Disclaimer: I personaggi appartengono a
Kishimoto, inutile sperare che siano miei. Uffa.
Does
anybody wanna buy a memory?
Povera Musa,
ahimè! Che cos’hai oggi? Infossati
I tuoi occhi
traboccano di visioni notturne;
vedo alternarsi,
riflessi nel tuo incarnato
la follia e
l’orrore, freddi e taciturni.
“La Musa Malata”, Charles Baudelaire
La
prima volta che lo vedo veramente è
anche l’ultima.
Ma,
prima di questa, ci sono stati diversi incontri, che si sono inanellati
intrappolandomi, senza che mi accorgessi di nulla, legandomi mani e piedi in
una catena di desideri non soddisfatti e attenzioni che si concretizzavano in
un caldo, viscido languore che sapeva di cherry e mi scioglieva il petto.
Rivedo
tutte queste catene davanti a me, velocemente; e mi ritrovo a pensare che, sì,
prima di morire davvero ti appaiono gli istanti di una vita.
Ma
quelli che ho davanti sono solo gli attimi che ho vissuto con lui; è forse lui
che mi fa sentire viva? O è una associazione del mio cervello dato che osservo
il suo volto al di là del vetro sporco del treno?
…sono
ridicola, lo so.
Parlo
nei miei ultimi istanti come se scrivessi su un pezzo di carta; ma, vedete, non
riesco a scappare, e i minuti sembrano immensi.
È
come se mi fossi super-potenziata, e riuscissi a pensare
mille cose velocemente, tanto che è difficile anche per me metterle in ordine cronologico: vedo occhi neri, sento
nelle orecchie il canto di una voce femminile in una lingua sconosciuta, nelle
narici c’è la polvere della stazione, poi un saluto militare esclamato con
vigore da mio padre, lo scricchiolio del pennello sulla tela, il sorriso
enigmatico della Gioconda sul volto di Itachi e – !
…ma chi vorrebbe
comprare delle memorie confuse? Chi si interesserebbe mai a Ino Yamanaka?
Voglio
sperare, però, che qualcuno sia in grado di percepire i miei pensieri (quelli
di Ino, perché l’altra me non mi
appartiene più); io lo credo, perché
è tutto il ormai credo in un sacco di cose.
Credo
negli youkai giapponesi, nella potenza dell’arte, nell’amicizia, nei compromessi,
nelle tragedie tedesche di antico stampo. Nel Faust, in un Dio e in un Diavolo,
nel sollievo di un sorriso; e credo in me
come Ino.
E
non provo tristezza pensando che tra pochi minuti di me non resterà che un
misero frammento di carne; se ne rimarrà qualcosa.
Ma
rendiamo queste memorie appetitose, deliziamo chi mi ascolta.
Ho
emesso il mio primo vagito all’età di diciassette anni.
Stavo
appoggiata ai cancelli della scuola, sigaretta in bocca e sguardo fisso sulla
strada, con il viso indurito e i jeans a vita alta stretti che mi cingevano i
fianchi, la pancia lasciata scoperta audacemente da una camicetta a quadretti.
Tutte
le ragazze dell’Istituto Superiore Roosevelt mi fissavano inorridite dalla mia
baldanza.
Sapevo
che molte invidiavano il mio coraggio e l’anticonformismo, ma preferivano le
gonne a campana e le camicette da brave ragazze. Erano l’emblema
dell’ipocrisia, visto che bastava un bel ragazzo ricco per sbattere gli occhi
come civette.
A
me, però, tutto questo non interessava.
Ciò
che bramavo era essere il centro di quel mondo di cui facevo parte
controvoglia, in un Paese che non era il mio e che doveva diventarlo.
Da
bambina ero abituata a velluti morbidi e scarpette lucide e smaltate che
odoravano di buono e, all’epoca, ero convinta che anche in futuro avrei avuto
su di me gli sguardi carezzevoli e orgogliosi di decine di adulti che mi
idolatravano quasi fossi Frigg, la regina delle
bionde Valchirie e moglie di Asgardhr, dio nordico
dei guerrieri.
Ma
negli Stati Uniti non ero altro che una ragazza anormale, con l’atteggiamento
sbagliato ma soprattutto i natali sbagliati.
Da
quando mi ero trasferita nel 1947 nel New Jersey, avevo lavorato duro cinque
anni per costruirmi una reputazione. Non era quella di una ragazza
innocente, né di una buona; ma attiravo
l’attenzione. E, ben presto, sapevo che avrei incontrato il ragazzo giusto da manipolare,
bastava mantenere la postura e la freddezza di una regina, caratteristiche che
avevo sin da bambina.
Sarei
tornata su un trono, venerata e riverita.
Mi
scappò un sorriso, mentre fantasticavo su tutto questo, e la sigaretta barcollò
tra le mie labbra; lesta la ripresi e la scostai dalla bocca, increspandola a
bacio per espirare il fumo che si dissipò in arabeschi vicino al mio nasino
piccolo e dritto.
Il
ragazzo che passò di fianco a me rischiò di inciampare e cadere, intento
com’era a fissarmi ammaliato.
Risi
senza calore, e gli tesi la mano aiutandolo ad alzarsi. Lui scosse la testa,
colpito nell’orgoglio da chissà quale mito americano dell’Eroe-che-non-chiede-mai-aiuto,
e si alzò ‘virilmente’ da terra con il mento alto, rivolgendomi un cenno secco.
Crucciai
le sopracciglia, indispettita. Uomini.
Erano
tutti simili; chi ci provava spudoratamente, altri che cercavano invano di
nascondere l’ammirazione col disprezzo.
“Ilse!”
Mi
girai e vidi Sarah avvicinarsi a me, la mano alzata in saluto e un sorriso
radioso sul volto. I suoi capelli rossi, dai riflessi così chiari che parevano
rosa, si muovevano ancora sulle sue spalle anche se era fermata davanti a me.
Era
così graziosa, Sarah, ma così insipida.
Aveva
un sorriso troppo dolce, le mani intrecciate sulla cartella di cuoio pulita ti
davano l’idea della classica ragazzina cattolica.
Ma
non riuscivo a disprezzarla del tutto; trovavo quel suo atteggiamento buonista
interessantissimo, vi era uno sfondo di egoismo di cui Sarah non sapeva nulla,
ma che l’aveva corrotta dentro.
Accennai
ad un sorriso e aprii la bocca, ma mi fermai prima di emette suono.
C’un
tratto sentivo gli occhi di qualcuno su di me.
E non erano i soliti sguardi; lo sentivo così vicino che mi si mozzò il fiato
in gola e le mie mani presero a tremare incontenibilmente, quasi avessi freddo.
Fu
quella, infatti, la supposizione di Sarah.
“Ehi
Ilse, hai freddo?” domandò premurosa, e un secondo dopo
sarcastica aggiunse: “Visto a conciarti come fosse una prostituta? Spero ti
serva da lezione!”
Avrei
acidamente commentato che non era mia madre, ma non potevo emettere una sola
sillaba.
L’avevo
trovato, il proprietario di quello sguardo; o meglio, avevo trovato due paia di
occhi neri, così neri che perfino le ombre della notte nelle alte pinete della Germania
mi sembrarono meno agghiaccianti.
Erano
occhi affusolati dal taglio orientale, poggiati su un viso smilzo e delicato,
come una bambola di porcellana. Lo sembrava più lui di me e mi vergognai del
trucco pesante che mi ero premurata di mettere con dovizie di attenzioni.
“Sarah…” Chissà da dove l’avevo tirato fuori il fiato. “Chi
è quel ragazzo che è appoggiato laggiù sul muro del droghiere?”
Sarah
voltò la testa nella direzione segnata dal mio dito impertinentemente puntato
contro lo straniero e arrossì di colpo, abbassando con una mossa repentina sia
il mio braccio che la testa.
“Scema,
ma sai chi è quello?!”
“No.”
ammisi tranquilla, lasciando trapelare la mia curiosità. “Ma tu sembri
conoscerlo.”
“Io?” Arrossì ancora più furiosamente,
scuotendo la chioma d’origine irlandese, per cui era spesso presa in giro (ed
era stato questo, ad unirci, da quando l’avevo difesa a spada tratta). “N-no, cioè… va da mio padre a
prendere i colori e i materiali per creare le sue tempere. È un giapponese” calcò sulla parola come se
fosse difficile da pronunciare. “Ed è qui grazie ad un parente molto ricco, di
origine americane.”
“Un
giapponese, eh?”
Lo
fissai ancora un po’, sorridendo infine all’enigmaticità e imperturbabilità di
quel ragazzo, i cui occhi stavano tranquillamente posati su di me, come se non
ci fosse nulla di poco dignitoso in questo; come se fossi una dea.
Nel
mio stomaco brulicavano mille farfalle per l’emozione improvvisa, vera.
“Un
giapponese…”
Mi
sentii prendere improvvisamente il polso, e il mio braccio venne trascinato
dalla forza e al caratteraccio che Sarah nascondeva dietro ai grandi occhioni verdi; con un solo gesto brusco riuscì a farmi
voltare completamente e persi di vista il giapponese.
Grugnii,
per nulla felice. “Che diamine combini, idiota?!” sbottai irata, cercando di
voltare nuovamente il capo e calmare, intanto, i brividi che mi scorrevano
lenti lungo la schiena.
Sarah
mi prese il mento tra le mani, indifferente a quando equivoco quel gesto
potesse risultare agli occhi degli altri studenti che uscivano da scuola, e
bloccò il mio sguardo sul suo viso tirato per il nervosismo e l’irritazione.
“L’idiota
qui sei solamente tu.” mi riprese,
piccata. “Non ti ho detto la cosa più importante…” la
sua voce si assottigliò, facendosi confidenziale. “Papà sospetta che suo zio
sia Pein, il nuovo malavitoso.”
Al
tempo non volli ammettere che questa affermazione mi aveva un po’ spaventato;
ricordo bene che feci uno sforzo terribile per non aprire la bocca e girarmi di
scatto per guardarlo, come se nei suoi vestiti borghesi un po’ sporchi potessi
vedere il volto dell’uomo pieno di piercing e dagli eccentrici capelli
arancioni – irlandesi, come sputavano
in molti, perfino i negri – che da
tempo controllava le nostre vie.
Riuscii
a dissimulare la sorpresa con un’espressione di marmo.
“E
allora?”
“E
allora?!” ribatté Sarah, aggrottando le sopracciglia furente e mollando la
presa sul mento per accompagnare con un pugno a mezz’aria il piede, che ricadde
sul pavimento con un piccolo tonfo. “Rinuncia a tutto ciò a cui stai pensando a
questo momento! Ti conosco troppo bene per non intuire che quel ragazzo ti
piace!”
“Non
sono affari tuoi.”
Il
mio fu un soffio cattivo e gelido, degno del vento del Nord che spirava tra le
pinete del mio Paese e, nel momento in cui dissi così, mi resi conto che
l’avevo ferita. Gli occhi di Sarah erano troppo facili da leggere, e già si
inumidivano, ma per orgoglio non pianse nemmeno una lacrima e io fu davvero fiera di lei, come un’artista che guarda
la sua creatura e gioisce internamente.
“Fa
un po’ come vuoi.”
Mi
diede una spallata e se ne andò, cartella sulle spalle e il profumo dolce e
forte che stagnava l’aria ovunque lei andasse.
Perché
parlo di Sarah non lo so davvero. O meglio, perché parlo di Sakura, sarebbe la vera questione; forse
le volevo veramente bene, e non sono mai riuscita a dirglielo. Spero solo che
ora sia lontana da qui.
La
lontananza molte volte non è solo fisica. L’ho capito stando con Itachi, la cui
distanza è sempre incolmabile fisicamente, eppure lo sento sempre così vicino
che avverto sul collo il suo respiro flebile e controllato e, prendendo questa
sensazione da non so quale dei miei innumerabili sogni su di lui, le sue labbra
sulla pelle che diviene tiepida, per un attimo.
Fu
questa stessa sensazione di vicinanza – del tutto irreale, aggiungerei – a
farmi voltare la testa quel pomeriggio di settembre e non trovarlo più dove
l’avevo lasciato.
E
questo mi fece a dir poco innervosire; prima Sarah che faceva la prima donna –
quando ero io, quella che poteva fare
certe scenate – e gli unici occhi che mi avessero vista davvero, senza materialità, se ne erano fuggiti chissà dove
attaccati ad un faccino giapponese.
Sbuffai
e mi buttai nel traffico, ignorando i commenti dei passanti accanto a me e proseguendo
trafelata verso casa.
Salutai
di fretta mio padre, seduto compostamente sul divano di casa intendo a seguire
la Sinfonia numero 7 di Beethoven – oh, quanto questo mi ricordava i pizzi
della giovinezza e i valzer di antico gusto tanto adorati? – e lui annuì di
risposta, aspettando che mi arrestassi davanti a Lui, l’uomo a cui devo il mio esilio da tutto ciò che amavo e che
ora giace morto chissà dove.
Mi
fermai trattenendo i fremiti di rabbia e alzai il braccio battendo lo stivale
contro l’altro, il palmo ben aperto davanti al ritratto di Adolf che
stoicamente mi fissava, i lunghi baffi neri ben tagliati sopra la bocca vecchia
e sottile.
Mio
padre mi lanciò un sorriso affettuoso. Sapevo di averlo reso felice, e mi presi
la sfrontatezza di andarmene senza una parola in più.
Se
eravamo qui, era colpa di mio padre.
Se io mi sentivo così frustrata era colpa sua
che non mi trattava più come una principessa. Se non avesse dato retta ad Adolf
non avrebbe dovuto elemosinare qualcosa ad un suo vecchio amico – un certo Nara,
italiano, ora residente negli Stati Uniti – e io non sarei qui.
Ero
sempre stata una tipa rancorosa, ma mai al punto di tenere il broncio per troppo
tempo, ero troppo dinamica per farlo; e amavo – amo – mio padre. Anche senza averlo mai perdonato.
Camminai
fino in camera mia, sbattei la camicia e i jeans sul pavimento, andai in bagno
in intimo a bagnare con sapone e acqua uno straccio e mi rifiondai
in camera, passandomi la stoffa sul viso per togliere il fondotinta e il
mascara pesante.
Mi
affacciai alla finestra, chissà per quale motivo – ma sai, mio adorato
Compratore di Memorie, il destino è strano, è un intreccio indefinito che va al
di là dell’umana comprensione, che deriva da quel mondo a cui tendiamo senza
volerlo e che nello stesso tempo ci atterrisce, dove la ragione non è colei che
decide ogni cosa. È la Follia.
E
folli mi parvero allora – e ancora ho questa impressione rileggendo i miei ricordi
– quegli occhi neri e impenetrabili, così calmi da essere surreali, come
fossero soltanto un’ombra, che mi fissavano, scorrendo sul mio corpo scoperto.
Strinsi
le gambe d’istinto, trattenendo tra le labbra un gemito di vittoria.
Lui
era lì; e in me c’era ammirazione calda e stordente per quel giapponese che
sapeva incatenare a sé una creatura col solo sguardo.
Mi
precipitai al piano terra, indossai l’impermeabile di mio padre e mi gettai nel
vialetto della nostra casa di periferia, correndo per il timore che quella
sensazione di leggerezza potesse scomparire come aveva fatto il giapponese a
scuola.
Ma
invece lui era lì, che mi attendeva fumando.
Diminuii
il passo, sia per non sembrare una ragazzina innamorata, sia perché le gambe si
erano fatte improvvisamente deboli e malmesse.
“Ciao.”
Mi disse, monosillabico.
“Ciao.”
Risposi, forzando un sorriso che doveva essere malizioso; ma sono quasi certa
che non lo fu. “Piacere io sono – ”
“Ino.”
Soffiò lui, insieme ad uno sbuffo di fumo.
Inarcai
le sopracciglia. “No, ti hanno detto il falso. Io sono Ilse
B – ”
“Ino Yamanaka.” Mi interruppe ancora,
osservandomi senza alterazioni. “Mi farai da modella.”
Avrei
voluto arrabbiarmi, davvero. Ma non potei. Con quella frase, Itachi mi aveva
legata a lui, il primo anello.
Mi
aveva battezzata.
E
il mio “sì” strozzato fu il mio primo vagito, il saluto alla vita.
Quello
che avviene dopo la nascita, è il crescere.
E,
come accade ai bambini, io non mi sono accorta di nulla fino all’ultimo
istante, cioè ora.
Non
avevo fatto caso che Itachi mi aveva presa con sé, togliendomi dal mondo per
farmene scorgere un altro, svezzandomi dalle verità ipocrite.
Che
stupida sono stata, a non accorgermi
delle sue attenzioni, che spesso reputavo del tutto assenti – e lo pensavo come
un’offesa personale – solo perché non
mi aveva mai baciata né avevamo mai condiviso lo stesso letto.
Ma
non era facile capire quello che Itachi voleva da Ino Yamanaka.
Per
la prima settimana mi invitò nel suo appartamento, piccolo e spartano, con
strani cuscini che fungevano da sedie e un piccolo servizio da the giapponese,
che negli ultimi tempi mi aveva permesso di toccare per preparargli la sua
bevanda quotidiana.
Stavamo
per ore a fissarci negli occhi; i suoi indugiavano sulla mia figura esposta
nella sua completa naturalezza davanti a lui, sui miei capelli biondi che
scendevano lungo una spalla coprendo solo un seno, sui fianchi strettissimi da
ballerina, il ventre vuoto e le lunghe gambe sottili, di cui vado ancora fiera,
così affusolate che mi fanno molto più slanciata di quello che sono – come le
zampe di un airone.
Osservava
e poi appoggiava il pennello pieno di tempera corposa sulla tela, buttandone
qualche pennellata al giorno, senza emette un suono.
Immaginerai,
Compratore, quanto questo mi rendesse frustrata. Avere davanti un uomo con il suo sguardo – giuro, è così intenso,
anche ora che lo rincontro per gli ultimi minuti, che sento un calore delizioso
nel bassoventre – non cedere di fronte alla mia bellezza era un colpo piuttosto
duro alla mia vanità.
Inizialmente,
per attirare la sua mano su di me, mi
smossi brutalmente dalla posizione in cui mi ero arenata per il ritratto. Ma,
ovviamente, nonostante lo stratagemma costò uno sforzo enorme ai miei muscoli
atrofizzati, non ottenni il risultato voluto e Itachi si limitò a continuare a
dipingere come se nulla fosse.
Stronzo.
Continuammo
così per giorni, fino a che non eruppi in un grido strozzato, sbattendo il
piede a terra, pronta a gridargli in faccia quanto omosessuale fosse per non
avere nessun tipo di reazione – o erezione
– con davanti una donna completamente nuda alla sua mercé che lanciava segnali
piuttosto evidenti.
Ma
Itachi mi precedette. Si alzò, mi prese per il polso con la sua mano gelida – e
mi convinsi che era per quello che
rabbrividivo – e mi portò davanti alla tela.
Mi
osservai attentamente.
I
capelli della donna del ritratto erano i miei, lunghi e biondissimi, e
ricadevano sulle spalle morbidamente. Gli occhi celesti mi fissavano, appena
socchiusi in un’espressione goliardica. Le gambe affusolate si riunivano come
un’unica, grossa linea.
Ma
la cosa più concertante fu lo sfondo;
un mondo di demoni che mi fissavano con grandi occhi gialli e denti che
squarciavano la tela. A cui io stavo ammiccando, nel quadro.
Sembra
che godessi, sotto lo sguardo famelico di quelle bestie.
Suggestione,
ecco cosa era quel quadro. Suggestione.
Ma, nonostante questo, urlai e scappai via.
Naturalmente,
ritornai da Itachi pochi minuti più tardi, a testa bassa.
Ma
non posai più per lui, ricordando gli occhi gialli che mi mangiavano dalla
tela; né chiesi che fine aveva fatto il quadro, per paura che lo ritirasse
fuori e i mostri mi staccassero la testa a morsi davanti allo sguardo compiaciuto
dell’artista.
Allora
Itachi cominciò a parlarmi delle leggende giapponesi, con lentezza, chiamandomi
Ino quando mi vedeva distratta – da lui,
ovviamente – di storie senza tempo, di youkai, di alberi di ciliegio e profumi
da geisha.
Scivolavo
in un mondo di coccole, raccontato più che a parole da grandi foglie schizzati
a carboncino, che andava al di là della mia vecchia normalità.
Mi
innamorai soprattutto di un suo antenato, un certo Madara
Uchiha, che uccise un intero villaggio solo perché amava il sapore del sangue,
e che poi si suicidò per aver tradito la patria. Mentre lo schizzava a matita,
e rispondeva a monosillabi alle mie curiose domande (spesso ero io che
ricostruivo le leggende nella mia testa), sentivo nelle narici l’odore di
sangue e di acquaragia, di esplosivo e morte, e le mie dita fremevano per la
voglia di toccare Itachi e costringerlo a disegnare più velocemente, ebbra di
quella eccitazione irrazionale.
Quando
gli chiesi, un giorno, perché mi spiegasse così attentamente ogni dettaglio
della sua cultura e dell’arte – sapevo, ormai, tutto su tempere e sugli altri
strumenti usati, pure i loro effetti dannosi alla salute e la loro pericolosità
– Itachi alzò le spalle nude e socchiuse gli occhi scavati dalle occhiaie
profonde.
“Deve
avere un senso, se ti tengo qui?”
Io
annuii, come se capissi ciò che intendesse, ma in realtà non capivo nulla. Ogni
sua frase mi pareva in una lingua sconosciuta.
Quando
mi disse: “E’ da folli tentare di entrare a forza nella mente di tutti”,
asserii ma la presi come una critica al mio modo di comportarmi a scuola; mi
illusi perfino che fosse geloso e presi a vestirmi di più.
Quando
mi disse: “Spogliati”, lo feci senza domande e mi esposi all’aria della notte e
al suo sguardo, tremando e gemendo come se mi toccasse, ma non era quello che
faceva.
Era
tutto dannatamente intimo. E senza logica, nessuna.
Ero
sempre stata una ragazza capricciosa e impulsiva, ma un certo senno ce l’avevo
prima di essere Ino Yamanaka. Avevo pianificato il mio astuto piano per
riprendermi il trono di dea negli Stati Uniti, facendo finta di non rimpiangere
i tempi in cui papà poteva permettersi tutti i lussi e canticchiava per la
nostra villa tedesca l’inno nazionale, intervallandolo a tonanti “Hai, Hitler!”
quando incontrava uno degli ospiti.
Eppure,
in quel mese che passai con Itachi, non ero più me.
Una
bambola, che non rifletteva ma semplicemente imparava da lui, bevendo ogni sua frase come un assetato nel
deserto, assimilando i comportamenti meccanicamente.
Piano
piano, senza che me ne accorgessi, Itachi era
diventato il mio respiro affannoso, mentre correvo un po’ traballante per il
mondo, completamente rinata.
Chiamai
mio padre “otou-san” e Sarah “Sakura”, e mi sentivo
felice solamente con la voce di Itachi che mi addolciva e mi rendeva più
malleabile, plasmabile al suo tocco.
Mi
chiusi in me stessa molto più di come ero prima.
I
giorni erano scanditi da Itachi; le ore mi parevano eternità senza di lui e i
minuti con lui millisecondi che si scappavano dalle mani come sabbia.
Poi
un giorno fu Itachi a venire da me.
Ricordo
che pioveva a dirotto e indossavo stivali di gomma che scricchiolavano sotto i
miei passi.
Itachi
mi fissava come la prima volta, ardentemente, e mi venne incontro. Non mi
abbracciò, né mi toccò; ma mi infuocò lo stesso, con la stessa forza, lo stesso
bisogno, che avevo quando sono nata.
“Bisogna
essere folli per stare con me, Ino.”
Lo
guardai senza aver capito nulla, ma annuii come se sapessi ciò che voleva
dirmi.
“Sì,
folli.”
Itachi
assottigliò gli occhi e girò i tacchi, allontanandosi con passo cadenzato lungo
la strada senza aspettarmi. Interdetta lo ricorsi e gli presi la manica della
giacca.
“Che
hai?” borbottai.
Lui
mi fissò – e questa volta mi gelò.
“Tu non sei folle, Ino.”
Mi
abbandonò così, e io rimuginai e rimuginai sulle sue parole per ore e ore.
Adesso
sono qui e aspetto la morte. Credo che questo sia follia.
Lo
faccio per lui; Itachi lo sa e se ne compiace di come mi ha trasformata, da
ambiziosa egocentrica ex-nazista, che non aveva avuto rimorsi a rinnegare la
sua natura sfidando le occhiate titubanti degli americani, a morbida schiava di
tutto ciò che va contro l’irrazionale.
Durante
la sua mancanza rilessi mille volte le leggende nella mia testa, gridavo per
casa fiondandomi in lacrime addosso al ritratto di Hitler nel salotto, mio
padre mi gridò addosso tutta la sua ira per averlo rotto – l’unico ricordo del
periodo del Grande Splendore – e mi cacciò di casa la freddo. Mi cibai di
rifiuti e chiesi asilo a Sakura, che però mi voltò le spalle, impaurita dai
miei occhi spalancati e dalle guance scavate dal pianto greco delle vedove.
“Sei
pazza.” Mi disse, chiudendomi la porta in faccia. Io, in risposta, fremetti e
le urlai addosso tutte le ingiurie che conoscevo in tedesco, italiano, inglese
e francese, schiacciando i pugni sulla porta.
Ero
pazza davvero? Ora Itachi mi avrebbe tenuto con sé?
Volevo
chiederglielo, ma non sapevo dove trovarlo. Poi, ci fu l’illuminazione.
Il
10 partiva per ritornare alla patria; me lo aveva detto accennando che stava
scontando una pena per i suoi peccati verso la famiglia. La famiglia è molto importante
in Giappone, sai Compratore?
Commisi
quindi la pazzia più grande: quella di raggiungerlo a questo treno.
E
ora lo guardo e lo rivedo, quello sguardo intenso.
Rivedo
i suoi insegnamenti sulla nitroglicerina, sui massacri, sulle leggende. E
quella valigetta che porta in grembo, e che accarezza come fosse un gatto.
So
che sul grembo ha una bomba.
È
un kamikaze un po’ in ritardo, non so perché lo fa, ma di sicuro non ha
importanza; Itachi sta per morire e portarsi mille vite con sé – anche la mia,
che ha già preso da tempo.
Vorrei
scappare, razionalmente.
Ma
ormai, della ragione, non mi fido più.
E
attendo, con quegli occhi sulla nuca, la morte.
Perché?,
forse ti chiederai.
Ecco,
forse questo ti farà cambiare idea e non vorrai più prendere questi ricordi
aggrovigliati fatti di occhi e pazzia.
Ma
questo non ha senso, io non ho senso, né Itachi, né il fatto che proprio un
Giapponese e una Tedesca siano sullo stesso luogo di una strage. Né che si
siano sposati grazie ad un invisibile anello, che li ha legati – oh, anche lui,
sì, anche lui è legato a me. Con
un’empatia che non riesce a reprimere; altrimenti perché i suoi occhi sono di
fuoco anziché di cenere nei miei?
L’unica
cosa che si vedono, sono gli occhi.
Questo
ci basta. Niente parole di addio, niente baci; è un lento soffocare in un mare
sconosciuto e appena schizzato da parole e storie che gli anni ci hanno
tramandato. Surreale.
Il
resto, è polvere e fantasia per chi, qualche leggenda, deve raccontarla per
evadere dalla realtà.
Ribattezza
i tuoi figli, Compratore: in questo mondo, l’amore è dei pazzi.
*^*
[finale
alternativo – senza la scena kamikaze poco probabile]
Adesso
sono qui e aspetto la morte. Credo che questo sia follia.
Lo
faccio per lui; Itachi lo sa e se ne compiace di come mi ha trasformata, da
ambiziosa egocentrica ex-nazista, che non aveva avuto rimorsi a rinnegare la
sua natura sfidando le occhiate titubanti degli americani, a morbida schiava di
tutto ciò che va contro l’irrazionale.
Durante
la sua mancanza rilessi mille volte le leggende nella mia testa, gridavo per
casa fiondandomi in lacrime addosso al ritratto di Hitler nel salotto, mio
padre mi gridò addosso tutta la sua ira per averlo rotto – l’unico ricordo del
periodo del Grande Splendore – e mi cacciò di casa la freddo. Mi cibai di
rifiuti e chiesi asilo a Sakura, che però mi voltò le spalle, impaurita dai
miei occhi spalancati e dalle guance scavate dal pianto greco delle vedove.
“Sei
pazza.” Mi disse, chiudendomi la porta in faccia. Io, in risposta, fremetti e
le urlai addosso tutte le ingiurie che conoscevo in tedesco, italiano, inglese
e francese, schiacciando i pugni sulla porta.
Ero
pazza davvero?
E,
all’improvviso, tutto mi fu chiaro, e venne naturale capire come è naturale essere bagnati dalla luce del sole.
Mefistole,
il demone del Faust, mi aveva sedotta.
E mi chiedeva di ritornare all’origine.
La
Follia era l’etere da cui sono rinata; l’irrazionale ciò a cui dovevo aspirare
per sentirmi viva.
Il
mio attaccamento ad Itachi è tutt’altro che sensato, questo lo avrai intuito,
Compratore. Cos’altro potevo fare se non seguirlo anche se lui mi aveva
allontanata? Dovevo farlo. Per la mia vita.
Perché lui è il mio respiro.
Per
questo sono corsa fino a questo appartamento spogliato di ogni oggetto
occidentale, dove le ombre sono pezzi di storie taciute, quelle tramandate
oralmente e che si snobbano col nomignolo di ‘favolette’.
Ma
è lì, lì dove si la realtà si
incrina, che giace la vera felicità.
Pochi
attimi fa sono corsa fino al suo appartamento, ho aperto senza bussare. So che
Itachi la tiene sempre aperta, senza temere nessuno – loro sono niente.
Ed
ora vacillo, il sudore freddo lungo la schiena, mentre Itachi mi fissa, il the
nella mano destra e nella sinistra un pennello, ruvido, freddo sulla pelle, giallo.
Rabbrividisco.
Sento
qualcosa alla gola, che preme, freddo e tagliente, e so che sono i suoi occhi,
distaccati, lontani – oh no, ti prego, mi togli la vita, sto morendo io…!
Ma
certo. Morte e creazione. Vita e freddo.
Ho
bisogno di morire ancora, ora che so.
Anche se lo ucciderò, così.
“Uchiha.”
Fredda, distaccata, anche se tutto il corpo trema violentemente. “Fammi un
ritratto.”
Lo
vedo.
Lo
osservo mentre appoggia il pennello e si avvicina, un turbamento vivido tra
quelle ombre nei suoi occhi.
È vivo anche lui,
mi dico. In un momento così simile alla morte, perché un artista facendo
nascere la sua creatura muore un po’, è più vivo che mai.
E
sono io, per una volta, il respiro. E
le sue mani, finalmente, mi toccano mentre i peli intrisi di giallo stridono
sulla pelle scoperta della mia spalla.
Gemo,
e Itachi si irrigidisce, abbassandosi fino a che il suo respiro è sul mio
collo, ansimando.
Itachi
sta per morire e portarsi mille vite con sé – quelle degli youkai nel ritratto,
nuovo, e anche la mia, che ha già preso da tempo.
Vorrei
scappare, razionalmente.
Ma
ormai, della ragione, non mi fido più.
E
attendo, con quegli occhi sulla nuca, la morte.
Perché?,
forse ti chiederai.
Ecco,
forse questo ti farà cambiare idea e non vorrai più prendere questi ricordi
aggrovigliati fatti di occhi e pazzia.
Ma
questo non ha senso, io non ho senso, né Itachi, né il fatto che proprio un
Giapponese e una Tedesca. Né che si siano sposati grazie ad un invisibile
anello, che li ha legati – oh, anche lui, sì, anche lui è legato a me. Con un’empatia che non riesce a
reprimere; altrimenti perché i suoi occhi sono di fuoco anziché di cenere nei
miei?
L’unica
cosa che si vedono, sono gli occhi.
Questo
ci basta. Niente parole di addio, niente baci; è un lento soffocare in un mare
sconosciuto e appena schizzato da parole e storie che gli anni ci hanno
tramandato. Surreale.
Il
resto, è polvere e fantasia per chi, qualche leggenda, deve raccontarla per
evadere dalla realtà.
Ribattezza
i tuoi figli, Compratore: in questo mondo, l’amore è dei pazzi.
Personalmente,
avrei messo solo il finale alternativo. È più bello, meno impossibile, più
concludente.
Il
primo posto. Posso dire, con sincerità, che questa fanfic è una delle più
intense che io abbia mai provato a scrivere; io ho provato veramente a
trasmettere qualcosa di forte, di assoluto, di incerto e ignoto.
Chissà,
forse ce l’ho fatta.
Intanto,
complimenti a Roberta, alla El, e alla Ale, le mie compagne di contest. E un grazie a Sangochan88 per il bellissimo contest su questa coppia strepitosa. (L) Crakc rulez! (LLL)
Grazie
a chi a letto; e a chi recensirà.
Scusate
a brevità del commento, ma sto dormendo in piedi XD
Bye
Kaho