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Autore: Alaska__    07/01/2015    2 recensioni
( • Long • OCs • District 6 • 56th Hunger Games • )
Cinquantadue anni dopo i Giorni Bui l'idea di rivolta sembra quasi un'utopia. Il popolo di Panem è straziato, piegato sotto i macigno del regime di Snow, costretto, ogni anno, ad assistere a ventiquattro ragazzini che si ammazzano l'un l'altro in un'Arena.
Eppure, nel Distretto 6, uno dei più dimenticati della nazione, qualcosa sta nascendo, grazie a quattro ragazzini stanchi di vedere il loro popolo costretto a tanto dolore e desiderosi di vendetta.
Questa è la loro storia.
È la storia di Franziska e Igor, i due gemelli che vogliono assicurare un futuro migliore al loro fratellino; di Aaron, i cui genitori sono stati giustiziati pochi giorni dopo la loro misteriosa fuga dal Distretto 6; di Jimmy, il figlio del sindaco, stanco del regime oppressivo di Capitol City e desideroso di poter avere un vero rapporto con suo padre.
Sono quattro ragazzini che si sentono invincibili, che sanno di poter cambiare le sorti di Panem. Ma il male c'è sempre, ed è dietro l'angolo e loro dovranno affrontare mille ostacoli.
Nel frattempo, le Mietiture si susseguono, una dopo l'altra... e le loro vite potrebbero cambiare. Per sempre.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate, Vincitori Edizioni Passate
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sparks. '
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CAPITOLO II
 
Ghosts

 
 
« Où t’es? Papaoutai?
[…]
Tout le monde sait comme on fait des bébés,
Mais personne sait comme on fait des papas.»
-Stromae ; “Papaoutai”

 
 
I polmoni gli bruciavano per il gelo penetrante, mentre correva verso la casa di Carine ad una velocità che avrebbe steso chiunque dopo pochi metri.
Igor correva, con il vento che gli soffiava nelle orecchie e l’immagine del cadavere del padre stampata in mente, come se qualcuno l’avesse incollata dinnanzi ai suoi occhi per fargliela vedere per sempre.
La prima sensazione avuta vedendo il corpo privo di vita di Warwick era stata di disgusto. Non pena, non compassione, non tristezza per aver perso un padre. Si era sentito assalire da un conato di vomito che a stento aveva trattenuto, nel vedere tutto quel sangue, ma nessun’altra emozione si era insidiata nel suo animo.
Freddezza.
Si sentiva freddo come le temperature, quel giorno, un pupazzo di neve fatto di carne e sangue, ma senza sentimenti da donare a quell’uomo che si era tagliato le vene nella vasca da bagno.
Mentre correva a perdifiato, Igor poteva sentire ancora i plic del sangue che cadeva sulle piastrelle già poco pulite del bagno, formando una chiazza vermiglia che gli aveva fatto venire quasi male agli occhi al solo guardarla troppo intensamente.
Di suo padre – suo padre – non gli era importato un bel niente. Come un assassino che si prepara per abbattere la preda, Igor aveva ragionato in modo rapido per cercare una soluzione a tutto quel dilemma. L’unica cosa che voleva era portare via quel corpo freddo e sanguinante, il corpo di colui che lo aveva concepito insieme a sua madre senza mai, tuttavia, essere un bravo padre. Ormai, Warwick Madison l’anima non l’aveva più da tempo e nell’apprendere della sua morte, Igor si era chiesto se sarebbe diventato anche lui così: un fantasma quasi invisibile, che vagava silenziosamente per una casa vuota, senza curarsi per nulla di ciò che gli accadeva intorno. Nel sentire quell’improvvisa freddezza assalirlo, aveva avuto la conferma che lui e suo padre erano più simili di quanto pensasse.
Mentre i piedi si muovevano ormai per inerzia, giunto quasi alla casa di Carine, poteva sentire quasi una risata – quella di suo padre, quella che lui non aveva mai sentito, ma che avrebbe tanto voluto entrasse nelle sue orecchie, specialmente quando era un bambino con un bisogno disperato di avere una figura genitoriale maschile accanto. Gli era capitato, svariate volte, di volerlo sbattere al muro, prenderlo a schiaffi fino a farlo rinsavire, per ricordargli che lui era suo figlio – il suo bambino – quello che lui avrebbe dovuto proteggere da tutto e da tutti, non lasciarlo da solo.
Le parole che sua madre aveva pronunciato poco prima di morire - «prendetevi cura di Deryck. Siete gli unici che potete farlo» - avevano acquistato finalmente un senso appena dopo la morte della donna, quando Warwick  - già all’epoca freddo e con istinti poco paterni, tanto che Igor non aveva mai avuto nemmeno una carezza da lui – si era all’improvviso dimenticato di quelle tre creature che abitavano nella sua casa.
Rallentò il passo, non appena la porta della casa che Carine condivideva con la sua famiglia si materializzò dinnanzi ai suoi occhi. Persino dall’esterno, quella modesta abitazione faceva intuire quanto amore vi fosse all’interno, quanto coloro che ivi vivevano condividessero dei gesti d’affetto. Trasudava gentilezza da ogni parete, quel luogo, per quanto rovinato fosse, come ogni casa del Distretto 6. L’intonaco bianco e pacchiano sembrava tingersi dei colori dell’arcobaleno, ogni volta che Igor rivolgeva gli occhi a quel nido d’amore e di famiglia che per anni aveva frequentato alla ricerca di un padre, di un abbraccio, di un po’ di affetto che non fosse quello della sorella o di Deryck.
Bussò con premura alla porta lignea, sentendo le dita e le nocche – anchilosate dal freddo – dolere per quel semplice gesto. Normalmente, non avrebbe mai bussato a quel modo, ma aveva fretta di portare via Warwick da casa sua, eliminare definitivamente la sua presenza da quelle quattro mura decadenti che ancora si ostinava a considerare come un nido sicuro per lui, Franziska e Deryck.
La porta si aprì dopo pochissimi secondi e sull’uscio comparve la figura di Edmure – il marito di Carine. Vedendo l’uomo che per anni aveva supplito alla figura di padre che Igor non aveva mai avuto, desiderò abbracciarlo e dirgli che finalmente era finito tutto, che Warwick se n’era andato per sempre e lui non avrebbe mai più dovuto dormire con Deryck per paura che gli succedesse qualcosa.
L’uomo lo accolse con il solito sorriso gentile e i capelli sparati in aria, ma l’espressione bonaria e generosa lasciò spazio a quella preoccupata e seria che assumeva sempre in momenti di grande tensione o quando era particolarmente concentrato.
«Igor…» Il suo nome sembrava più una richiesta di spiegazioni che un saluto e il quattordicenne non gli dava torto. Doveva sembrare devastato con i capelli arruffati, il volto rosso per lo sforzo e il corpo sudato che tremava per i brividi freddi.
«C’è Igor?»
Il ragazzo sentì i passi affrettati di Carine giungere verso la porta. La donna arrivò accanto al marito con uno strofinaccio che stava usando per asciugarsi le mani screpolate e un grembiule abbastanza sporco legato in vita e con un nodo sulla nuca.
«Cos’è successo?» La voce di Edmure tremava, mentre si abbassava di poco con la schiena per guardare Igor negli occhi. Il quattordicenne aveva ancora il fiatone e faticava a parlare. Mai prima di allora gli era capitato di dover annunciare la morte di qualcuno e si rese conto solo in quell’istante di quanto dovesse essere difficile. Warwick contava per Edmure e Carine quanto contava per lui, quindi non doveva essere difficoltoso, eppure la lingua sembrava essergli diventata di marmo.
«Franziska e Deryck stanno bene?» Carine, lo strofinaccio stretto in una mano, si affiancò al marito, preoccupata.
Igor scosse la testa in segno di diniego, per poi fare un respiro profondo. «Stanno… stanno bene». Indugiò sulle parole da usare, indeciso. Prima di correre fuori non si era nemmeno assicurato se Franziska stesse davvero bene, dopo aver trovato il cadavere di Warwick. Era conscio del fatto che per lei valesse tanto quanto per lui – ovvero nulla – ma scoprire un corpo privo di vita non doveva essere per niente una bella visione – lui stesso lo aveva provato sulla sua pelle pochi minuti prima, quando la gemella lo aveva chiamato.
«Allora cos’è successo? Vi sta andando a fuoco la casa? Vi hanno rubato qualcosa?» Edmure sembrava essersi fatto più tranquillo, dopo aver appurato che due dei suoi tre protetti stavano bene e anche il terzo – lì sulla porta di casa sua – non stava male, seppur sconvolto. Lo stesso valeva per Carine, che aveva tirato un lungo sospiro di sollievo.
Ancora una volta, Igor scosse la testa. «No. Warwick. È morto».
Lo annunciò con voce atona, come se colui che avesse visto il corpo dell’uomo fosse stato qualcun altro, un altro Igor, un ragazzino diverso che non conosceva nessun Warwick.
I suoi interlocutori spalancarono gli occhi e Carine portò una mano alla bocca. Edmure mormorò un’imprecazione, grattandosi la testa.
«Com’è successo?»
«Ha deciso che era ora di andarsene e si è tagliato le vene».
Edmure mormorò qualcos’altro, che suonava come un «quell’idiota», ma poteva anche benissimo essere qualche insulto peggiore. Tra l’uomo e Warwick non era mai corso buon sangue, nonostante avesse tentato numerose volte di socializzare con lui. La colpa era sempre del Madison, che sembrava voler bene solo alla moglie e guardava male chiunque le si avvicinasse troppo – persino i suoi figli, i pargoletti tanto adorati da Grace.
«Edmure, chiama i ragazzi». Decisa e con tono perentorio, Carine diede quest’ordine a suo marito, slegandosi il grembiule e gettandolo malamente sul pavimento del salotto, prima di uscire – priva di qualsiasi indumento per proteggersi dal freddo – e prendere Igor per un braccio.
«Io inizio ad andare con Igor» aggiunse. Il marito annuì, lanciandole la giacca appesa sull’attaccapanni. Fatto questo, si girò ed esclamò a gran voce i nomi dei suoi tre figli.
Carine e Igor iniziarono ad andare verso casa del ragazzo, veloci come due fulmini nel buio della sera. I lampioni che fiocamente illuminavano le strade facevano sembrare il luogo ancora più lugubre di quanto già alla luce del giorno non fosse, e il freddo pungente non faceva che aumentare quella sgradevole sensazione.
«Allora, cos’è successo di preciso?»
Carine si allacciò la giacca, mentre camminava spedita, quasi più veloce del quattordicenne accanto a lei.
«Siamo stati in giro tutto il pomeriggio e quando siamo tornati, Franziska è andata in bagno per preparare un po’ di acqua calda per Deryck, che era tutto gelato». Il ragazzo tirò su con il naso, sentendo che il raffreddore lo avrebbe ben presto indebolito. «E lì lo ha trovato. Si è fatto saltare le vene con una lametta».
Evitò di inserire il dettaglio più sconvolgente e macabro; quel “Grace” scritto con il sangue sul muro. Forse avrebbe dovuto dirglielo, ma Carine era già abbastanza sconvolta senza bisogno che lui le raccontasse quel particolare orribile riguardante la sua migliore amica – anche se sotto certi punti di vista sarebbe potuto sembrare romantico. Igor, però, lo aveva interpretato come la fine di un’ossessione, quella che per Warwick Madison era stata Grace.
«Franziska sta bene? E Deryck?» Gli occhi di Carine dardeggiarono in direzione del giovane.
«Credo di sì. Almeno, Franziska sì, mi sembrava leggermente sconvolta, ma sono corso via subito. E a Deryck penso lo abbia detto lei adesso».
Dette queste parole, tra loro calò il silenzio, rotto solo dal fruscio dei loro passi sull’asfalto malmesso della strada e da qualche rumore.
Il buio era ormai calato e di lì a poco il coprifuoco avrebbe dato loro ben poche possibilità di starsene in giro. Igor sperò solo che i Pacificatori chiudessero un occhio almeno per i lutti familiari, anche se i loro occhi erano perennemente coperti dai caschi che portavano sempre in testa – quasi non volessero far vedere il loro volto a chi uccidevano o semplicemente alla popolazione.  
Giunsero a casa Madison pochi minuti dopo, infreddoliti e agitati. Igor precedette Carine sui gradini di casa, aprendo la porta con tale foga che temette di scardinarla.
Il salotto era rimasto così come l’aveva lasciato, eccezion fatta per Franziska e Deryck, in piedi accanto alla poltrona.
«Carine!»
Le labbra della donna si incurvarono in un sorriso rassicurante, prima che aprisse le braccia per accogliere Franziska in un abbraccio e, dopo di lei, Deryck.
«State bene?» domandò, accovacciata accanto al più piccolo dei tre fratelli e stringendolo a sé. Il bambino si limitò ad annuire, appoggiando la guancia sulla sua spalla.
«Sì. Sto bene». Franziska si mise le mani sui fianchi, guardando il salotto come se da un momento all’altro dovesse comparire qualcun altro. «Un po’… nauseata. C’è un odore di sangue da far schifo» aggiunse a denti stretti, con aria più arrabbiata che disgustata.
«Adesso sistemiamo tutto». Carine si alzò, slacciando la giacca e appoggiandola accanto a quelle degli abitanti della casa. «Edmure e i ragazzi dovrebbero essere qui a momenti».
Non fece nemmeno in tempo a finire la frase, che dalla strada si udì uno scalpiccio pesante, quasi una mandria di tori stesse arrivando verso l’abitazione. Si trattava solo di Edmure, seguito dai tre figli suoi e di Carine – tutti e tre più grandi dei gemelli. Il gruppetto salì di corsa le scale di casa, e non appena vide Franziska, Edmure l’abbracciò con foga.
«Stai bene? E tu, Deryck?»
Il piccolo si avvicinò a lui, aggrappandosi alla sua gamba.
Una fitta di dolore percorse il cuore già pieno di cerotti di Igor, che sentì le gambe diventargli di gelatina, mentre osservava il suo fratellino che si aggrappava ad Edmure come ogni bambino normale avrebbe dovuto fare con suo padre. Si rivide così tanto in quel gesto – quello che anche lui, anni prima, aveva compiuto con quello stesso uomo – che fu costretto a distogliere lo sguardo.
«Come procediamo? Sapete, non ho mai tirato via un corpo dalla mia vasca da bagno» esordì il quattordicenne dopo qualche istante, le braccia conserte e l’aria seccata. Gli sarebbe piaciuto che la serata concludesse in quella maniera, con tutti che si abbracciavano e consolavano, ma non vedeva l’ora di sbarazzarsi del cadavere di Warwick e gettarlo nella nuda terra.
«Tom ora andrà al Palazzo di Giustizia per il certificato di morte». Edmure lanciò uno sguardo al più grande dei suoi figli, che annuì, prima di uscire di corsa dal salotto e andare verso il centro del potere del Distretto 6, aperto per ogni evenienza fino allo scattare del coprifuoco.
«Cerchiamo di spostare il corpo dalla vasca, intanto, noi». L’uomo fece un cenno con l’indice della mano destra, indicando tutto il gruppetto al gran completo. «Franziska e Carine, voi state con Deryck».
«No!»
A parlare era stata la quattordicenne, e Igor quasi sorrise. Sapeva per certo che lei non si sarebbe mai messa seduta tranquilla, in momenti come quello.
«Non ce la faccio a stare seduta» addusse a mo’ di spiegazione, spostando una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio.
Edmure annuì, senza contestare la parola della ragazzina. «Allora andiamo» concluse, dirigendosi verso le scale.
La voce di Igor si levò dal fondo del gruppetto: «E possa la buona sorte sempre essere a nostro favore».
 
 
*
 
 
Sembrò passare tutto in un lampo.
Franziska aveva osservato ogni scena come una spettatrice esterna, quasi quello che fosse morto non fosse Warwick – suo padre, sangue del suo sangue.
Il corpo fu tirato fuori dalla vasca da bagno, freddo e bagnato, mentre i primi cenni della decomposizione si mostravano a chi lo guardava tramite una lieve sfumatura blu della sua pelle. Ogni gesto della quattordicenne era stato meccanico, come se qualcuno da una macchina la controllasse. Stette ferma, mentre Edmure e i suoi due figli sollevavano il cadavere gocciolante di acqua e sangue e lo posavano sul pavimento, adagiato su un asciugamano. Nemmeno la nudità dell’uomo sembrò turbare la ragazza – quella nudità che, normalmente, avrebbe fatto arrossire qualunque quattordicenne.
Di tanto in tanto, i suoi occhi correvano a cercare la figura di suo fratello, che, immobile, osservava la scena, il volto pallido e l’espressione quasi malaticcia – forse, si disse Franziska, l’odore di sangue gli dava fastidio.
Passarono i minuti, finché non entrò Tom nel bagno, accompagnato da un paio di uomini. Uno – la ragazza lo riconobbe – era la cosa più simile ad un medico che avessero al Distretto 6. Sapeva qualche semplice concetto di medicina ed era il marito della farmacista. Tutti lo consideravano una specie di guru, di guaritore, e, in effetti, quell’uomo di miracoli ne faceva parecchi, quando aggiustava le ossa e le ustioni di coloro che si facevano del male durante il lavoro.
In realtà, esisteva anche un medico molto più professionale, che aveva studiato nella migliore accademia di medicina di Capitol City; tuttavia, quasi nessuno al Distretto dei trasporti poteva permetterselo, se non i Vincitori e i ricchi in generale.
Con fare professionale, il medico si abbassò verso il corpo di Warwick e gli tastò il collo – nonostante fosse palese che Madison fosse morto. Dopo aver premuto leggermente il medio e l’indice della mano destra laddove avrebbe dovuto sentire il battito cardiaco del morto, il dottore si alzò e lo osservò.
«Direi che è morto da almeno due ore, due ore e mezza» concluse la sua analisi, guardando ora Franziska, ora Igor – come se ai due importasse qualcosa. «Dissanguato, a giudicare da queste ferite» aggiunse, l’indice rivolto ai polsi dell’uomo.
«Non l’avrei mai detto» commentò Igor a denti stretti, guardando il cadavere con astio. Franziska, dal canto suo, non sapeva cosa dire.
Sentiva il vuoto più assoluto, aveva l’impressione di essere una bambola – all’apparenza alla persona, ma aprendola non si sarebbe trovato nulla.
La tristezza non voleva saperne di farsi sentire, così come la rabbia. Solo vuoto, come se non avesse davanti un morto, ma una persona qualsiasi.
Più preoccupante di questa indifferenza, era anche lo strano senso di felicità che aveva fatto capolino nel suo cuore. Si sentiva libera da alcune corde invisibili che l’avevano stretta fino a quel momento e persino l’ambiente intorno a lei – seppur intriso ancora dello sgradevole tanfo di sangue – sembrava più accogliente, un po’ più caldo, come mai non era stato fino a quel momento. Negli anni addietro, ogni volta che Franziska entrava in casa, sentiva una sensazione di gelo invaderla. Poteva essere estate, primavera, ma lei percepiva brividi correrle lungo la spina dorsale, scuotendola.
Su un libro che lei custodiva gelosamente in camera sua, era scritto che quando una persona provava dei brividi improvvisi – malgrado il caldo – era perché la morte gli stava passando accanto. Quella frase all’apparenza innocua aveva scatenato in lei una serie di emozioni contrastanti. Si era immedesimata a tal punto, in quel passaggio, perché sapeva che parlava di lei. Warwick aveva perso tutto ciò che lo rendeva vivo il giorno che Grace era morta; e anche prima, quando la moglie aveva le guance arrossate e il sorriso felice in volto, l’uomo sembrava un fantasma, che si svegliava solo quando stava con la donna che amava.
«Il corpo lo lasceremo qui fino a domani pomeriggio, quando avverrà il funerale. Ho già chiamato alcuni collaboratori, mi aiuteranno a prepararlo per domani». A parlare era stato l’assessore distrettuale che si occupava delle pratiche dei funerali – il Becchino, lo chiamavano in giro. Sembrava portarsi sempre la morte appresso, con quel volto cinereo e il corpo magro come uno stuzzicadenti.
«Bene. A che ora?» domandò Franziska, le braccia conserte e lo sguardo ancora rivolto al cadavere.
«Penso verso le due e mezza. Prima è bene allestire una camera ardente per chi vuole salutarlo. E dimenticavo, devo farvi comprare una bara» gli occhi dell’uomo continuavano a guizzare da un lato all’altro della stanza, agitato, «se potete permettervela».
«Certo. Ho i soldi che straripano dalle mie tasche» borbottò Igor. «No, va bene così. Io i soldi per questo qua non li spendo e non ne ho nemmeno abbastanza».
Guardò suo fratello, Franziska, le sue spalle curve e i muscoli tesi. I capelli biondo scuro erano spettinati, gli occhi verdi carichi di rancore. Eppure, la ragazza rivide il bambino di pochi anni prima, quello che per anni era stato la sua spalla, quello che la sera che la mamma era morta aveva dormito abbracciato a lei, senza piangere – ma Franziska, alcune sere dopo, lo aveva visto con gli occhi lucidi e una gota rigata da una lacrima solitaria, silenzioso come sempre.
«Igor…» Quella di Edmure sembrava più una preghiera, che un rimprovero. Il quattordicenne non diede segno di aver sentito, ma la sua mascella si contrasse; le mani erano ficcate nelle tasche dei pantaloni logori, la pelle ancora pallida.
«Non vogliamo una bara. Va bene così» concluse Franziska, notando l’espressione attonita sul volto del Becchino. «Grazie mille». Sorrise, nel tentativo di apparire riconoscente, ma era conscia del fatto che quel sorriso paresse più una smorfia.
Il Becchino annuì, prima di fare cenno ad uno dei suoi collaboratori di coprire il cadavere con un lenzuolo bianco, perfettamente immacolato.
«Lo trasportiamo nella sua stanza per prepararlo e allestire la camera ardente. Voi, nel frattempo, potete stare tranquilli e riprendervi dallo shock». Parlò con voce atona, morta come quelle persone con cui lui stava a stretto contatto. Detto questo, i suoi seguaci – al Distretto chiamati da tutti I Discepoli del Becchino – sollevarono il corpo e lo portarono via.
Né Igor né Franziska proferirono parola. Poi, le loro iridi così identiche si incontrarono in una danza di sguardi confusi e la ragazza seppe immediatamente cosa pensava suo fratello.
Dovevano ripulire il bagno, mettere a letto Deryck e ringraziare Edmure, Carine e i ragazzi. Se Il Becchino poteva restare fuori anche dopo il coprifuoco, i Pacificatori non sarebbero stati altrettanto clementi con loro.
Scesero, dunque, nel salotto. Deryck, sdraiato sul divano, si era addormentato con il capo poggiato sulle gambe di Carine. La donna gli carezzava i capelli distrattamente, mentre lo scassato televisore che un tempo usava solo Warwick era acceso, sintonizzato sul canale di Capitol City, che, come sempre, trasmetteva i soliti programmi idioti della serata – per una volta, l’elettricità non li aveva abbandonati, facendo funzionare l’apparecchio.
«Avete finito?» Carine si girò verso di loro, parlando a voce bassa per non svegliare il bambino accoccolato accanto a lei.
Edmure annuì. «Il Becchino lo sta sistemando. Vuole preparare una camera ardente». Le ultime parole furono accompagnate da un cenno delle sue dita, che mimarono due invisibili virgolette.
Franziska fece una smorfia, cacciando indietro un ciuffo di capelli che le era sfuggito dalla coda. Chiamarla camera ardente era troppo. Nessuno sarebbe andato a dare l’ultimo saluto a Warwick – i più, forse, sarebbero stati alcuni dei suoi ipocriti compagni di classe, ma Franziska sapeva che non sarebbero comunque andati. Lei e Igor non erano particolarmente apprezzati dalla gente, così come il padre. I suoi geni si facevano sentire, nei momenti in cui dovevano socializzare con qualcuno.
Tale padre, tali figli.
Warwick Madison non aveva amici, se non qualche compagno di sbronze e – forse – di droga. Franziska non se n’era mai interessata. Per lei, suo padre era morto da anni, non solo da quella sera.
«Grazie di tutto» mormorò, stringendo il braccio ad Edmure, che, per tutta risposta, la strinse a sé con vigore, prima di fare lo stesso anche con Igor.
«Volete dormire da noi, questa sera?»
Carine scostò piano la testa di Deryck dalle sue gambe, svegliandolo. Il bambino sbatté più volte le palpebre, intontito, prima di stropicciarsi gli occhi e guardarsi intorno con aria stranita.
Fattagli un’ultima carezza sui capelli arruffati, Carine si alzò dal divano, dirigendosi verso il gruppetto.
«Tranquilla. Stiamo qui, siete già stati troppo gentili». Igor sorrise, questa volta, abbracciando Carine. «Io e Lala dobbiamo pulire il bagno, e poi la vostra casuccia non può ospitarci tutti».
La donna gli fece una carezza sulla guancia, prima di scoccargli un bacio in fronte. Dopodiché, si girò verso Franziska e la raggiunse, stringendola a sé.
«Grazie, Carine, grazie davvero» sussurrò la ragazza, cingendo la vita della signora con le braccia.
«Per qualunque cosa, chiamateci. Ci vediamo domani mattina, passerò a dare un’occhiata».
Gli ultimi saluti si conclusero in fretta, ma Franziska avrebbe voluto che non se ne andassero. Era la stessa sensazione che provava ogni volta che lei e Igor andavano a casa di Carine e Edmure: si sentivano in famiglia, come se i loro genitori fossero quei due, e non Grace e Warwick, una lapide di pietra e un fantasma.
Quando la porta si chiuse dietro di loro, la ragazza avrebbe voluto riaprirla, urlare a Carine di non andarsene, perché il giorno dopo sarebbero cominciati i veri problemi. Non avevano più nessuno, loro, e se prima si salvavano dall’andare all’istituto per il rotto della cuffia, ora non avevano più scuse. Il loro ultimo genitore era morto, erano rimasti in tre minorenni. Per quanto Franziska e Igor se la sapessero già cavare autonomamente, per la legge restavano ancora due ragazzini di quattordici anni con un particolare fiuto per i guai e due genitori sotto terra.
Sentì un brivido freddo, nel pensare ai volti di coloro che vivevano all’orfanotrofio. Magri, scavati, occhi persi nel vuoto: erano fantasmi, come suo padre. Nessuno di loro era felice, e quando camminavano per i grigi corridoi della scuola, sembravano portarsi dietro un alone nero che lasciava tristezza dovunque passassero.
Fu il volto insonnolito del suo fratellino a farla riprendere dai suoi pensieri.
Deryck si era alzato dal divano e camminava verso di lei, stropicciandosi gli occhi stanchi.
«Hai sonno, nanerottolo?» domandò, con falsa allegria nella voce. Il piccolo annuì e portò una mano all’altezza dello stomaco, massaggiandoselo.
«Sonno e fame, anche» rispose, sbadigliando sonoramente.
Si ricordò solo in quel momento, Franziska, che né lei né i suoi fratelli avevano mangiato, quella sera, presi com’erano da tutti quegli eventi. La visione del sangue le aveva quasi fatto passare la fame, ma il suo stomaco – grazie a Deryck che glielo ricordò – mandò un sonoro brontolio.
«Sì, anche io ho fame. Tu, Dodo?»
Sentire il suo soprannome parve risvegliare Igor, che fino a quel momento era stato fermo, con lo sguardo fisso sul pavimento. Franziska sapeva che anche lui era preoccupato per la storia dell’orfanotrofio, ma preferì non ricordarglielo. Ne avrebbero parlato dopo, quando avrebbero pulito il bagno da tutto il sangue di Warwick, e avrebbero cercato di cancellare anche quel nome ancora segnato sul muro.
Ma Franziska sapeva che sarebbe stato inutile. Quelle lettere, ormai, erano iscritte anche nelle loro menti e nei loro cuori, e cancellarlo da lì era impossibile.
 
 
*
 
 
La mattina successiva, Aaron si svegliò con il labbro che pulsava e gli occhi che non volevano saperne di aprirsi del tutto. Il suo primo pensiero era rivolto al lavoro, che, quel pomeriggio, lo attendeva.
Al solo pensarci, il ragazzo desiderò rimettere la testa sul cuscino e chiudere gli occhi, cadendo di nuovo tra le braccia del buon Morfeo, ma la voce di Martyn – insolitamente allegro – lo costrinse ad alzarsi.
«Sveglia, giovanotto! Oggi ti attende una grande giornata!» esultò l’uomo, spalancando la porta della camera dove Aaron, Jarod e Keegan dormivano insieme.
Il più grande dei tre – da sempre quello meno pigro e più dedito al lavoro – era già in piedi, e, in mutande, cercava un paio di pantaloni nel suo cassetto. Al contrario suo, Jarod e Aaron sembravano due scappati di casa, con i capelli sparati in aria, gli occhi semichiusi e la bocca aperta per uno sbadiglio.
«Posso dormire ancora cinque minuti?» azzardò il maggiore dei due con voce distorta. Aaron si accodò alla richiesta, alzando una mano mentre l’ennesimo sbadiglio gli rendeva impossibile parlare.
«Neanche per sogno! Jarod, oggi è il primo giorno di lavoro nella nuova officina. Aaron, se arrivi in ritardo a scuola ordinerò al tuo insegnante di strapparti quel coso che hai sul labbro. Forza, in piedi!»
Detto questo, Martyn richiuse la porta dietro di sé.
Con immane fatica, Aaron scalciò via le coperte e subito circondò il corpo magro con le braccia, in un vano tentativo di riscaldarsi.
L’autunno più freddo degli ultimi anni, si ricordò, mentre poggiava i piedi sul pavimento congelato e si dava una spinta con le mani premute sul materasso per alzarsi.
Prese le prime cose che gli capitavano sotto mano, vestendosi alla buona e passandosi una mano tra i capelli castani per dar loro una forma che fosse decente. Al contrario di Keegan – che sembrava uno di quei modelli che ogni tanto il canale di Capitol City mostrava in televisione – Aaron si sentiva una tartaruga rachitica, lenta e magra, mentre si dirigeva verso la cucina. Ad ogni passo, le sue ginocchia sembravano affondare e diventare sempre più molli, come se stesse camminando nelle sabbie mobili.
Scese le scale aggrappandosi al corrimano, mentre un odore invitante pareva svegliarlo sempre di più – senza contare che gli indicava la via per raggiungere la cucina, poiché il quattordicenne aveva ancora gli occhi socchiusi.
Non era uno spazio molto grande – come tutta la casa del resto – ma il luogo dove Katy si divertiva a cucinare era accogliente e caloroso, specialmente nelle fredde giornate d’inverno. Malgrado il cibo non fosse mai il migliore in circolazione, ad Aaron piacevano i manicaretti che la zia propinava ai suoi uomini – come li chiamava sempre. Riusciva a trasformare gli scarafaggi in farfalle, le cose più insulse in autentica meraviglia, ed era la caratteristica di Katy che suo nipote apprezzava di più.
«’Giorno, zia» la salutò, entrando in cucina. Il lungo tavolo in legno era già apparecchiato e quel giorno la donna sembrava averci dato dentro: frittelle, caffè e caffelatte erano disposti sulla tovaglia a quadri, accompagnati da del pane caldo – senza dubbio proveniente dalla panetteria - e della marmellata alla fragole – la preferita di Breton, che, seduto di fronte a Patryck, mangiava una fetta di pane tostato con gusto.
Aaron sorrise, scompigliando i capelli del bambino. «Ciao, marmocchio» lo salutò, prendendo la sedia e sedendosi accanto a lui.
«Ciao» replicò il piccolo, facendo uno dei suoi rari sorrisi, che il fratello non poté non ricambiare. Vedere sorridere Brenton era così raro che gli risultava difficile non ricambiare, quando lui lo faceva. Da quando i loro genitori erano morti, il più piccolo dei Kidman sembrava quasi trasfigurato.
«Hai dormito bene?» Aaron afferrò una frittella, mettendosela nel piatto, mentre Brenton rispondeva alla sua domanda con un cenno della testa.
«Oggi grande colazione!» Zia Katy tolse due fette di pane tostato dalla macchinetta che avevano trovato una volta in discarica e che Martyn era riuscito a far funzionare, aggiustando qualche pezzo distrutto.
«Infatti, mamma, vedo che hai fatto una bella spesa». Keegan diede un bacio sulla guancia della madre, sedendosi al suo posto.
«Già» fu il laconico commento di Jarod, che pareva ancora nel mondo dei sogni. Passando, diede una bottarella sulla testa a Patryck – in segno di saluto – e rubò il pane tostato dalle mani del fratello maggiore, prima di sedersi accanto a lui e ingollare il tutto senza nemmeno sentirne il sapore.
Aaron ridacchiò, il volto coperto dalla tazza di caffelatte che stringeva tra le mani. Mentre i suoi cugini battibeccavano e Martyn tentava di tenerli buoni, pensò che quella era una di quelle mattine in cui si sentiva davvero a casa, in cui il pensiero di essere un peso per quelle persone non lo sfiorava nemmeno un po’. Si sentiva come sette anni prima, quando suo padre e sua madre erano ancora vivi, Brenton era un pargolo di appena tre anni dalla risata facile e lui un bambino che amava sedersi sulle gambe del padre per ascoltare ore e ore discorsi sugli aerei e i treni, oppure su quelle della madre, per farsi coccolare.
All’improvviso, il volto di zia Katy gli parve quello di sua sorella, morta sette anni prima e Aaron rischiò di strozzarsi con il liquido bollente. L’aveva rivista non da morta, ma da viva, con i capelli legati, come quando lavorava e con una macchiolina di grasso a sporcarle la guancia, mentre le mani coperte d’olio trafficavano con un pezzo di ricambio.
Tossicchiò più volte, tanto che suo fratello gli tirò qualche pacca sulla schiena per farlo rinsavire. Le sue manine da bambino di dieci anni non riuscirono a molto, ma dopo qualche minuto la tosse di Aaron si placò, aiutata anche da un sorso d’acqua preso da un bicchiere che Katy gli aveva prontamente sistemato sotto il naso.
Alzò gli occhi lucidi dalle lacrime verso la zia, ringraziandola con un roco «grazie».
«Vuoi morire per saltare la scuola e il primo giorno di lavoro, eh?» lo apostrofò lo zio, sorridendo sornione dietro gli occhiali da vista.
Aaron fece una risata, tornando a mangiare la sua frittella. «Almeno non vedo Faccia Di Rana» replicò con la bocca piena, rischiando di strozzarsi una seconda volta nel pensare al volto della professoressa di matematica.
«Non l’hanno ancora vivisezionata?» Jarod punzecchiò la sua frittella con la forchetta, prima di staccarne un pezzo e gettarselo in bocca. Lo deglutì con aria soddisfatta, e i suoi occhi tornarono a rivolgersi al cugino.
«Ogni tanto mi verrebbe voglia».
«Aaron, non si dicono certe cose!» Zia Katy si sedette accanto a lui, reggendo un piatto sul quale erano posati alcuni biscotti con dei fiorellini glassati. «E, Jarod, non devi insegnargli a insultare i professori. Ormai hai diciannove anni, fai il bravo».
«Ne ho diciotto» puntualizzò il giovane, sputacchiando la frittella che aveva in bocca. L’aveva piegata e messa tutta tra le fauci, quasi fosse stata un pezzetto di carne tagliata.
«E non sai mangiare». Keegan si intromise nella conversazione, con la tazza di caffè fumante stretta tra le mani pallide.
Uno sguardo di Martyn bastò a far zitto Jarod, che mugugnò qualcosa, ma tornò a mangiare in silenzio – questa volta, tra le sue fauci che spesso ad Aaron ricordavano un animale feroce, finì un biscotto. Intero.
«Sai, Martyn, quando la fornaia ha visto che compravo tutta questa roba ci è rimasta di sasso» disse zia Katy, dopo qualche minuto di silenziosa colazione. «Le ho detto che ogni tanto è bene concedersi della roba così buona, specialmente quando bisogna festeggiare, come oggi».
L’uomo sorrise, bevendo un sorso di caffè. «Sicuramente la storia che ho un nuovo lavoro avrà già fatto il giro della piazza».
«Del Distretto» lo corresse Jarod, che finalmente pareva sveglio. «Quella là è una pettegola» aggiunse, aggrottando la fronte. «Peggio di Faccia Di Rana» concluse, e la sua voce si abbassò di qualche ottava.
«A proposito di pettegolezzi». Katy deglutì e bevve un sorso dalla sua tazza di tè, prima di riprendere il discorso. «Oggi la fornaia ne aveva uno grosso».
«Ovvero? Chi si è scopato questa volta il garzone del macellaio? La figlia dell’assessore White?»
«Jarod!»
Ancora una volta, Aaron si ritrovò a ridacchiare sotto i baffi, mentre il cugino gli faceva un cenno di compiacimento, sogghignando con aria di finta cattiveria.
«No, forse è andato con la figlia di Faccia Di Rana. Le starebbe bene». A parlare, questa volta, era stato Keegan, che diede il gomito al fratello minore con aria complice.
«Basta, ragazzi». Martyn allungò un braccio per far loro cenno di stare zitti, ma era palese il suo tentativo di non ridere. Le esperienze sessuali del garzone erano famose in tutto il Distretto 6, ormai. Aveva fatto parecchio scandalo, l’anno prima, quando un marito aveva trovato la moglie avvinghiata a lui, nel letto.
«Grazie, tesoro». Katy pareva esasperata, ma ormai era abituata ai commenti – a volte cattivi – che i suoi figli riservavano alla fornaia e alla professoressa di matematica. «Purtroppo la notizia non è così divertente, simpaticoni». Indicò con la forchetta i suoi figli più grandi, spostandola da Keegan e Jarod. «Qui è scappato il morto».
Martyn strabuzzò gli occhi da dietro le lenti dalla montatura fine, fissando la moglie. «Chi?»
«Warwick Madison. Lavorava, anni fa, nell’officina dove cominciate voi oggi». La donna tagliò un pezzo di frittella e lo infilzò con la forchetta, portandoselo alla bocca.
Aaron aggrottò le sopracciglia, chiedendosi dove avesse già sentito quel nome. Di Madison dovevano essercene nella sua scuola e furono proprio le successive parole di Martyn, a ricordarglielo.
«Il marito di Grace?»
«Lui» confermò Katy, dopo aver deglutito. Appoggiò la forchetta sul piatto, grattandosi la fronte e spostandosi un ciuffo di capelli. «Grace era amica di mia sorella e Jonathan».
Al sentire nominare i suoi genitori, Aaron sentì un improvvisa morsa allo stomaco, e fu costretto a posare la tazza dalla quale stava bevendo.
Erano rari i momenti in cui Katy nominava Keira – la sua unica sorella, deceduta – e il marito. Aaron sapeva che anche sua zia soffriva ancora per la fine che avevano fatto. Glielo leggeva negli occhi ogni volta che erano vicini, in silenzio, e lei lo guardava con aria affranta, prima di sorridergli e scostargli i capelli dalla fronte. Capitava, talvolta, che il quattordicenne la trovasse a fissare la foto di Keira che teneva in salotto, quella dove erano raffigurate entrambe da piccole, i capelli legati in due codini ordinati sulla testa e la divisa scolastica addosso – quelle che ormai non si portavano neanche più, all’istituto scolastico del Distretto 6.
Era così vecchia, quella foto, ma ogni volta che Aaron la guardava rivedeva la Keira che lui aveva conosciuto, quella donna dall’aria poco femminile e materna, ma che amava raccontargli storie e insegnargli tutti i segreti del mestiere di meccanico, ridere ogni volta che lui si sporcava con il grasso e si disegnava due strisce nere sugli zigomi, fingendo di essere un guerriero. In quei momenti, Aaron sentiva così tanto la mancanza di sua madre, che l’unica soluzione era aspettare che tutto passasse. Chiudere gli occhi e dormire era inutile: sua madre e suo padre tornavano ogni notte, regolarmente, tra i suoi sogni. Facevano capolino, vivi o morti che fossero, tra gli incubi e i bei sogni, con i loro volti resi più scuri dal soffocamento che li aveva condotti alla morte, o le loro guance rosse di vita.
Il primo istinto di Aaron, dopo aver sentito nominare Jonathan e Keira, fu di guardare l’orologio, quello che portava sempre al polso. Segnava le tre di notte, da sette anni ormai. La sua vita con i suoi genitori si era fermata in quel momento.
I suoi occhi cercarono poi la figura del suo fratellino, incupito, che stava gobbo sul tavolo e fissava il pezzo di pane mezzo mangiato. Giaceva nel suo piatto, solo e rotto, proprio come lui. La solitudine non era proprio una costante, per Brenton, ma a vederlo così, in mezzo a tanta gente che rideva, si aveva quella impressione. L’unica cosa che Aaron avrebbe voluto più che riavere indietro i suoi genitori, era vederlo finalmente felice, con gli occhi che brillavano di gioia e il sorriso – quello che lui aveva perso prematuramente, all’età di tre anni.
«Bene» Martyn si alzò in piedi, le mani premute sulla superficie lignea del tavolo, «è ora di andare. Lavatevi i denti e poi uscite, oggi sarà una grande giornata!»
I ragazzi si alzarono, in un rumore di sedie spostate che avrebbe udito persino un sordo, prima di mettersi in fila indiana fuori dal bagno, per aspettare il loro turno di lavarsi i denti. Aaron si mise dietro suo fratello e gli cinse la vita con le braccia. La magrezza del bambino sarebbe sembrata impressionante per chiunque, ma quella era una costante degli uomini Kidman. Mangiare e non ingrassare era un po’ la loro qualità più grande e Brenton non faceva eccezione.
«Tutto bene?» gli mormorò il maggiore all’orecchio, stringendolo a sé. Il bambino annuì, appoggiando le mani sulle braccia di Aaron.
«Secondo te era amico di mamma e papà?»
Aaron rimase per un istante basito, dinnanzi a tale domanda. In realtà, non conosceva bene gli amici dei suoi genitori. Ricordava solo delle facce sorridenti che spesso portavano con sé delle caramelle, per regalargliele, ma nulla di più. I nomi – a parte alcuni -, i volti, li aveva cancellati dopo quel terribile giorno in cui era rimasto orfano.
«Non credo. Hanno detto che la moglie era amica di mamma e papà» rispose a voce bassa, accovacciandosi accanto a lui per non farsi udire dai cugini.
«È morto come loro, però. E aveva dei figli anche lui».
Nonostante si chiedesse come Brenton facesse a conoscere quei ragazzi, la mente di Aaron si illuminò per un istante. Si ricordò di una coda di capelli biondi e di uno sguardo truce, anfibi vecchi e vestiti da maschio. Una ragazza gli tornò in mente, una che lui vedeva sempre a scuola, ma conosceva solo per sentito dire.
«Come fai a saperlo, tu?»
«Sono quei due tipi che ogni tanto si picchiano con altri a scuola. Una volta, la ragazza le ha date al fratello di un mio compagno. Hanno anche un fratellino».
Detto questo, Brenton entrò nel bagno, poiché Patryck aveva finito di pulirsi i denti.
Altri orfani come lui. Al Distretto 6, degli altri ragazzi avevano perso un altro genitore e chissà quale sarebbe stata la loro fine.
Strofinandosi i denti e stando ben attento a non farsi male al piercing, Aaron pensò alla ragazza, che ricordava a malapena. Aveva gli occhi verdi. Questo lo sapeva bene e, in un attimo forse un po’ folle, pensò che non avrebbe voluto che fossero tristi o più arrabbiati di quanto già non fossero normalmente.
Scosse la testa, levandosi quel pensiero dal cervello. Non la conosceva nemmeno, così come non conosceva i suoi fratelli.
Questa grande giornata sta iniziando in modo un po’ strano, pensò, lanciando un’ultima occhiata alla sua immagine riflessa dallo specchio.

 


Alaska's corner 

Mais, bonjour!
Sì, dovrei studiare francese, chebbbbbello. E a tal proposito, leggete la citazione all'inizio. In che lingua è? Mais en français, naturellement! 
A parte questa intro molto stupida, vi consiglio davvero di ascoltare la canzone da cui è tratta la citazione all'inizio, perché io l'adoro. Tra l'altro, ironia del destino, stavo scrivendo la parte dal PoV di Igor - mesi fa, tipo - e a un certo punto mi è partita, quindi ho pensato di inserirla al posto di una citazione ad cazzum sui padri assenti.
Comunque, in questo capitolo vediamo un po' di cose nuove, malgrado sia più corto del precedente.
Innanzitutto, alla prima parte tengo molto perché Igor è un personaggio a cui voglio tanto bene, sarà che ho un debole per i ragazzi come lui. Io stessa molto spesso non riesco a capirlo, so solo che è molto sarcastico, acido e silenzioso. xD E qui vediamo apparire anche Carine e Edmure, i migliori amici di Grace, la mamma dei Madison. Sì, il nome Edmure l'ho preso in prestito a George-sonounfottutoassassino-hodueerrenelnome-midevosbrigareascrivere Martin. Mi piace, ha un bel suono Edmure X3
Ah, per quanto riguarda la questione funerali al Distretto 6, me la sono inventata di sana pianta. xD Insomma, non credo che badino molto a certe cose, e credo anche che le bare possano permettersele in pochi. Tra l'altro, il 6 lo immagino come un Distretto piuttosto povero e oppresso dai Pacificatori - vedasi la scena in Catching Fire, quando vengono portati via i due ragazzi. Oltretutto, credo che qui gli Hunger Games li vincano moooolto raramente, perché sono un po' come il Distretto 12 e sanno maneggiare zero armi.
Chiusa questa parentesi, chiedo scusa se ci sono inesattezze mediche nella parte in cui ripescano (?) il corpo. Mi sono un po' informata e so che la decomposizione inizia pochi minuti dopo la morte, ed è accelerata in caso il morto sia in condizioni di umidità molto alta - lui era immerso nella vasca da bagno, per cui credo che il corpo abbia iniziato a presentare molto presto le tipiche macchie bluastre/violette che di solito si notano sui cadaveri. 
Come vi ho già accennato, Warwick era davvero malato, e qui ho fatto alcuni accenni al suo comportamento: in pratica, lui non voleva dei figli, odiava i bambini e amava solo la moglie. E sì, capitava che si drogasse, ma i figli se ne sbattevano come lui se ne sbatteva di lui. 
Basta, mi chiudo la bocca sennò i personaggi non si raccontano da soli. xD
Pooooi, amate la famiglia di Aaron. Io li adoro, davvero X3 Avete anche un quadro quasi completo di come sono: Brenton è molto silenzioso, Keegan è un gran lavoratore, Jarod è fondamentalmente un pirla (e amate il suo crestino alla Noah Puckerman, anche se qui non viene descritto), zia Katy è la dolcezza, zio Martyn lo amo e Patryck verrà descritto meglio nei capitoli a venire.  
Sì, qui vediamo il primo "contatto" tra i Madison e i Kidman. Tenete bene a mente questa cosa perché verrà spiegata più avanti - anche se questo dialogo apparirà poco, in quanto Aaron era davvero rncoglionito in quella scena ed è uno che dimentica in fretta le cose, quindi capiterà che non collegherà subito Grace e i tre Madison. xD Basta, sennò spoilero. No, aspettate. Ricordatevi bene anche il nome del padre di Aaron e Brent, Jonathan. Ricordatelo e basta. È very importante. Il nome della madre, Keira, l'ho scelto perché....... in quel momento avevo davanti il film di Pirati dei Caraibi, if you know what I mean. Non so scegliere nomi, sorry.
Ci vediamo al prossimo capitolo!
Alaska. ~
   
 
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