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Autore: _asja    03/01/2015    2 recensioni
«Ti amo». E un suo “ti amo” riusciva ad abbattere ogni suo muro, lento e inesorabile come un’onda, forte e sconvolgente come uno tsunami abbattutosi su un qualsiasi atollo delle Maldive.
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4233 parole.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*asja ama parlare di sè in terza persona. asja scrive già su un altro account sul quale è piuttosto famosa. asja nasce come evasione e pubblica qui questa one shot come esperimento. se doveste riconoscere asja fateglielo sapere, non nelle recensioni, perché se lo facciamo funzionare può diventare un bel gioco e se rendete la mia identità di dominio pubblico il giochino non funziona.
quindi, ora asja vi lascia leggere.
buona lettura,
- asja.* 


ps: asja deve scrivere la propria bio. quando troverà il tempo di farlo avrete anche un paio di link per contattarla, lol. fino a quel momento, è solo qui, solo asja.



 
 
Tsunami.
 



Lui era in qualche città straniera che onestamente non riusciva a ricordare, nemmeno sforzandosi di riportare alla memoria la scaletta dei concerti che lui le mandava di settimana in settimana, più per regolarsi col fuso orario che per altro. La sua mente la dimenticava qualche secondo dopo averla letta; voleva dimenticarla, perché se avesse cancellato quelle date e quei luoghi troppo lontani dai propri pensieri, non avrebbe avuto la tentazione di contare le ore e i chilometri che per il lavoro del ragazzo che amava – per il suo sogno – li tenevano vicini coi cuori ma distanti coi corpi, con le mani che non potevano stringersi e coi sorrisi rivolti al vento, sperando che potessero volare fino all’altro leggeri come piume.
Lei era a Dublino, come sempre dall’ultimo tour mondiale che portava lui e la sua band – amata dalle adolescenti di tutto il mondo – praticamente in ogni angolo del pianeta. Lei era a Dublino a cercare di vivere la propria vita, lontana dai riflettori e dai paparazzi, lontana dall’unico paio di occhi che riuscisse a farle battere il cuore tanto in fretta da sentirlo pompare ritmicamente nelle orecchie. Lei era a Dublino, nella propria camera da letto a casa dei genitori, tentando di studiare per un esame di anatomia che con tutta probabilità non avrebbe passato nemmeno col minimo.
Lei era a casa. Lui stava finendo di cantare.
Lei tentava di non pensare ai suoi occhi o alle menzioni cattive delle fans che su twitter la odiavano o addirittura che avrebbero preferito vederla morta piuttosto che vederla attaccata a lui. Tentava di togliersi di mente le sue labbra rovinate un po’ dal contatto col microfono e un po’ per i morsi giocosi che amavano scambiarsi nei rari pomeriggi passati a fare l’amore prima solo guardandosi, poi solo baciandosi, poi strappandosi direttamente i vestiti di dosso, semplicemente perché entrambi odiavano aspettare e andare con calma quando si trattava di amarsi al massimo e oltre ogni limite.
Lui tentava di non rivedere i suoi occhi celesti un po’ strizzati quando scoppiava a ridere, mentre finiva una canzone qualsiasi con un acuto dei suoi, di quelli che sapevano fermare il cuore e il respiro un po’ a tutti. Davanti a sessanta mila persone, Zayn vedeva solo i boccoli scuri di Evangeline e i suoi occhi un po’ celesti e un po’ no, quegli occhi che lo facevano sentire vivo più di qualsiasi altra cosa al mondo, più di tenere un microfono tra le mani e più di sfondare il muro del suono con la propria voce. Tentava di salutare le fans con un sorriso, perché renderle felici anche se solo per un istante e anche se significava stare lontano da lei, era proprio quello che voleva. Fin dall’inizio, fin da XFactor.
Poi era arrivata lei, che conosceva appena da una manciata di secondi e lo trattava come fosse un ragazzo come tanti. Come fosse solo Zayn e basta, e non Zayn Malik dei One Direction. Era arrivata lei, che spingeva una sedia a rotelle con le unghie smaltate di blu notte, gli occhi che le brillavano anche senza che i flash delle fotocamere li colpissero e i capelli neri legati in due trecce che la facevano sembrare tanto una ragazzina. Spingeva la sorella minore, fan sfegatata dei One Direction nonostante la paralisi alle gambe.
Sorrideva, Evangeline, perché in qualche modo era riuscita a rendere un sogno realtà.
Era arrivata lei e l’aveva abbracciato ringraziandolo, in un sussurro rotto dalle lacrime e con le mani che un po’ – un po’ tanto – le tremavano.
Evangeline era entrata nella sua vita per caso, e Zayn l’aveva legata a sé lasciandole il proprio numero di telefono – quello che non lasciava mai a nessuno, di certo non ad una sconosciuta – in un pezzetto di carta nella tasca della giacca, lasciandolo scivolare in un secondo e senza mai pentirsene, né in quel momento né mai. Evangeline era piombata nella sua vita con un “grazie”, l’aveva salutato con un “ciao”, l’aveva conosciuto come avrebbe fatto con chiunque altro e l’aveva fatto restare con un “ti amo” sussurrato al telefono.
Aveva lasciato che lui provasse a farla innamorare di sé, anche a distanza; gli aveva permesso di far breccia in quel cuore che a quasi vent’anni era stato spezzato troppe volte, ridotto in briciole troppo fini che forse erano addirittura volate via col vento. Il moro era stato in grado di raccogliere i pezzi, di rimetterli insieme con pazienza, un sorriso per volta e senza che ci fosse necessariamente bisogno di una colata di super colla per rimettere ogni pezzetto di quell’organo di cristallo al proprio posto. Era stato capace di farla sorridere quando c’era solo da scoppiare in lacrime, era l’unico che in qualsiasi momento avrebbe abbandonato tutto per qualche ora pur di tenerla stretta quando aveva solo bisogno di qualcuno che la stringesse fino a farla smettere di respirare.
Era entrato nella sua vita per caso, mettendosi comodamente seduto una sua costola, raccogliendo i pezzi di un cuore che batteva a stento e custodendo gelosamente ogni nuovo battito come un segreto, tenendo stretta in una mano la fonte del rossore sulle sue guance piene in modo che non crollasse. Non più.
Era entrato nella sua vita come una folata di vento, poi diventato un uragano, scatenato un terremoto e fatto sollevare un’onda tanto in alto da farla diventare uno tsunami. Zayn era una calamità naturale capitatale addosso, ma non per distruggere; Zayn curava le ferite con un messaggio visualizzato alle tre di notte, con un semplice bacio a fior di labbra e con del ridicolo solletico sui fianchi.
Ed Evangeline il solletico lo odiava, ma da lui se lo sarebbe lasciato fare tutta la notte.
Lanciò un’occhiata al cellulare, lasciandosi poi andare ad un respiro profondo, rotto dalla tristezza e dalle lacrime che premevano per scivolare via e diventare libere. Non più parte di lei e del suo dolore, quelle lacrime erano libere di lasciarsi morire, libere di non soffrire più. E il libro di anatomia era ancora aperto, spostato sul lenzuolo ma sempre sulla stessa pagina, sottolineato ancora fino a quello stesso punto. La ragazza lasciò la matita con la mano che le tremava e altre lacrime che minacciavano pioggia sul suo viso, con le labbra schiuse nel fantasma di un singhiozzo.
E il dolore vola come i sospiri, i sorrisi riflessi nel vuoto e i “ti amo” sussurrati nel cuscino prima di prendere sonno. Il dolore ruba le ali alla prima farfalla che passa e si fa trasportare su fino alle nuvole, per migliaia di chilometri e per diverse – troppe – ore di fuso orario. Il dolore non perde peso passando da un posto all’altro; dall’Irlanda arriva in Giappone integro… integro come il cuore di Evangeline tenuto stretto tra le mani di Zayn perché non si autodistrugga o non venga più ferito.
Quel piccolo singhiozzo mal trattenuto viaggia mano nella mano col dolore, ed era come se lui l’avesse sentito e quel respiro profondo prima dell’ultimo acuto del concerto fosse una lacrima trattenuta, un respiro più forte che magari sarebbe volato fino a lei per sussurrarle che in qualche modo sarebbe andata bene e l’avrebbero superata e alla prima occasione l’avrebbe baciata fino a sentire solo le sue labbra allo zucchero filato e la sua pelle contro la propria.
E il singhiozzo di Evangeline tornò indietro ricco di speranza, di amore e del sapore amarognolo delle lacrime e delle cose perdute, dei loro momenti andati persi perché c’era sempre troppa terra o troppo oceano a separarli. Tornò indietro mentre migliaia di ragazze giapponesi piangevano invocando il nome del suo ragazzo, facendo piangere anche lei nell’istante preciso in cui dalle nuvole sopra Dublino cadevano tante gocce quante ne bastavano perché piovesse davvero e non facesse solo finta.
Il cielo sembrava piangere con lei, mentre Zayn respirava a fondo per impedirsi di farlo.
Ci mise meno di qualche secondo prima di prendere il telefono e aprire la loro conversazione whatsapp. Si asciugò una guancia rossa e rilesse le loro ultime battute volutamente sdolcinate e il messaggio vocale che le diceva di amarla e le augurava la buonanotte anche se da lei era solo primo pomeriggio. Respiro profondo, polpastrelli freddi che le tremavano come la terra durante un terremoto, e due messaggi digitati di fretta e inviati senza rileggerli.
Non ce la faccio più”. Inviato. Consegnato.
Mi manchi troppo, amore”. Inviato. Consegnato.
Evangeline rimise il telefono al proprio posto sul comodino, prima di far cadere l’enorme tomo di anatomia dal letto e sdraiarsi tra le lenzuola di cotone stringendo uno dei cuscini a sé e mordendosi con forza un labbro per non urlare né scoppiare a piangere di nuovo. Lei odiava piangere, odiava essere dall’altra parte di un pianeta troppo grande e odiava il proprio non essere abbastanza forte da prendere la prima valigia che le fosse capitata a tiro, riempirla di vestiti, sorridere anche davanti alle fans che la odiavano e seguire il suo ragazzo e la sua band in tour.
Odiava non essere abbastanza forte da distruggere la distanza.
Non ce la faccio più”.
E, davvero, Evangeline non ce la faceva più. Non riusciva più a farsi bastare i messaggi e le telefonate, né le troppo rare occasioni in cui Zayn aveva un paio di giorni liberi dai concerti. Non le bastavano le videochiamate, né i tweet dolcissimi nei quali di tanto in tanto la menzionava. Sorrideva, sul momento, ma poi l’attimo svaniva e lei tornava apatica, con le solite borse sotto gli occhi e i soliti capelli scompigliati legati alla bene e meglio. Evangeline invidiava i ragazzi, invidiava persino le fans che ai concerti potevano averlo per due ore filate – il che era sempre più di quanto potesse averlo lei.
Non ne poteva più di stargli lontana per via di un sogno. Non ne poteva più di stargli lontana e basta. Non ne poteva più di accontentarsi delle poche ore e dei pochi messaggi e degli scarsissimi sorrisi che riusciva a vedere dal vivo. Era stanca di non poterlo avere quando voleva lei ed era stanca di essere tanto altruista quando per una volta nella vita avrebbe solo voluto pensare a sé stessa, al dolore che non sopportava più e a quanto le mancasse Zayn.
Mi manchi troppo, amore”.
Le mancava tanto da respirare a stento quando non c’era.
Le mancava sorridere come una perfetta idiota in sua presenza, quando lo vedeva tornare col borsone in spalla e le veniva da piangere ma riusciva solo a ridere; perché era felice, senza pensieri, con nient’altro da chiedere e tutto da perdere. Le mancava sfiorargli un braccio con la punta delle dita dopo aver fatto l’amore, soprappensiero ma senza riuscire a perdere il sorriso, semplicemente perché lui era lì.
Le mancava guardarlo negli occhi e sentire il proprio cuore precipitare nello stomaco, o sentirsi irrimediabilmente arrossire quando lo sentiva respirare contro la porzione di pelle appena sotto il lobo dell’orecchio, o sentire le sue mani sempre bollenti posarlesi sui fianchi, sul ventre, ovunque riuscissero ad arrivare. Le mancava sentirsi sfiorare, tirargli i capelli, baciarlo ridendo e scoppiare a piangere davanti a lui quando inevitabilmente arrivava il momento di lasciarlo andare di nuovo.
Le mancava sentirlo dire che la amava guardandolo nelle iridi castane.
Le mancava mormorare che lo amava anche lei.
Dall’altra parte della Terra Zayn tergeva il sudore dalla fronte e dal collo con un sorriso stanco sulle labbra e con le risate spensierate degli altri nelle orecchie. Stanchi anche loro, ma felici. Ogni concerto che finiva era un sospiro di sollievo che finivano per esalare in sincrono, più vicini alla fine del tour ogni secondo che scorreva inesorabile e più vicini alle famiglie, alle ragioni dei loro respiri e dei loro sorrisi. Chiunque esse fossero, ovunque li stessero aspettando.
Si passò una mano tra i capelli lunghi, Zayn, prima di recuperare il telefono da una borsa e sbloccarlo stancamente. La foto di Evangeline che teneva come blocco schermo gli sorrise come sempre, facendo nascere un accenno di sorriso anche sulle sue labbra, il che di rimando fece ridacchiare Liam, perché per il castano era sempre una gioia vederlo sorridere in quel modo, apparentemente niente ma allo stesso tempo per tutto.
Il moro si aspettava le centinaia di menzioni su twitter, del resto erano all’ordine del giorno. Ma in quel momento era troppo preso dalle due notifiche nella chat con Evangeline per potersi rendere conto di qualsiasi altra cosa. Sfiorò l’icona, impaziente, ma come era prevedibile il suo sorriso di spense non appena lesse quei due messaggi inviati una manciata di minuti prima, quando lui aveva dovuto respirare più a fondo per non crollare davanti a tutti. In quel momento però gli ci volle più di un respiro fondo, ci voleva un miracolo, perché non crollasse davanti ai suoi migliori amici.
Non ce la faccio più”. Visualizzato.
Mi manchi da morire, amore”. Visualizzato.
E per un attimo il ragazzo smise di respirare, mentre il suo sguardo si spostava spaesato e lucido di lacrime dallo schermo del cellulare al cipiglio leggermente preoccupato di Harry, che prima di tutti aveva visto l’amico con espressione persa, che aveva sentito distintamente il suo respiro spezzarsi e la sua mano stringersi a pugno tanto da far scrocchiare le nocche, diventate bianche dalla sensazione orribile che stava provando.
E il riccio non ebbe nemmeno bisogno di chiedere cosa fosse successo, né di chi fossero i messaggi, perché gli si leggeva in faccia, nelle sopracciglia aggrottate e nella piccola ma profonda ruga tra di esse. Potevano vederlo tutti nei suoi occhi spenti e lucidi di tristezza, nel labbro che gli tremava e nel pugno chiuso, o nella mascella serrata, nel telefono che rischiava di cadergli di mano. Nessuno di loro ebbe bisogno di chiedere cosa fosse successo, e Harry ci mise poco a formulare la frase che fece scattare Zayn.
«Vai da lei».
In piedi nel giro di pochi istanti, con solo il cellulare, i documenti e una giacca – quella di Liam, la prima che le sue dita toccarono alzandosi in piedi. Senza salutare nessuno, convincendo l’autista solo mostrandogli gli occhi lucidi, e trovando un volo per l’Irlanda dopo mezz’ora di trattative in quell’inglese che in quell’isola lontana nessuno sembrava parlare e nemmeno capire. Un miracolo, quel volo. Un miracolo, che le assistenti di volo non facessero domande e lo lasciassero in pace coi propri pensieri, mentre la sua ragazza dall’altra parte del mondo aspettava un messaggio in risposta al proprio che non sarebbe mai arrivato.
E i pensieri erano a milioni, mentre distoglieva l’attenzione dalle norme di sicurezza dell’aereo e si voltava appena verso il finestrino, verso il buio. Quei pensieri si concentravano tutti su Evangeline e su quei due messaggi, sul suo non farcela più che anche se solo per un attimo l’aveva fatto rabbrividire di paura e su quel “mi manchi” che l’aveva fatto quasi scoppiare in lacrime.
Lui era nella stessa situazione, identica.
Nonostante seguisse il proprio sogno e quello fosse la sua ragione di vita, Evangeline – la sua Eve – era più importante di quel sogno, più importante addirittura della propria vita. E, come lei, lui non sopportava più di essere con lei solo su una chat, o solo attraverso un telefono, o solo attraverso una webcam che funzionava solo quando voleva e meno di quanto non facesse. Non ne poteva più di quella distanza, delle sue mani che avevano il privilegio di toccarlo così di rado e non sopportava più il fatto che lei riuscisse a mancargli così tanto da star male, così tanto da respirare a stento, così tanto da lasciare tutto e prendere il primo aereo e volare da lei.
Nonostante col corpo si trovasse ancora da qualche parte in Asia, con le palpebre abbassate e facendo semplicemente finta di dormire, i pensieri di Zayn volavano più veloci dell’aereo, dell’aria e delle nuvole. Volavano fino a lei, nascosta sotto la coltre di nubi e sotto le coperte e dietro i propri capelli ricci; volavano nel vento senza trovare pace, per poi posarsi sul suo corpo raggomitolato al caldo e sulle sue dita sempre fredde che continuavano a tremarle.
Gli mancava, più di quanto il moro riuscisse a sopportare. Comprendeva il proprio dolore, ma sopportarlo era diverso, quasi impossibile. Gli mancava perché la amava, era piuttosto ovvio. Gli mancava sorridere come un cretino in sua presenza e farla ridere col naso arricciato e gli occhi socchiusi, anche quando gli veniva da piangere ma riusciva solo a ridere; perché era felice e senza pensieri, con nient’altro da chiedere e tutto da perdere. Gli mancava fingere di essere ancora addormentato quando lei gli sfiorava un braccio con la punta delle dita dopo aver fatto l’amore credendo che lui dormisse, gli mancava semplicemente il suo tocco addosso, in qualunque modo lei lo toccasse.
Gli mancava guardarla negli occhi e sentire le gambe diventare di gelatina, o vederla irrimediabilmente arrossire quando le respirava contro la porzione sensibile di pelle appena sotto il lobo dell’orecchio, o sentirla rabbrividire con un sospiro quando la toccava ovunque le sue mani riuscissero ad arrivare. Gli mancava sfiorarla, lasciare che lei gli tirasse i capelli, farci baciare ridendo e anche vederla scoppiare a piangere quando inevitabilmente arrivava il momento di partire di nuovo lasciandola da sola, ancora e ancora.
Gli mancava dirle che la amava guardandola nelle iridi color cielo.
Gli mancava sentirla mormorare con gli occhi lucidi che lo amava anche lei.
Riaprì gli occhi solo sentendo una delle assistenti di volo toccarlo delicatamente su una spalla, dopo ore di volo. Doveva essersi addormentato senza accorgersene, senza nemmeno sognare ma col pensiero di lei ancora ben impresso nella mente al suo risveglio, (finalmente) quasi a respirare la sua stessa aria e tanto vicino da poter quasi intuire il suo dolore in quelle nuvole grigie e nell’ululare forte del vento freddo che gli arrivava prepotente addosso una volta (finalmente) fuori dall’aeroporto di Dublino.
Prese un respiro profondo, tirando su il cappuccio della giacca e chiamando un taxi sperando che nessuno lo riconoscesse, con la barba sfatta e quelle occhiaie scure. Anche perché non aveva voglia di fermarsi per le foto, né solo per salutare qualcuno, né tantomeno per sorbirsi le urla delle fans impazzite. Le avrebbe trattate male, e onestamente era l’ultima cosa che voleva.
Voleva solo salire sul primo taxi disponibile, attraversare tutta Dublino e arrivare in periferia, dove Evangeline viveva coi genitori per non rimanere sola. Per non restare sola col pensiero di lui che non c’era quasi mai, per non restare sola in quella camera da letto che era troppo grande e che nonostante tutto odorava di lui come se Zayn ci vivesse sempre, e non solo occasionalmente. Voleva arrivare sotto casa sua, suonare al campanello e sorprenderla, o magari prendere le chiavi di riserva da sotto lo zerbino ed entrare come un ladro, sorprendendola anche di più, facendole fermare il cuore per poi stringerla a sé quando sarebbe inevitabilmente scoppiata a piangere.
Evangeline intanto era buttata sul divano con una pesante coperta di lana a scaldarla da tutto quel freddo che sentiva, anche se probabilmente il freddo era più dentro che fuori. Canticchiava a bocca chiusa una vecchia canzone della quale nemmeno ricordava il titolo, coi capelli ricci fermati sulla testa da una matita e le mani macchiate di inchiostro e di evidenziatore chiuse su una tazza di porcellana rosa – colma di tè bollente – che aveva fin da quando era solo una bambina.
Aspettava quel messaggio che non sarebbe mai arrivato, sospirando di quando in quando o canticchiando qualcosa, cercando un modo per smettere di pensare ad un paio di occhi scuri e a quei capelli nei quali avrebbe voluto affondare le dita, e piangere nascondendo il viso nella sua spalla tatuata, in quella pelle che odorava di sigarette fumate di fretta e di ginepro. Aspettava un segno del cielo, anche se continuava a piovere e ormai era sul punto di smettere di crederci. Aspettava che qualcuno le spiegasse perché Zayn non le scriveva, perché si fosse limitato a visualizzare e poi non si fosse più connesso.
Aspettava e basta, fino a che non sentì il cellulare prendere a vibrare sul bracciolo del divano, un rumore sordo in quel silenzio che si era indotta che quasi non la fece cadere sul tappeto dallo spavento. Il cuore prese a batterle come impazzito contro la cassa toracica, anche prima di leggere il nome che lampeggiava sullo schermo in attesa che lei lo sfiorasse e leggesse il messaggio.
Toc toc”.
Le venne da sorridere come non sorrideva da troppo tempo, mentre sua madre compariva sulla soglia del salotto, sorprendendosi di quel sorriso che ormai vedeva troppo raramente. La donna sorrise di rimando, avvicinandosi per lasciarle un bacio tra i capelli sconvolti mentre lei rispondeva a quelle due parole stando al gioco e senza perdere il sorriso nemmeno per un istante, ora che l’aveva ritrovato.
Chi è?”. Inviato. Consegnato. Visualizzato.
Il destino che bussa alla porta”.
Evangeline rise forte, per poi fermarsi all’improvviso sentendo davvero suonare il campanello della porta d’ingresso.
Sua madre inarcò un sopracciglio, per poi correre trafelata per il salotto, vedendo che la figlia sembrava essersi paralizzata, col telefono che le tremava in mano e il labbro che tremava anch’esso, e le iridi color ghiaccio che minacciavano lacrime. Rimase immobile, sentendo poi la madre trattenere il fiato e convincendosi chissà come ad alzarsi per vedere chi fosse, ancora con i capelli legati alla meglio, il mascara del giorno prima colato su una guancia, una sua felpa addosso anche se le stava larga e un paio di pantaloni della tuta che non ricordava più se fossero suoi, dato che li metteva sempre lei.
«Chi è mamma?», riuscì a chiedere in un soffio, tenendo ancora la tazza in una mano e il cellulare nell’altra, camminando stancamente sul parquet coi calzettoni di lana che avrebbero dovuto scaldarla ma che le facevano comunque sentire freddo. Qualche passo verso la porta, prima che si bloccasse nel bel mezzo della cucina, a bocca aperta e con la tazza che le cadeva di mano mezza piena senza che se ne rendesse conto. Il rumore della porcellana rotta le arrivò ovattato alle orecchie, come se fosse lontanissimo o addirittura non esistesse se non in un sogno – o nel sogno di un sogno.
Pezzi di porcellana ai suoi piedi, tè versato ovunque sulle piastrelle della cucina.
Labbra schiuse, occhi a guardare solo lui.
Lui, entrato in quella casa come un uragano. Lui, che le fermò il cuore come un’onda anomala. Lui, che sorrideva appena, con le occhiaie più profonde che gli avesse mai visto addosso, con una giacca troppo grande e bagnata di pioggia, con un paio di jeans strappati sul ginocchio. Lui, coi capelli che erano più lunghi ogni volta che lo rivedeva, ma con quegli occhi che erano sempre della stessa irriconoscibile tonalità di castano che l’aveva fatta innamorare.
Lei, che se ne fregava del tè versato e della tazza distrutta. Lei, che le veniva da piangere e non credeva ai propri occhi e credeva che magari fosse un miraggio, un sogno. Lei, che non riuscì a muoversi nemmeno vedendolo avvicinarsi e quasi scivolare pur di tirarla a sé e abbracciarla di uno di quegli abbracci che sapeva dare solo lui, di quelli che toglievano il fiato e fermavano il cuore e facevo partire una serie di brividi lungo la schiena.
Evangeline, che si lasciò scappare un sospiro, a sentirlo finalmente così vicino e così reale e così proprio. Lei, che si affrettò a stringerlo come fosse la prima volta, sprofondando le dita in quei capelli di seta legati in un codino ormai sfatto e da rifare. Lei, che non riuscì a trattenersi dal ridere, con labbra contro quel collo color cappuccino che le era mancato così tanto e che odorava di lui anche più del solito. Zayn, che si cibò di quel sospiro fino a sentire il proprio cuore tutto intero come non lo era da troppo tempo, dall’ultima volta che l’aveva vista. Lui, che la strinse a sé come fosse la cosa più preziosa di questo mondo, lasciandole un bacio sui capelli e sussurrandole un saluto direttamente nell’orecchio, direttamente sul cuore.
«Non mi hai risposto… credevo che…».
«Non c’era bisogno che ti rispondessi quando potevo prendere il primo aereo libero e volare da te, quando avrei potuto abbracciarti e – anche se per poco – smettere di farmi bastare quegli odiosi messaggi… non c’era bisogno che ti convincessi di amarti quando potevo venire qui e dirtelo di persona…».
E con ogni parola le stava più vicino e la stringeva più forte e sentiva il suo respiro di menta e tè infrangersi contro la propria pelle a provocare la pelle d’oca. Ma non fece in tempo a dire nient’altro che sentì la morbidezza dei petali di rosa sulle proprie labbra, che fece sì che un respiro gli si spezzasse in gola, mentre le sue mani sempre calde finivano sotto al maglione e la stuzzicavano come avevano sempre amato fare.
La ragazza rise, contro quelle labbra che le mancavano così tanto, sfiorandogli il collo con le dita fredde e continuando a baciarlo perché semplicemente non riusciva a farne a meno. E il moro rise con lei, sollevandola da terra e staccandosi dalle sue labbra sono per mormorarle due parole che le sue orecchie bramavano di sentire dal vivo, anziché sempre e soltanto dalla cornetta di un telefono.
«Ti amo». E un suo “ti amo” riusciva ad abbattere ogni suo muro, lento e inesorabile come un’onda, forte e sconvolgente come uno tsunami abbattutosi su un qualsiasi atollo delle Maldive.




 
   
 
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