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Autore: lulida    06/01/2015    5 recensioni
Coralline è cresciuta in una famiglia agiata, nella zona ricca di Manhattan, suo padre, uno degli avvocati più famosi di New York, discende dal conte di Essex, Thomas Cromwell.
La sua, una vita che poteva svolgersi solo in salita, eppure contrariamente a tutto ciò che era predestinato per lei, sceglie di abbandonare la casa paterna ed inseguire il sogno di divenire artista.
Dietro questa scelta, c'è un dolore che rifiuta d'accettare.
L'uomo che amava, l'ha ferita nel peggiore dei modi, tradendola con sua sorella.
Questo ha creato in Cora una sorta di rigetto verso gli affetti troppo profondi e un bisogno di tenere a debita distanza chiunque abbia il potere di farle battere il cuore.
Non le risulta un problema, fin quando non rientra nella sua vita, proprio l'uomo che l'ha distrutta.
Adesso Jared è un attore di successo e una rock star, è ricco, sempre bellissimo, forse più di allora e si diverte a provocarla, ma lei non è disposta a cadere nuovamente nella sua rete per niente al mondo e combatte strenuamente per non cedere, dando avvio a una serie di fraintendimenti, rivelazioni e bizzarre situazioni, che la costringeranno a prendere una decisone una volta per tutte.
Genere: Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Shannon Leto, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dopo la pausa delle vacanze torno con un nuovo aggiornamento. 
Spero vi piaccia e che abbiate voglia di farmi sapere cosa ne pensate.
Ringrazio tutti quelli che mi seguono, che sono tantissimi anche se silenti... fatevi vivi XD
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                                                                          L'equilibrio del cuore 



Cielo grigio ingombro di nuvole, vento freddo e raffiche che si insinuavano anche sotto gli abiti più pesanti, gelando il corpo fino all'osso.
Il giorno prima era piovuto, l'ultimo di una lunga serie di temporali che nel mese di novembre imperversavano su New York, e precedevano di poco le nevicate.
Cora intirizzita, stringendosi il cappotto intorno alla vita cercò di farsi largo tra la folla, riuscendo finalmente a imboccare 9th Avenue.
La zona dell'Upper Side era centro pulsante di Manhattan, scontato fosse colmo di gente che andava e veniva di qualsiasi etnia o estrazione sociale.
Un crogiolo di corpi riversi in strada, presi da una vera e propria frenesia delle feste che era destinata a peggiorare fino a raggiungere uno smisurato apice durante la notte del trentuno dicembre.
L'inconfondibile brusio della città e il traffico, anche se sperimentato da anni, al momento, consapevole dei minuti che passavano, della calca invalicabile che metteva a rischio il suo appuntamento con Shannon, la stavano rendendo particolarmente nervosa.
Infastidita, le sarebbe piaciuto dare calci a caso e farli affrettare.
Era il colmo: a pochi passi dal luogo prestabilito, e lei bloccata contro un muro di turisti e newyorchesi oziosi.
Avesse perso la possibilità d'incontrarlo, non se lo sarebbe mai perdonato.
Come sempre aveva fatto tardi, e anche se era vero che riuscire a essere puntuale a New York equivaleva a una specie di miracolo, c'era pur da dire che lei, il destino, l'universo intero, mettevano tanto del suo.
Prese un respiro profondo per sciogliere la tensione, sforzandosi di restare calma nonostante il senso d’inutilità che l'avvolgeva, e con il massimo impegno raggiunse una sorta di stato di rassegnazione.
Lasciò che le spire del serpente umano si muovessero nella loro lentezza e la trascinassero mentre pensieri, attimi sospesi e perduti, si accavallavano all'immagine dello Shan che ultimamente vedeva soltanto in interviste.
Sembrava un sogno fatto d'inchiostro e carta stampata: un volto dentro uno schermo con nulla in comune con il suo migliore amico.
Sentire al telefono la sua voce in un certo senso aveva allentato tanti dei suoi dubbi: il tono affettuoso, le schermaglie, le davano la speranza che il loro fosse un legame ancora solido nonostante il destino li avesse allontanati, e da molto tempo non si frequentassero più.
L'ultima volta che si erano incontrati, era stato alla morte della dolcissima nonna Ruby.
Stretti l'uno all'altra nella condivisione di un dolore struggente, si erano trasformati in due atomi uniti dal medesimo sentimento, seguendo semplicemente la forza chimica dell'amicizia.
Vederlo sofferente l'aveva contagiata, e piangere insieme a lui in un momento d’intesa e calore, di emozione vera e profonda, era stato uno sviluppo conseguente.
Era sempre più convinta che la loro amicizia potesse superare qualunque cosa, anche la distanza e il tempo.
C'era e basta, come l'aria nei polmoni.
Neppure ciò che era accaduto tra lei e Jared era riuscita a scalfire la loro unione. Loro due, esistevano prima di tutto.
Il piccolo ricordo bastò a trafiggerla e ad alimentare ancora di più l’ansia, ma poi fortunatamente lo vide, e la tensione si sciolse come una treccia di capelli, tutto il nervosismo sparì con un semplice, unico respiro che si allargava sulle spalle.
Eccolo. Riconoscibile tra la folla come un faro nella notte: cappello calcato in testa, piede appoggiato al muro, mani sprofondate nelle tasche.
Con calma si avvicinò, e lui sorrise con occhi bassi, senza guardarla.
«Sei in ritardo», disse quasi divertito non si fosse smentita neppure quella volta.
Cora arricciò il labbro con smorfia colpevole: «Di poco».
Shannon si allontanò dalla parete, ed eliminò la distanza che li separava lasciando vagare lo sguardo su di lei, come se ci stesse riflettendo.
«Ti perdono soltanto perché è tanto tempo che non ci vediamo», disse guardandola con serietà e sforzandosi di non sorridere, poi l'afferrò per un polso. «Vieni qui», la portò a sé abbracciandola con forza.
Lei che non si sarebbe mai abituata all'intensità della sua stretta, rimase immobile, ben serrata all'interno di quella impetuosità travolgente. Qualche secondo dopo gli diede una pacca affettuosa sulla spalla e riuscì ad allentare la presa che le stava togliendo il respiro.
«Fatti guardare», gli disse.
Si allontanò leggermente, e per un lungo istante rimasero a fissarsi in quella goffa posizione: corpi a stretto contatto, le braccia di lui intorno alla vita di Cora, la schiena di lei inarcata all'indietro.
Con ammirazione esclamò: «Sei in gran forma».
Lo era davvero. Dimagrito e ringiovanito di almeno dieci anni.
Shannon pienamente consapevole, perchè di sicuro se l'era sentito dire almeno un migliaio di volte prima di allora, abbozzò un sorrisetto e punzecchiandola come d'abitudine, le prese una ciocca di capelli tirandola leggermente da un lato.
«Tu invece no».
Particolarmente sensibile quando lui si prendeva gioco della sua chioma, gli lanciò un'occhiataccia e lo colpì in testa con la borsetta.
S'era impegnata in ogni modo possibile quella mattina per renderli docili, ma l'umidità aveva cancellato in un attimo i sui tentativi, ed erano tornati immediatamente gonfi e ricci.
«Se hai intenzione di sfottermi ti avverto che me ne vado. Giuramento!», si voltò, ma lui l'afferrò per la vita, trattenendola e sogghignando.
«Sei diventata permalosa durante la mia assenza?».
La tenne ferma sollevandola da terra.
«Lasciami andare, rompiscatole», brontolò fissandogli le braccia.
La mise giù e le strizzò l'occhio, per poi rivolgerle uno dei suoi sorrisi migliori.
«Ma dai che scherzavo! Sei bellissima.- aggiunse ridacchiando - ... E i tuoi capelli sono perfettamente in ordine».
Altro colpo con la borsetta, questa volta sulla spalla.
«Dopo quest'ultima risposta spiritosa offri tu, e ti avverto: ho intenzione di mangiare un'enorme fetta di torta alle fragole», rispose tentando di pettinarsi i ricci con le dita, ma questi continuavano a scattare come molle in ogni direzione.
Shannon incredulo alzò il sopracciglio: «Ancora fissata con quella torta?».
Cora si strinse nelle spalle e arricciò il naso: «La torta alle fragole del Sarabeth è un classico! Ci sono cose, che continuo ad amare al di là del tempo».
Lui indefinibile, si nascose dietro un sorriso lieve: «È quello che mi auguro», le rispose pensieroso.
Cora infagottata su se stessa a causa del freddo, con braccia conserte, inclinò la testa da un lato e mormorò: «Se ti riferisci alla nostra amicizia, sappi che se anche è passato tanto tempo, e le cose sono molto cambiate sopratutto per te, il bene che provo nei tuoi confronti non avrà mai cedimenti».
Calò una piccola pausa tra loro nella quale Shan vagò in basso con lo sguardo, come a cercare cosa risponderle, anche se stretta tra le labbra, sembrava volesse trattenerne una già pronta.
Sorrise un po’ sghembo, e quando gli occhi tornarono sul viso di lei, incorniciato dai capelli castani e arruffati, assunsero un’espressione seria, pensierosa: «Anch'io ti porto sempre nel cuore, lo sai. Mi sei stata vicina quando nessun altro l'ha fatto, e non ti ringrazierò mai abbastanza per questo, ma... - scosse leggermente la testa con le labbra chiuse a linea retta - non era a questo che mi riferivo».
Lo osservò cercando di decifrarlo, ma prima che riuscisse a mettere a fuoco la situazione, la prese sotto braccio e la condusse in direzione del Sarabeth.
Il locale era di quelli antichi e che dell'immutabilità faceva il suo punto di forza: bancone in marmo e legno, camerieri in camicia bianca, nessuna musica ma il chiacchiericcio della clientela a fare da sottofondo, il tendone esterno dello stesso verde irlandese probabilmente dal giorno della sua apertura, le porte di legno ancora tinte con smalto bianco, i bovindo e le finestre che davano una visuale completa sulla strada, da tempo immemorabile, le stesse.
Lo avevano eletto loro rifugio da sempre, da quando cioè la vita di Shannon, troppo difficile e complicata, li aveva spinti molti anni prima a mettersi seduti e a raccoglierne i pezzi che cadevano in frantumi.
Spesso davanti a una buona torta, sognando il loro futuro avevano costruito castelli con la fantasia, e se anche i casini che lui combinava come fossero state onde, di volta in volta li spazzavano via, ne costruivano di nuovi, fin quando ne realizzarono uno così bello che lui non aveva voluto che si disgregasse più, e finalmente aveva cominciato a guarire da se stesso.
Un condensato di profumi, crema, cioccolato e confetture, che impregnavano l'aria, e il tintinnio di porcellane, insieme a voci sommesse, li accolsero appena entrarono.
Salutarono la proprietaria che da dietro il bancone ricambiò con un largo sorriso amichevole, dopo di che Shan la guidò a prendere posto in una panca ad angolo, a pochi metri dall'ingresso.
«Vuoi l'uscita vicina nel caso tu debba fuggire in fretta?», se ne prese gioco lei, intanto che si toglieva il cappotto e lo metteva a lato della seduta.
Lui che prestava crescente attenzione all’accesso della sala come se aspettasse qualcuno, distratto e titubante intanto che seguiva con gli occhi il flusso in entrata, per un attimo rimase interdetto a quella domanda.
«Perché?», e fu tutto quello che riuscì a risponderle mentre metteva la giacca accanto a quella di Coralline.
«Chi deve arrivare?», insistette lei.
Tolse il cappello e lo poggiò sopra il cappotto, poi passò la mano tra i capelli per ravvivarli: «È da molto tempo che non vengo in questo posto. Hanno cambiato un po' di cose vedo», disse non rispondendo alla sua domanda diretta.
Non avevano cambiato un bel niente nel locale. Era evidente fosse solo un modo per evitare l'argomento e neppure troppo ben riuscito.
Le capacità deduttive di Cora erano il risultato di una lunga esperienza, una sorta di guida automatica che entrava immediatamente in funzione quando si trattava di lui.
«Cosa mi stai nascondendo?».
Shan le indirizzò un'espressione innocente.
«Che vuoi che nasconda?», rispose limitandosi a spiegazzare il labbro superiore verso destra.
Assomigliava di più a una smorfia che a un sorriso, ma una smorfia attraente, che diceva e non diceva niente.
Cora prese il menù per pura formalità e per un momento fu tentata di lanciarglielo contro come fosse stato una stella da ninja.
Lui senza affrontare il suo sguardo le tolse il menù dalle mani posandolo sul tavolo, quasi avesse intuito la sua fantasia pericolosa.
«Ordiniamo?», domandò senza scomporsi.
Poco dopo un cameriere stava ripetendo le loro richieste, più per prudenza professionale che altro.
Shan e Cora confermarono e dopo poco si trovarono a parlare davanti a due abbondanti fette di torta e una cioccolata calda e fumante.
Lei usò il calore della tazza per scaldarsi le mani ancora gelate, mentre Shannon si informava casualmente se aveva ascoltato qualche canzone del gruppo.
Replicò vaga che non amava molto la musica, preferiva la pittura.
Evitò di dirgli che non ce la faceva ad ascoltare la voce di Jared, che in quegli anni, aveva accuratamente fatto a meno d'incappare in qualunque cosa avesse a che fare con lui.
Abbassò il capo, lacerata.
Per nulla risentito dalla risposta, Shannon scherzò e fece una battuta che la rimise immediatamente a suo agio, poi le domandò dei suoi quadri, del suo rapporto con la pittura e con un sorriso disarmante, commentò: «Così hai fatto una mostra al Gladstone. Forte!”
Lei reagì arrossendo in uno strano e limitante senso di pudore.
Non sapeva rispondere, se non con espressione ambigua e sorpresa, in bilico tra snobismo e vulnerabilità: «Non ci sono solo io. È l'esposizione sugli esponenti di un genere».
«È comunque un bel traguardo», disse trangugiando la sua torta e sporcandosi la bocca di cioccolata.
Per un attimo lei non disse nulla, ma lo guardò con la tenerezza che avrebbe riservato a un fratello maggiore ritrovato, sorrise affettuosa, mentre il desiderio di pulirlo con il tovagliolo diventava quasi irresistibile.
Si trattenne a fatica e distolse lo sguardo per non cedere alla tentazione.
«Che ci facevi in una galleria?», domandò lei mentre i loro occhi divergevano.
Shannon alzò il viso dal piatto lasciando il boccone a metà, mentre lei in attesa della risposta beveva con calma.
Shan sorrise serafico, lasciando le labbra leggermente socchiuse in modo fanciullesco.
«Ero a vedere le opere di Hirst, te l'ho detto al telefono. Barbara ha insistito perché partecipassimo».
Barbara. La proprietaria della galleria.
Cora sospirò rimanendo a lungo a contemplare la palpabile lontananza che li separava: lui ormai era una celebrità, la sua presenza veniva richiesta agli eventi mondani.
Ignorò lo sguardo di Shannon che continuava a fissarla attentamente, e sorseggiò ancora la cioccolata.
Come l'avesse letto i pensieri rispose con un sorriso quasi beffardo: «Rimango un emarginato, tranquilla. Emarginato di lusso, ma sempre emarginato».
Lo guardò attenta: «Com'è essere famosi?».
Lui appoggiò un gomito sul tavolo e mescolò la cioccolata. Il cucchiaino tintinnava contro la tazza.
Si fermò e alzò gli occhi su di lei facendo un sospiro.
«All’inizio è stato divertente perché era come una conferma che esistevo, che non ero invisibile, e i primi successi mi hanno dato davvero l’illusione d'aver risolto tutti i problemi, poi però sono arrivati anche i prezzi da pagare, e che non sono stati in denaro ma in serenità, tempo, salute, rapporti umani. Ho perso molte cose che prima davo per scontato, ma sarei un pazzo se me ne lamentassi. La popolarità in definitiva è la conferma che le cose che faccio hanno un valore, che faccio bene il mio lavoro. Tutti mi conoscono, mi abbracciano, mi baciano, ma io non conosco nessuno. È una sensazione bizzarra quanto sbilanciata. Ogni rapporto è falsato capisci?».
«Credo di sì», confermò con un cenno della testa.
«Dopo un po' hai voglia di cose vere - sorrise facendole l'occhiolino e una pausa a effetto - e cerchi di nuovo le vecchie amiche, quelle per cui sai d'essere sempre il solito buono a nulla».
«Non sei mai stato un buono a nulla. Stupido!», protestò seria.
Sorrise malinconico: «Intorno abbiamo soldi, l'abuso di chi fa le regole, lo scontro continuo tra la creatività e mercato. La musica è solo la minima parte, ma finché quello che facciamo piace alla gente, ci sopportano - il sorriso si allargò mischiato a un sospiro - pronti però a darci un calcio nel sedere appena non siamo più la gallina dalle uova d'oro. La conquista di una meta non dà la pace, semplicemente prepara a una nuova lotta, non fosse altro che per il mantenimento della posizione raggiunta».
Lei gli diede un buffetto affettuoso sulla guancia.
«Suoni perché sei schiavo della tua batteria. Fino a vent’anni non sognavi i lussi, non sapevi nemmeno che esistessero e il bello è che tutto quello che hai, l’hai ottenuto facendo ciò che ti piace. Al resto non ci pensare».
Shan rise silenziosamente: «Ogni giorno ringrazio il cielo e la batteria per questo».
«Piuttosto, come te la cavi?».
«Tante brutte abitudini l'ho eliminate, ma qualcuna bisogna pur mantenerla. Giusto per non dimenticare da dove sono venuto».
Cora sospirò e non si fermò ad affrontare l'argomento.
Si fece seria e gli occhi le si inumidirono, rapiti da un ricordo improvviso.
«Perché non me lo chiedi?», optò improvvisamente lui per una domanda, solo apparentemente generica.
Lei rimase per un istante a osservarlo, senza saper che rispondere, vaga e inerme.
«Domandarti cosa, scusa?».
Distolse immediatamente lo sguardo. 
Insicura e presa alla sprovvista, concentrò l'attenzione sul logo del locale impresso in oro sulla porcellana della tazza.
«Lo sai», allungò il viso in sua direzione.
Ripresa sicurezza lo squadrò con sfida.
«Va bene...come sta?», mormorò alla fine, un po' sarcastica.
Shannon tirò indietro il viso soddisfatto.
«Non riesci neppure a pronunciare il suo nome? Perché non glielo chiedi tu stessa come sta?», rispose guardando in direzione della porta e salutando con un cenno della mano.
Cora non aveva bisogno di voltarsi per sapere chi stesse per raggiungerli ma lo fece comunque.
Nel giro di un secondo si ritrovò due occhi blu enormi puntati addosso, aghi di ghiaccio che non si diluivano davanti a niente, capaci di sbranare, racchiusi in un corpo freddo e perennemente controllato.
C'erano persone che con lo sguardo conquistavano, mentre altre smontavano senza dare il tempo di proferir parola, poi c'era lui, che con una sola occhiata faceva entrambe le cose.
Camminava lento nel più assoluto silenzio che era piombato nel locale.
Come fosse stato sulla passerella di un’invisibile sfilata, sapendo che tutti lo stavano guardando perché era quello il compito che gli spettava, il suo destino; altero, vagamente scocciato, incedeva di fronte a donne frementi della sua apparente vicinanza.
Cora si ripromise di uccidere Shannon e immaginò di usare il menù ninja per farlo, e tra sé maledisse il cameriere che dopo l'ordine lo aveva sottratto.
Jared arrivò al loro tavolo con l'aria sicura di chi è abituato a essere sempre ben accolto, piegò le ginocchia e puntellò i gomiti sul piano in legno. Si sporse in avanti, tanto che lei lo ritrovò a pochi centimetri di distanza.
«Che bello vederti», le disse con un sorriso.
Era vestito con dei semplici jeans scoloriti, una giacca che dava l'impressione d'avere almeno dieci anni, una maglia bianca e delle scarpe da ginnastica assurde, i capelli molto più lunghi dell'ultima volta che lo aveva visto, l'aria un po' stanca, ma nonostante questo, da quando era entrato nel locale tutte le donne e probabilmente anche qualche uomo, non gli avevano staccato gli occhi di dosso, e delle ragazze, entusiaste, iniziarono a ridacchiare indicandolo.
Era una delle tante cose che Cora odiava di lui, ovunque andasse catalizzava l'attenzione. Era magnetico, e su di lei questa caratteristica aveva la capacità opposta: lo respingeva con tutta l'energia possibile.
Jared era come una cometa fiammeggiante che gli altri si fermavano a guardare, a indicare col dito trattenendo il respiro.
Una cometa che sorprendeva, apparendo all'improvviso, passando davanti agli occhi.
A suo tempo si era illusa che quella cometa fosse sua, per un istante lo aveva sperato, ma poi lo aveva visto allontanarsi verso nuovi orizzonti, nuovi cieli, nuovi occhi, e dopo di allora ogni volta che appariva riusciva a pensare soltanto al buio che rimaneva quando spariva nuovamente.
Mugugnò un saluto in risposta con ancora il pezzo di torta in bocca che non voleva andare né su, né giù.
L'aria le sembrò immobile e pesante quanto un gas velenoso, era come un silenzio in attesa che qualcosa esplodesse, e le svelò un aspetto della realtà che credeva d'aver ormai sepolto e dimenticato.
Nonostante tutto, erano ancora due micce.
«Vai da Damien?», domandò Shannon al fratello.
Jared staccò gli occhi da lei, e lo guardò forse per la prima volta da quando era entrato nel locale.
Aggrottò le sopracciglia e con la mano fece segno di pulirsi la bocca.
«Se ne avete voglia, perché non fate un salto anche voi dopo?».
Si rivolse di nuovo a Cora mentre Shannon si affrettava a passarsi il tovagliolo intorno alle labbra.
«Ho visto i tuoi quadri alla galleria. Bei pezzi».
Lei non riuscì a leggervi franchezza in quel complimento, non si fidava di Jared, e le fu impossibile interpretarlo diversamente da una sottile e diplomatica ipocrisia, per non dispiacerla.
Ma di piacere a Jay in fin dei conti a lei non importava niente, poteva anche evitare lo sforzo di fare il gentile visto che non era richiesto.
Il “grazie„ che rispose fra i denti stava a indicare: “risparmiati la fatica„.
Ogni secondo che passava, lui compieva piccoli movimenti in avanti per avvicinarsi di più, ormai la gamba sfiorava quella di lei in una provocazione costante.
Il contatto fisico era la cosa più difficile da dimenticare per Cora, non era qualcosa di reversibile, non era possibile liquidare dalla mente le sue carezze e il piacere che le davano.
Aveva potuto dimenticare le parole, i gesti, i sorrisi, ma non il calore del suo corpo che a suo tempo le aveva fatto socchiudere gli occhi nel naufragio di ogni resistenza.
Odiava il modo in cui lui le ricordava costantemente che prima di qualunque cosa, lei era carne, e che su quella non aveva controllo.
Imbarazzata e non avendo idea di come fare a fermarlo senza destare la curiosità di Shan, optò per spostarsi e rintanarsi in un angusto angolo della panca.
Chiusa nei suoi torbidi pensieri non alzò lo sguardo dal piatto che aveva di fronte. Come per scacciarlo.
Come per mettere subito in chiaro che non le interessava averlo vicino, che lei e lui non sarebbero stati vicini in quel momento, né in nessun altro.
Come per sfuggire da lui.
Dopo averle rivolto ancora qualche domanda senza ottenere risposta, Jared con un sospiro tolse i gomiti dal tavolo e tornò in posizione eretta.
Sapeva che cavarle una parola di bocca era impresa impossibile.
«Va bene, vi lascio al vostro brunch. - sorrise rivolgendosi al fratello, poi dandole un'ultima occhiata le disse con voce cupa - Non ti disturbo oltre. È stato un piacere come sempre non parlare con te».
Era consapevole d'aver fatto la figura dell'idiota incapace d'aprir bocca, ma non le importava.
Dirgli anche una sola frase poteva diventare un boomerang.
Si doveva stare attenti alla parola che si sceglieva di usare con Jared, c'era il rischio di perderne il controllo, perché lui se ne appropriava e la faceva tornare indietro per colpirla alla testa. Scelta sbagliata, e l'avrebbe immediatamente trasformata in arma alzata contro di lei.
Salutò con la mano, sempre senza sollevare gli occhi dal piatto.
«Ci vediamo», disse intenta a raccogliere con la forchetta la confettura e lo zucchero a velo usciti ai lati del dolce.
Lo sentì sospirare pesantemente, come se sul punto di andarsene, avesse comunque trovato qualcosa che gli rendeva difficile il congedo.
Appena fu sicura non la potesse più vedere, scivolò mollemente contro la seta che rivestiva la panca.
La mente era vuota, c'era solo confusione, ma di quella in compenso, ne aveva tanta da poterne distribuire a tutte le persone all'interno del locale.
Shannon rise sporgendosi in avanti.
«Indubbiamente ami sempre le stesse cose», pronunciò divertito.
La guardò con espressione misteriosa che Cora non seppe come interpretare, ma che di sicuro però l'aiutò a ritrovare improvvisamente energia, e sopratutto la rabbia.
Si risollevò come un cobra, e nemmeno un'istante gli tolse dal volto i suoi occhi accusatori.
«Shan giuro che sarei tentata di strozzarti. Avresti potuto quantomeno avvertirmi», sibilò.
Lui scosse la testa.
«Prima o poi dovrete risolverla questa cosa».
«Quale cosa? Non c'è niente da risolvere. Non lo sopporto e basta, non è difficile da capire, credo. Solo a te non vuole entrare in quella testaccia dura».
Shannon ridacchiò e poggiò le braccia sullo schienale della panca con atteggiamento insolente.
«Anche lui in gran forma, non trovi?».
Cora abbassò lo sguardo infastidita: «Non saprei, non l'ho guardato. Non mi interessa granché».
Clienti del Sarabeth, approssimandosi all'uscita del locale, osservarono Shannon con interesse, che consapevole d'essere stato riconosciuto sorrise amabilmente, e mentre si alzava per concedere un paio di foto, per un attimo la fissò. Anche se dagli occhi di lui non filtrava nulla, Cora arrossì, trasparente.
Sapeva che l'amico si preparava a farle una predica, gli si leggeva in viso.
Non si faceva illusioni, sapeva che appena i fans se ne fossero andati le sarebbe toccato un discorsetto.
Si preparò all'impatto senza scomporsi, cercando di rimanere impassibile.
«Certo che siete assurdi voi due. - sbottò infatti, appena il gruppetto di persone si fu allontanato - Non vi vedete da una vita e quando accade, sembrate bambini di due anni».
Cora con labbra chiuse e arricciate rimase a meditare silenziosamente per qualche istante.
Shan aveva ragione, ma nonostante questo costava fatica ammetterlo, anche perché una parte di lei, lo incolpava per averla costretta a rivederlo quando non ne aveva alcuna voglia.
Vista dalla prospettiva di Shan; Jared e lei, erano due persone alle quali voleva bene che proprio non riuscivano a capirsi. Più da vicino, per come Cora la viveva, erano un banale errore distribuito su due cuori, che non le andava di ricordare, e che ogni volta lo vedeva invece le tornava alla mente.
Riconobbe con obiettività che era davvero soltanto a causa sua se lei e Jared non riuscivano ad avere neppure l'apparenza esteriore di un rapporto civile.
«L'ultima volta che abbiamo parlato siamo quasi arrivati alle mani», disse seccata, confermando di fatto l'esattezza del rimprovero di Shan.
L'amico alzò gli occhi al cielo prima di risponderle: «Lui non lo avrebbe mai fatto. Piuttosto era di te che dubitavo».
Sorrise e si morse il labbro perché le sembrava di essere ancora più bambina, in un momento in cui si sarebbe dovuta prendere sul serio, ma il pensiero di quel giorno, in cui avrebbe potuto darne di santa ragione a Jared senza subirne conseguenze, le regalò un breve ma intenso attimo di soddisfazione.
«Mi chiedo soltanto se è pretendere troppo per una volta, poterti incontrare senza che tuo fratello si faccia vivo».
Shannon fece schioccare le labbra spazientito.
«Che ti piaccia o no è mio fratello, non posso certo dirgli di sparire solo perché vederlo ti fa andare in fibrillazione».
«Non mi fa andare in fibrillazione. - replicò piccata - Per me, Jared non esiste».
«Dimostramelo allora».
Lei lo guardò senza capire.
«Vieni all'art-studio da Damien», proseguì lui in tono di sfida.
Cora non seppe cosa dire.
Sentì che l'aveva tradita.
Che non l'aveva ascoltata quando aveva espresso il desiderio di trascorrere del tempo soltanto con lui.
Gli stava davanti e si limitava a guardarlo non trovando niente da rispondere.
«Spero tu stia scherzando», riuscì a pronunciare alla fine, troppo confusa per intraprendere una qualsiasi discussione sensata.
Lui scosse la testa: «Sono serissimo».
«Non capisco cosa dovrei dimostrare venendo con te da Hirst», rispose, più sulla difensiva di quanto intendesse fare.
«Che riesci a stare nella stessa stanza con Jared senza avere un attacco di claustrofobia», sorrise soddisfatto d'essere riuscito a metterla alle strette.
Non c'era niente di peggio per Cora che perdere la faccia rispetto alla propria coerenza: diceva una cosa e dopo si doveva comportare di conseguenza, costava quel che costava.
Quindi non poteva giustificare a se stessa una qualche eventuale incoerenza, neppure se la sottoponeva a prove che non le andava di superare, e questo spiegava perché in quel frangente, si sentisse messa in trappola dalle sue stesse parole.
«Tutto ciò è molto stupido. Te ne rendi conto, vero?».
«Intendi dire stupido quanto il tuo atteggiamento?».
Incrociò gli occhi dorati di Shan, chiari e limpidi, che risvegliarono in lei il desiderio di riuscire a superare quel suo limite, di andare oltre, per non lasciarsi condizionare dalla presenza di una persona che invece purtroppo la condizionava eccome.
«Non che io tolleri Hirst più di quanto riesca a fare con Jared, sono squilibrati e insopportabili entrambi», provò un'ultima difesa.
Cora vide sulla faccia di Shannon un certo divertimento, come si fosse aspettato che avrebbe tirato fuori un motivo qualsiasi per aggirare l'ostacolo: chiaramente si stava congratulando con se stesso per averla interpretata così bene.
La stava palesemente deridendo, e la guardò per un bel po’ con scetticismo, ma poi disse solo: «Dovresti dargli un'opportunità. Ti accorgeresti che non è male - e aggiunse a voce più bassa - Le persone cambiano. Crescono».
Cora inclinò leggermente la testa.
«Stiamo ancora parlando di Hirst, vero?».
Shan sollevò debolmente gli occhi mentre passava la mano tra i capelli, lasciò le dita sospese tra la chioma e con un profondo respiro rispose: «Certo, parliamo di Hirst».
Cora alzò le spalle, mentre lui meditava sul fatto che non esisteva persona più ottusa della sua amica quando si trattava di Jay, eppure trovava in un certo senso, qualcosa di rassicurante nella sua cecità.
Dopo anni che la guardava, vedeva ancora la stessa infantile testardaggine, la medesima capacità di crearsi abissi che poi il suo cuore non riusciva a saltare.
Cora fece un sorriso dolce e improvviso.
Conteneva tutta la sua fragilità e proprio per quel motivo, perfetto sul viso di lei, ma non glielo avrebbe mai detto, perché era ancora come la ragazzina che arrossiva per ogni complimento, che non sorrideva quando aveva l'apparecchio ai denti per paura di essere presa in giro, che abbassava lo sguardo se la guardava fissamente.
Pensò a quanto fosse incredibile che certe persone riuscissero a rimanere nei pensieri senza che nemmeno uno se ne accorgesse, d'incidere il nome sulla pelle, e a distanza di anni, essere ancora lì.
Guardandola, s'accorse che nonostante le mille prove alle quali l'aveva sottoposto la vita, esisteva una sua parte debole e tenera. Una parte dove viveva il meglio di lui.
«Va bene, se ci tieni tanto andiamo allo studio dell'artista vivente più pagato al mondo. Vediamo se cambio idea su di lui», replicò con un'espressione di beffarda condiscendenza, acconsentendo ancora non troppo convinta.
Shannon rispose al sorriso con espressione astuta: l'aveva avuta vinta e non era facile con lei.
«Cosa ha a che fare Jared con Hirst?», a parte la curiosità, non avrebbe saputo spiegarsi perché avesse fatto quella domanda.
In genere non le importava molto di chi conosceva Jay, ma in quel caso l'accoppiata era quantomeno bizzarra.
Shannon con circospezione si allungò verso di lei e disse piano, appena udibile: «È proprietario insieme ad altri investitori di For the love of God».
Cora bevve un altro sorso di cioccolata prima di rispondere: «Il teschio in platino coperto di diamanti? La stravaganza più costosa nella storia dell'arte. Ho sentito che Hirst l'ha venduto in piccole percentuali perché non riusciva a trovare un acquirente unico».
«Esattamente. Jared ne possiede una percentuale».
Cora cercò gli occhi di Shan e incontrandoli, sospirò incerta: «Nell'ambiente si vocifera che le quotazioni di Hirst siano enormemente calate e come fenomeno si sia sgonfiato, nessuno investirebbe più grosse cifre su di lui. Come tutte le mode, molti ritengono abbia fatto il suo tempo».
Shannon annuì, la notizia non gli giungeva nuova: «Jay ha usato un suo dipinto come copertina del nostro ultimo album, e fatto in modo di rialzare le quotazioni con pubblicità di massa e a minimo costo».
Cora aggrottò le sopracciglia...Jay ne sapeva una più del diavolo, ma c'era davvero da sorprendersi?
«Io onestamente non ne capisco molto di queste cose - proseguì l'amico - e certamente tante stranezze artistiche di Hirst, come la sua ossessione di rappresentare la morte ad esempio, non le condivido».
«Di certo però, ha trovato terreno fertile in Jared. Ha sempre avuto una curiosità morbosa nei confronti della morte», rispose piano, pensierosa.
Aveva colpito a caso, ma doveva essere stata comunque una palla difficile, bassa, perché lui batté le palpebre e la guardò storta.
Appena si rese conto d'aver espresso ad alta voce quel pensiero, si morse le labbra desiderando con le mani prendersi le parole e infilarsele un'altra volta in bocca.
Shannon disse visibilmente irritato: «Jared non è morboso nei confronti della morte. Cora falla finita con questa storia».
Le parole avevano cercato la sicurezza facile, l’àncora forte, la gravità nelle cose, ma doveva ammettere che non era così certo che Cora sbagliasse, non del tutto almeno.
In qualche modo, lei lo costringeva sempre a origliare se stesso, come se bisbigliasse continuamente segreti che lo riguardavano, che contro la sua volontà gli imponevano un viaggio improvviso e inaspettato nel passato.
Per qualche minuto niente si mosse in lui. Solo i pensieri.
Shan aveva cinque anni, tre Jared, quando il padre uscì dalle loro vite, o meglio, quando loro uscirono dalla sua.
Ricordava ancora l'abbandono.
Fu in una condizione di agitato, velenoso furore che lui aveva riversato sulla loro madre, e a cui poterono assistere solo come impotenti spettatori, troppo piccoli per reagire.
Intanto lei piangeva, come niente fosse s'era avvicinato a loro, aveva scomposto i capelli di Jared con una carezza rude, e piegandosi sulle ginocchia, in tono paterno si era raccomandato: «Fai il bravo».
Quella fu l'ultima frase che suo fratello sentì dal padre.
Un istante dopo s'era alzato, e aprendo la porta aveva sorriso a Shan dicendogli che sarebbe andato a comprare il latte.
Lui era rimasto immobile, come le sere prima, appoggiato contro il muro che ormai sembrava l'estensione del suo corpo.
Aveva il terrore di quell'uomo che per lui era poco più di uno sconosciuto, temeva le sue reazioni.
Sapeva per esperienza che stava uscendo per andare a bere nonostante emanasse già odore insopportabile di alcol e che quando fosse tornato, si sarebbe accanito nuovamente sulla madre.
Lo sapeva anche lei, e stanca di quella vita caricò i suoi figli in macchina, senza una meta, senza soldi e solo buoni pasto nella borsa, con l'unico desiderio di fuggire.
Spesso da piccoli, durante le notti nelle quali non riuscivano a dormire, Jared con i suoi enormi occhi blu che illuminavano il buio gli chiedeva perché la loro madre l'avesse abbandonato, perché la loro non era una famiglia come le altre, a lui che era il fratello maggiore, e pensava per questo possedesse tutte le risposte.
Shannon di risposte non ne aveva però, alcune cose accadono e basta gli rispondeva, di farla finita, di dormire, poi lo colpiva con il cuscino perché smettesse di porgergli domande che facevano soffrire anche lui.
Qualche anno dopo vennero a conoscenza del suicidio del padre, e se per loro terminò la fuga, per Jared, iniziarono nuovi modi di rimanere legato a lui.
Era un elastico invisibile al resto del mondo, ma aveva l'effetto e il motore di un ventilatore: lo bloccava in un vortice senza via d'uscita.
Quando il padre era andato a fondo doveva aver portato con sé qualcosa di Jared, o peggio ancora: qualcosa del suo mondo doveva essere morto insieme a lui.
Così, quando aveva iniziato a recitare anni più tardi, se mandavano un copione dove un personaggio moriva di morte violenta, si poteva star certi che lo avrebbe interpretato.
Era il suo modo di liberarsi da quel fantasma o forse per instaurarci un dialogo.
«Scusami», pronunciò poco dopo lei con un sospiro, strappandolo con forza ai suoi pensieri.
Shannon rispose sorridendo anche se lievemente ferito.
Ormai aveva orecchie resistenti a tutto ciò che veniva detto sul fratello, i soliti pettegolezzi li sopportava, ma Cora sapeva dove colpire e affondare.
Oltretutto di suo fratello, aveva una pessima opinione.
Era vero che lei aveva conosciuto il peggio di lui, in un periodo difficile, prima che la musica salvasse la vita di entrambi e prima che il successo arrivasse a forzargli la mano, e a farlo diventare improvvisamente adulto.
Jared era sempre stato un tipo vivace e molto intelligente: già da giovanissimo s'era lanciato nel mondo del lavoro, incontrando personaggi scaltri che spesso si erano approfittati della sua inesperienza.
La sua ingenua visione da provinciale, e le persone che lo avevano ingannato, delle volte raggirato, gli avevano lasciato un'amarezza profonda, e una rabbia impotente, che spesso sfogava sulle persone a cui voleva più bene.
In quel periodo incontrarono l'eroina: Shan per primo, Jared seguì a ruota.
All'inizio erano convinti di poter tener sotto controllo la situazione, di farla rimanere una trasgressione da compiere ogni tanto, ma con certa roba non si poteva scherzare: aveva preso immediatamente il sopravvento su qualunque altra esigenza, divenendo un bisogno assoluto, una dipendenza totale.
La loro vita si era trasformata ben presto in quella di randagi con l'unico pensiero della prossima dose, perdendo ogni controllo sul mondo che li circondava.
Jared diventò incostante, inaffidabile sul lavoro, e l'unica soluzione che trovarono fu quella di rubare, iniziarono a entrare nelle case, e a combinare discreti casini.
Un clima di sospetto li avvolgeva, nessuno si fidava più di loro e questo umiliava e distruggeva Jared più di ogni altra cosa, forse anche più dell'eroina.
Così prese la decisione.
La comunicò a Shannon mentre stava entrando in un locale, e invece lui ne usciva incamminandosi in una strada buia di New York.
Aveva deciso di partire, era stanco disse, voleva andare al caldo della California e tentare la strada del cinema, dove non sarebbe stato giudicato oppure rifiutato da chi lo riteneva una presenza imbarazzante.
Shannon era quasi certo che la decisione, avesse a che fare con Cora e con l'assegno che il padre di lei gli aveva offerto per togliersi di torno alla figlia.
Aveva preso una decisione vera e definitiva, andarsene per non specchiarsi negli occhi di lei, per non vedere il modo in cui lo guardava suo padre, per cui era solo un drogato e un fallito.
Fino ad allora erano stati inseparabili lui e Shan, ma Jared all'improvviso aveva deciso di prendere una strada diversa: doveva sparire, togliersi di mezzo, per il bene di tutti, per la sua sanità, per il suo equilibrio, per la sua dignità.
In California si ripulì dalle sue dipendenze e delle sue paure.
Divenne un incantatore di serpenti, distrusse la sua timidezza, e senza scorciatoie o soluzioni semplici guardò in faccia la realtà, si rimboccò le maniche e accettò qualunque lavoro gli proponessero.
Con occhi aperti non permetteva a nessuno di approfittarsi della sua ingenuità, la nascondeva dietro miliardi di corazze, non si faceva ingannare da discorsi che cercavano di plagiarlo.
Era la dimostrazione vivente che si poteva arrivare in cima senza compromessi, semplicemente lavorando come un mulo, e Jared non dormiva neppure la notte per pensare a fare soldi.
Gli voleva un bene dell'anima anche se non parlavano molto, erano troppo diversi, ma avevano comunque uno splendido rapporto.
Se Shan gli consigliava qualcosa, a Jared entrava da un orecchio e gli usciva dall'altro, ma lo amava e si sarebbe dannato per lui e la cosa era assolutamente reciproca.
Nessuno gli toglieva dalla testa che quel carattere d'acciaio di Jay, quella voglia di arrivare a tutti i costi, quella rabbia che ancora a stento riusciva a domare, era dovuta all'abbandono e poi alla morte del padre. Era stata la chiave, l'elemento scatenante di un bisogno di rivalsa contro un destino che sembrava già segnato.
Jay era un guerriero che non arretrava mai.
La sua guerra l'aveva combattuta giorno dopo giorno: per vincere la diffidenza, la solitudine di chi decide di andare avanti a ogni costo e senza mentire.
Aveva rischiato di tutto facendo esperimenti, alcuni più pericolosi di altri, convinto ne valesse sempre la pena, facendo i conti con la parte oscura di lui, anche a costo di rischiarci la pelle.
Apriva gli occhi la mattina ed era pronto a correre, dove non importava, un traguardo lo attendeva comunque.
Guardò un attimo Cora mentre s'infilava il cappotto e si apprestava a uscire dal Sarabeth, con sguardo adombrato si domandò se fosse la scelta giusta rimetterla sulla strada di suo fratello, c'era il rischio che nella sua corsa la travolgesse... eppure qualcosa gli suggeriva che forse, per lei, avrebbe rallentato. Lo sperava.
Si alzò a sua volta, indossò la giacca, il cappello e dopo aver pagato il conto la raggiunse.
Con un sospiro aprì la porta e immediatamente una sferzata di vento gelido, aria fredda e umida gli colpirono la faccia.
Fu quasi uno shock passare dal caldo del locale alla temperatura esterna, notevolmente scesa.
Guardò il cielo limpido, azzurro intenso.
La sentì rabbrividire, ma nonostante questo, dire comunque: «Possiamo fare una passeggiata».
Shannon tirò fuori le mani dalle tasche, la circondò con le spalle facendole spazio sotto la giacca e lei si raggomitolò aspirando il profumo di cuoio. Il calore di Shannon le diede sollievo.
«Hirst ha lo studio ad almeno sedici isolati da qui e stai già morendo di freddo. Meglio prendere la macchina, la passeggiata la faremo la prossima volta”.
Cora scosse la testa domandandosi quando mai avrebbero avuto un'altra possibilità, poi sollevò lo sguardo a cercare gli occhi di lui e arrendendosi annuì.
Shan le diede un colpetto sulla sommità del capo facendo un largo sorriso.
«Mi piace quando sei ubbidiente», era di nuovo sereno, senza più ombre.
Cora alzò gli occhi al cielo e orgogliosamente avvicinò il viso al suo collo strofinandogli le mani contro l'addome: «È solo il freddo che mi fa venire a patti».
Ridacchiò e Cora rispose con un largo sorriso. Pace era stata fatta!
Era la cosa più bella di Shannon, soprattutto per lei che non faceva che combinare pasticci: perdonava subito.
Svoltato l'angolo però, con sorpresa, si accorse che il suo corpo senza preavviso né apparente motivo, s'era irrigidito sotto i palmi.
Cercò i suoi occhi e notò che aveva lo sguardo puntato sull'altro lato della strada.
Seguì la traiettoria e si accorse di un gruppo di fotografi che scattavano foto come impazziti.
«Spuntano fuori dal nulla. - le disse con un sospiro pieno di disagio - Secondo me escono direttamente dal suolo».
Inforcò velocemente gli occhiali scuri e calcò il cappello più in profondità mentre aggiungeva: «Ti comunico che da oggi sei ufficialmente la mia nuova ragazza o passatempo, a seconda di chi scriverà l'articolo».
Cora nascose il viso contro la sua spalla e lo strinse un po' di più: «Baciamoci, gli daremo la notizia esclusiva del giorno».
Shan la fissò, ma quando vide la sua faccia si rese conto che lo stava prendendo in giro.
Aveva un'aria così stranamente divertita che lui le rispose allo stesso modo: con un sorriso storto. Ma fu un istante, subito dopo assunse un'espressione seria e lei trasse la conclusione che la leggerezza era finita o almeno era stata accantonata.
La stava esaminando a fondo, con riflessiva serietà.
Non poté stabilire cosa si muovesse nella sua testa, ma immaginò fosse sincero quando disse: «Credo che qualcuno arriverebbe a uccidermi per una cosa del genere».
«Sei innamorato?», esclamò con stupefatta contentezza.
Aveva temuto che quel momento non sarebbe mai arrivato per lui: che non avrebbe mai avuto voglia di affidare la sua vita a qualcuno. 
Che come lei, si fosse arreso all''evidenza che l'amore era solo una bugia.
Che si sarebbe accontentato del surrogato di ragazze fin troppo giovani e che evaporavano dalla sua esistenza più in fretta delle buone intenzioni.
Era felice che le cose fossero andate diversamente.
Lui però la guardò con sconcerto come se gli avesse appena mostrato un serpente a sonagli e Cora capì di aver sbagliato su tutta la linea.
«Ma che vai dicendo?», le domandò intanto che i fotografi li costringevano ad affrettare il passo.
«Scusami, ma hai detto che ci sarebbe chi ti ucciderebbe se mi baciassi, e ho pensato avessi qualcuno... », si giustificò con il fiato corto, mentre lottava per stargli dietro.
Shan buttò fuori l'aria che aveva trattenuto e fece una risata serena: «Hai pensato male».
I fotografi riuscirono a raggiungerlo bloccandolo da più lati, e lo tempestarono di domande che lui schivò aprendo la portiera a Cora, per poi entrare rapidamente dal lato guidatore.
«Schifosi paparazzi. - farfugliò a denti stretti per non far vedere loro il labiale, mentre a tutta velocità, metteva in moto e partiva. Alzò leggermente gli occhiali per guardarla - La tua reputazione, è rovinata per sempre ora che ti hanno vista con me», sorrise mortificato.
Lei alzò le spalle con disinteresse. Il sedile riscaldato le stava togliendo un po' del freddo entrato fino alle ossa, e al momento era l'unica cosa che riteneva degna d'importanza.
«Sei sempre restia a usare i social network vero? Niente Twitter?», domandò lui come se seguisse un incomprensibile logica.
Cora lo guardò aggrottando la fronte: «Uso solo Fecebook per rimanere in contatto con altri pittori della galleria, ma molto raramente. Mi annoia. Perché me lo domandi?».
«Bene...», rispose mentre imboccava la Greenwich Ave.
«Mi vuoi spiegare il motivo di questa strana domanda o devo tirare a indovinare?».
«È solo che... ecco... ho delle fans piuttosto apprensive che hanno l'abitudine di usare twitter per esprimere il proprio dissenso alle donne che frequento».
Cora scoppiò a ridere: «Ma sul serio? Devo aspettarmi insulti pesanti?».
Shan sorrise: «Pesantissimi».
«È questo uno de “i prezzi da pagare„ a cui ti riferivi prima?».
«La tua vita privata viene sventrata e non appartiene più a te stesso. Io ormai ho fatto il callo, ma mi dispiace per chi si ritrova immischiato nel mezzo a causa mia».
«Non ti preoccupare troppo. Siamo tutti adulti Shan, e non sei responsabile del modo in cui gli altri si comportano».
Togliendo una mano dal volante le mise il braccio intorno al collo e l'attirò a sé: «Ma tu sei la mia piccola, la mia principessa. È normale che mi preoccupi».
Lei gli rivolse un lieve sorriso.
«Ho una reputazione così immacolata che sporcarla un po' non potrà che farle bene».
Lui alzò un sopracciglio e tornò a mettere la mano sul volante.
«Quanto immacolata?», le rivolse un sorriso storto e lei avvertì una punta improvvisa d'insicurezza.
«Meglio non affrontare l'argomento. Potrei sconvolgerti», ridacchiò nervosamente.
«Devo trovarti un uomo», disse con voce grave, abbandonandosi sullo schienale con lo sguardo fisso sulla strada.
«Lo farei fuggire gambe levate».
A lui venne la faccia da mascalzone.
«Ne ho uno che non scappa davanti a niente».
«Sono un tale disastro che farei fuggire anche lui», rispose lei guardando fuori dal finestrino mentre la velocità dell'auto diminuiva, e il susseguirsi rapido di alberi e case tornavano a essere delle forme distinte.
Shannon accostò, parcheggiò sulla five th ave, davanti l'arco del Washington Park, e la fissò con sguardo tranquillo. Le poggiò la mano calda sulla guancia e le sorrise.
Lei non riuscì a spiegarsi esattamente la sensazione, ma tutto d'un tratto le era balenato la consapevolezza sfuggente che lui avesse preso una decisione definitiva.
Il suo pensiero andò subito allo strano turbamento provato quando, appena arrivata all'appuntamento, lui l'aveva guardata con aria altrettanto strana. La percezione che avesse qualcosa in mente l'aveva perseguitata tutto il tempo in cui erano rimasti al Sarabeth, ma poi i loro discorsi, l'arrivo di Jared, non le avevano dato modo di ragionarci troppo su.
Non era sicura se stava lavorando di fantasia oppure no, ma sapeva che Shan in alcuni momenti la guardava con un'intensità particolare, e che una qualche considerazione, come un'ombra, attraversava il suo sguardo. Solo che lei non riusciva a determinare quale fosse.
   
 
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