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Autore: mormic    05/01/2015    4 recensioni
Effie ha estratto decine di nomi da quella boccia di vetro, ma i suoi unici vincitori, nonostante stiano partecipando alla loro seconda arena, sono stati estratti solo una volta dalle sue dita affusolate. Sono volontari. E questo dovrà pur fare la differenza. Una differenza che Effie dovrà affrontare come non avrebbe mai nemmeno sospettato.
E dalla sera dell'intervista di lei non si sa più nulla, fino alla fine, quando riappare provata e fragile.
Questa è la sua storia, mentre in tutta Panem è il caos della rivoluzione.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, Effie Trinket, Haymitch Abernathy, Plutarch Heavensbee
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Grigio e Oro'
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Note iniziali: stavolta il mio commento è qui.
Spero riusciate a seguire questo flusso di pensieri e spero che possiate capire Hay, il suo modo frenetico di essere dentro, mentre fuori è tutto calmo, annoiato. Un flan di cioccolato, con il cuore fondente. Anche lui è così: il suo universo è tutto dentro, prigioniero. È le sue uniche due prese d'aria sono gli sventurati amanti.
Forse esiste anche un altro spiraglio, ma... Chissà...
Buona lettura e, se credete possa meritarla, lasciate una recensione, saranno raccolte con gioia.
Mor

CAPITOLO 16

Rompere il letto contro una porta indistruttibile non è servito a molto.
L’unico risultato ottenuto è stato quello di rimanere senza un posto comodo dove riposare.
Ho sistemato il materasso in un angolo e mi ci sono stravaccato sopra, ma devo ammettere che i quaranta di fanno sentire, quando cerchi di alzarti da un’altezza di una spanna da terra.
Ho camminato avanti ed indietro, saltato, battuto ritmicamente la testa contro il muro, cercato di incidere scritte oscene sui muri, cantato a squarcia gola, ripetuto una filastrocca per mille volte di seguito, dormito, mangiato, vomitato, sminuzzato i pezzi del letto in briciole, le ho ordinatamente ammucchiate in un altro angolo e poi scagliate ad una ad una contro il muro, sperando che rimbalzassero, ho avuto incubi, contato numeri che neanche credevo di conoscere e recitato a memoria tutti i nomi dei miei tributi persi nella speranza che l’oblio della colpa mi avvolgesse pur di far passare il tempo più velocemente.
Ma nessuno è venuto qui.
Non so da quanto sono chiuso qui dentro.
Mi passano da mangiare e se ne vanno.
Siamo io, un materasso, un cesso sporco, un lavandino e un asciugamano sudicio.
Ah, e la poltiglia dei resti del letto.
Mi costringo a non pensare a Peeta.
Spero che stia ancora facendo castelli di carte nel suo alloggio, ma so che non è così.
Credevo che prima o poi Katniss avrebbe combinato qualcosa per cui avrebbero avuto bisogno del mio aiuto, ma evidentemente la ragazza può cavarsela bene anche senza di me.
D’altronde sono stato utile solo a farla arrivare nel tredici sana e salva.
Sana.
Discutibilmente sana.
Salva.
Dipende da cosa.
Gli incubi non mi hanno dato tregua. Neanche da sveglio.
Ho un’unica certezza.
Sono sobrio da troppo tempo. A sufficienza per definirmi definitivamente disintossicato fino alla prossima volta in cui riuscirò a mettere mano su una bottiglia.
Eppure sono ancora qui.
Dai.
La tetta della Coin non era niente di così memorabile da dover scontare un ergastolo per averla guardata.
Evidentemente ci tiene particolarmente a decidere chi possa guardarla. Ed esclusivamente con il suo permesso.
In realtà dovrebbero vietarle di farle vedere a chicchessia.
Un crimine contro la decenza umana.
Insultarla non serve a niente, ma quanto meno aiuta il mio sarcasmo ad ottimizzare la noia.
Se posso prendermela con qualcuno è sempre meglio.
Di solito sono personalmente il mio obiettivo preferito, ma dopo un po’ sono noioso anche a me stesso.
Il pensiero va di nuovo agli incubi che ho.
Occhi azzurri ovunque.
Dovrebbero geneticamente proibire la nascita di persone con gli occhi azzurri.
Sono troppo penetranti.
Ti si piantano addosso e non ti mollano più.
Meglio grigi, no?
Sbiatidi e poco incisivi. Privi di profondità. Di sfumature. Piatti. Non c’è niente di cui possono accusarti due occhi grigi.
Sono così sciapi che non ti si fermano neanche nella memoria.
Come l’intero giacimento.
Non siamo mai stati nei pensieri di nessuno.
Il mondo neanche sa che il giacimento non esiste più, lo so.
A chi importerebbe della perdita di un posto tanto povero ed inutile?
Avrebbero potuto lasciarci morire di fame, invece che bombardarci. Avrebbero ottenuto lo stesso risultato senza neanche sprecare i soldi per le bombe.
Ecco, avrebbero tolto dal mondo tutto il grigiume che ne era rimasto, sfruttando la sofferenza di anime silenziose.
Snow si sarebbe tolto dai piedi me, di poco conto oramai, Katniss, Peeta di conseguenza e pure qualche giovincello troppo incline alla battaglia con una lontana potenzialità sovversiva. Sarebbe stato così facile.
Invece no.
A Snow non interessa il silenzio. Non gli interessano i morti. Quello che vuole sono casi esemplari, terrore, sottomissione, ordine inconsapevolmente accondiscendente.
A lui serviamo tutti. Vittime e carnefici. 
Io sono uno dei carnefici. Colui il quale ha dato in pasto i suoi ragazzi al nemico. Entrambi. 
Katniss avrà visto l’intervista, come me.
E come me avrà visto la confusione in Peeta, la sua rabbia nel difenderla, il suo smarrimento riguardo il piano, la sua richiesta incredibile di un cessate il fuoco. Cosa gli avranno promesso per farglielo dire? Katniss sana e salva?
E lei? Come sta lei?
Non riesco a rispondere a questa domanda che mi attanaglia ad un ritmo costante.
Non riesco ad immaginarla lontana da lui. Avrebbe dato la vita per salvarlo, con la stessa avventatezza del giorno della mietitura per salvare Prim. Non riesco a togliermi dalla testa la loro romantica scenetta sulla spiaggia nell’arena. Non c’era niente di costruito in quel momento.
Katniss era sincera.
Io so che ha bisogno davvero di lui.
Nascondo il viso tra le mani, nella speranza che strofinare gli occhi con forza possa scacciare quelle immagini dalla mia testa.
C’è qualcosa di peggio della morte. Lo so bene.
È il dolore.
Ed è quello che ho regalato a quei due ragazzi.
Perché non li ho lasciati a morire nell’arena?
Io e il mio stupido desiderio di non aggiungere altri nomi alla mia lista di caduti.
Era meglio.
Meglio la morte.
Meglio freddi, grigi e immobili, piuttosto che divisi, feriti e lontani.
Un ruggito mi sale alla gola, ma non esce dalla bocca.
Non merito neanche di sfogarmi.
Merito solo di affogarci anche io, nel dolore.

Ovviamente non sono affogato.
Ovviamente sono ancora lucido.
Ovviamente sono ancora qui.
Credo di aver visto, ad occhio nudo, i miei capelli allungarsi di qualche millesimo di millimetro sulle mie spalle, oggi. 
Giuro.
Ho fissato le punte tanto a lungo che davvero ho visto crescerli.
Perché non mi uccide neanche la noia?
Fossi immortale?
Voglio dire, non è assolutamente possibile che questo tedio non mi abbia già ammazzato.
Non c’è riuscita l’arena a quindici anni, Snow e le sue minacce, vent’anni di alcol assunto in quantità sproporzionate, il lutto, le perdite, le botte in testa, il fegato, il coltello sotto il cuscino, una fuga dal regime, lo squarcio lungo il braccio e la tetta di una presidentessa ribelle, possibile che non ci riesca neanche la noia? 
Ma che cazzo deve fare uno per morire?
Come dannazione si fa a sopravvivere a tutto questo ed avere ancora un cervello funzionante?
Per quale fottuto motivo non sono neanche impazzito?
Cazzo!
Meglio demente che così.
C’è una parte di me che non sa cedere. Che non si arrende.
E allora per quale maledetto motivo sto qui dentro e non fuori a darmi da fare? Se devo stare qui, in silenzio, rinchiuso in questo letamaio a perdere tempo, perché non mi fanno uscire e mi tengono occupato in qualche modo, risparmiandomi quantomeno l’agonia della noia?
Avanti dolcezza, combinane una delle tue.
Non sapranno chi chiamare.
Io sono l’unico.

Sono sempre stato un tipo solitario.
O almeno, lo sono da quando sono uscito vivo dall’arena.
Prima… prima ero un istrione. 
Un ragazzino dotato di una vivace intelligenza che mi permetteva di non sforzarmi troppo per ottenere dei buoni voti a scuola.
Avevo del sarcasmo.
Le mie imitazioni degli insegnanti erano famose tra i corridoi.
Tra i ragazzi del giacimento ero quasi famoso.
E tra le ragazzine anche. E questo mi è sempre piaciuto, anche se a me ne interessava una sola.
Avevo quindici anni ed ero impavido.
Strafottente.
Non avevo un padre da molto tempo e questo mi aveva reso indipendente e poco incline a manifestare le emozioni, perché avevo una madre che soffriva e un fratellino piccolo a cui non far vedere il peggio della vita.
Ma vivevamo nel distretto 12. Non potevo nascondergli quanto facesse veramente schifo la nostra esistenza.
Eppure ho sempre fatto scudo con il sarcasmo alla sofferenza.
Prima di incontrare il mio migliore amico.
L’alcol.
Ma questo è accaduto dopo. Solo dopo l’Edizione della Memoria. Solo dopo che ho distrutto il campo di forza.
Solo dopo.
Ho bevuto e bevuto e bevuto, fino quasi a dimenticarmi chi fossi, per poi riscoprirlo quando tornavo sobrio.
Vincere i giochi ha fatto di me una persona ricca.
Non ho finito gli studi e non ho mai avuto bisogno di lavorare.
Tutto ciò che speravo era di crepare, prima o poi, magari per colpa di un fegato ridotto in poltiglia.
L’ho sperato da subito.
Ma quando ho visto che né il dolore né l’alcol mi avrebbero mai ammazzato, ho iniziato ad aspettare, con pazienza.
Non avevo nulla.
Il mio compito era accompagnare alla morte due ragazzi l’anno.
Fino a loro.
Fino a Peeta.
Fino a Katniss. 
La prima volontaria del nostro distretto.
La prima cosa che ho pensato di lei non è stato che fosse stupida, come più volte qualcuno mi ha detto. Ho pensato che la invidiavo. E quando ho realizzato chi fosse e da dove venisse ho avuto paura.
Io e Katniss abbiamo avuto la stessa storia.
È stata una scoperta a dir poco scioccante.
Mi sono sentito di fronte ad uno specchio per la maggior parte del tempo trascorso con lei.
Non ho mai avuto bisogno che parlasse, per capire dove la portassero i pensieri.
E sì: questo mi ha spaventato parecchio.
Fino a quando mi sono accorto che per lei funzionavo allo stesso modo. Anche lei non aveva bisogno di molte informazioni per capire a cosa stessi pensando. Ed è stato molto utile nella sua prima arena.
Lo è stato anche nella seconda.
Ma l’essere così affini a volte è stato anche controproducente. Mi sono dovuto sforzare di fare il contrario di quello che avrei normalmente fatto, ho dovuto mettere da parte l’ostinazione, faticare per plasmarmi e non farle vedere quanto in realtà fossimo perfettamente uguali. 
Io la invidio.
La invidio tutt’ora, da una parte.
Lei si è potuta offrire volontaria per salvare sua sorella. Ha accettato di lavorare come noi le indicavamo per salvare la sua famiglia.
Io non ho potuto fare niente.
Se non incolpare me stesso per non essere morto.
Quando ho cominciato a pensare seriamente alle parole di Plutarch ed al pensiero di una ribellione, però, la nostra similitudine è stata scomoda.
Sapevo che avrei dovuto mentirle. Che avrei dovuto usarla.
E non reagisco mai bene a certe cose.
Ma sapevo che se avesse potuto dire la sua, sarebbe stata d’accordo con me.
Ed è stato peggio con Peeta.
Se con Katniss nascondere tutta la faccenda è stato difficile, ma non impossibile, tradire invece la fiducia, la bontà e la gentilezza di Peeta è stato un calvario.
Una tortura trasformata in agonia da quando ho visto la sua ultima intervista.
Penso costantemente a lui, al suo sapersi prendere cura delle persone, con dedizione, con altruismo, con vigore. È un osso duro, Peeta. Non molla mai. È ottimista. Non si da mai per vinto. È paziente. È calmo. Misurato.
Il mio esatto opposto.
Io suo esatto opposto.
Credevo che fossero talmente lontani l’uno dall’altra che non sarebbero riusciti nemmeno ad allearsi nell’arena dei settantaquattresimi hunger games. E invece…
Invece li ho visti incastrarsi perfettamente, li ho visti giocare insieme e vincere, li ho visti affrontare mano nella mano il tour della vittoria dopo essersi ignorati per mesi, li ho visti sparire nella stessa stanza su un treno sempre in movimento quasi ogni sera, li ho visti e ascoltati quando sono venuti da me, entrambi, a chiedere di salvare l’altro sacrificando loro stessi, li ho visti aver chiaro il perché delle loro scelte e li ho visti assolutamente inconsapevoli delle loro decisioni, li ho visti su quella maledetta spiaggia, prima che si dividessero e li ho visti dilaniati e delusi, rassegnati e inferociti.
Sono i miei due ragazzi.
Li guardo e vedo cosa sono e cosa sarei potuto diventare se la vita fosse andata diversamente.
E mi sento ogni volta come se la mia esistenza fosse tra le loro dita.
Non ho mai guardato i miei tributi come esseri umani. Erano carne da macello. Davo loro qualche sommaria informazione. Qualche nozione di base, un paio di dritte buttate lì a caso. Niente di più. Nessuno di loro avrebbe potuto farcela. Malnutriti, a volte scheletrici, privi di forze.
Loro invece.
Peeta era in forma, con muscoli visibili, un bel colorito sulle guance. 
E lei, seppur il corpo esile, aveva negli occhi il fuoco della vita.
Non volevo accettarlo, ma finalmente avevo degli esseri umani.
E sapevo che sarebbe stato ancora peggio perderli.
Avevo qualcosa da fare, finalmente.
Perché da quando ho loro ho smesso di aspettare.
Ho continuato a bere, sì, ma non aspetto più.
Adesso ho qualcosa da fare.
O almeno lo avrei, se potessi uscire di qui.

Chiudere gli occhi e lasciar volteggiare la realtà.
Il bruciore tra le labbra.
Il fuoco nello stomaco.
La vista annebbiata.
I sensi ovattati.
I pensieri alleggeriti.
Libero di proiettare l'immaginazione verso dimensioni inesistenti, costruendo vite, annullando la morte.
Ripercorrere all'indietro ogni momento e scegliere un dettaglio diverso, per modificare il passato.
Ritrovarsi in un futuro fittizio, ma meno doloroso.
Ricordare nitidamente attimi persi mille anni prima e riviverli come fossero nel presente.
Dire la cosa giusta al momento giusto.
Fare la cosa giusta al momento giusto.
Togliersi soddisfazioni mai avute.
Poter sputare in faccia a Snow.
Poter andare in giro per il distretto con le palle al vento.
E ridere senza motivo.
Passare per pazzo e poter dire ciò che voglio.
Affogare la colpa.
Fottermene del mondo.
Questo è quello che la sobrietà mi ha tolto.
Momenti di fuga irreale, in cui ero libero di fare ciò che volevo, immaginandolo o semplicemente facendolo, senza preoccuparmi troppo delle conseguenze.
Pensarci non serve a nulla.
Ma almeno passo il tempo.
Quella porta si aprirà tra poco. Ne sono ancora certo.

Ma la porta non si apre.
La fisso.
Insistentemente.
E rimano immobile, le braccia incrociate sul petto, la schiena poggiata al muro, una gamba piegata, il piede sulla parete.
Nulla di me si muove.
Anche se continuo a credere di vedere, con la coda dell’occhio, i capelli che crescono.
Sarà un effetto collaterale dell’astinenza.
Ho le allucinazioni.
Eppure la porta rimane chiusa.
I miei occhi non battono neanche le palpebre.
La vedo quasi deformarsi sotto il peso del mio sguardo rigido.
Avanti dolcezza, fa qualche cazzata.
I cardini non girano.
La serratura non scatta.
La porta bianca, lucida, riflette ancora la stessa porzione della mia cella. Non si è mossa di un millimetro.
Questo fottuto distretto le avrà fatto già il lavaggio del cervello?
Sarà già una diligentissima tuta grigia che cammina per i corridoi rispettando gli orari per andare a pisciare?
Non posso credere che Katniss si sia ammansita a tal punto da non doverle servire più.
O forse l’intervista di Peeta l’ha messa totalmente fuori uso?
Ora che sua madre, sua sorella e quello spilungone del finto cugino sono al sicuro e con la pancia piena, magari il suo sistema nervoso sarà stato libero di collassare sotto la mancanza del buon fornaio?
O s’è già fatta spedire a Capitol in una missione suicida per andarselo a riprendere?
No. Sono abbastanza sicuro che in quel caso mi avrebbero già tirato fuori di qui. Perché sarei l’unico abbastanza pazzo da aiutarla in una missione suicida.
E poi... No. Non possono perdere la loro inestimabile ghiandaia imitatrice. Figuriamoci.
Sarebbe più probabile vederla chiusa in una cella fatta di vetro infrangibile. Al sicuro da tutti e da tutto.
Forse ha fatto la mia stessa fine.
Forse come me sta aspettando che arrivi qualcosa di peggio.
Qualcosa che sia una buona scusa per essere liberata.
Avanti maledetta porta. Apriti.
Apriti. O il peggio arriverà qui dentro.

Ho di nuovo perso la cognizione del tempo.
L’unico termine di riferimento che posso usare è l’arrivo dei pasti, ma per quello che mi riguarda potrebbero anche avermi tolto il cibo.
Non ho davvero idea di quanto tempo sia passato.
Giorni? Ore? Minuti?
I pensieri sono oramai confusi.
É tutto mischiato.
Peeta, Katniss, Effie, tributo 1, tributo 2, tributo 3, mio fratello, tributo 15, tributo 21, mia madre, Effie di nuovo... 
É tutto confuso.
Noto solo una certa ritmicità nell’infilarsi nel mio elenco di vittime la faccia di Effie.
La faccia. Poi la voce.
Sento la sua voce chiamare tutti i nomi dei tributi degli ultimi dieci anni.
Mi perseguita.
Mi ha sempre perseguitato.
Sembrava si divertisse così tanto.
Una stupida oca a cui piaceva starnazzare i nomi dei prossimi morti.
La sua voce è sempre stata in ogni mio incubo, sostituendosi con prepotenza alla voce della vecchia incaricata, quella che ha estratto me.
E il suo culo invece si infilava in ogni mio sogno, facendomi svegliare perennemente con l’uccello dritto.
La mia testa grande la odiava. 
La testa piccola, invece, s’è persa per lei.
Chissà quale delle due ha avuto la brillante idea di farne una ribelle.
Chissà quale delle due ha scelto di lasciarla su quelle scale.
Così adesso, invece di avere negli incubi la sua voce e nelle fantasie erotiche il suo culo, mi ritrovo pure ad avere nelle allucinazioni da sveglio i suoi occhi.
Penso a Peeta e Kat e so cosa devo fare.
Poi penso a Effie e i pensieri tornano confusi e senza senso.
L’elenco dei tributi persi si ripete nella mia mente e di nuovo a cadenza ritmica il viso di Effie interrompe la sequenza.
Cazzo, è insopportabile anche quando non c’è.
Lasciami il mio elogio funebre e togliti dalle palle.
Ma non te ne vai, eh? Non lo molli l’osso.
Fanculo a quando mi è venuto in mente di tirarti dentro tutta questa storia.
Avrei dovuto lasciarti oca e scartare l’idea di poterti ammaestrare.
Le oche non si addestrano.
Le oche si ingozzano di mangime e poi si fanno al forno, ripiene, e le si spolpa fino all’osso.
Questo avrei dovuto fare con te.
Spolparti con i denti.
Invece ti ho ammaestrata.
Così bene che mi hai chiesto di lasciarti indietro per salvare i ragazzi.
Non ho fatto neanche questo Effie.
Ti ho lasciata lì, accasciata su una gamba rotta, e non ho neanche salvato i ragazzi.
E ora marcisco qui, mentre il tuo culo chissà dove l’hanno sbattuto.
Il tuo meraviglioso culo.
Perchè non ti ho lasciata oca?
Quanto sarebbe stato più facile tutto, se il tuo viso non fosse stato una presenza costante in ogni mio pensiero?
I ragazzi devono essere il mio pensiero.
Non tu.
Io non posso permettermi distrazioni.
Ma tu sei così invadente, anche quando non ci sei.
Prepotente, indiscreta, fastidiosa, giuliva, eccessiva, sciocca, incosciente, indifferente... E poi, di punto in bianco, diventi intelligente, preoccupata, indignata, attenta, affettuosa, premurosa, empatica, sexy... Incredibilmente sexy.
Ecco.
É la prima volta che il mio elogio funebre finisce con un alza bandiera.
Non è possibile.
Donna! Togliti di mezzo e lasciami con la mia rabbia! Rivoglio il mio dolore! Non posso chiudermi nella mia perversa sofferenza se il ricordo delle sue mani tra le mie me lo drizza in continuazione!
Anni di onorata carriera da alcolista per avere il mio peggior stato mentale da sobrio!
Questa si che è una vergogna!
Lasciatemi qui dentro.
Ci devo marcire.
Devo pensare ai ragazzi e invece mi diventa duro.
Me lo merito.
Lasciate che mi decomponga qui dentro.
Me lo merito.
Non esiste un solo altro mentore, ci scommetto, che vorrebbe farsi la propria annunciatrice.
No.
La realtà è che sono l’unico che non se l’è mai fatta.
Ok, ho capito.
Non è senso di colpa.
È solo una mancata scopata che mi perseguita.
Va bene. 
Troverò il modo di liberare anche lei e porrò fine a questa storia.

E finalmente la porta di apre.


 
   
 
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