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Autore: Momoko The Butterfly    05/01/2015    1 recensioni
Londra, 18XX. In una grigia giornata come tante altre, qualcosa di inaspettato sta per accadere; qualcosa che metterà a dura prova entrambe le fazioni coinvolte nella Guerra Santa. In seguito a una terribile tragedia, la piccola Gwen si risveglia come Noah. Ma qualcosa va storto...
Il freddo londinese le faceva battere appena i denti, generando un rumore che rompeva il glaciale silenzio che altrimenti l’avrebbe resa del tutto invisibile agli occhi della folla che, incurante, procedeva disinvolta lungo la strada avvolta in morbidi e soffici cappotti.
E lei invece per scaldarsi era costretta a rannicchiarsi come un verme tra la spazzatura, un cencio consumato a coprirla quel tanto per non farla morire assiderata. Il viso scavato, sul quale era caduta un’ombra cupa che mai essere vivo o morto aveva posseduto, fissava i propri piedi impalliditi per il gelo. E respirava, a malapena. Brevi ansiti costringevano il suo petto a sollevarsi pigramente e ad abbassarsi con cautela. Come se avesse paura che qualcuno potesse avvertire la sua presenza.
Perché lei era maledetta.
Era un mostro.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Allen Walker, Conte del Millennio, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
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Into the Madness


Capitolo 6
La sensazione di aver perso qualcosa



L'odore di disinfettante persisteva ancora nella stanza, soffocante quanto bastava per far storcere il naso a chiunque vi fosse entrato.
La porta e le finestre erano chiuse, queste ultime non del tutto, lasciando a malapena penetrare qualche fascio di luce dorata all'interno, in modo da salvare le quattro mura intonacate di bianco dall'oscurità. E ricadendo sul centro della stanza, come sete pregiate che accarezzassero la pelle, riscaldavano appena la figura che ancora dormiva nel letto a pochi centimetri di distanza, riparata sotto una candida coperta che sapeva di pulito.
I lunghi capelli, tornati alla loro consueta colorazione platinata, creavano arabeschi e geometrie tondeggianti sul cuscino, in perfetto disordine. Buona parte di essi era tenuta a bada da strati e strati di bende sulle quali trasparivano macchie carminee, a testimoniare le numerose ferite riportate nello scontro che l'aveva vista protagonista qualche ora prima.
Il suo respiro inquieto, che a stento si poteva percepire, a meno di non ridursi al più completo silenzio, era frammentato, eppure stabile.
Aveva finalmente trovato il proprio ritmo: lento e misurato; sussurri di fata impercettibili, profusi con estremo timore, sordi persino all'orecchio più vigile.

Ma nonostante questo, Gwen era ancora viva.
Ricoperta di bende e cerotti insanguinati, a proteggere le innumerevoli ferite e ustioni sul suo corpo esile e fragile come cristallo, dormiva profondamente tra le lenzuola dell'infermeria dell'Ordine Oscuro. Le uniche cose ancora visibili di lei erano gli occhi, chiusi, delicati come petali di rosa e divorati dalla mancanza di sonno. Attorno la pelle appariva arrossata, piena di cicatrici dolorose e vesciche. Impossibile sarebbe stato per lei accennare anche solo un movimento, senza il rischio di sentire la propria pelle spezzarsi come la corteccia di un albero, dilaniata dal fuoco e dal feroce combattimento sostenuto.
In quel momento le parole del Conte, così ben ponderate nella loro crudeltà, constatavano quanto facilmente potesse andare in frantumi un cuoricino come il suo; un cuore di pulcino, bagnato e infreddolito dalla pioggia, che attendeva mani calde e sicure nelle quali accoccolarsi per essere tratto in salvo.
Ma nessuno sarebbe arrivato, e Gwen lo sapeva bene. Ben quindici anni erano passati da quel giorno e non aveva ricevuto altro se non il tocco gelido della morte a stuzzicarla, provocare la sua paura e il suo sconforto: una prigione di sentimenti eterni che le aveva glaciato l'animo, prigioniero di un destino scritto col sangue.
Per troppo tempo era stata in balia della tempesta dentro di lei, potente e distruttiva, ed ora ciò che rimaneva del suo spirito martoriato riposava silenziosamente sul fondo del mare, in attesa di essere inghiottito dal lento scorrere del tempo...

Un movimento della pupilla scosse appena le palpebre sigillate. La coperta iniziò a frusciare lentamente, mentre accenni di movimento percorrevano meccanicamente, come ingranaggi difettosi, il corpo fasciato della donna.
Un luccicchio dorato brillò inaspettatamente, riflettendosi nella luce della finestra; aprendo così lentamente gli occhi, Gwen vide un mare di bianco circondarla, attenuato dalla penombra che si era creata nella stanza.
Non capiva dove si trovasse, cosa era successo, non capiva niente. Sentiva solo un sibilo tremenendo farsi largo tra i suoi pensieri, troncando qualunque ragionamento per invaderle tutto il corpo: dolore. Ne provava tantissimo, e dappertutto: in faccia, sulle gambe, al petto... Quasi non respirava.
Era una sensazione terribile. Però... Percepiva chiaramente anche un'altra cosa: calma.
C'era una calma quasi paradisiaca in quel luogo, che sebbene non riconoscesse, le trasmise quasi subito un senso di pace che non aveva mai provato in anni e anni di tormento e solitudine. Le sue pupille chiare si mossero lente e assonnate in ogni angolo della stanza, studiandone con imprecisa cura i dettagli: le tende erano delicate, quasi trasparenti, e ondeggiavano appena come spettri tra i sottili raggi del sole. E se ne accorse solo in quel momento. Faceva freddo. Sentiva una strana corrente, fresca e purificatrice, solleticarle la pelle rimasta libera dalle fasciature, donandole una sensazione di libertà sconosciuta, ignota.

Tentò di alzarsi.
Senza pensare a nulla, girò appena in busto verso sinistra, affinché potesse fare leva sulla spalla per sollevarsi. Subito la pelle lesa iniziò a tirare, strapparsi. Corrucciò appena il viso, nel tentativo di reprimere il dolore che altrimenti avrebbe vanificato i suoi sforzi, facendola ripiombare sul cuscino.
Le molle del materasso gracchiarono debolmente, mentre la coperta scivolava giù. Indossava un abitino azzurro, dalle maniche molto corte. Del suo precedente vestito non sapeva nulla, ma sicuramente non doveva essere ridotto molto bene. Poco male, era l'ultima cosa della quale le importava.
Finalmente riuscì a mettersi a sedere. I capelli chiari, in parte bruciacchiati o tagliati via, le ricaddero scomposti sul viso; una frangia le coprì la fronte, circondata di bendaggi spessi e pesanti. Non sapeva se sotto di esse ci fossero ancora quelle cicatrici. Temeva che se le avesse srotolate, le avrebbe sentite ancora. Non si azzardò nemmeno a sfiorarle, tanto era terrorizzata da questa agghiacciante prospettiva.

Un brivido le percorse d'improvviso la schiena, e la sua attenzione andò tutta verso la spalla sinistra. C'era qualcosa di strano. Era come se... le formicolasse. Punture fastidiose e sottili le percorrevano la pelle diminuendone la sensibilità; quasi le provocavano dolore. Era qualcosa che la infastidiva molto: quando da piccola sentiva irrigirsi una gamba per aver mantenuto la stessa posizione per troppo tempo, soleva pestare il piede a terra con energia nel tentativo di scacciare le formiche che la pizzicavano, voraci. E ad ogni colpo era come se queste la mordessero con maggiore forza, bisognose della sua carne e restie ad allontanarsi.
Ma Gwen non era più una bambina. Aveva capito che non c'erano insetti su di lei.

Non riuscì a muovere la testa: era un macigno, le doleva troppo;
così fu la mano destra a sollevarsi tremolante, piena di bende e cerotti. Le dita affusolate e gentili incespicarono fino ad arrivare alla scapola, ben visibile sul suo corpo magro e snello, forse fin troppo. La percorsero, come fosse stata una guida, un appoggio, arrivando al braccio.
Era strano, non riuscire a sentire il tocco dei polpastrelli attraversarlo. Le bende le avevano forse attutito il tatto?
Il braccio era fasciato, forse troppo strettamente; doveva essere quello il motivo per cui si era incantato all'improvviso. Gwen la pensava così.

Ma ad un tratto, tutto finì.
Le dita, che fino a quel momento avevano percorso con delicatezza la linea dell'avambraccio, trovarono sotto di loro un inspiegabile vuoto. L'aria e nulla più.

Gwen fece ondeggiare lentamente le dita incerottate attorno a quello spazio, temendo di non riuscire a percepire più il proprio arto. Ma lei lo sentiva. Sapeva che era lì.
I capelli si mossero appena: la testa iniziò a voltarsi piano, quasi impercettibilmente, verso sinistra. Da quella prospettiva non riusciva a vedere molto, i fili di platino che le erano ricaduti ai lati del viso limitavano la sua visuale non poco. Ma di certo non gliela oscurarono totalmente.
E quando ai suoi occhi dorati, pervasi da un caldo senso di pace, si palesò la verità di cui non si era accorta fino a quel momento, ogni muscolo s'irrigidì all'istante, come assalito da una gelida brezza. E quella mano che sotto di sé aveva trovato il niente, smise di cercare.
Perché quel braccio, che lei aveva tentato di percepire col tocco timoroso delle sue dita, non c'era più.



Allen Walker correva a perdifiato lungo il corridoio di pietra, incespicando appena nei propri passi come se si fosse appena svegliato; nonostante avesse riposato per ben due giorni, ancora faticava a ritrovare le forze. Il suo lavoro di Esorcista non era qualcosa che si poteva smaltire con una semplice dormita, lo sapeva bene: dolori e cicatrici restavano anche dopo tutti i trattamenti e le cure ricevute dalla capo infermiera, e non poteva far nulla per loro, se non ignorarli. Far finta che non ci fossero, affinché non tornassero nei momenti meno opportuni a complicargli persino la più ordinaria delle attività.
E al resto pensava il tempo. Quello che sembrava aver congelato la loro era in un'infinito ciclo senza fine; una ruota che non smetteva mai di girare, e mietere vittime lungo il suo corso. Quella che aveva frenato ogni priorità che l'inglesino potesse avere, per riempire i suoi pensieri confusi con altri di altrettanta caotica natura.
I tacchi degli stivali producevano un rumore il cui ritmo era in crescente aumento; il motivo di una simile fretta poteva tradursi con un unico nome: Gwen.

Quella donna stuzzicava in maniera a dir poco incredibile la sua curiosità, al punto da fargli mandare all'aria ogni proposito. Finché non avesse capito con chi aveva a che fare, e quale tipo di persona lo avesse persuaso così tanto, non le avrebbe levato gli occhi di dosso.
Doveva capire. Doveva capire per quale motivo la Follia non lo aveva ucciso; perché avrebbe potuto, ma non lo aveva fatto. Al posto di combatterlo, aveva tentato di instaurare un dialogo, di parlare.
Il pensiero di quella voce strozzata da dolore e quelle lacrime, che gli avevano chiesto scusa fino a svanire nella polvere, lo tormentavano quasi ossessivamente. Doveva liberarsi dei dubbi, delle domane che lo attanagliavano. E comprendere cosa fosse successo alla ragazzina triste e impaurita alla quale aveva restituito un tozzo di pane molti anni prima...

Entrò quasi di soprassalto nell'infermeria, spingendo con inaspettata forza la porta che lo catapultò in un miscuglio di odori contrastanti: disinfettante, bucato, sangue. Odiava quella micidiale combinazione, ma per qualche strano motivo era come se non potesse farne a meno: dopo averci preso forzatamente familiarità in tutto quel tempo, oramai era diventata per lui un sottofondo olfattivo al quale si approcciava indifferente.
Senza attendere nemmeno la capo infermiera, che doveva essere impegnata con altri pazienti, si diresse a grandi balzi in fondo a uno stretto corridoio intonacato di bianco, leggermente in penombra. Quella stanza non l'aveva mai visitata, a sentire Komui ci finivano solo i casi estremamente gravi, la cui necessità primaria era un riposo tranquillo e lontano dai turbamenti esterni. Ed ora... C'era lei.

Intravide la porta e la raggiunse in un soffio; ma quando le fu davanti... Si bloccò.
La mano ossuta e infestata dall'Innocence avanzò cauta verso la maniglia, afferrandola quasi come se fosse stata un tizzone ardente. Per quale motivo ora si mostrava così titubante?
I meccanismi della serratura lentamente scricchiolarono, mentre ruotava lievemente il polso verso sinistra. Un click, e l'anta di legno scuro si separò dallo stipite, lasciando che una gelida corrente d'aria proveniente dalla stanza gli solleticasse il viso. Poi, con estrema attenzione, scivolò all'interno.

Lo spazio era avvolto in una lieve ombra, che tuttavia non gli impedì di distinguere i contorni appena offuscati dei mobili che lo riempivano: un comò ampio alla sua destra, un tavolino centrale con una sedia di legno resistente e poi...

"Ma cosa... ?!"

Il letto, con la testiera appoggiata al muro, era vuoto.
Le coperte apparivano scomposte, tirate tutte in una direzione con forza. Che la Noah fosse fuggita? E come?!
Era a dir poco impossibile, pensò il ragazzo guardandosi attorno nella stanza, certo che dovesse esserci una spiegazione valida. Ma ecco che qualcosa di originariamente impercepibile balzò alle sue orecchie, come un soffio leggero: un singhiozzo, che proveniva da dietro il letto, da un punto che lui non riusciva a scorgere.

Con passi lenti, volti a non coprire nemmeno sensibilmente quel suono guida, Allen girò attorno al letto sporgendosi appena in avanti per curiosare. E fu lì che vide Gwen.
Era appollottolata a terra, la schiena appoggiata contro il comò che si trovava subito accanto al suo giaciglio candido. E con i capelli completamente sparsi sul viso e sulle spalle, piangeva sommessamente, raccolta in se stessa come un pulcino privato della propria madre.
L'Esorcista notò con muto sconcerto il moncone fasciato che ora si trovava al posto del suo braccio sinistro. E non riuscì a trattenere un'espressione che recava con sé un senso di colpa spregiudicato. Era anche per causa sua se ora si trovava in quella condizione, e non avrebbe potuto fare nulla per rimediare. Non questa volta.

Le sue prime intenzioni nei confronti della donna furono quelle di approcciarsi con qualche parola gentile, magari un semplice 'ciao', per evitare di confonderla o agitarla. Ma Gwen fu inaspettatamente più veloce.

- Ti... Ti ho fatto tanto male? - domandò flebile come una candela, nel tentativo di placare il pianto.

Allen rimase stupito da quella domanda. E non seppe come rispondere. In un primo momento, almeno.
Ostentando una goffaggine non prevista dal suo piccolo copione, si sedette accanto a lei incrociando le gambe sul pavimento di marmo liscio, dal riverbero adamantino.

- Non tanto - rispose con voce leggera, senza darci troppo peso. Non voleva addossarle colpe che probabilmente non le appartenevano. Suo sarebbe stato il compito di capire quali.

- Non era mia intenzione - continuò la Noah, ritrovando lentamente la calma nelle proprie parole, come se quell'azione la tenesse lontana dai pensieri che le affollavano la mente, donandole pace.

- Lo so - ammise Allen con un piccolo confortante sorriso. La sua attenzione andò poi alla spalla sinistra - Piuttosto... Il braccio vi da molto fastidio?

- Non m'importa - rispose senza pensarci la Follia, stringendo appena le fasciature. Ciò fece pensare tutto il contrario al giovane albino - Se... Se non fosse successo... Io sarei ancora... Ancora...

Non ebbe il coraggio di terminare la frase. Il suo corpicino ferito prese a tremare appena, scosso fin nel profondo da quell'inquietante pensiero. No, non avrebbe accettato nemmeno l'idea di rimanere preda di quel sentimento maledetto un secondo di più. Non di quella forza antica e vendicatrice che le avrebbe corrotto l'animo, portandola a dissolversi come una fiamma senza ossigeno tutto quello per cui un essere umano poteva definirsi tale.

- Non volev...

Si bloccò. Allen le aveva stretto con gentilezza la mano, per rassicurarla. Alzò appena la testa, incontrando per la prima volta i suoi occhi d'argento da quando era entrato nella stanza. E ricominciò a piangere.

- Grazie... Grazie... - mugugnò in preda ai singhiozzi, lasciando uscire quella parola che si portava dietro da ben quindici anni, mentre grossi goccioloni piovevano giù dagli occhi dorati umidi.

Allen l'accolse quasi istintivamente tra le proprie braccia, massaggiandole delicatamente la schiena per confortarla. Aveva capito per cosa lo stava ringraziando, e questo confermò definitivamente le sue teorie. Gwen Grey era davvero la bambina cui aveva reso una pagnotta sgualcita, in quel giorno di pioggia di tanto tempo prima...


Prendere confidenza con la nuova arrivata non fu affatto semplice.
Gwen si mostrò una donna alquanto singolare, sia per quanto riguardava l'approcciarsi alle altre persone, sia per i toni e gli atteggiamenti con cui usava riferircisi.
Allen rimase sorpreso e anche colpito dalla sua quasi timorosa gentilezza, espressa con parole al di là dell'eloquenza, impossibili da biasimare anche per il più duro degli Esorcisti; forse, persino per Kanda, anche se era più facile a pensarlo che a vefiricarlo con i propri occhi.
Infatti, di Gwen sapevano solo il giovane albino, Linalee, Komui e la Capo infermiera. Nessun'altro, a parte loro, era a conoscenza della sua esistenza e mai sarebbe accaduto. Insieme, avevano deciso di condurre la verità nella parte più profonda della loro anima, di modo che fosse pressoché impossibile, successivamente, tirarla fuori e regalarla sconsideratamente in giro.
Era stato Komui in persona a farlo promettere ai suoi sottoposti, esigendo un riserbo e una discrezione del tutto impeccabili al riguardo.
Linalee aveva annuito distrattamente, quasi si aspettasse una richiesta del genere. Allen aveva accettato con risolutezza e la cara Capo infermiera semplicemente aveva replicato "Il mio lavoro è curare chi ne ha bisogno!", per poi andarsene coi solito cipiglio autoritario di sempre.
Nessuno dubitava del fatto che potesse tradire il segreto.
Al di là del muro di freddezza con il quale aveva cintato il proprio cuore in quei duri e spietati anni di guerra, aveva saputo però dare valore ad ogni singola vita; e anche fiducia, per le persone che davvero avevano l'intenzione di proteggere i loro cari. E il Supervisore Lee era uno di quei piccoli miracoli dietro ai quali valeva la pena correre dietro, senza fare troppe domande e mandando al diavolo i rischi che si sarebbero potuti correre.



Dal giorno in cui il giovane Allen fece la conoscenza di Gwen, ne passarono altri nove.
Le vesciche e le ferite della donna si rimarginarono ad una velocità sorprendente: in poco tempo sulla sua pelle non vi fu più nulla, solo un pallido arrossamento causato dalla febbre. Probabilmente, pensò l'Esorcista, si trattava di qualcosa che non poteva comprendere, o solo lontanamente intuire.
Tuttavia, per il braccio non ci fu nulla da fare. Ormai, non esisteva più.
La giovane non sembrava però dar peso a tale realtà. Ogni sua parola o azione quotidiana pareva volesse escluderla dal resto, rinchiuderla in una gabbia buia e scura della propria mente. Allen non ne capiva il motivo. Più volte le chiese se sentiva dolori, o se semplicemente ancora il suo corpo non aveva realizzato la sparizione dell'arto, ma in risposta non riceveva che il silenzio. Che potesse essere per lei una forma di punizione?
Perché avrebbe dovuto ostentare una simile rigidità?
Difficile capirlo. Ma il giovane albino aveva un incarico, e non si sarebbe lasciato ostacolare da una simile causa. Avrebbe indagato a fondo, non solo in quanto suo dovere, ma anche per comprendere meglio con quale genere di personalità aveva a che fare. E se i suoi sospetti si fossero avverati, avrebbe dimostrato che Komui aveva torto.
Gli serviva solo un po' di tempo...


Un pomeriggio, sull'isola iniziò a piovere a dirotto.
Migliaia di piccoli proiettili d'acqua si schiantavano contro i freddi vetri delle finestre, appannati dall'umidità, ramificandosi in altrettante venature acquatiche sulla sua superficie. Le ombre che proiettavano sulle mura dell'edificio parevano piccole crepe d'ombra, che ne decoravano le insenature, simili a lacrime trasparenti.

Allen era appena tornato da una missione, ritenendosi la persona più fortunata del mondo in quanto, se non avesse posseduto l'Arca Bianca, gli sarebbe toccato rientrare a piedi, col rischio di inzupparsi da capo a piedi. Era uno di quei lati positivi che preferiva mettere in primo piano rispetto alle preoccupazioni che altrimenti lo avrebbero assillato.
Ancora non conosceva bene i meccanismi di quel congegno maledetto, e nemmeno credeva di volerlo. Cosa si celava dietro quegli edifici bianchi come il latte?
Cosa significavano quel pianoforte, e lo spartito con le note che lui e Mana avevano ideato?

Si poneva queste domande mentre attraversava l'ala est dell'infermeria con in mano un vassoio ricolmo di prelibatezze. Certo, dare un piccolo morso alla brioche farcita di marmellata di pesche lo avrebbe sicuramente tirato su di morale, ma dovette contenersi, e spostare i propri pensieri altrove. In fondo, quella non era la sua colazione!
Con le nocche della mano destra diede qualche colpetto all'ultima porta del corridoio, entrando poi con l'ausilio del piede, che spinse l'anta verso l'interno.
Non appena fu dentro, si diresse verso il tavolo in fondo e vi posò con accuratezza il vassoio, facendo tintinnare appena il bicchiere di spremuta e il piattino coi toast tra loro. Tutte quelle delicatezze insieme emanavano un profumo a dir poco invitante, un misto di dolce e fresco che donava energia al solo sentirlo.

- Ecco qui - esordì con un sospiro, soddisfatto per essere riuscito ad arrivare a destinazione senza far cadere nulla. Jeryy non lo avrebbe perdonato se una di quelle leccornie si fosse sfracellata al suolo.

- Grazie, Allen - Gwen si allontanò dalla finestra, avvicinandosi per prendere posto a tavola. Indossava un abitino leggero color lavanda, dalle maniche cortissime e i finimenti giallo oro, molto orientali; con tutta probabilità, era opera di Komui. I capelli erano stati raccolti in una morbida coda adagiata sulla spalla sinistra, come se l'intento fosse quello di nascondere il moncone ancora ricoperto di bende.

Il giovane Esorcista si sedette dopo di lei, ricambiando con un piccolo sorriso gentile senza badare alla riservatezza che gli fu mostrata.

- Spero vi piaccia. Jeryy è il miglior cuoco della terra - puntualizzò con orgoglio. Quando si trattava di cibo, il cuoco dell'Ordine sapeva come accontentare i suoi pargoli affamati - E se doveste avere qualche richiesta particolare, ditemela pure.

- Grazie - disse ancora la Noah, afferrando delicatamente una fetta di pane imburrato per portarla lentamente alle labbra. Il profumo che ne scaturì le fece chiudere gli occhi, trascinandola in un totale stato di calma. E quando lo ebbe assaggiato, il suo volto si colorò lievemente di porpora, imbarazzato e al tempo stesso commosso da quel sapore così vero e inebriante - E'... Davvero squisito.

- Provare per credere! - esclamò Allen mostrando il pollice alzato in segno d'approvazione - Piuttosto, voi come vi sentite?

Al termine di quella domanda, Gwen esitò, abbassando appena lo sguardo.

- Molto meglio - rispose con voce quasi sussurrata. Allen capì che stava mentendo, ma non lo diede a vedere. Non voleva metterla a disagio.

- Sapete, c'è una cosa cosa vorrei chiedervi - aggiunse poi, facendosi serio. Poggiò i gomiti sul tavolo, congiungendo le mani; cominciò così a fissare intensamente il vassoio mezzo vuoto, quasi per evitare di incrociare lo sguardo con la sua interlocutrice. Perché gli argomenti che si accingeva a sollevare avrebbero potuto benissimo turbare il suo equilibrio, e porre un freno alla calma e alla tranquillità che fino a quel momento aveva ostentato; ma parlarne sarebbe stata l'unica soluzione.

- Di cosa si tratta? - chiese timida la Follia, mentre si chinava lievemente per prendere il bicchiere. Si bloccò non appena l'altro iniziò a parlare. Non poteva nemmeno immaginare quello che avrebbe di lì a poco udito. E nemmeno quali effetti avrebbe potuto causarle.

L'albino serrò le labbra, esitante. Il suo respiro si arrestò per qualche attimo, come se d'improvviso una gelida brezza lo avesse avvolto. Eppure, ciò non gli impedì di continuare.

- 24 Febbraio, 18XX.

Quelle parole uscirono, contrariamente a quanto Allen si aspettava, con inaspettata freddezza; lame affilate e stridenti, che lo portarono a storcere il volto in un'espressione che non mostrava nulla, se non il pentimento per averle pronunciate. Solo a quel punto sollevò lo sguardo, preoccupato di essere stato fin troppo distaccato nell'esprimersi. Con sua sorpresa, davanti a lui si palesò una scena che mai avrebbe saputo aspettarsi.
Gwen aveva posato con un tintinnio il bicchiere sul tavolo, e sul suo pallido volto era comparso un piccolo ma significativo sorriso; un fiore sbocciato tra la neve. La mano destra allentò la propria presa sulla superficie cristallina del boccale, finendo per adagiarsi senza energie sul tavolo.
Senza dubbio, si trattava di una reazione proprio singolare. E dire che Allen si stava preparando a chissà quale catastrofe!

- 24 Febbraio... - ripeté la Noah, con voce dolce e sussurrata, immersa in ricordi dall'aroma di miele - Quello... E' un giorno... Molto speciale per me.

La mano andò poi ad accoccolarsi sulle gambe, lontana dal tavolo. Metà vassoio non era stato ancora toccato.

- Ne volete parlare? - domandò Allen, ora con un tono decisamente più comprensivo e ponderato. Nonostante si fosse espresso con un modo a suo dire per nulla adatto ad una fanciulla, ora tirava un sospiro di sollievo per essere riuscito a cavarsela senza scatenare le ire di niente e nessuno. Preferì pensare che il suo sogno, in fondo, non era stato solo un accozzaglia di immagini casuali, dettate dalla stanchezza per l'ardua missione appena conclusa; era qualcosa di profondo, vero, esistente. Ciò che, perso in una memoria costituita di ingranaggi che a malapena funzionavano, ora attendeva Gwen per essere portato alla luce della verità e raccontato.
E le parole che la Follia avrebbe pronunciato da quel momento in avanti, avrebbero avuto la pesante responsabilità di convincere Allen della sua innocenza, e ancor più importante, della sua umanità...



Quando Gwen varcò la soglia dell'istituto St. Francis, ne rimase abbagliata.
Il largo cancello in ferro battuto con decorazioni gotiche che le si era aperto davanti cigolando, come per magia, gettò il suo sguardo stanco e meravigliato su di un vasto prato inglese, il cui verde smeraldino brillante impallidiva appena di fronte al gelo dell'inverno.
Grosse querce nodose e spoglie si ergevano su quel mare d'erba come statue irremovibili, più dure della pietra. La piccola ne osservò incuriosita i lunghi rami nudi che si stagliavano contro il cielo; dita arcuate e scheletriche vogliose di raggiungere qualcosa di misterioso, qualcosa che poteva trovarsi unicamente tra i nuvoloni spessi e grigi che ora facevano da soffitto al mondo.
Sul sentierino di ciottoli che divideva a metà il giardino figuravano diverse panchine di legno, ricche d'intarsi preziosi e finemente lavorati. Gwen non poté fare a meno di fermarsi qualche attimo ad osservarle, indecisa se sedercisi sopra o meno, solo per sapere quali sensazioni avrebbe provato. Nel povero quartiere dal quale era stata prelevata giusto un'ora prima, da una donna dal sorriso gentile, c'erano solo vecchie panche scricchiolanti che gli anziani usavano per riposarsi o per chiacchierare tra loro. Le poche volte in cui aveva provato ad usufruirne, era stata scacciata malamente dai loro bastoni.
Ed ora... riflesso nei suoi occhi d'ambra brillanti c'era quell'immenso spazio di cui non vedeva nemmeno il confine, e che sarebbe stato suo da quel momento in avanti. A stento si trattenne dal correre sulla panchina più vicina a lei.

- Forza Gwen, è quasi ora di pranzo - la incitò la donna che l'aveva accompagnata, una robusta signora dai lunghi capelli color paglia raccolti in una crocchia scomposta - Sbrigati.

- Arrivo! - rispose lei con energia correndole appresso lungo il sentierino, col fiatone che a contatto con l'aria gelida condensava in minuscoli sbuffi di vapore leggero.

Le due percorsero il vialetto con passo affrettato, passando sotto scheletri d'alberi secchi che sicuramente in primavera sarebbero diventati un incantevole portico naturale.
Il cuoricino della piccola batteva a mille. Non poteva più attendere, tanté che quando vide i primi mattoni dell'edificio fare capolino da dietro le alte siepi, non ce la fece più e prese a correre a perdifiato verso l'ingresso. Questo era formato da un'elegante scalinata e un ingresso, sovrastato da un ampio arco di pietra e ferro lavorati ad arte, recante due amorini sulla cima intenti a spiegare le alucce.
Per una che non aveva mai avuto in vita sua una dimostrazione di quella che poteva dirsi scultura, fu piuttosto intenso: Gwen si fermò ad osservarli con un sorriso che dimenticò di contenere adeguatamente, finendo per assumere un'espressione che agli occhi della sua accompagnatrice suonò piuttosto intontita. Per sicurezza la precedette lungo i gradini e diede qualche colpo ai battenti per farsi aprire.
E quando finalmente un bambino dall'aria scapestrata arrivò a spalancare appena il portone per far passare loro ma non il freddo, Gwen era ancora lì, persa in un frangente eterno ed estatico. Non si era minimamente accorta di essere l'unica a dover ancora varcare la soglia.

- Gwen! - la donna la richiamò alla realtà, tenendo aperto uno spiraglio unicamente per lei.

La bimba rimise i piedi sulla terra giusto in tempo per sgattaiolare dentro con un balzo di fortuna, scrollandosi di dosso con forza l'aria inebetita assunta pochi attimi prima. Non poteva certo fare figuracce il suo primo giorno!

- Mi perdoni, Miss Allis... - mugugnò pasticciando imbarazzata con le proprie dita, come era solita fare quando provava vergogna per qualcosa.

Ma quell'attimo di pentimento duro ben poco. La sua attenzione fu catturata da un rumore che mai aveva sentito prima: bambini. Erano risa, grida, parole allegre e piene di divertimento. E correvano come echi giocosi lungo i due corridoi che si aprivano sull'atrio, in due direzioni opposte; alte superfici marmoree ricche di fronzoli e dipinti, vasi in ceramica e piante ben curate. Pareva essere una piccola galleria più che un'orfanotrofio. I pavimenti lisci e perfetti erano tanto puliti da riflettere come specchi il soffitto, costituito di volte d'imponente maestosità.
Un lusso così... Per lei, era davvero troppo. Se non fosse stata una persona quieta e silenziosa, sicuramente sarebbe esplosa in salti di felicità e grida di stupore. Be', almeno per il momento, la sciagura era stata evitata. A ben vedere, stava resistendo a tutte quelle meraviglie in maniera impeccabile.

- Vieni - Miss Allis si levò il cappotto di pelliccia affidandolo al bambino che aveva aperto loro il portone, invitando poi Gwen a seguirla lungo il varco di destra.

In quel mare di brusii e voci scompigliato, il suono dei suoi tacchi da signora fu solo un'aggiunta a malapena percettibile. La piccola Noah le andò dietro senza emettere un fiato, troppo presa a studiare curiosa le singole immagini che adornavano le pareti. Erano per lo più paesaggi, di Londra o qualche altra città inglese, ed erano talmente belli che a stento si sarebbero potute trovare differenze con gli originali.
Al termine dell'andito si aprì un piccolo salotto. Due bambine stavano giocando su un tappetto con in mano un paio di bambole di pezza sgualcite. Non appena si accorsero di Gwen si fermarono e la squadrarono da capo a piedi, con aria insospettita. L'interessata accolse quelle impreviste attenzioni con riserbo, abbassando lo sguardo.

Raggiunsero infine un piccolo corridoio, stretto e basso, che le condusse ad una porticina.
Miss Allis armeggiò con la propria gonna e ne tirò fuori una piccola chiave di metallo. La infilò delicatamente nella serratura arrugginita e con un movimento secco e deciso la girò, spingendo contemporaneamente l'anta in avanti. Doveva essere parecchio difettosa, se era possibile aprirla solo in quel modo.
Gwen entrò per prima nella stanza che si trovava oltre. Ad investirla come un'onda furono l'odore pungente di sapone di seconda mano e di marcio, forse di avanzi.
E anche i suoi occhi rimasero alquanto delusi, di fronte all'indicibile spettacolo che le si presentò innanzi.
Ora, lei non ne aveva mai viste molte di pentole nella sua vita, ma quelle che riempivano i lavelli di quella sudicia cucina erano davvero troppe, persino per lei. Calderoni incrostati e pieni di olio usato galleggiavano come cadaveri alla deriva in mezzo a dell'acqua grigia e disgustosa. Le padelle e le posate riposavano beatamente sul fondo, i pezzi di cibo ancora attaccati a sciogliersi lentamente per navigare dentro quel lerciume.
Gwen non poté fare a meno di tapparsi il naso e stringere gli occhi alla vista delle mosche che aleggiavano come condor voraci su quel bottino offerto loro in maniera del tutto gratuita.
E il pavimento?
Neanche a parlarne: era appiccicoso e opaco, l'esatto contrario della superficie marmorea sulla quale le sue scarpette malridotte avevano camminato allegre prima. Ora a stento riusciva a vedere il proprio riflesso sconvolto.

- Oh, che peccato - osservò Miss Allis addentrandosi con naturalezza nella stanza - Temo che l'orario del pranzo sia passato.

La piccola non si curò molto di quelle parole: quando l'aveva incontrata, la donna le aveva promesso un letto caldo e un buon pasto non appena avessero varcato la soglia dell'istituto. Quindi decise di andarle dietro, resistendo coraggiosamente al terribile tanfo che era padrone della stanza.
Poi, qualcosa le volò in faccia, bagnandole il viso.
Gwen sentì un forte odore di umido pervaderle le narici; poi guardò meglio, e scoprì tra le sue manine infreddolite uno straccio sporco.
Passò qualche secondo, in cui rifletté appena su quanto accaduto, poi sollevò lo sguardo, perplessochiedendo mentalmente spiegazioni alla sua salvatrice.

- Be', che hai da guardare? - sbottò quella, rivolgendole un'occhiata arcigna e antipatica - Non lo sai che qui il cibo bisogna guadagnarselo?

- Sì, ma... - cercò di ribattere Gwen, con voce triste e timorosa.

- Osi anche lamentarti?! - fu la risposta affrettata di Miss Allis, che non fece terminare nemmeno la bimba - Dovresti ritenerti fortunata. Ci sono ragazzine che ucciderebbero per essere al tuo posto. Se vuoi mangiare, prima devi lavorare. E' la regola.

C'era qualcosa che non andava. Perché tutto d'un tratto la sua gentilezza era sparita?
Che fosse stato... Un trucco?
Non lo aveva capito. Non aveva fatto in tempo a fiutare il pericolo. E come avrebbe potuto? Stava morendo di freddo nel momento in cui quella donna era venuta da lei e le aveva offerto calore e cibo. Aveva le mani legate. Come rifiutare un invito tanto succulento?
Non aveva mai incontrato nessuno che le offrisse una seconda occasione a quel modo, ma molte volte aveva udito di ragazzini orfani come lei che venivano levati dalla strada e accolti in quelle che chiamavano 'case famiglia'. Pensava che se le fosse capitata una fortuna del genere, poi non avrebbe più avuto bisogno di rubare per sopravvivere, che ogni giorno avrebbe potuto vestirsi con stoffe di buona qualità e non più di cenci. E che finalmente qualcuno avrebbe avuto il coraggio e il cuore di trattarla come un essere umano. Perché anche lei lo era. Ne era sicura. Altrimenti perché avrebbe sofferto così tanto?
Gli esseri umani, quando venivano colpiti da una qualche disgrazia soffrivano, provavano dolore. E per lei il supplizio era durato più di quattro anni. Questa era una prova sufficiente a definirla 'umana'.
Eppure... Perché di punto in bianco le sembrava di non esserlo più? Forse poteva trattarsi dell'infido e sconosciuto rancore che Miss Allis provava per lei, o forse... Perché era cascata nel tranello proprio come un topolino attirato verso una trappola da un pezzetto di formaggio. Di colpo, le sembrò che le cristalline mura erette attorno alle sue già deboli speranze stessero per andare in frantumi. Sarebbe bastata solo un'ultima, tremenda conferma...
Era forse quello che veramente l'attendeva nel luogo che aveva sempre desiderato per se stessa?

- Ma io... - cercò di replicare, fissando la sua salvatrice con occhi che non comunicarono nient'altro, se non l'incessante supplicare perché quello fosse solo uno scherzo di pessimo gusto, e non l'amara verità che avrebbe invece rigettato.

- 'Ma', 'ma', 'ma'... Non sai dire altro? Cos'è, tua madre non ti ha insegnato l'educazione? - si sentì ribattere con voce dura e gelida, di chi mai in vita sua era stato anche solo sfiorato dal più semplice dei sentimenti - Oh, che fai, piangi?

Infatti, Gwen aveva iniziato a singhiozzare. Le lacrime le annebbiarono presto la vista, cosicché fu impossibile per lei vedere chiaramente il viso di Miss Allis o di qualunque altra pentola sporca. Ma anche così, il dolore che le stava piegando a metà il cuoricino distrutto non se ne andò. Lo straccio le scivolò via dalle dita senza forze, che andarono ad asciugare le guance arrossate e fradicie.
Poi, si ritrovò scaraventata a terra, il lato sinistro del volto pulsante di dolore. Pianse ancora più forte massaggiandosi delicatamente la parte lesa.

- Se non la smetti riceverai di peggio! - la minacciò la proprietaria dell'istituto, con la mano destra sollevata e pronta ad infliggere un secondo schiaffo - Ora riprendi quello straccio e mettiti a pulire questo pavimento lurido! Sbrigati!

Gwen strisciò lentamente fino alla pezza cercando invano di trattenersi, la sollevò con ribrezzo e la strinse più forte che poté. Per il suo effetto spugnoso, altra acqua marcia fuoriuscì dal tessuto e le inzaccherò le dita e le unghie.

I tacchi svelti di Miss Allis le girarono attorno e raggiunsero nuovamente la porticina guasta, aprendola nello stesso modo che in precedenza.

- Non pensare di poter fare tanto la ribelle, carina. Tu ora sei una mia proprietà, ricordatelo! - e infine se ne andò, sbattendola furiosamente.

Quando fu calato finalmente il silenzio, Gwen prese il suo straccio e con forza lo scagliò contro alcuni ripiani in un angolo della cucina. Il rumore che ne conseguì le provocò brividi di disgusto lungo la schiena.
Come aveva potuto pensare di trovare un posto migliore in cui vivere seguendo quella stupida donna?!
Ora era una prigioniera. Una schiava della società. Sarebbe stata costretta ad andare a lavorare nelle fabbriche senza nemmeno vedere un penny, per morire di freddo o di troppa fatica come un insetto insulso!

Riprese a piangere, ma più sommessamente. Alcuni singhiozzi sfuggirono al suo controllo e risuonarono tra quelle quattro mura vecchie e puzzolenti. Fu allora che una vocina, mai udita prima di allora, si levò da dietro una credenza alle sue spalle.
La piccola si voltò, e con sua sorpresa vide che dal piccolo nascondiglio al suo interno era sbucata fuori una bambina: indossava un vestitino a quadri color pesca un po' malmesso e portava i capelli castani raccolti da un piccolo fiocchetto porpora sulla testa. I suoi occhi, grandi e vivaci, erano più azzurri del cielo in primavera.

- Per fortuna quella megera se n'è andata! - sbuffò uscendo a fatica dal suo rifugio segreto - Stavo per soffocare là dentro.

Poi si rivolse a Gwen, sfoggiando un sorriso che sembrò illuminare la stanza.

- Tutto bene? - le chiese, avvicinandosi - Sembri sconvolta.

- N... No, sto bene... - le rispose la bimba, abbassando lo sguardo. Non aveva voglia di parlare di quanto successo con qualcuno che nemmeno conosceva.

Stranamente, la nuova arrivata continuò a parlare, come se nulla fosse successo.

- Tranquilla, la vecchia Allis fa sempre così. Con lei solo ordine e obbedienza! - recitò, come se quelle non fossero parole sue ma un vero e proprio detto popolare - Ti fa male?

- Eh?

- La guancia. Ti fa male?

Gwen non capiva più niente.
Da quando quella ragazzina era entrata nella sua visuale, tutto si era fatto più confuso. A fatica riuscì a risponderle.

- Un po' - mugugnò, sfiorando appena la superficie arrossata e ancora dolorante del viso.

- Basta non pensarci, e il male se ne va subito via - suggerì la sua interlocutrice, con un piccolo sorriso gentile - Vuoi una mano?

E detto ciò, afferrò un panno come il suo e si chinò sul pavimento, spiaccicandolo a terra e iniziando a strofinarlo sulle mattonelle sporche. Gwen la fissò a lungo senza riuscire a comporre nemmeno un timido 'grazie'. Non capiva perché la stesse aiutando, né perché le si fosse rivolta in quel modo così amichevole nonostante fosse la prima volta che la vedeva. I suoi occhi ambrati presero a riempirsi ancora di lacrime, come portatori di quella gratituidine che non riusciva ad esternare di propria volontà.

- Io... Io... - balbettò, in preda ai singhiozzi, per poi abbandonarsi senza controllo e coprirsi il viso arrossato dalla vergogna e dalla disperazione con le mani - Io non volevo tutto questo! Non lo volevo! Non lo volevo!

E continuò a ripeterlo finché la sua voce non ebbe esaurito le energie. Avrebbe voluto scappare. Riaprire quel portone, tornare al suo quartiere, riavvolgere il tempo... Ma ormai il disastro si era compiuto. Gwen avrebbe vissuto lì, da quel momento in avanti. Come un animale da fattoria, da sfruttare il più possibile finché non crolla a terra esanime.

La bambina che era accanto a lei interruppe il proprio lavoro, fermandosi ad osservare con faccia impensierita la piccola. In quel momento le sue iridi parvero riempirsi d'un qualcosa, che solo chi avesse conosciuto i suoi trascorsi avrebbe saputo identificare. Forse era compassione, forse un dolore nascosto e famigliare, tornato a galla a causa del continuo affliggersi di Gwen, così simile al suo di un tempo.
Comunque, di qualunque cosa si trattasse, fu abbastanza forte ed intenso da cancellare il sorriso sul suo volto giovane e spensierato in meno di pochi secondi. La pezza fu raccolta e adagiata con cura in un angolo, in disparte.

- So cosa stai pensando - le disse, sussurrando lieve - Ma non è stata colpa tua.

Gwen alzò la testa, fino ad allora nascosta tra le ginocchia e i capelli sparpagliati su di esse.

- La fame... Il freddo... La solitudine.... - continuò la bambina col vistoso fiocco in testa, pronunciando ogni singola parola con un'enfasi sofferta - Possono essere... Crudeli. E difficili da sopportare. Non hai avuto altra scelta se non quella di accettare, non è così?

- Sapendolo, non lo avrei mai fatto - ribatté la più piccola, con strascichi di rabbia a inasprirle la voce.

- Sbagliato - la corresse l'altra - Lo rifaresti, se ne avessi l'opportunità. Pensaci un attimo: senti per caso freddo?

Gwen ci rifletté su qualche attimo per poi rispondere, con inaspettato stupore:

- No...

- Hai fame? - continuò la più grande, come compiaciuta da quella risposta che soddisfava le sue aspettative. E prima che la sua interlocutrice potesse risponderle, infilò le mani nella grande tasca centrale del proprio abitino e ne fece uscire due piccole pagnotte croccanti. Gliene porse una, mentre tenne per sé l'altra, accogliendo la sua più che eloquente risposta tramutata ora in sgranocchi e biaschii confusi; segno che confermava quanto il suo stomaco avesse disperatamente bisogno di riempirsi.
Quando entrambe ebbero finito di consumare con soddisfazione il proprio pasto, Gwen si rivolse alla bambina, quasi provando soddisfazione nel farle notare una mancanza in ciò che aveva detto.

- Ma rimango comunque sola - ammise con sconforto, scrollandosi di dosso le briciole dall'abitino malconcio che indossava.

- Che coincidenza - si sentì rispondere, con allegra energia - Anch'io! Hey, perché non diventiamo amiche?

- Amiche? Cosa vuol dire? - non era mai stata amica di nessuno, lei. A volte capitava che desse pezzetti di pane secco ai gatti randagi che le si avvicinavano, ma solo per paura che potessero avventarlesi addosso.

- Be', vuol dire aiutarsi a vicenda, dividersi da mangiare... Oh, e picchiare più forte i bulletti! - spiegò la sua aspirante amica, con un entusiasmo davvero coinvolgente.

- Non mi piace fare a botte - quell'ultima precisazione non fu ben accolta dalla piccola Gwen, tanté che scosse la testa eliminando definitivamente l'eventualità che qualcosa di simile potesse succedere - Sarebbe megl...

- E' vero! E anche non sentire più la solitudine! - concluse la più grande, senza nemmeno ascoltarla, troppo presa com'era dalla propria strabiliante idea - Allora, ci stai?

- Uhm, cosa?

- A diventare amiche, ovvio!

Ci fu qualche attimo di esitazione. Gwen guardò la bambina e vide che le stava tendendo una mano, con un sorriso radioso a scaldarle il viso sbarazzino. Cosa avrebbe dovuto fare?
Accettare?
E se poi si fosse rivelata un'altra fregatura?
Non avrebbe provato un simile tormento ancora; era sicura che se le fosse capitato ancora, poi non avrebbe avuto più nemmeno la forza per continuare ad esistere.
Però... Era come se dentro di lei ci fosse una vocina flebile flebile, quasi impercettibile, che le consigliava di afferrare quella mano. Il motivo non lo conosceva, così come l'entità di quel bisbiglio, che seppur sentisse così vicino, allo stesso tempo sembrava parlarle da un luogo irraggiungibile, forse inesistente. Probabilmente veniva dal suo cuore, dalla sua anima; o da entrambe.
Ma se anche quella fosse stata la verità, in ogni caso non si sarebbe trattato di un confidente esterno, bensì della sua coscienza, desiderosa di poter uscire finalmente alla luce del sole e gridare al mondo il proprio diritto ad avere una dignità da difendere, una vita da poter costruire, una libertà da rivendicare con pugno di ferro e risolutezza. Perché anche lei, nonostante tutto, era un 'essere umano'.
Chissà, magari assieme a quella bambina ce l'avrebbe potuta fare. Solo il tempo le avrebbe dato la prova di quanto quel legame appena creatosi, sarebbe resistito alle più devastanti tempeste dell'animo, vincendo giorno per giorno quella continua battaglia che per lei significava vivere.
La sua manina si sollevò tremolante, ed infine strinse quella della ragazzina, la quale aumentò esponenzialmente la presa sfoggiando un sorriso di cui Gwen notò tutti i dentini da latte mancanti: tre, a ben vedere. A quella vista così buffa, si lasciò scappare una piccola risata divertita.

- Ah, a proposito: io mi chiamo Caroline! Se vuoi, puoi chiamarmi Cari - si presentò infine la bambina col fiocco, afferrando nuovamente lo straccio sporco per riprendere il proprio lavoro di pulizia al fianco della sua nuova amica - E tu?

Gwen sorrise come non le era mai capitato in tutta la sua vita. Sul punto di piangere dall'emozione, pronunciò con maldestra solennità quel nome che, ne era certa, avrebbe trattato meglio da quel momento in poi.

-  Gwen - pronunciò, sussurrando dolce - Il mio nome è Gwen.




Angolo di Momoko

Salve a tutti, sono Momoko e so che quei pochi ancora rimasti a leggere le mie castronerie sicuramente vorranno vedermi morta, come minimo.
Voglio scusarmi tantissimo per queste lunghe assenze. Io prometto, prometto ma non mantengo niente. So che dico sempre che la prossima volta aggiornerò per tempo, ma la verità è che ultimamente ho grosse difficoltà a scrivere. Chiamatela crisi mistica, oppure blocco dello scrittore... Era un po' di tempo che non mettevo mano al mio editor causa scuola, ed il risultato è stato che tutto quello che tirassi fuori mi faceva semplicemente schifo. Ogni singola parola che mettessi sul foglio digitale la vedevo stonare assieme alle altre, costringendomi a cancellare tutto e a rifare da capo.
Giuro, ho avuto seriamente paura e non sto scherzando xD Di questo capitolo non vado molto orgogliosa... Ci ho messo tutta me stessa, anche se non riesco a vederlo all'altezza degli altri. Spero comuncque che vi piaccia, questa è una fase importante della storia e non voglio in alcun modo rovinarvela.
Ok, ora me ne vado. Vi ho annoiato con i miei problemi anche troppo xDD
Faccio i miei consueti ringraziamenti a tutti quelli che leggono e inseriscono la storia nelle loro liste. Inoltre, mando un abbraccio virtuale super mega gigante a tutte quelle anime impavide che hanno deciso di spendere il loro tempo recensendo! La Strega di Ilse, KH4, Lady Red Moon e AuraNera_!
Grazie, grazie davvero!
Come sempre, vi invito a lasciare i vostri pareri, di qualunque entità essi possano essere, senza timore!
Un bacione, a prestoooo,

Momoko <3
   
 
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