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Autore: _unintended    02/01/2015    1 recensioni
Bandit prese tra le mani una foto rovinata e ingiallita che ritraeva la sua famiglia, tutti e tre insieme seduti al divano della loro vecchia villa, quella vicina al lago, dove aveva passato tutta l’infanzia. Vide se stessa sulle ginocchia di sua madre, che la stringeva protettivamente, e vide suo padre, in tenuta militare, con quello sguardo intenso che lo aveva sempre caratterizzato fino all’ultimo istante della sua vita. Quello sguardo intenso che soltanto un’altra persona, in tutto il mondo, aveva saputo sostenere e ricambiare altrettanto intensamente. Soltanto una.
Quella sbagliata. In tutti i sensi.
"Se vuoi che non butti questi scatoloni non c’è problema, sai?"la rassicurò sua nipote vedendola così turbata.
"Sarah"
"Sì?"
"Devo raccontarti una storia."
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Bandit Lee Way, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rieccomi a rompervi le scatole, eh già.
Sono tipo le undici di sera e sto morendo di sonno, ma non avrei mai potuto dormire prima di pubblicare il mio primo capitolo, aw. Dal prologo non si è capito molto, ma già a partire da questo comincerete ad entrare nella storia che, spero, vi piacerà.
Mi scuso in anticipo per eventuali errori di discordanza tra l’epoca in cui è ambientata la storia (poco prima della seconda guerra mondiale) e alcuni dettagli che forse lì nemmeno esistevano ( vi giuro che ho cercato di documentarmi sulla presenza o meno degli hamburger negli anni trenta, sigh), vi prego di perdonarmi quindi se non tutto coincide e se è così magari scrivetemelo nelle rencensioni, ogni critica è bene accetta:)
 
PRIMA PARTE
 
 
CAPITOLO 1 – IN OR OUT
 
Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di strano in me. Ma non come quegli sfigati nerd che vagano per i corridoi della scuola con una pila di libri in braccio, né come i figli di papà annoiati che impazziscono e vengono ricoverati in chissà quale clinica privata.
Semplicemente sono diverso. Non è una cosa di cui mi preoccupo. È così e basta, non posso farci nulla. La gente continua a ripetere che puoi cambiare, che puoi diventare qualcun altro, che puoi ricominciare da capo o lasciare ciò che eri alle spalle, ma io non ci ho mai creduto. Ognuno di noi ha una propria pelle, che ci rende diversi gli uni dagli altri, e non ci si può semplicemente liberarsene e buttarla via come se non fosse mai esistita.
Non sono strano.
Solo preferisco starmene per conto mio. Farmi gli affari miei. E’ semplicemente la tattica di chi non ha nulla da condividere col mondo, o almeno non ha nulla da condividere con questa scuola di merda.
Qui o sei dentro o sei fuori.
Dentro significa che partecipi alle feste degli studenti ricconi, ai balli di fine anno, hai una ragazza cheerleader o sei nella squadra di football.
Fuori significa me.
“Way?”
La voce del professore di chimica mi riscuote dalle mie fantasticherie. Mi ha sorpreso mentre guardavo assorto fuori dalla finestra e nel frattempo scarabocchiavo sul mio quadernetto senza neanche accorgermene.
“Sì?” domando senza alzare la testa.
“Sa ripetermi cosa ho appena spiegato al resto della classe?”
Alzo finalmente lo sguardo e noto gli occhi di tutti puntati addosso. Non è la prima volta che succede, e non posso dare un altro dispiacere a mamma finendo dritto dal preside.
Apro la bocca per parlare, ma non ne esce alcun suono. La classe mi guarda, chi sogghignando, chi curioso, chi annoiato.
“Allora?”
Proprio in quell’istante bussano alla porta e senza aspettare un “Avanti” fa capolino sulla soglia un ragazzo.
Non so perché la mia attenzione è subito catturata da lui. In altre circostanze, mi sarei sentito sollevato di averla scampata e avrei ripreso ad annegare lentamente nei miei pensieri, senza badare più di tanto a ciò che succedeva intorno a me.
Ma non è quello che succede. Insensatamente, il mio sguardo lo percorre da capo a piedi.
È basso, probabilmente mi arriva a malapena alla spalla. Porta una camicia bianca immacolata abbottonata e stretta fino al collo e i pantaloni, troppo larghi per lui che gli si piegano sotto le scarpe, dandogli un’aria trasandata e infantile al tempo stesso. Ha infatti ancora il viso di un bambino, i lineamenti delicati, le guance piene e gli occhi di un intenso color cioccolato che – noto solo ora – mi stanno fissando di rimando.
Calamite.
È tutto ciò a cui riesco a pensare non appena incrocio il suo sguardo.
Due calamite che si attraggono inevitabilmente, una positiva e una negativa, e che difficilmente riesci a separare.
Non so come, dopo un tempo indefinito compreso tra dieci secoli e due secondi, riesco a interrompere il contatto visivo.
Riabbasso gli occhi sul mio banco e un istante dopo sento la voce del professor Killingham. “Lei deve essere il nuovo arrivato” commenta.
Il ragazzo deve aver annuito, perché non si sente un solo suono nella stanza. Io, dal canto mio, non mi azzardo nemmeno a rialzare il capo per accertarmene.
“Frank Iero” mormora infine il ragazzo.
“Bene Iero, vada a sedersi al banco in fondo all’aula. Dopo quest’ora riceverà l’orario delle lezioni. Ora torniamo a noi.”
Mentre il professore riprende a spiegare stupidaggini sulle reazioni chimiche, il ragazzo mi passa accanto dirigendosi verso il suo posto e io non posso fare a meno di alzare lo sguardo per incontrare di nuovo il suo, ma lui stavolta non mi degna di un’occhiata. È già seduto al suo banco, ha tirato fuori un quaderno e ha incassato la testa tra le spalle, isolandosi.
Forse devo rettificare ciò che ho detto prima.
Qui o sei dentro o sei fuori.
Dentro significa che partecipi alle feste degli studenti ricconi, ai balli di fine anno, hai una ragazza cheerleader o sei nella squadra di football.
Fuori significa me. E Frank Iero.
 
 
“E’ occupato o posso sedermi?”
Sì, me lo aspettavo. Guardo il ragazzo nuovo da sotto le sopracciglia e gli faccio cenno di sedersi di fronte a me a mensa. Lui si siede e poggia il suo vassoio. Noto che ha appena aperto l’hamburger e sta togliendo la fetta di carne, lasciando soltanto le sottili fette di pomodoro e l’insalata.
“Sei vegetariano?” gli chiedo prima di riuscire a trattenermi.
Lui annuisce e fa un mezzo sorriso timido. “Già, sin da piccolo. Se ti dà fastidio…”
“No no, anzi se non la mangi…” propongo, allungando una mano. Lui mi passa la fetta di carne, ben contento di liberarsene.
Mangiamo in silenzio per un paio di minuti, e riesco quasi a perdermi nei miei pensieri se non fosse per il fastidioso vizio del ragazzo di muovere nervosamente la gamba sotto il tavolo.
“Potresti…per favore, smetterla?” gli chiedo infine seccato, indicando la sua gamba. Lui si blocca con la bocca piena, intento a masticare. “Ehm…”
“Dio, lascia perdere. Piuttosto, da dove vieni? Hai un accento strano”
“I miei genitori sono italiani” mi risponde, terminando il suo pranzo “ma i miei parenti paterni vivono qui e mi ci hanno spedito per ricevere un’istruzione…completa”
“E per stare lontano dalla guerra” commento quasi tra me e me.
“Quale guerra?” chiede Frank aggrottando la fronte, e mi sorprendo a guardarlo un po’ più a lungo del necessario. Ma cosa diavolo mi prende?
“Sai che ci sarà una guerra vero? Tutti lo sanno. È vicina ormai.”
Frank mi sembra turbato, perché mi fissa deglutendo. “Ma i miei genitori…”
Mi alzo e vado a buttare le cartacce nel cestino. Proprio in quell’istante suona la campana di fine pranzo. Gli studenti ci passano accanto l’uno dopo l’altro, ma Frank ancora mi fissa come se si aspettasse una spiegazione o qualcosa del genere.
Indico la folla in movimento. “Dovresti uniformarti, sai” gli dico, e sono dannatamente serio “prima che sia troppo tardi.”
Non era mia intenzione fare un’uscita ad effetto, ma è proprio quello che faccio raccogliendo la mia cartella e sparendo nel corridoio. Mi odio per averlo fatto, ma non sono un tipo incline ai convenevoli. Se fossi rimasto ancora, se avessi provato a socializzare con lui ancora un po’, si sarebbe di certo fatto strane idee sulla nostra ipotetica amicizia appena nata o chissà cos’altro.
Io non voglio amici.
   
 
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