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Autore: Kaho    17/11/2008    9 recensioni
{Prima Classificata al contest ItaIno indetto da Sangochan88}
“Ino.” Soffiò lui, insieme ad uno sbuffo di fumo.
Inarcai le sopracciglia. “No, ti hanno detto il falso. Io sono Ilse B – ”
“Ino Yamanaka.” Mi interruppe ancora, osservandomi senza alterazioni. “Mi farai da modella.”
Avrei voluto arrabbiarmi, davvero. Ma non potei. Con quella frase, Itachi mi aveva legata a lui, il primo anello.
Mi aveva battezzata.
E il mio “sì” strozzato fu il mio primo vagito, il saluto alla vita.
Stati Uniti, anni '50, post-guerra. E un'empatia che va al di là del tempo, della razza, dei pregiudizi, che potrebbe far cadere tutte le tue ambizioni.
L'incontro tra una tedesca anticonformista e un artista giapponese.
[Ino/Itachi][AU molto surreale e alternativa.]
Genere: Sovrannaturale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Itachi, Ino Yamanaka
Note: Alternate Universe (AU), OOC | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: I personaggi appartengono a Kishimoto, inutile sperare che siano miei. Uffa.

 

 

 

 

 

Does anybody wanna buy a memory?

 

 

 

Povera Musa, ahimè! Che cos’hai oggi? Infossati

I tuoi occhi traboccano di visioni notturne;

vedo alternarsi, riflessi nel tuo incarnato

la follia e l’orrore, freddi e taciturni.

 

“La Musa Malata”, Charles Baudelaire

 

 

La prima volta che lo vedo veramente è anche l’ultima.

Ma, prima di questa, ci sono stati diversi incontri, che si sono inanellati intrappolandomi, senza che mi accorgessi di nulla, legandomi mani e piedi in una catena di desideri non soddisfatti e attenzioni che si concretizzavano in un caldo, viscido languore che sapeva di cherry e mi scioglieva il petto.

Rivedo tutte queste catene davanti a me, velocemente; e mi ritrovo a pensare che, sì, prima di morire davvero ti appaiono gli istanti di una vita.

Ma quelli che ho davanti sono solo gli attimi che ho vissuto con lui; è forse lui che mi fa sentire viva? O è una associazione del mio cervello dato che osservo il suo volto al di là del vetro sporco del treno?

…sono ridicola, lo so.

Parlo nei miei ultimi istanti come se scrivessi su un pezzo di carta; ma, vedete, non riesco a scappare, e i minuti sembrano immensi.

È come se mi fossi super-potenziata, e riuscissi a pensare mille cose velocemente, tanto che è difficile anche per me metterle  in ordine cronologico: vedo occhi neri, sento nelle orecchie il canto di una voce femminile in una lingua sconosciuta, nelle narici c’è la polvere della stazione, poi un saluto militare esclamato con vigore da mio padre, lo scricchiolio del pennello sulla tela, il sorriso enigmatico della Gioconda sul volto di Itachi e – !

…ma chi vorrebbe comprare delle memorie confuse? Chi si interesserebbe mai a Ino Yamanaka?

Voglio sperare, però, che qualcuno sia in grado di percepire i miei pensieri (quelli di Ino, perché l’altra me non mi appartiene più); io lo credo, perché è tutto il ormai credo in un sacco di cose.

Credo negli youkai giapponesi, nella potenza dell’arte, nell’amicizia, nei compromessi, nelle tragedie tedesche di antico stampo. Nel Faust, in un Dio e in un Diavolo, nel sollievo di un sorriso; e credo in me come Ino.

E non provo tristezza pensando che tra pochi minuti di me non resterà che un misero frammento di carne; se ne rimarrà qualcosa.

Ma rendiamo queste memorie appetitose, deliziamo chi mi ascolta.

 

Ho emesso il mio primo vagito all’età di diciassette anni.

Stavo appoggiata ai cancelli della scuola, sigaretta in bocca e sguardo fisso sulla strada, con il viso indurito e i jeans a vita alta stretti che mi cingevano i fianchi, la pancia lasciata scoperta audacemente da una camicetta a quadretti.

Tutte le ragazze dell’Istituto Superiore Roosevelt mi fissavano inorridite dalla mia baldanza.

Sapevo che molte invidiavano il mio coraggio e l’anticonformismo, ma preferivano le gonne a campana e le camicette da brave ragazze. Erano l’emblema dell’ipocrisia, visto che bastava un bel ragazzo ricco per sbattere gli occhi come civette.

A me, però, tutto questo non interessava.

Ciò che bramavo era essere il centro di quel mondo di cui facevo parte controvoglia, in un Paese che non era il mio e che doveva diventarlo.

Da bambina ero abituata a velluti morbidi e scarpette lucide e smaltate che odoravano di buono e, all’epoca, ero convinta che anche in futuro avrei avuto su di me gli sguardi carezzevoli e orgogliosi di decine di adulti che mi idolatravano quasi fossi Frigg, la regina delle bionde Valchirie e moglie di Asgardhr, dio nordico dei guerrieri.

Ma negli Stati Uniti non ero altro che una ragazza anormale, con l’atteggiamento sbagliato ma soprattutto i natali sbagliati.

Da quando mi ero trasferita nel 1947 nel New Jersey, avevo lavorato duro cinque anni per costruirmi una reputazione. Non era quella di una ragazza innocente,  né di una buona; ma attiravo l’attenzione. E, ben presto, sapevo che avrei incontrato il ragazzo giusto da manipolare, bastava mantenere la postura e la freddezza di una regina, caratteristiche che avevo sin da bambina.

Sarei tornata su un trono, venerata e riverita.

Mi scappò un sorriso, mentre fantasticavo su tutto questo, e la sigaretta barcollò tra le mie labbra; lesta la ripresi e la scostai dalla bocca, increspandola a bacio per espirare il fumo che si dissipò in arabeschi vicino al mio nasino piccolo e dritto.

Il ragazzo che passò di fianco a me rischiò di inciampare e cadere, intento com’era a fissarmi ammaliato.

Risi senza calore, e gli tesi la mano aiutandolo ad alzarsi. Lui scosse la testa, colpito nell’orgoglio da chissà quale mito americano dell’Eroe-che-non-chiede-mai-aiuto, e si alzò ‘virilmente’ da terra con il mento alto, rivolgendomi un cenno secco.

Crucciai le sopracciglia, indispettita. Uomini.

Erano tutti simili; chi ci provava spudoratamente, altri che cercavano invano di nascondere l’ammirazione col disprezzo.

Ilse!”

Mi girai e vidi Sarah avvicinarsi a me, la mano alzata in saluto e un sorriso radioso sul volto. I suoi capelli rossi, dai riflessi così chiari che parevano rosa, si muovevano ancora sulle sue spalle anche se era fermata davanti a me.

Era così graziosa, Sarah, ma così insipida.

Aveva un sorriso troppo dolce, le mani intrecciate sulla cartella di cuoio pulita ti davano l’idea della classica ragazzina cattolica.

Ma non riuscivo a disprezzarla del tutto; trovavo quel suo atteggiamento buonista interessantissimo, vi era uno sfondo di egoismo di cui Sarah non sapeva nulla, ma che l’aveva corrotta dentro.

Accennai ad un sorriso e aprii la bocca, ma mi fermai prima di emette suono.

C’un tratto sentivo gli occhi di qualcuno su di me. E non erano i soliti sguardi; lo sentivo così vicino che mi si mozzò il fiato in gola e le mie mani presero a tremare incontenibilmente, quasi avessi freddo.

Fu quella, infatti, la supposizione di Sarah.

“Ehi Ilse, hai freddo?” domandò premurosa, e un secondo dopo sarcastica aggiunse: “Visto a conciarti come fosse una prostituta? Spero ti serva da lezione!”

Avrei acidamente commentato che non era mia madre, ma non potevo emettere una sola sillaba.

L’avevo trovato, il proprietario di quello sguardo; o meglio, avevo trovato due paia di occhi neri, così neri che perfino le ombre della notte nelle alte pinete della Germania mi sembrarono meno agghiaccianti.

Erano occhi affusolati dal taglio orientale, poggiati su un viso smilzo e delicato, come una bambola di porcellana. Lo sembrava più lui di me e mi vergognai del trucco pesante che mi ero premurata di mettere con dovizie di attenzioni.

Sarah…” Chissà da dove l’avevo tirato fuori il fiato. “Chi è quel ragazzo che è appoggiato laggiù sul muro del droghiere?”

Sarah voltò la testa nella direzione segnata dal mio dito impertinentemente puntato contro lo straniero e arrossì di colpo, abbassando con una mossa repentina sia il mio braccio che la testa.

“Scema, ma sai chi è quello?!”

“No.” ammisi tranquilla, lasciando trapelare la mia curiosità. “Ma tu sembri conoscerlo.”

Io?” Arrossì ancora più furiosamente, scuotendo la chioma d’origine irlandese, per cui era spesso presa in giro (ed era stato questo, ad unirci, da quando l’avevo difesa a spada tratta). “N-no, cioè… va da mio padre a prendere i colori e i materiali per creare le sue tempere. È un giapponese” calcò sulla parola come se fosse difficile da pronunciare. “Ed è qui grazie ad un parente molto ricco, di origine americane.”

“Un giapponese, eh?”

Lo fissai ancora un po’, sorridendo infine all’enigmaticità e imperturbabilità di quel ragazzo, i cui occhi stavano tranquillamente posati su di me, come se non ci fosse nulla di poco dignitoso in questo; come se fossi una dea.

Nel mio stomaco brulicavano mille farfalle per l’emozione improvvisa, vera.

“Un giapponese…

Mi sentii prendere improvvisamente il polso, e il mio braccio venne trascinato dalla forza e al caratteraccio che Sarah nascondeva dietro ai grandi occhioni verdi; con un solo gesto brusco riuscì a farmi voltare completamente e persi di vista il giapponese.

Grugnii, per nulla felice. “Che diamine combini, idiota?!” sbottai irata, cercando di voltare nuovamente il capo e calmare, intanto, i brividi che mi scorrevano lenti lungo la schiena.

Sarah mi prese il mento tra le mani, indifferente a quando equivoco quel gesto potesse risultare agli occhi degli altri studenti che uscivano da scuola, e bloccò il mio sguardo sul suo viso tirato per il nervosismo e l’irritazione.

“L’idiota qui sei solamente tu.” mi riprese, piccata. “Non ti ho detto la cosa più importante…” la sua voce si assottigliò, facendosi confidenziale. “Papà sospetta che suo zio sia Pein, il nuovo malavitoso.”

Al tempo non volli ammettere che questa affermazione mi aveva un po’ spaventato; ricordo bene che feci uno sforzo terribile per non aprire la bocca e girarmi di scatto per guardarlo, come se nei suoi vestiti borghesi un po’ sporchi potessi vedere il volto dell’uomo pieno di piercing e dagli eccentrici capelli arancioni – irlandesi, come sputavano in molti, perfino i negri – che da tempo controllava le nostre vie.

Riuscii a dissimulare la sorpresa con un’espressione di marmo.

“E allora?”

“E allora?!” ribatté Sarah, aggrottando le sopracciglia furente e mollando la presa sul mento per accompagnare con un pugno a mezz’aria il piede, che ricadde sul pavimento con un piccolo tonfo. “Rinuncia a tutto ciò a cui stai pensando a questo momento! Ti conosco troppo bene per non intuire che quel ragazzo ti piace!”

“Non sono affari tuoi.”

Il mio fu un soffio cattivo e gelido, degno del vento del Nord che spirava tra le pinete del mio Paese e, nel momento in cui dissi così, mi resi conto che l’avevo ferita. Gli occhi di Sarah erano troppo facili da leggere, e già si inumidivano, ma per orgoglio non pianse nemmeno una lacrima e io fu davvero fiera di lei, come un’artista che guarda la sua creatura e gioisce internamente.

“Fa un po’ come vuoi.”

Mi diede una spallata e se ne andò, cartella sulle spalle e il profumo dolce e forte che stagnava l’aria ovunque lei andasse.

Perché parlo di Sarah non lo so davvero. O meglio, perché parlo di Sakura, sarebbe la vera questione; forse le volevo veramente bene, e non sono mai riuscita a dirglielo. Spero solo che ora sia lontana da qui.

La lontananza molte volte non è solo fisica. L’ho capito stando con Itachi, la cui distanza è sempre incolmabile fisicamente, eppure lo sento sempre così vicino che avverto sul collo il suo respiro flebile e controllato e, prendendo questa sensazione da non so quale dei miei innumerabili sogni su di lui, le sue labbra sulla pelle che diviene tiepida, per un attimo.

Fu questa stessa sensazione di vicinanza – del tutto irreale, aggiungerei – a farmi voltare la testa quel pomeriggio di settembre e non trovarlo più dove l’avevo lasciato.

E questo mi fece a dir poco innervosire; prima Sarah che faceva la prima donna – quando ero io, quella che poteva fare certe scenate – e gli unici occhi che mi avessero vista davvero, senza materialità, se ne erano fuggiti chissà dove attaccati ad un faccino giapponese.

Sbuffai e mi buttai nel traffico, ignorando i commenti dei passanti accanto a me e proseguendo trafelata verso casa.

Salutai di fretta mio padre, seduto compostamente sul divano di casa intendo a seguire la Sinfonia numero 7 di Beethoven – oh, quanto questo mi ricordava i pizzi della giovinezza e i valzer di antico gusto tanto adorati? – e lui annuì di risposta, aspettando che mi arrestassi davanti a Lui, l’uomo a cui devo il mio esilio da tutto ciò che amavo e che ora giace morto chissà dove.

Mi fermai trattenendo i fremiti di rabbia e alzai il braccio battendo lo stivale contro l’altro, il palmo ben aperto davanti al ritratto di Adolf che stoicamente mi fissava, i lunghi baffi neri ben tagliati sopra la bocca vecchia e sottile.

Mio padre mi lanciò un sorriso affettuoso. Sapevo di averlo reso felice, e mi presi la sfrontatezza di andarmene senza una parola in più.

Se eravamo qui, era colpa di mio padre. Se io mi sentivo così frustrata era colpa sua che non mi trattava più come una principessa. Se non avesse dato retta ad Adolf non avrebbe dovuto elemosinare qualcosa ad un suo vecchio amico – un certo Nara, italiano, ora residente negli Stati Uniti – e io non sarei qui.

Ero sempre stata una tipa rancorosa, ma mai al punto di tenere il broncio per troppo tempo, ero troppo dinamica per farlo; e amavo – amo – mio padre. Anche senza averlo mai perdonato.

Camminai fino in camera mia, sbattei la camicia e i jeans sul pavimento, andai in bagno in intimo a bagnare con sapone e acqua uno straccio e mi rifiondai in camera, passandomi la stoffa sul viso per togliere il fondotinta e il mascara pesante.

Mi affacciai alla finestra, chissà per quale motivo – ma sai, mio adorato Compratore di Memorie, il destino è strano, è un intreccio indefinito che va al di là dell’umana comprensione, che deriva da quel mondo a cui tendiamo senza volerlo e che nello stesso tempo ci atterrisce, dove la ragione non è colei che decide ogni cosa. È la Follia.

E folli mi parvero allora – e ancora ho questa impressione rileggendo i miei ricordi – quegli occhi neri e impenetrabili, così calmi da essere surreali, come fossero soltanto un’ombra, che mi fissavano, scorrendo sul mio corpo scoperto.

Strinsi le gambe d’istinto, trattenendo tra le labbra un gemito di vittoria.

Lui era lì; e in me c’era ammirazione calda e stordente per quel giapponese che sapeva incatenare a sé una creatura col solo sguardo.

Mi precipitai al piano terra, indossai l’impermeabile di mio padre e mi gettai nel vialetto della nostra casa di periferia, correndo per il timore che quella sensazione di leggerezza potesse scomparire come aveva fatto il giapponese a scuola.

Ma invece lui era lì, che mi attendeva fumando.

Diminuii il passo, sia per non sembrare una ragazzina innamorata, sia perché le gambe si erano fatte improvvisamente deboli e malmesse.

“Ciao.” Mi disse, monosillabico.

“Ciao.” Risposi, forzando un sorriso che doveva essere malizioso; ma sono quasi certa che non lo fu. “Piacere io sono – ”

“Ino.” Soffiò lui, insieme ad uno sbuffo di fumo.

Inarcai le sopracciglia. “No, ti hanno detto il falso. Io sono Ilse B – ”

Ino Yamanaka.” Mi interruppe ancora, osservandomi senza alterazioni. “Mi farai da modella.”

Avrei voluto arrabbiarmi, davvero. Ma non potei. Con quella frase, Itachi mi aveva legata a lui, il primo anello.

Mi aveva battezzata.

E il mio “sì” strozzato fu il mio primo vagito, il saluto alla vita.

 

Quello che avviene dopo la nascita, è il crescere.

E, come accade ai bambini, io non mi sono accorta di nulla fino all’ultimo istante, cioè ora.

Non avevo fatto caso che Itachi mi aveva presa con sé, togliendomi dal mondo per farmene scorgere un altro, svezzandomi dalle verità ipocrite.

Che stupida sono stata, a non accorgermi delle sue attenzioni, che spesso reputavo del tutto assenti – e lo pensavo come un’offesa personale – solo perché non mi aveva mai baciata né avevamo mai condiviso lo stesso letto.

Ma non era facile capire quello che Itachi voleva da Ino Yamanaka.

Per la prima settimana mi invitò nel suo appartamento, piccolo e spartano, con strani cuscini che fungevano da sedie e un piccolo servizio da the giapponese, che negli ultimi tempi mi aveva permesso di toccare per preparargli la sua bevanda quotidiana.

Stavamo per ore a fissarci negli occhi; i suoi indugiavano sulla mia figura esposta nella sua completa naturalezza davanti a lui, sui miei capelli biondi che scendevano lungo una spalla coprendo solo un seno, sui fianchi strettissimi da ballerina, il ventre vuoto e le lunghe gambe sottili, di cui vado ancora fiera, così affusolate che mi fanno molto più slanciata di quello che sono – come le zampe di un airone.

Osservava e poi appoggiava il pennello pieno di tempera corposa sulla tela, buttandone qualche pennellata al giorno, senza emette un suono.

Immaginerai, Compratore, quanto questo mi rendesse frustrata. Avere davanti un uomo con il suo sguardo – giuro, è così intenso, anche ora che lo rincontro per gli ultimi minuti, che sento un calore delizioso nel bassoventre – non cedere di fronte alla mia bellezza era un colpo piuttosto duro alla mia vanità.

Inizialmente, per attirare la sua mano su di me, mi smossi brutalmente dalla posizione in cui mi ero arenata per il ritratto. Ma, ovviamente, nonostante lo stratagemma costò uno sforzo enorme ai miei muscoli atrofizzati, non ottenni il risultato voluto e Itachi si limitò a continuare a dipingere come se nulla fosse.

Stronzo.

Continuammo così per giorni, fino a che non eruppi in un grido strozzato, sbattendo il piede a terra, pronta a gridargli in faccia quanto omosessuale fosse per non avere nessun tipo di reazione – o erezione – con davanti una donna completamente nuda alla sua mercé che lanciava segnali piuttosto evidenti.

Ma Itachi mi precedette. Si alzò, mi prese per il polso con la sua mano gelida – e mi convinsi che era per quello che rabbrividivo – e mi portò davanti alla tela.

Mi osservai attentamente.

I capelli della donna del ritratto erano i miei, lunghi e biondissimi, e ricadevano sulle spalle morbidamente. Gli occhi celesti mi fissavano, appena socchiusi in un’espressione goliardica. Le gambe affusolate si riunivano come un’unica, grossa linea.

Ma la cosa più concertante fu lo sfondo; un mondo di demoni che mi fissavano con grandi occhi gialli e denti che squarciavano la tela. A cui io stavo ammiccando, nel quadro.

Sembra che godessi, sotto lo sguardo famelico di quelle bestie.

Suggestione, ecco cosa era quel quadro. Suggestione. Ma, nonostante questo, urlai e scappai via.

Naturalmente, ritornai da Itachi pochi minuti più tardi, a testa bassa.

Ma non posai più per lui, ricordando gli occhi gialli che mi mangiavano dalla tela; né chiesi che fine aveva fatto il quadro, per paura che lo ritirasse fuori e i mostri mi staccassero la testa a morsi davanti allo sguardo compiaciuto dell’artista.

Allora Itachi cominciò a parlarmi delle leggende giapponesi, con lentezza, chiamandomi Ino quando mi vedeva distratta – da lui, ovviamente – di storie senza tempo, di youkai, di alberi di ciliegio e profumi da geisha.

Scivolavo in un mondo di coccole, raccontato più che a parole da grandi foglie schizzati a carboncino, che andava al di là della mia vecchia normalità.

Mi innamorai soprattutto di un suo antenato, un certo Madara Uchiha, che uccise un intero villaggio solo perché amava il sapore del sangue, e che poi si suicidò per aver tradito la patria. Mentre lo schizzava a matita, e rispondeva a monosillabi alle mie curiose domande (spesso ero io che ricostruivo le leggende nella mia testa), sentivo nelle narici l’odore di sangue e di acquaragia, di esplosivo e morte, e le mie dita fremevano per la voglia di toccare Itachi e costringerlo a disegnare più velocemente, ebbra di quella eccitazione irrazionale.

Quando gli chiesi, un giorno, perché mi spiegasse così attentamente ogni dettaglio della sua cultura e dell’arte – sapevo, ormai, tutto su tempere e sugli altri strumenti usati, pure i loro effetti dannosi alla salute e la loro pericolosità – Itachi alzò le spalle nude e socchiuse gli occhi scavati dalle occhiaie profonde.

“Deve avere un senso, se ti tengo qui?”

Io annuii, come se capissi ciò che intendesse, ma in realtà non capivo nulla. Ogni sua frase mi pareva in una lingua sconosciuta.

Quando mi disse: “E’ da folli tentare di entrare a forza nella mente di tutti”, asserii ma la presi come una critica al mio modo di comportarmi a scuola; mi illusi perfino che fosse geloso e presi a vestirmi di più.

Quando mi disse: “Spogliati”, lo feci senza domande e mi esposi all’aria della notte e al suo sguardo, tremando e gemendo come se mi toccasse, ma non era quello che faceva.

Era tutto dannatamente intimo. E senza logica, nessuna.

Ero sempre stata una ragazza capricciosa e impulsiva, ma un certo senno ce l’avevo prima di essere Ino Yamanaka. Avevo pianificato il mio astuto piano per riprendermi il trono di dea negli Stati Uniti, facendo finta di non rimpiangere i tempi in cui papà poteva permettersi tutti i lussi e canticchiava per la nostra villa tedesca l’inno nazionale, intervallandolo a tonanti “Hai, Hitler!” quando incontrava uno degli ospiti.

Eppure, in quel mese che passai con Itachi, non ero più me.

Una bambola, che non rifletteva ma semplicemente imparava da lui, bevendo ogni sua frase come un assetato nel deserto, assimilando i comportamenti meccanicamente.

Piano piano, senza che me ne accorgessi, Itachi era diventato il mio respiro affannoso, mentre correvo un po’ traballante per il mondo, completamente rinata.

Chiamai mio padre “otou-san” e Sarah “Sakura”, e mi sentivo felice solamente con la voce di Itachi che mi addolciva e mi rendeva più malleabile, plasmabile al suo tocco.

Mi chiusi in me stessa molto più di come ero prima.

I giorni erano scanditi da Itachi; le ore mi parevano eternità senza di lui e i minuti con lui millisecondi che si scappavano dalle mani come sabbia.

Poi un giorno fu Itachi a venire da me.

Ricordo che pioveva a dirotto e indossavo stivali di gomma che scricchiolavano sotto i miei passi.

Itachi mi fissava come la prima volta, ardentemente, e mi venne incontro. Non mi abbracciò, né mi toccò; ma mi infuocò lo stesso, con la stessa forza, lo stesso bisogno, che avevo quando sono nata.

“Bisogna essere folli per stare con me, Ino.”

Lo guardai senza aver capito nulla, ma annuii come se sapessi ciò che voleva dirmi.

“Sì, folli.”

Itachi assottigliò gli occhi e girò i tacchi, allontanandosi con passo cadenzato lungo la strada senza aspettarmi. Interdetta lo ricorsi e gli presi la manica della giacca.

“Che hai?” borbottai.

Lui mi fissò – e questa volta mi gelò. “Tu non sei folle, Ino.”

Mi abbandonò così, e io rimuginai e rimuginai sulle sue parole per ore e ore.

 

Adesso sono qui e aspetto la morte. Credo che questo sia follia.

Lo faccio per lui; Itachi lo sa e se ne compiace di come mi ha trasformata, da ambiziosa egocentrica ex-nazista, che non aveva avuto rimorsi a rinnegare la sua natura sfidando le occhiate titubanti degli americani, a morbida schiava di tutto ciò che va contro l’irrazionale.

Durante la sua mancanza rilessi mille volte le leggende nella mia testa, gridavo per casa fiondandomi in lacrime addosso al ritratto di Hitler nel salotto, mio padre mi gridò addosso tutta la sua ira per averlo rotto – l’unico ricordo del periodo del Grande Splendore – e mi cacciò di casa la freddo. Mi cibai di rifiuti e chiesi asilo a Sakura, che però mi voltò le spalle, impaurita dai miei occhi spalancati e dalle guance scavate dal pianto greco delle vedove.

“Sei pazza.” Mi disse, chiudendomi la porta in faccia. Io, in risposta, fremetti e le urlai addosso tutte le ingiurie che conoscevo in tedesco, italiano, inglese e francese, schiacciando i pugni sulla porta.

Ero pazza davvero? Ora Itachi mi avrebbe tenuto con sé?

Volevo chiederglielo, ma non sapevo dove trovarlo. Poi, ci fu l’illuminazione.

Il 10 partiva per ritornare alla patria; me lo aveva detto accennando che stava scontando una pena per i suoi peccati verso la famiglia. La famiglia è molto importante in Giappone, sai Compratore?

Commisi quindi la pazzia più grande: quella di raggiungerlo a questo treno.

E ora lo guardo e lo rivedo, quello sguardo intenso.

Rivedo i suoi insegnamenti sulla nitroglicerina, sui massacri, sulle leggende. E quella valigetta che porta in grembo, e che accarezza come fosse un gatto.

So che sul grembo ha una bomba.

È un kamikaze un po’ in ritardo, non so perché lo fa, ma di sicuro non ha importanza; Itachi sta per morire e portarsi mille vite con sé – anche la mia, che ha già preso da tempo.

Vorrei scappare, razionalmente.

Ma ormai, della ragione, non mi fido più.

E attendo, con quegli occhi sulla nuca, la morte.

Perché?, forse ti chiederai.

Ecco, forse questo ti farà cambiare idea e non vorrai più prendere questi ricordi aggrovigliati fatti di occhi e pazzia.

Ma questo non ha senso, io non ho senso, né Itachi, né il fatto che proprio un Giapponese e una Tedesca siano sullo stesso luogo di una strage. Né che si siano sposati grazie ad un invisibile anello, che li ha legati – oh, anche lui, sì, anche lui è legato a me. Con un’empatia che non riesce a reprimere; altrimenti perché i suoi occhi sono di fuoco anziché di cenere nei miei?

L’unica cosa che si vedono, sono gli occhi.

Questo ci basta. Niente parole di addio, niente baci; è un lento soffocare in un mare sconosciuto e appena schizzato da parole e storie che gli anni ci hanno tramandato. Surreale.

Il resto, è polvere e fantasia per chi, qualche leggenda, deve raccontarla per evadere dalla realtà.

Ribattezza i tuoi figli, Compratore: in questo mondo, l’amore è dei pazzi.

 

*^*

 

[finale alternativo – senza la scena kamikaze poco probabile]

 

 

 

Adesso sono qui e aspetto la morte. Credo che questo sia follia.

Lo faccio per lui; Itachi lo sa e se ne compiace di come mi ha trasformata, da ambiziosa egocentrica ex-nazista, che non aveva avuto rimorsi a rinnegare la sua natura sfidando le occhiate titubanti degli americani, a morbida schiava di tutto ciò che va contro l’irrazionale.

Durante la sua mancanza rilessi mille volte le leggende nella mia testa, gridavo per casa fiondandomi in lacrime addosso al ritratto di Hitler nel salotto, mio padre mi gridò addosso tutta la sua ira per averlo rotto – l’unico ricordo del periodo del Grande Splendore – e mi cacciò di casa la freddo. Mi cibai di rifiuti e chiesi asilo a Sakura, che però mi voltò le spalle, impaurita dai miei occhi spalancati e dalle guance scavate dal pianto greco delle vedove.

“Sei pazza.” Mi disse, chiudendomi la porta in faccia. Io, in risposta, fremetti e le urlai addosso tutte le ingiurie che conoscevo in tedesco, italiano, inglese e francese, schiacciando i pugni sulla porta.

Ero pazza davvero?

E, all’improvviso, tutto mi fu chiaro, e venne naturale capire come è naturale essere bagnati dalla luce del sole.

Mefistole, il demone del Faust, mi aveva sedotta. E mi chiedeva di ritornare all’origine.

La Follia era l’etere da cui sono rinata; l’irrazionale ciò a cui dovevo aspirare per sentirmi viva.

Il mio attaccamento ad Itachi è tutt’altro che sensato, questo lo avrai intuito, Compratore. Cos’altro potevo fare se non seguirlo anche se lui mi aveva allontanata? Dovevo farlo. Per la mia vita. Perché lui è il mio respiro.

Per questo sono corsa fino a questo appartamento spogliato di ogni oggetto occidentale, dove le ombre sono pezzi di storie taciute, quelle tramandate oralmente e che si snobbano col nomignolo di ‘favolette’.

Ma è , lì dove si la realtà si incrina, che giace la vera felicità.

Pochi attimi fa sono corsa fino al suo appartamento, ho aperto senza bussare. So che Itachi la tiene sempre aperta, senza temere nessuno – loro sono niente.

Ed ora vacillo, il sudore freddo lungo la schiena, mentre Itachi mi fissa, il the nella mano destra e nella sinistra un pennello, ruvido, freddo sulla pelle, giallo.

Rabbrividisco.

Sento qualcosa alla gola, che preme, freddo e tagliente, e so che sono i suoi occhi, distaccati, lontani – oh no, ti prego, mi togli la vita, sto morendo io!

Ma certo. Morte e creazione. Vita e freddo.

Ho bisogno di morire ancora, ora che so. Anche se lo ucciderò, così.

“Uchiha.” Fredda, distaccata, anche se tutto il corpo trema violentemente. “Fammi un ritratto.”

Lo vedo.

Lo osservo mentre appoggia il pennello e si avvicina, un turbamento vivido tra quelle ombre nei suoi occhi.

È vivo anche lui, mi dico. In un momento così simile alla morte, perché un artista facendo nascere la sua creatura muore un po’, è più vivo che mai.

E sono io, per una volta, il respiro. E le sue mani, finalmente, mi toccano mentre i peli intrisi di giallo stridono sulla pelle scoperta della mia spalla.

Gemo, e Itachi si irrigidisce, abbassandosi fino a che il suo respiro è sul mio collo, ansimando.

Itachi sta per morire e portarsi mille vite con sé – quelle degli youkai nel ritratto, nuovo, e anche la mia, che ha già preso da tempo.

Vorrei scappare, razionalmente.

Ma ormai, della ragione, non mi fido più.

E attendo, con quegli occhi sulla nuca, la morte.

Perché?, forse ti chiederai.

Ecco, forse questo ti farà cambiare idea e non vorrai più prendere questi ricordi aggrovigliati fatti di occhi e pazzia.

Ma questo non ha senso, io non ho senso, né Itachi, né il fatto che proprio un Giapponese e una Tedesca. Né che si siano sposati grazie ad un invisibile anello, che li ha legati – oh, anche lui, sì, anche lui è legato a me. Con un’empatia che non riesce a reprimere; altrimenti perché i suoi occhi sono di fuoco anziché di cenere nei miei?

L’unica cosa che si vedono, sono gli occhi.

Questo ci basta. Niente parole di addio, niente baci; è un lento soffocare in un mare sconosciuto e appena schizzato da parole e storie che gli anni ci hanno tramandato. Surreale.

Il resto, è polvere e fantasia per chi, qualche leggenda, deve raccontarla per evadere dalla realtà.

Ribattezza i tuoi figli, Compratore: in questo mondo, l’amore è dei pazzi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Personalmente, avrei messo solo il finale alternativo. È più bello, meno impossibile, più concludente.

Il primo posto. Posso dire, con sincerità, che questa fanfic è una delle più intense che io abbia mai provato a scrivere; io ho provato veramente a trasmettere qualcosa di forte, di assoluto, di incerto e ignoto.

Chissà, forse ce l’ho fatta.

 

Intanto, complimenti a Roberta, alla El, e alla Ale, le mie compagne di contest. E un grazie a Sangochan88 per il bellissimo contest su questa coppia strepitosa. (L) Crakc rulez! (LLL)

Grazie a chi a letto; e a chi recensirà.

Scusate a brevità del commento, ma sto dormendo in piedi XD

 

Bye

Kaho

  
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