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Autore: Koa__    02/01/2015    6 recensioni
#Blackbeard, King of Pirate
#Me, you and nobody else
#The old story of "East wind coming..."
#Down in a dark well Terza classificata al contest 'Pensami' indetto da DonnieTZ
#Obsession
#Losing Control
#My brother is a murderer
#Upside down
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: Altro personaggio, Lestrade, Mycroft Holmes, Redbeard, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Personaggi: Mycroft Holmes; Sherlock Holmes; Greg Lestrade
Avvertimenti: Established Mycroft Holmes/Gregory Lestrade
Intro: Uno Sherlock ferito e sanguinante si presenta a casa di Mycroft e Greg, in cerca di aiuto. Evidentemente scosso, a Mycroft viene in mente che quella non è la prima volta che aiuta Sherlock perché, in fondo, non fa altro da che sono bambini.


 

Me, you and nobody else


 
 
La prima volta che successe quanti anni avevate? Tu, Mycroft, nemmeno dieci e Sherlock, beh, lui doveva averne due o magari tre. Non lo ricordi con precisione, sai che era estate e che abitavate la casa al mare, giù nel Sussex da qualche settimana. Tu studiavi o leggevi, perché allora come adesso detestavi la spiaggia e i bagni al mare mentre tua madre ti rimproverava per il tuo perenne isolarti. In effetti, niente era diverso dal solito dato che ti sgridava di continuo e per qualunque cosa.
“Sta’ attento a tuo fratello. E gioca un po’ con lui, non startene sempre da solo. Prendi un po’ di sole che ti fa bene. Non mangiare troppi gelati.” Lo so che non hai mai capito come mai lei se la prendesse esclusivamente con te e mai con il fratellino. Ci sono stati momenti in cui l’hai addirittura odiata, perché lei (come tutti del resto) non riusciva a capire che il fatto che tu non esprimessi alcun sentimento, nemmeno un fastidio leggero, non significava che non provavi nulla. A quei tempi l’hai detestata, profondamente, ma con il passare degli anni l’hai capita. Hai colto certe sfumature nei suoi modi di fare e in parte l’hai perdonata. Mamma se l’è sempre presa con te perché con Sherlock non poteva, era lui l’Holmes da protegge, non tu. E, forse, involontariamente, iniziasti a fare lo stesso proprio quel pomeriggio d’estate, con il frinire intenso delle cicale a fare da sottofondo e una musica leggera che inondava la cucina di casa vostra mentre tua madre ascoltava la radio, canticchiando vecchie canzoni. Successe che, nelle sue eroiche esplorazioni del giardino di retro alla casa, Sherlock cadde a terra e si sbucciò un ginocchio. Successe che scoppiò a piangere mentre dei rivoli di sangue gli colavano lungo la gamba. Successe che lo prendesti per mano e lo portasti nella stanza che dividevate al piano di sopra. Ancora ricordi il suo sguardo e quei due grandi ed umidi occhi azzurri fissarti, mentre lo facevi sedere sul letto e gli scompigliavi la folta chioma di quei disordinati capelli ricci, per rassicurarlo.
«Aspettami qui» gli dicesti, e lui lo fece. Rimase seduto a guardare il vuoto mentre lo lasciavi da solo per andare nel bagno, là dove avresti trovato l’occorrente per medicargli la ferita. Non chiamasti mamma come avevi sempre fatto fino ad allora no, da quel momento non lo facesti più.


 
*


La seconda volta avevi vent’anni, già frequentavi l’università e abitavi da solo in un appartamento a Chesterfield che pagavi grazie ad un lavoretto serale. Non volesti dipendere da qualcuno e, alla prima occasione, fuggisti letteralmente da casa. Da quei genitori troppo normali e terribilmente attaccati a delle sciocche piccolezze, tutti inutili dettagli a cui tu non hai mai badato. Cose come: quando ti fai la ragazza, Mycroft? Per non parlare poi delle interminabili cene dai vicini, e i Natali in famiglia, e la messa della domenica, e i nonni, e la beneficienza… tutto così odioso, detestabile, rivoltante. Niente della tua vita in famiglia ti è mai appartenuto, solo tuo fratello contava. Il tuo rapporto con lui era diverso da quello che avevi con gli altri tuoi parenti, o meglio, con il resto del mondo. Sherlock era il motivo per cui, la domenica, ancora tornavi a casa. Solo per vederlo e sapere come stava. Per accertarti che fosse tutto tranquillo, perché non ti fidavi delle parole di mamma. Non ti fidavi di nessuno fuorché di te stesso e del tuo giudizio. Sapevi che Sherlock avrebbe fatto a meno della tua presenza ogni i sabato sera: non gli andavi molto a genio in effetti, ma d’altra parte lui detestava tutto e tutti! Per la miseria, era così uguale a te che ogni tanto ti chiedevi se non ti avessero clonato. Anche quel fine settimana tornasti a casa, come facevi sempre, e non ti importava affatto dell’esame che avresti dovuto sostenere soltanto il lunedì successivo. Quel venerdì il professore si era dato malato, per questo decidesti di prendere il treno un giorno prima e tornare a casa con largo anticipo. Telefonasti a mamma per avvisarla mentre aspettavi il treno; capisti subito però che qualcosa non andava. La sua voce era incrinata, rotta e non ti ci volle molto per afferrare il problema: Sherlock. A quanto pareva non era rientrato la notte precedente, a tredici anni quali aveva non poteva essere andato molto lontano (ti aveva detto lei) assieme ad altre chiacchiere sul fatto che la polizia lo stesse cercando. Ma Sherlock non era una persona come comunue. La sua intelligenza, il suo carattere, il suo modo di essere… erano qualità che lo rendevano unico ed eccezionale. Sherlock era come te. Per questo motivo capisti subito dove fosse andato a rifugiarsi. Gettasti il biglietto del treno nel cestino prima di farne uno nuovo. E non ti preoccupasti neanche di avvisare tua madre, di lei già non ti importava più. L’unica a cosa a cui riuscivi a pensare era che il Sussex non fosse un granché accogliente a gennaio inoltrato. Anche quel giorno infatti, quando ci arrivasti qualche ora più tardi, faceva un freddo del diavolo e un vento forte e salmastro spirava da sud. Avesti la certezza di non aver fatto tanta strada per niente, perché tuo fratello si trovava lì e lo sapevi per certo. E infatti ce lo trovasti: rannicchiato sul letto di quella che, un tempo, era stata la vostra cameretta. Teneva le gambe al petto e la testa affondata in esse. Vestito troppo leggero e con un solo e misero maglioncino, per tutto quel gelo. Ti aveva sentito entrare, ma fino all’ultimo non si premurò di sollevare il volto. Solo dopo qualche minuto iniziò a spiarti, con fare timido e ritroso facendo appena capolino da dietro le braccia incrociate. Allora la vedesti nitidamente, la conferma dei tuoi sospetti. Lo avevano picchiato. E mentre cercavi di dominare una cieca furia, rimanesti impietrito dall’osservazione di quel volto che ben conoscevi. Perché dietro quei lividi e quel volto pesto, c’erano gli stessi occhi grandi e lucidi che ti fissavano quando eravate bambini. Il suo era il medesimo sguardo di dieci anni prima, quando Sherlock piangeva fino a farsi venire gli occhi rossi e solo perché era caduto sul ghiaietto. Erano i medesimi occhi gonfi di quando aveva perduto Redbeard. Era lui, Sherlock, il tuo fratellino che aveva bisogno di te.
«Cosa ti è successo?» gli domandasti.
«Come se non lo sapessi» ti rispose invece lui, con fare sfrontato e modi da sbruffone. Certo che lo sapevi che cosa gli era capitato, ma volevi sentirtelo dire, volevi che lo confessasse e che lo facesse un volta per tutte.
«Cosa ti è successo?» ripetesti e quella volta usasti tutte le tue doti, quelle che avevi e hai naturalmente, quelle che Sherlock non possedeva né allora, né adesso. Freddezza. Lui indugiò nella riposta, a lungo non si mosse restandosene lì, raggomitolato su sé stesso. Non ti parlò subito, ma tu sapevi che lo avrebbe fatto perché era un ragazzo sveglio e sapeva bene, forse meglio di te, ciò che avevi deciso di fare fin da quando eri alla stazione di Londra. Non vi sareste mossi da lì, fino a che non te lo avrebbe confessato.
«Non voglio» mormorò lui e fu allora che la notasti, una lacrima solitaria rigargli la guancia. Allora non sapevi che quella sarebbe stata l’ultima volta che lo avresti visto piangere, dopo non successe più. Tutto ciò che quella volta fu importante, fu la tua voglia prepotente e che a stento riuscisti a soffocare, di prenderlo e abbracciarlo. Non lo facesti, non sei mai stato capace. Non ci riuscisti, perché tu sei Mycroft Holmes e non abbracci tuo fratello. E non gli hai mai detto di volergli bene e mai glielo dirai.
«Ma devi, Sherlock.» C’era rimprovero nel tuo tono di voce e lo sbandierasti con ostinazione perché sapevi che a lui dava terribilmente fastidio. Per un momento odiasti l’essere tanto duro, ben conscio però del fatto che fosse inevitabile. Lo fu sempre da quel momento in avanti. Essere duro e gelido. Non far trapelare emozioni e i sentimenti. Tutto per lui. Perché se tu, Mycroft fossi diventato più forte, Sherlock sarebbe stato più al sicuro.
«Erano…» mormorò lui, con voce flebile e rotta «Cinque. Più grandi, ma della mia scuola. Mi hanno chiamato strambo. Non che mi interessi, dato che sono degli idioti, ma dopo hanno iniziato a farsi più insistenti e sono passati alle mani. Erano troppi anche per me.» Non gli rispondesti, non lo abbracciasti o baciasti, non facesti nulla se non uscire dalla stanza per scendere al piano di sotto. Prendesti il telefono e chiamasti. Ti limitasti a fare quello. Non tua madre, no. Lei forse l’avresti avvertita dopo o magari no, di certo non c’era quella donna in cima all’elenco delle tue priorità. Perché se era accaduta a tuo fratello una cosa simile, la colpa era solo di vostra madre. Lei che avrebbe dovuto proteggerlo, non c’era riuscita. E non l’aveva mai nemmeno fatto, a dire il vero. Sollevasti la cornetta, quel numero che sapevi a memoria ormai, all’università avevi conosciuto delle persone che avrebbero potuto aiutarti. Perché quei tizi la dovevano pagare. Perché Sherlock non si poteva toccare. Sherlock era tuo fratello e tu lo dovevi proteggere.


 
*


Non sai perché ci stai pensando. Non lo sai davvero. Stavi trascorrendo una pigra serata a casa con Greg e poi hai sentito bussare alla porta. Nessuno lo fa mai: quelli che lavorano con te usano sempre il telefono, nessuno osa presentarsi a casa tua se non è stato invitato. Nessuno a parte Greg. O Sherlock. E  tuo fratello non verrebbe mai nella tua tana se non per una faccenda grave; lo scopo della sua vita non è forse evitarti? È lì che ci ripensi, nel tragitto che fai dal divano alla porta ti ritorna in mente la prima volta che gli medicasti un ginocchio. La prima volta in cui ingaggiasti qualcuno per vendicarlo. Dopo che apri la porta però, il passato perde importanza. C’è urgenza nei tuoi gesti, così come il passo che ti ha condotto fino all’ingresso e che è affrettato, tanto da sembrare quello di un maratoneta. Spalanchi quindi la porta e quando te lo ritrovi di fronte, per un momento il tuo cuore si ferma. È ferito. Eri certo che prima o poi sarebbe successo. Sherlock è appoggiato allo stipite della porta e si tiene un braccio che sanguina copiosamente. Arma da fuoco. Piccolo calibro. È in salvo, ma gli occorre assistenza medica. Niente ospedale perché è meglio di no. Trovi saggia la sua decisione, ma allo stesso tempo una domanda ti arrovella il cervello.
«Dov’è il dottore?» gli domandi. Sherlock si adombra, lo fa impercettibilmente, ma tu te ne accorgi. Cogli tutte le sfumature del suo volto, lo fai con perfetti estranei e con lui è persino più facile dato che conosci ogni lato di lui come le tue tasche. E poi non è mai stato bravo a nascondere i propri sentimenti come riesci a fare tu, soprattutto quando c’è di mezzo John Watson.
«Da qualche parte con Mary.» Stupido idiota, pensi. Si era preso un impegno quel dannato soldato, ovvero prendersi cura di tuo fratello e ha rinunciato in nome di che cosa? Perché Sherlock si è finto morto e lui è arrabbiato? Perché adesso ha deciso di fidanzarsi con quella Mary? Dove è finita? Ti chiedi. Dove è andata a finire quella muta promessa che ti ha fatto anni fa, quel primo giorno in cui lo hai incontrato? Il solenne giuramento che avrebbe protetto il tuo Sherlock a costo della sua stessa vita, o della propria fedina penale. Dove è andato a finire il John Watson che ha ucciso pur di salvarlo? Sparito. Svanito nel nulla e no, non doveva essere. Ecco perché odi le persone. Non mantengono mai i propositi e, alla fine, John Watson non si è dimostrato diverso dai tanti idioti che popolano il mondo. E da più grande risorsa si è trasformato in un enorme problema. Hai fatto un grosso errore, non avresti dovuto farlo avvicinare tanto a lui, ti dici maledicendoti mentre Greg accorre alla porta e ti aiuta a portarlo dentro. Sei arrabbiato, con il dottore e con il mondo intero a dirla tutta, ma non lo dai a vedere. Mai. Qualunque cosa accada tu hai un autocontrollo a cui sottostare. Greg è preoccupato, lo vedi e percepisci, lo noti da come lo aiuta a sedersi sul divano e poi corre subito in bagno dove tenete l’occorrente per il pronto soccorso. Quando poco dopo fa ritorno e inizia ad aiutare Sherlock a spogliarsi, tu lo fermi. Lo fai con decisa fermezza. Tanto che lui si stupisce, sgrana gli occhi e non capisce.
«Faccio io» mormori, afferrando con una delicatezza che solitamente non ti appartiene, i lembi del cappotto. Sì, ci devi pensare tu perché Sherlock è una tua faccenda, tua e di nessun altro.
La ferita non è grave, ma è quello sguardo a lacerarti. Sono gli stessi occhi grandi e lucidi che ormai vedi da tutta la vita. Perché ai tuoi occhi, Sherlock non è niente di più se non quel bambino riccioluto che si è sbucciato il ginocchio. Ora ti è chiaro, Mycroft? Lui ha solo te e sarà sempre così.


Fine
   
 
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