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Autore: HellWill    06/01/2015    2 recensioni
(Ho visto questa challenge (goo.gl/XBoRTK) e non potevo non farla.)
"(...) era come se gli strappassero un arto, metà del corpo, senza tagli netti, solo slabbrature irregolari sulla sua anima. Si rannicchiò su se stessa, si accoccolò vicino a lui e rimase immobile, con gli occhi verdi spalancati sul buio, ed attese. Non sapeva cosa stava attendendo, ma il dolore era troppo insopportabile per muoversi, per respirare, per fare qualcosa che non fosse stare lì ferma ed immobile, accanto al suo corpo senza vita."
Genere: Angst, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '365 DAYS WRITING CHALLENGE'
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6 gennaio 2015
Mayhem

«No.. no, no, non puoi andartene, non puoi lasciarmi.. non puoi lasciarmi. Lo sai. Lo sai che non puoi andartene».
La voce era colma di lacrime, forse più dei suoi occhi verdi, quando Rafael alzò una mano per accarezzarla. Il sangue continuava a sgorgare dalla sua ferita, e lui si sentiva sempre più debole, ma non riusciva a staccare gli occhi da quelli verdi di lei, non riusciva a smettere di guardarla, mentre piangeva e si disperava.
«Non è colpa tua» mormorò allora Rafael, carezzandole la guancia; le lasciò una ditata di sangue sul viso, e lei spalancò gli occhi.
«Non è colpa mia? NON È COLPA MIA? Ti ha ammazzato perché io ho ucciso il suo compagno per errore! Per vendetta! Per un mio errore! Rafael, non andartene, non andartene, cosa farò senza di te? Cosa farò? Come farò? Io e te ci completiamo, ricordi? Io e te non possiamo stare lontani troppo a lungo, ricordi? Non andartene, prendi cento anni dei miei, ti prego, ti prego, vivi, prendi cento anni» sussurrò, e con mani tremanti provò di nuovo a guarirgli la ferita con la magia, ma era tutto inutile, più ci tentava più peggiorava e il sangue continuava a ruscellargli dal ventre, così rimase con le mani sul suo petto e lo guardò negli occhi.
«Ti amo» mormorò lui, sulle labbra l’ombra del sorriso che aveva sempre avuto impresso in viso.
«Anche io ti amo» singhiozzò Will, con un verso strozzato, e gli diede un bacio sulle labbra. Rafael sorrise e si attorcigliò una ciocca di capelli neri della ragazza sulle dita. «Tu hai la chiave, Will. La chiave per riportarmi in vita. Lo sai che ce l’hai» mormorò, e sorrise appena, poi fece una smorfia di dolore.
«Ma non so qual è» sussurrò lei, ad occhi spalancati, e passò una mano fra i capelli biondi e ricci di Rafael. Lui sorrise un’ultima volta e chiuse gli occhi.
Will sapeva intimamente che era morto, ed era come se gli strappassero un arto, metà del corpo, senza tagli netti, solo slabbrature irregolari sulla sua anima. Si rannicchiò su se stessa, si accoccolò vicino a lui e rimase immobile, con gli occhi verdi spalancati sul buio, ed attese. Non sapeva cosa stava attendendo, ma il dolore era troppo insopportabile per muoversi, per respirare, per fare qualcosa che non fosse stare lì ferma ed immobile, accanto al suo corpo senza vita.
Will sapeva che, sotto le palpebre, gli occhi di Rafael erano bianchi, e non azzurri: un Sayn sapeva qual era il momento di andarsene, certo, ma c’erano certe sostante, certe armi, certi materiali che non lasciavano altra scelta al Sayn, se non morire definitivamente. La sua ferita si stava rimarginando, ma era un processo automatico della sostanza di cui erano fatti i Sayn; lui, Rafael, non c’era più dentro quel guscio vuoto.
Will rimase ancora immobile, senza sapere né chi fosse né dove fosse; cercava di pensare il meno possibile, ma non poteva fare a meno di sentire dolore, anche senza pensare, anche senza sentire nient’altro che dolore. Sentiva la sua anima pulsare, anelare alla pace, alla morte come lui e con lui; ma la morte non arrivava. Si chiese con rabbia perché non avesse voluto prendere cento anni dei propri, e con amarezza rise di se stessa: non poteva, certo che non poteva, stava morendo, non aveva abbastanza forze per fare una cosa del genere.
Sentiva così tanto dolore che non riusciva a piangere: arrivava come una mareggiata, una tempesta dentro di lei, e tutto quello che riusciva a fare era urlare, e strillare, come un’animale impazzito, disorientata dalle sue stesse sensazioni; si era alzata e aveva camminato, urlando, piegata su se stessa come un relitto, macchiando gli alberi con il sangue che aveva sulle mani, e non una lacrima era scesa dai suoi occhi. Dopodiché, tutto finiva, e lei si sentiva esausta e stanchissima, intorpidita, come se fosse stata troppo tempo nella stessa posizione: e tornava da lui, al suo corpo vuoto, e vi si rannicchiava accanto sperando in un calore che non poteva più darle.
Fece questo per non seppe quanto: i giorni e le notti si susseguivano e lei non riusciva a piangere, le sembrava di essere in una bolla da cui era impossibile uscire, e i canti degli uccelli non la toccavano più di tanto ma anzi, la facevano infuriare: come osavano loro cantare, continuare come se nulla fosse, mentre lei era spezzata a metà? Iniziò a strillare per zittire gli uccelli, iniziò ad urlar loro contro, a prendersela con la natura che continuava a fiorire e vivere intorno a lei mentre dentro sentiva solo morte e disperazione.

Ci volle un po’, prima che la trovassero, ma anche allora lei reagì come un animale ferito che difendeva i suoi cuccioli: ringhiò, si abbarbicò al corpo freddo di Rafael e pianse sul suo petto, rifiutandosi di lasciarlo, rifiutandosi di cedere. Li sollevarono insieme: lui, morto ed immutabile, lei, impassibile su di lui, indifferente persino ai visi degli amici e alle loro espressioni angosciate.
«Non puoi stare lì tutto il tempo, Will» li sentiva mormorare, di tanto in tanto. «Devi reagire, lo sai che lui lo avrebbe voluto».
«Non osare dirmi cosa avrebbe voluto» sussurrò lei, con voce roca, e tutti abbassavano lo sguardo e se ne andavano quando lei diceva così.
Solo dopo un paio di giorni che l’avevano riportata a Palazzo, a trovarla andò Logan. Non si sprecò in parole inutili o frasi di circostanza: la afferrò per le braccia e la staccò da Rafael, e anche se lei oppose resistenza, non si nutriva né dormiva da troppo tempo perché la sua opposizione fosse abbastanza energica da impedire ad un uomo alto due metri di trascinarla via come una bambola. La portò nella stanza delle vasche e le fece un bagno, pettinandola e lavandola con tocchi delicati, ma lei era indifferente e, anche se tremava, la sua espressione era vuota ed i suoi occhi verdi sembravano persi. Logan la asciugò e la portò nelle sue stanze, le stanze della Regina, e Will si sedette sul letto mentre Logan le prendeva degli abiti.
«È stata colpa mia» mormorò a quel punto lei, rannicchiandosi sul letto di foglie secche, il più morbido e crepitante che ci fosse a Palazzo. Logan in un primo momento la ignorò, dopodiché le posò i vestiti sul letto, le prese il viso e la guardò negli occhi, serio.
«Ma fammi il piacere» scandì, con tono così sarcastico che Will si limitò a sbattere le palpebre, incredula.
«Io..».
«Tu hai fatto quel che hai fatto. Per il resto non ha senso darti colpe che non hai, né addossarti anche la morte di Rafael.. o Astro, come vuoi chiamarlo».
«Rafael va più che bene» mormorò lei, mettendosi di nuovo seduta e abbracciandosi le ginocchia. «Astro era il nome che la sua ultima famiglia gli ha dato».
«Già. Rinascerà?».
Will sentì gli occhi riempirsi di lacrime, e scosse la testa. Logan aggrottò la fronte.
«Perché?».
«Perché l’ha ucciso con l’Arules, e tu sai che..».
«Che l’Arules vi uccide senza possibilità di scelta, sì» mormorò Logan, poi scosse il capo e le puntò il dito. «Non pensare nemmeno per un istante che lasciarti morire dentro un letto sia la cosa giusta da fare. Congedati da lui con amore, seppelliscilo, dedicagli un tempio, fa’ ciò che vuoi.. ma reagisci. Non pensare nemmeno per un istante che non fare nulla sia la scelta giusta».
Will deglutì a fatica, tutto ciò che sentiva era un vuoto pulsante dentro di sé, e sapeva che si sarebbe portata quella ferita dentro fino alla tomba.

Logan era incredulo.
«Va bene, te l’ho detto, ma io non pensavo che..».
«Era una buona idea. Io.. così posso capirlo. Posso ricordare che è morto, e che non tornerà più indietro» mormorò Will, assorta, e Logan alzò la testa per ammirare l’immensità di quel tempio vegetale.
Varcandone la soglia, vi era un tripudio di fiori vivi e di liane, e nel mezzo stava steso Rafael, i riccioli biondi illuminati dalla luce del sole e gli occhi chiusi, così vero e tangibile che sembrava dormisse. Will gli carezzò il viso e chiuse gli occhi, trattenendo le lacrime, e Logan la abbracciò da dietro, cingendola con le braccia.
«Va bene. Non ti preoccupare. È un modo come un altro di onorarlo e ricordarlo.. penso che si sarebbe fatto le migliori risate, su di te che gli creavi un tempio dopo la morte» sorrise e tentò di farla sorridere, ma Will era persa nella lacerazione che pulsava prepotentemente dentro di sé, e che le stava occludendo la gola, impedendole di respirare, impedendole di sentire altro che non fosse dolore. «Ehy» mormorò Logan, girandosela fra le braccia e premendo la fronte contro la sua. «Ehy» ripeté, guardandola negli occhi verdi vuoti. Come poteva sperare di riscuoterla da quello stato di disperazione così profonda? «Potresti provare a vivere come faceva lui.. ridendo, e scherzando, e…».
«Logan.. stai zitto» mormorò lei, irritata, e una lacrima le scivolò sulla guancia. «Non posso ridere e scherzare, non ne ho le forze, vorrei solo.. lasciarmi andare nell’oblio con lui, raggiungerlo, e stare insieme una volta e per sempre» sussurrò, e Logan la strinse più forte, sentendo il cuore stringersi.
«Non osare fare una cosa del genere» disse piano, carezzandole i lunghi capelli neri che, lisci, sembravano farle da coperta, drappeggiata sulle spalle.
Will rimase in silenzio e singhiozzò piano, mordendosi le labbra e mandando un lungo gemito strozzato, dando un debole pugno sul petto dell’amico.
«Non è giusto.. non è giusto!» singhiozzò ancora, piangendo e piagnucolando; Logan la strinse, senza dire una parola, e i due rimasero immobili così, stretti l’uno all’altra, in quel tempio d’amore fatto di alberi e fiori.
   
 
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