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Autore: Koira    04/01/2015    1 recensioni
"Nessuno aveva intenzione di rifiutare la proposta del proprietario, e, quando ci chiese cosa avevamo deciso, firmai quel contratto, convinto di fare la cosa più giusta che potessi fare.
O almeno così pensavo".
Genere: Horror, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 7

Let it be

Il viaggio di ritorno a casa fu silenzioso più del previsto, se possibile. Nessuno aveva voglia di parlare, dopo quanto accaduto nel nostro vecchio appartamento: io mi limitavo a guardare fuori dal finestrino, sperando che la fresca aria primaverile attenuasse la mia terribile emicrania, mentre Davide e Giacomo se ne stavano seduti ai due capi del sedile posteriore, evitando prudentemente anche solo di sfiorarsi. La signora Dorotea aveva insistito affinché mi sedessi davanti con lei, intenzionata così a tranquillizzarmi, senza però intuire che in quel modo non aveva fatto altro che peggiorare la mia apprensione; alle mie spalle, infatti, avvertivo il respiro regolare del nipote, un po’ più celere del normale. Forse resasi conto dell’aria elettrica che regnava nell’automobile, a un certo punto la donna aveva acceso la radio; quando arrivammo a casa, echeggiava in sottofondo una vecchia canzone dei Beatles, “Let it be”. Lascia che sia … Facile a dirsi, Paul McCartney. Se tua madre proferiva “parole di saggezza” in periodi difficili, la mia di certo a breve avrebbe proferito tutto fuorché parole sagge.

«Prego».

Non me ne ero neppure accorta, talmente era stato rapido: Giacomo mi stava aprendo la portiera dell’auto.

«Grazie» dissi distrattamente, evitando di guardarlo negli occhi.

A pochi metri di distanza mia madre ci stava aspettando, con un’espressione a metà tra il furibondo e il preoccupato. La sua tipica espressione infuriata che, tradotta in linguaggio comprensibile a noi comuni mortali, significava “cosa mi hai combinato?”.

«Melissa! Vieni qui, fatti vedere da vicino. Cosa ti sei fatta al braccio?».

Braccio? Abbassai istintivamente lo sguardo: un livido abbastanza esteso tingeva l’arto di violaceo. Non me ne ero neppure accorta, talmente forte era l’emicrania.

«Oh, sì, devo esserci caduta sopra quando sono scivolata dalle scale» mi affrettai a rispondere.

I suoi occhi, turbati, mi passarono a setaccio dalla testa ai piedi.

«E sulla fronte? E’ grave, signora Dorotea?» chiese, rivolta alla vicina.

«No, non si preoccupi, è solo un taglietto. Ringrazi che si è trovata con un’ex infermiera, quando è successo» rispose la donna.

«Questo non può che tranquillizzarmi» disse la mamma, cercando di suonare il più sincera possibile.

Era ovvio che questo non la tranquillizzasse affatto.

«E suo nipote cos’ha? Sembra sconvolto».

«Grazie, mamma. Vedo che ti preoccupi di tutti tranne che di me, qui fuori» esordì Davide, cercando così di distogliere la sua attenzione da Giacomo. E parve riuscirci.

« Tesoro mio, certo che mi preoccupo di te. Come stai?» rimediò in fretta.

Era proprio il suo pupillo. E non potevo negare che la cosa ci avesse aiutati non poco, in quella situazione.

«Bene, mamma. Sei sempre così attenta al mio stato di salute …».

La signora Dorotea abbozzò un sorrisetto, pensando forse così di rasserenare ulteriormente la vicina.

«Credo che noi torneremo a casa. Si è fatto tardi» disse.

«Di già? Vorrei ringraziarla in qualche modo …  le preparo un caffè? O forse preferisce un tè?» propose mia madre.

«Niente, grazie. L’abbiamo fatto con piacere. Mi basta sapere che nessuno si è fatto male oggi. Poteva andare molto peggio» dichiarò lei.

«Certo, ha ragione. Se non ci fosse stata lei … non so, sarebbe potuto succedere chissà che. La invito a cena stasera».

«E non accetto rifiuti» aggiunse rapidamente.

 «D’accordo, se la mette così ... ».

«Certo, devo pure ringraziarla in qualche modo» affermò mia madre, cordiale.

Wow, non sarebbe potuto andare meglio. Eravamo passati, nel giro di poche ore, dal “dovrei stargli alla larga” al “ceniamo insieme”. Potevo sempre fingermi malata; dopotutto, era stata proprio la nonna di Giacomo a consigliarmi caldamente di stargli  alla larga: di certo non si sarebbe offesa.

Mentre le due nuove vicine colloquiavano piacevolmente, quasi litigando sul ristorante designato, Davide e Giacomo avevano già portato tutte le valige dall’auto in giardino, evitando con attenzione anche solo di guardarsi in faccia.

«D’accordo, signora Di Giorgio, ci vediamo per le venti a casa sua. Guida suo marito o devo venire con la mia auto?» chiese Dorotea.

«Fortunatamente abbiamo un’automobile capiente, non c’è bisogno che porti la sua. Allora, a più tardi» salutò mia madre.

Armata delle mie due valige, mi precipitai rapidamente su per le scale, nella mia nuova camera. Non avevo voglia di subire un interrogatorio, non ero ancora pronta. Posi i bauli in un angolino della stanza e mi sdraiai sul letto: in quel momento, volevo solo dormire. I colori del soffitto si facevano sempre più sfumati, sempre più lontani, mentre mi addormentavo. In breve tempo, le palpebre mi si chiusero letteralmente da sole, talmente forte era la mia emicrania, restituendomi l’ombra dei ghirigori sopra la mia testa, in particolare di un occhio dentro un triangolo. Che fantasia doveva avere il proprietario. Probabilmente era uno di quei tipi fissati con la cultura celtica o religiosa, che ne so.

 

«Mely! Svegliati, sono quasi le otto!».

Le urla di mia madre mi risvegliarono bruscamente. L’emicrania era passata, per fortuna, ma non avevo comunque nessuna intenzione di uscire quella sera; tantomeno con quella compagnia.

«Mamma, non mi sento molto bene. Preferisco rimanere a casa, così inizio a sistemare la stanza» le strillai in risposta.

«Ha ragione Ely, è meglio che stia a casa, stasera».

A parlare era stato mio padre. Entro pochi secondi me lo ritrovai nella mia stanza. Era visibilmente angosciato.

«Come ti senti, tesoro?» mi chiese, accarezzandomi delicatamente una guancia e indugiando con lo sguardo sulla ferita in fronte.  Mi si era staccato il cerotto, notai; era tipico di me muovermi molto mentre dormivo. Mio fratello, dopo anni di condivisione della stessa camera, mi aveva ribattezzata “Taz Tazmania”.

«Bene, papà, non preoccuparti. Mi fa solo un po’ male la testa» mentii.

«Vuoi che rimanga a casa con te?».

«E lasciare la mamma in balia della guida di Dorotea? Ti assicuro che sarebbe più al sicuro se guidassi io, credimi. Non accetterò più un suo passaggio» dissi, sogghignando.

«Se guida peggio di te, deve essere proprio una pazza assassina» esclamò lui, prendendomi in giro.

«Dai, sei proprio ingiusto. Non sono così male!» mi irritai.

Lui scoppiò a ridere di gusto e uscì dalla stanza, salutandomi con la mano.

Amava scherzare, mio padre, soprattutto con me. Non faceva che punzecchiarmi bonariamente.

«Vuoi che resti io con te?».

Era Davide.

«No, non preoccuparti, Dado. Vai con loro. Dorotea potrebbe faticare a reggere la storia che abbiamo raccontato. Dopotutto, ha ottantuno anni. E non puoi lasciare mamma e papà soli con quel ragazzo» dissi.

Mi spaventava non poco l’idea di lasciare la mia famiglia sola in compagnia di Giacomo e di sua nonna, ma di certo sarebbe stato meglio per loro che io non andassi. “Da allora ad oggi ha avuto altre otto transizioni, tutte in tua presenza” … meglio che fossi assente, allora.

Sentii la porta di casa sbattere e il cancello chiudersi: i miei erano usciti.

Decisi, prima di mettermi a sistemare la roba in stanza, di scendere in cucina a mangiare qualcosa: ero digiuna dalla sera precedente e, passata la reazione da stress con tutta l’attivazione della cascata ipotalamo-ipofisi-surrene, sentivo che la mia glicemia iniziava ad abbassarsi.

Asse ipotalamo-ipofisi-surrene … era evidente che stavo male e che studiassi troppo.

Giunta in cucina, rimasi meravigliata dal modo in cui mia madre, in un solo giorno, era riuscita a personalizzarla, rendendola accogliente quasi quanto la precedente. Ricordai di aver preso nella mia vecchia stanza una foto di papà da giovane, e salii a prenderla nello zainetto per riporla in un angolo, dietro la foto del matrimonio dei miei.

Aprii il frigo aspettandomi di trovarlo semivuoto, ma non fu così: inaspettatamente, la mamma aveva trovato persino il tempo di fare la spesa. Era davvero una donna piena di qualità, mi dissi. Mi preparai un sandwich e lo divorai rapidamente, talmente ero affamata. Terminata la “cena”, tornai in camera mia e mi misi a leggere un libro, al caldo sotto due piumoni. Avrei sistemato l’indomani, ero troppo stanca anche solo per muovermi. Continuavo ad avere la stranissima e fastidiosa impressione di essere osservata. Scesi dal letto e mi affacciai alla finestra, ritrovandomi inaspettatamente di fronte Giacomo: se ne stava seduto sul suo balcone a leggere anche lui un libro. Mi nascosi rapidamente dietro le tende, sperando che non mi avesse vista; Dio solo sapeva cosa sarebbe potuto succedere, ed ero sola in casa.

«Guarda che ti ho vista» esordì lui.

Ecco, proprio come temevo. Non avrei mai potuto fare l’agente segreto.

«Oh, scusa … non pensavo mi avessi vista» dissi, imbarazzata. «Come stai?».

Come stai? Forse quel sandwich mi aveva dato alla testa. Lui sembrò più sorpreso di me da quella domanda.

«Io … bene. Bene, per essere uno che poche ore fa ha tentato Dio solo sa cosa» rispose.

«Come va la testa?».

«Sicuramente meglio della tua ferita. Però puoi dire a tuo fratello che ha un’insospettabile forza, per essere un tredicenne».

«Gli farà piacere» dissi, abbozzando un sorriso.

«Cosa stai leggendo?» mi interessai.

«”I dolori del giovane Werther”».

«Non credo però che ai vicini interessino le nostre conversazioni» aggiunse, ridacchiando.

«Giusto, stiamo strillando … lettura interessante. Ti piacciono le storie sui suicidi d’amore?».

Che domanda stupida.

«Direi quelle sugli amori impossibili» rispose,  scrutandomi intensamente. «”Ah questo vuoto! Questo tremendo vuoto che sento qui nel petto!... Spesso penso, se potessi stringerla, una sola volta stringerla al cuore, questo vuoto verrebbe colmato”. Se questo non è amore …».

Quella sua citazione un po’ mi spiazzò. Tentai di mantenere la voce ferma.

«Non dovresti essere ad una cena?» chiesi.

«Potrei farti la stessa domanda» disse lui.

«Hai ragione. Non ci sono andata perché temevo ci andassi tu» esclamai io, sincera.

«Ed io per lo stesso motivo. Perché pensavo che tu ci saresti andata».

Seguirono alcuni secondi di spiacevole silenzio.

«Penso che dovresti andare a dormire, domani hai la scuola» disse a un tratto Giacomo.

«Giusto, tu non vai più a scuola. Allora … buona lettura, Giacomo».

Il solo pronunciare il suo nome sembrò quasi agitarlo.

«Buonanotte, Melissa».


L’indomani mattina, al risveglio, ritrovai sul davanzale un foglietto di carta. Chiedendomi come fosse arrivato lì, lo aprii. C’era scritta una frase:

 

“And when the broken harted people living in the world agree,

there will be an answer, let it be ….

For though they may be parted,

there is still a chance that they will see …

There will be an answer, let it be”.*

 

 

*E quando le persone dal cuore spezzato che vivono nel mondo si dicono d'accordo,

allora ci potrà essere una risposta, lascia che sia …

Benché essi siano separati,

ci sarà sempre una possibilità che loro vedranno …

Ci sarà una risposta, lascia che sia”.

 

 

 

   
 
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