel ragazzo.
-Sto parlando con te!- irruppe mentre scendeva i restanti gradini, lasciando da solo Samguk. Questi guardava quell’assassino con odio, ma anche chiedendosi il perché gli avesse fatto male.
Intanto Riccardo raggiunse il misterioso ragazzo e il portiere decise di raggiungerlo. Voleva anche lui delle spiegazioni.
-Perché gli hai fatto male?!- chiese fuori di sé, ansioso di dare una risposta alle sue domande. Samguk lo raggiunse e guardò il ragazzo dall’alto in basso.
Il misterioso giocatore si voltò, facendo intravedere appena il ghigno che aveva disegnato sul volto. Infine, dopo aver guardato con i suoi occhi enigmatici nascosti nell’ombra i due individui di fronte a lui, rispose alle domande del moro:-Perché mi andava di colpirlo-.
Alzò le spalle. Riccardo era abbastanza furente. Ma, facendo più attenzione, si disse che quella voce gli era familiare. L’aveva già sentita molte volte scambiare parole con lui. Non sapeva abbinarla. Non riusciva a figurarsi la persona dietro a quella voce.
Anche Samguk l’aveva notato. Anche per lui quelle parole, quel tono, quel modo di parlare erano dannatamente familiari. Ma non sapeva chi si nascondesse dietro a quel cappuccio.
Finché suonò la campanella. La pausa era finita e dovevano ritornare in classe. Samguk e Riccardo si voltarono solo un attimo in direzione della scuola, per verificare con i loro occhi tutti gli studenti che entravano per non fare tardi.
Quando diressero di nuovo il loro sguardo verso al ragazzo, questi era sparito. Senza lasciare alcuna traccia. Neanche il pallone, poco prima lanciato contro il portiere.
 
***
Dopo la pausa pranzo, le lezioni finalmente terminarono. Arion non poteva stare un minuto di più fermo, seduto su una sedia ad ascoltare un adulto che non parlasse di calcio.
Mise via in un lampo tutto il suo materiale scolastico. Si alzò e in compagnia di Jp e Sky, corsero verso la sede del club di calcio per allenarsi in quel magnifico sport.
Però, appena furono fuori dalla porta sentirono un vociare all’interno non indifferente. Sembrava un misto di voci inferocite e deluse. Quindi entrarono subito, piuttosto allarmati.
Appena furono dentro, videro i loro compagni parlare animatamente, attorno ad un grande tavolo.
-Ciao ragazzi!-salutò con il suo solito entusiasmo. Ma nessuno parve ascoltarlo. Così urlò di nuovo il saluto e questa volta lo ricambiarono, distrattamente, per poi rimettersi a discutere.
-Non possiamo lasciarlo a piede libero!- disse deciso Samguk, riprendendo il discorso interrotto.
-Magari è solo un ragazzo fuori di testa… - provò a spiegare Lucian, poco convinto delle sue stesse parole.
-Cosa succede ragazzi?- chiese Jp, balzando su una sedia per partecipare anche lui al dibattito.
-C’è un ragazzo, vestito interamente di nero e incappucciato, che da oggi sta aggredendo i giocatori di calcio della Raimon- informò Jade, anche lei seduta al tavolo.
-Aggredendo? In che senso?- domandò timidamente Sky, avvicinandosi alle amiche.
-Nel senso che si diverte a prenderci a pallonate! Per poco, Riccardo e Samguk, durante la pausa, non si sono fatti molto male. E anche Michael e Victor sono stati colpiti da queste pallonate che calcia!- disse Wan Li, battendo un pugno sul tavolo.
- Fortunatamente, il nostro amico non ha una buona mira… -commentò ironico Michael.
-Ma dobbiamo fermarlo subito! È troppo pericoloso!-
-È quello su cui stiamo discutendo da mezz’ora. Quando arriverà anche l’allenatore Evans, glielo diremo- comunicò Riccardo, con un’espressione molto seria.
Dopo di che, andarono verso gli spogliatoi e iniziarono a prepararsi per l’imminente allenamento pomeridiano.
La situazione era molto tesa. Nonostante alcuni non sapessero i dettagli, quella figura nera, quel ragazzo, faceva paura. Il silenzio poteva essere tagliato con un coltello. Era tombale e ansioso.
Una volta pronti, uscirono dalla sede e andarono verso il campo. Dell’allenatore Evans non vi era ancora traccia e i ragazzi cominciarono a insospettirsi.
-Ragazzi, dov’è Gabi?- chiese Aitor, un po’ in colpa per quello che era successo il giorno precedente.
-Oggi a scuola non c’era. Era assente- disse preoccupato il migliore amico del rosa.
Durante quel piccolo scambio di parole, giunsero al campo e videro che l’allenatore Evans si trovava già lì.
Ma, in sua compagnia, vi era lui. Quella figura nera che da quel giorno aveva iniziato a tormentare i giocatori più forti della Raimon.
-Cosa ci fa qui, quello?!- domandò Lucian, un po’ intimorito, retrocedendo tra i suoi compagni.
Mark, che si trovava al centro del campo con davanti il misterioso ragazzo, vide i suoi giocatori e fece un cenno loro di raggiungerlo.
I ragazzi fecero come era stato detto. Scesero i gradini, tutti uniti, e arrivarono al fianco dell’allenatore Evans. Fu Riccardo a rompere il pesante silenzio che si era venuto a creare:- Chi sei?! E cosa vuoi da noi?!-
Il ragazzo, il suo volto semicoperto, ghignò. Anzi. Rise.
Rise come si ride ad una barzelletta. Ma nella sua risata vi era qualcosa di malvagio, cattivo. Qualcosa di tremendamente pauroso nelle sue risate, così familiari per qualcuno dei giocatori.
Poi rispose, con un tono calmo e, allo stesso tempo, indifferente:- Dovreste conoscermi-
Ma ai ragazzi non veniva in mente nessuno a cui potesse appartenere quella voce. E neanche quella risata malefica.
-Cosa vuoi da noi?!- ripeté Arion, facendo eco alle parole di Riccardo.
-Cosa voglio? È molto semplice, la vendetta!- assunse un ghigno malvagio, da malfattore. Lo stesso che Victor aveva, quando faceva parte del Quinto Settore.
I ragazzi non capivano chi fosse e di quale vendetta stesse parlando. Ma solo su una cosa, tutti erano d’accordo: dovevano fermarlo. E l’unico modo che avevano usato, fino a quel momento, era districare la faccenda con una partita a calcio.
-Ti sfidiamo ad una partita! Se vinciamo te ne andrai!- gridò Arion, il solito incosciente.
-E se vinco io?-
-Avrai la tua vendetta!- disse più convinto il numero otto della Raimon.
-Ma Arion, se vince lui ci farà del male!- piagnucolò Eugene, avvicinandosi all’interpellato.
-Lo so, ma non ci può sconfiggere da solo- poi si rivolse all’avversario e domandò, sfidandolo:-Accetti?-
Il ragazzo in nero sospirò, anzi, sbuffò annoiato.
-Non cambierai mai, vero Arion?- disse, con un altro soffio infastidito.
-Come fai a sapere il mio nome?!-  esclamò il capitano.
-L’ho detto che dovreste conoscermi. Ma forse ero troppo debole per essere preso in considerazione –rabbia in questa ultima frase. Troppa rabbia repressa –Accetto la sfida, ad una condizione-
-Quale?-chiese l’allenatore Evans, avendo forse già intuito quello che avrebbe preteso.
-Che l’allenatore Evans giochi nel ruolo di vostro portiere- e ghignò, sicuro di sé.
-Accettiamo!-
-Ma, allenatore Evans…-
-Fidati Arion. È per il suo bene-
-Bene. Anche noi avremo una richiesta da farti- controbatté Riccardo, giocando abilmente le sue carte.
Il ragazzo non rispose. Si limitò ad alzare le spalle ed annuire annoiato dell’insulsa richiesta.
-Scopriti il volto- continuò deciso il numero nove.
Alzò nuovamente le spalle.
E venne il momento cruciale.
I cuori dei giocatori battevano a mille. Non sapevano chi ci fosse sotto a quella maschera. Ma avrebbero dovuto saperlo. Dalla voce e dal momento che lui stesso lo aveva detto.
Il ragazzo in nero portò la sua mano destra al bordo del cappuccio color pece, lo tirò indietro e scopri il suo volto. I giocatori rimasero basiti.
Gli occhi, una volta azzurri come il cielo più sereno, ora erano intrisi di oscurità e parevano scuri come una tempesta. Non neri, ma blu. Come l’abisso più profondo, che non vede mai la luce.
I codini rosa che un tempo gli davano un’aria allegra e gentile, ora più scuri, legati in un’unica coda, quasi alla base del collo. I capelli davanti gli coprivano gli occhi, quasi completamente.
La bocca piegata in un ghignò che non gli apparteneva veramente.
Riccardo, più di tutti, si stupì da quello che il suo migliore amico era diventato.
-Ga..Gabriel…?!- non ci poteva  credere. Gabriel era diventato un mostro che faceva del male alle persone. Non voleva crederci. Quello era solo un brutto sogno, un incubo.
Ma, purtroppo, era la pura verità.
-Pensavo che l’avevate già capito. Quanto siete scemi- disse Gabi, scuotendo per l’ennesima volta le spalle.
-Perché?- chiese Arion al posto del castano, troppo sconvolto per dire anche solo un sussurro.
-Uff, perché devo ripetere le cose? Per vendicarmi, mi pare ovvio- rispose stizzito da quella domanda assolutamente inutile.
Poi, prese tra i piedi il pallone che aveva avuto fin dall’inizio accanto a sé. Iniziò a palleggiare. Subito mostrò un altro modo di giocare a calcio. Più violento e irrequieto. Non gli apparteneva.
Mentre palleggiava con il pallone in un maniera così strana, che pareva aliena, Riccardo gridò:-Vendicarti di che cosa?!-
L’intera squadra rimase interdetta. Anche l’allenatore Evans rimase abbastanza stupito, ricordando quello che anche lui aveva passato.
Gabi alzò le spalle e sviò il discorso:-Allora, volete fermarmi, oppure siete diventati deboli solo perché un vostro amico è diventato più forte di voi?-
Ancora rabbia nelle sue parole.
Ma non le percepirono, al contrario del numero nove. Gli sorse un dubbio, una piccola scintilla sul motivo per il quale fosse diventato un mostro del genere.
In pochi minuti i giocatori della Raimon e Gabi si disposero in campo. Ma il rosa era da solo. Senza una squadra.
-Uno contro undici. Una bella sfida!- ghignò, per nulla infastidito dall’ingiustizia. Anzi, quasi divertito.
Rosie fischiò timidamente l’inizio della partita.
La palla ai piedi di Victor, in attacco, passò a Michael. Ma non fece in tempo a prenderla, a ricevere un passaggio così vicino.
Gabi si era messo in mezzo. Aveva rubato in un lampo, veloce come la luce di un temporale, la palla e si stava dirigendo verso Mark, in porta.
Il portiere si mise in posizione e si concentrò.
 
-Pronto?-
-Pronto. Sono Mark-
-Oh, ciao Mark!-
-Ciao. Ascolta, potresti venire alla Raimon. Adesso?-
-Certamente. Perché? È successo qualcosa?-
-Un ragazzo…-

 
Gabriel si fermò di colpo, arrestando la sua corsa. Guardò negli occhi Mark, il suo allenatore. Poi disse, mettendo un piede sopra la palla:-Credo che tu conosca questo colpo. L’ho imparato da poco-
Ghignò.
Due immense ali bianche gli comparvero sulla schiena, un vento forte iniziò a soffiare, facendo volare alcune piume bianche dalle sontuose ali.
Gabi si alzò in volo, insieme al pallone.
Fu solo allora che Mark capì.
Capì, anzi ne ebbe la certezza, come si era trasformato in quello stato, perché era così mostruosamente forte e veloce, perché sapeva usare il “Colpo Supremo”.
Non vide la palla arrivare, chiuse gli occhi, percependo il tiro dritto nel cuore, più potente dell’originale. Fece goal.
 
-Ciao, sono Mark-
-Ciao Mark. È strano che tu mi abbia chiamato. Che cosa c’è?-
-Potresti venire alla Raimon adesso, il prima possibile?-
-Va bene, ma come mai?-
-Credo che un ragazzo abbia…-

 
-Perché non l’hai parata?!-  gridò Gabi. Non aveva fatto tutto questo per poter essere preso in giro in quel modo.
-Non parerò nessuno dei tuoi tiri…- sussurrò piano Mark, chiudendo gli occhi per la frustrazione di non poter fare niente. Se le avesse parate, tutte le numerose pallonate che avrebbe eseguito in seguito, l’avrebbe solo ucciso. L’avrebbe spinto al limite, sia per il suo fisico che per la sua psiche.
-Vigliacco!!!- urlò a squarciagola.
- Gabriel, ti prego, cerca di ragionare…- fu Riccardo a sviare la sua ira in un'altra direzione. Si avvicinò a quello che una volta era il suo migliore amico. Ora non lo riconosceva.
-Ragionare?! Proprio tu mi chiedi di ragionare?!- si voltò furioso verso il numero nove.
-Ti prego, ascoltami. Io so che tu non vuoi tutto questo…- aveva gli occhi lucidi e la voce spezzata. Più che rotta, l’aveva flebile e timida. Aveva paura. Paura della forza di Gabi.
-Che cosa vuoi sapere tu di che cosa voglio io?! Tu non mi conosci!-
- Gabi… io non… - gli occhi di Riccardo pizzicavano, ma non doveva piangere davanti a lui.
-Tu cosa?!-
-Perché? Ti chiedo solo perché?- Riccardo si sentiva colpevole in qualche modo.  Non sapeva esattamente di che cosa. Ma dallo sguardo furioso di Gabriel, dal suo tono di voce e da come gli parlava, aveva intuito che era arrabbiato con lui.
-Se non lo capisci da solo, sei più stupido di quanto pensassi-
-Ma Gabi, come può saperlo?...-si mise in mezzo Arion, spostandosi dalla sua posizione, con in volto la preoccupazione per i suoi amici.
-Stai zitto!!!-  Gabi prese il pallone, un momento prima in porta, e lo calciò con forza verso il volto del numero otto.
-È anche colpa tua!-
Questi non riuscì a schivarla. La palla gli arrivò dritto in viso, sulla fronte. La potenza era tale da farlo cadere all’indietro. Pestò la testa sull’erba.
Perse i sensi a causa del colpo inflitto.
Subito Mark ordinò alle ragazze di portarlo in infermeria. Quando lo misero sulla brandina, dove vi era la testa, l’erba si era colorata di rosso. Sangue.
Dovettero chiamare subito un’ambulanza.
Ma la vendetta di Gabriel non poteva attendere. Non poteva aspettare che portassero quell’idiota in ospedale. “Ha solo la testa vuota” pensò il rosa, riprendendo il pallone e camminando palla al piede verso quello che una volta era il suo migliore amico. Ora era solo una persona qualunque. Un nemico da distruggere.
Si fermò a circa due metri da lui e iniziò a parlare: -Perché mi hai voltato le spalle. Mi hai lasciato da parte, come un oggetto che non serve più. Un oggetto inutile. Un oggetto troppo debole per te. E così, sono diventato più forte. Per mostrarti che, se voglio, posso distruggerti-
Era calmo. Troppo calmo. I suoi occhi erano pieni di rabbia, demoniaci. Un ghigno gli si dipinse in volto.
Riccardo si avvicinò e gli mise le mani sulle spalle, con fare affettuoso.
-Scusami, non era mia intenzione… ti prego, ritorna ad essere Gabriel, il mio migliore amico…- le lacrime scendevano lungo le guance del moro. Non singhiozzava. Aveva la voce ferma e l’unica consapevolezza di aver trasformato il suo migliore amico in un mostro. E che era solo colpa sua.
A causa di quelle parole, di quelle poche parole, ottenne la reazione opposta. Gabi, infuriato con il mondo, scostò in malo modo le braccia di Riccardo. L’espressione accigliata, a cui non interessa nulla. Solo la propria vendetta.
Il moro percepì solo in quel momento la vera forza che aveva acquisito. Una forza disumana, impossibile anche solo da immaginare.
Avvenne in un secondo. Veloce come la luce che spezza un corpo.
Gabriel fece palleggiare la palla prima sul piede, poi sul ginocchio. E da quella poca distanza che li divideva, calciò la palla nello stomaco di Riccardo. Un male atroce, le interiora schiacciate, l’aria mancante, il dolore del cuore che si espandeva nella sua coscienza.
Cadde all’indietro, ma non sbatté la testa. Si strinse solo il punto colpito, mentre calde lacrime gli cadevano sulla divisa e lungo il viso.
Victor gli corse incontro, per soccorrerlo ed aiutarlo a rialzarsi.
Ma ancor prima che arrivasse, Gabriel riprese la palla. Gliela calciò contro il petto. Contro la gabbia toracica. Smozzandogli il respiro e cadendo a terra, privo di forze per rialzarsi.
Gabi non gli degnò nemmeno di uno sguardo. Fissava Riccardo, con la rabbia di un predatore a cui era stata sottratta una preda troppo grande per poter essere rimpiazzata.
Un ennesimo pallone. Gli occhi di Riccardo pieni di terrore. Paura del  suo migliore amico.
La palla scaraventata contro il corpo inerme del numero nove, gli occhi pieni di soddisfazione del suo carnefice.
Il respiro tolto al moro. Il suo corpo che cade a terra. Come un cadavere. Non ucciso, ma sconfitto.
Non si rialzò. Non disse nulla. Si portò una mano alla fronte, dove l’aveva colpito. La ritrasse rossa. Sangue. Lo sentì scorrergli lungo le tempie e cadere a terra. Un rumore troppo assordante.
Mentre i suoi compagni venivano rasi al suolo dal sul migliore amico. Un blocco nelle orecchie, per non sentire le suppliche dei suoi amici.
Voltò la testa verso Gabriel.
Chiuse gli occhi, imperlati di lacrime.
***
 
Cinque minuti. Solo cinque minuti ci vollero a Gabriel, il ragazzo vestito di nero, per sconfiggere la sua squadra. Mark non aveva potuto fare nulla. Attendeva che loro arrivassero.
Così gli avevano detto.
Non doveva parare i tiri. Non doveva fermarlo mentre sconfiggeva i suoi amici. Doveva lasciarlo sfogare.
Aveva chiuso gli occhi, non riusciva a vedere. Non voleva vedere.
Quando sentì la vibrazione del suo cellulare in tasca. Erano arrivati. Entrambi.
 
Gabriel, fermo, con il fiato corto che gli smuoveva il petto, fissava la sua vendetta. Quello che aveva procurato la sua vendetta.
I suoi compagni stesi a terra, sconfitti. Nessuno osava muoversi. Era temuto e potente. Più potente persino di Riccardo. Era soddisfatto. Ghignò.
Ma ora mancava solo sconfiggere il portiere, il leggendario Mark Evans.
“Se non parerà i miei colpi, lo costringerò con la forza!” pensò rabbioso Gabi. Si sentiva più forte che mai. Aveva fatto bene a bere per un mese intero quella sostanza, il Nettare degli Dei.
Portò, tranquillamente, un pallone davanti al punto dei calci di rigore. Lo fermò mettendoci sopra un piede. Le mani nella tasca della felpa nera.
-Bene. E ora vediamo di fare qualche dozzina di goal al famoso portiere, Mark Evans –ghignò di nuovo. Mise la palla sopra al piede. La fece rimbalzare un paio di volte. E la colpì.
Il pallone raggiunse la rete della porta, senza che Mark avesse interferito con la sua traiettoria. Gabi si infuriò. Vedere i suoi allievi distrutti non l’aveva smosso.
-Perché non pari?!-
-Per il tuo bene…- sussurrò a occhi sbarrati l’allenatore Evans. Un’altra vibrazione del suo cellulare. Erano a scuola.
Gabriel calciò ancora la palla in rete una decina di volte. Ogni colpo, sempre più forte. Il suo cuore batteva a mille dalla rabbia. Dalla frustrazione che quell’inetto non parasse i suoi tiri.
Preparò un ennesimo colpo.
Calciò la palla in aria. Questa esplose e formò una fenice, una fenice color viola.
“La… Fenice Oscura…” pensò Mark, vedendo quello che stava per fare.
Ma prima che saltasse, a quella Fenice furono spezzate le ali. Un pallone la disturbò. Essa cadde, ritornando ad essere un palla.
Gabi si stupì, guardò nella direzione da cui proveniva il tiro che aveva fatto fallire il suo. Vide un adulto, più o meno delle stessa età dell’allenatore Evans. I capelli biondi legati in una coda laterale, che cadeva morbidamente su di una spalla. Gli occhi cremisi, le braccia incrociate sul petto.
Si ricordava di quell’uomo. Era Byron Love, l’allenatore della Kirkwood Junior High.
La sua attenzione, però, venne distolta da una mano. Una mano che gli si era appoggiata su una spalla.
Percorse con lo sguardo il braccio avvolto in una manica arancione di quella che pareva una felpa.
Arrivò alla spalla e vide il viso di colui che aveva sempre ammirato: Nathan Swift, il giocatore numero due della Inazuma Japan.
-Nathan…?- disse timidamente Gabi, guardandolo negli occhi color nocciola.
-Ciao Gabriel- rispose, con un sorriso comprensivo sul volto. Mentre Mark usciva dalla porta e soccorreva i suoi allievi, quanti più possibili. Si fidava di Nath.
 -Perché sei qui?- chiese Gabi, con gli occhi spalancati per la sorpresa. Non poteva ancora credere che il suo idolo fosse a pochi centimetri da lui.
-Quello che stai facendo è sbagliato. Non è colpa di Riccardo se non sei abbastanza forte-  spiegò l’azzurro, mettendogli le mani sulle spalle e fissandolo negli occhi.
-Si ma…- solo in quel momento, un piccolo dubbio galleggiò in testa al rosa, come un petalo bianco in una distesa di rose nere come pece.
-Avevi ragione Mark- esclamò Byron, il quale aveva raggiunto la borsa di Gabi ad un lato del campo. Aveva una bottiglia in mano. Quella bottiglia.
Tutti si voltarono verso l’allenatore Love, anche quelli che si erano abbastanza ripresi come Victor. Nathan e Gabriel fecero lo stesso.
-Era Nettare degli Dei quello che assumeva- svitò il tappo e annusò il contenuto- Ed è piuttosto concentrato. Almeno la tripla dose che assumevo io- richiuse la bottiglia.
-Ora capisci?- continuò Nathan spostando lo sguardo verso gli occhi del più piccolo.
-Non potrai mai avere la stessa forza di Riccardo. Ma lo puoi eguagliare o superare in qualcos’altro. Qualcosa che solo tu sei in grado di fare- disse l’azzurro, con fare paterno.
-NO!-  Gabi non accettava di aver sbagliato. Non lo credeva davvero. Cercava di reprimere nella mente quel piccolo petalo bianco.
Si scansò da Nathan, tenendosi la testa. Aveva iniziato a girare. E a pulsare. Il cuore palpitava forte, gli scoppiava nel petto.
Come una grossa bomba, in attesa solo del conto alla rovescia.
-Gabi… ti senti bene?...- si avvicinò l’azzurro. E anche Mark e Byron accorsero. Riccardo che aveva sentito tutto, si mise a sedere sul terreno, sull’erba che gli carezzava la pelle.
-Gabi…- sussurrò preoccupato.
Sul volto di Gabi scorse delle piccole lacrime. Ma non lacrime cristalline, lacrime rosse. Rosso sangue. Scarlatte. Mentre si teneva la testa, all’altezza delle tempie. Non sentiva le parole.  Non voleva dar loro ascolto.
Gabriel stava piangendo lacrime di sangue. La mente che scoppiava. Il cuore che correva. Sentì ogni singolo nervo spingere contro la carne per esplodere. Esplodere in una catastrofe. Radere al suolo ogni singola cosa. Farla finita e compiere ancora, quella che una volta credeva la sua vendetta.
Finché, nella sua coscienza, tutto tacque. Silenzio, finalmente.
Il cuore non batteva più, la mente era in pace, le lacrime si fermarono dopo avergli rigato il viso di rosso. Non percepì nemmeno quando l’ambulanza arrivò. Nemmeno quando lo portarono all’ospedale. Nemmeno quando lo operarono.
Solo silenzio.
Niente parlava. Nessun rumore, nessun suono.
Pace.
La pace di un universo vuoto da ogni cosa.
Mentre il suo migliore era al suo fianco, attendendo che si risvegliasse presto dal coma in cui era entrato, senza alcun preavviso.
 
 
 
 
   
 
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