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Autore: Gaia Bessie    07/01/2015    4 recensioni
«I segreti sono convenzioni, Touko. Solitamente non amo essere convenzionale, ma è l'arte del compromesso».
«Da quando compromesso e ricatto coincidono?».
Urla che crepano gli specchi. Non è mai bello quando le persone muoiono.
[Ferriswheelshipping]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: N, Touko, Touya
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
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Note iniziali, nonché uniche note perché l'autrice dovrebbe anche studiare, al posto di scrivere compulsivamente. Anche se tanto ha già plottato altre due fanfic. Ci vedremo nei prossimi giorni:

  • Sulle mie ovvie citazioni: Il titolo, la frase finale di ogni paragrafo e basta sono ispirati a uno dei libri più belli di sempre. Wintergirls. Spam. Leggetelo.
  • Su una cosa poco importante: forse l'aggiornamento della mia long sarà puntuale, se non anticipato. Spam.
  • Qualcuno mi imponga di studiare i limiti. Per piacere.


 

Ragazza d'inverno


 

Fzz... fzz... fzz... tr...va..t..

fzz... m...c..r...e

fzz...m..rt..

 

Me lo dice Touya una mattina come tante altre, ma faccio finta di non ascoltare.

Lo sputa insieme alle virgole e alle pause che crollano nella tazza di caffelatte.

Lo dice veloce, come una poesia imparata a memoria, come la lezione per la scuola.

E io non lo ascolto nemmeno – potrei? – e lui fa finta di non vedermi.

È successo un mese fa, ormai è certezza.

 

Quando era vivo, la mia esistenza era semplicemente ridotta e condensata nell'attesa, così, e finivo sempre per ridurmi a un continuo sciorinare numeri. Minuti, secondi. E lui che non tornava, e nemmeno a girare tutta Unima c'era verso di trovarlo, lo so, ci ho anche provato. Ma era fatto così. Se non voleva farsi trovare, non lo trovava nessuno: sarebbe stato capace di nascondersi in un altro universo, pur di vincere le sue insolite partite a nascondino. Si sarebbe sepolto vivo, se fosse servito. Adesso lo so. Ma ci ho sperato fino all'ultimo secondo, all'ultimo istante, che si facesse trovare da me. Non l'ha fatto. Non l'avrebbe mai fatto e, adesso, lo so anche io.

Il tavolo della colazione è un campo minato, sostiene mia madre quando parla con Touya e lui annuisce sommessamente. Se riescono a non farmi scoppiare lì, allora, c'è una buona probabilità che si arrivi alla fine della giornata. Ha stabilito regole semplicissime, ridicole: a tavola non deve esserci niente di verde. E questo perché, l'ultima volta, sono andata in panico per un semplice tovagliolo. Una scena ridicola, probabilmente, ma che ha avuto effetto. Niente verde sul tavolo, Touko è troppo turbata. Si mangia in silenzio perché, l'ultima volta che abbiamo parlato, ho fatto crollare un vassoio di muffin – il vassoio verde si è sfracellato sul pavimento – e sono corsa via, per tornare il giorno dopo, come in trance. E poi, l'ultima volta che abbiamo parlato, Touya me l'ha detto inzuppandolo di caffelatte e biscotti mollicci e disgustosi. Quindi, non si parla più – e mamma ha smesso di mettere in tavola i biscotti, con sommo disappunto di mio fratello.

Ci si prova, a essere pazienti con me. Papà torna sempre più spesso, a casa, anche a costo di fare continuamente avanti e indietro per tutta la regione. Porta ninnoli, giocattoli che forse avrebbero potuto avere qualche importanza quando avevo cinque, sei anni. Porta una bambola, un carillon a forma di Skitty che è davvero inquietante, cesti pieni di torte alle bacche e una serie di altre cose che non riesco nemmeno a ricordare. Mi viene a rimboccare le coperte e mi bacia la fronte: passerà, bimba mia, passerà. La mamma non fa che chiocciare e ronzare, sfarfallando nervosamente sulla mia scia. Ha abolito il verde, i biscotti, le chiacchiere della colazione, il telegiornale e una lettera dell'alfabeto. L'ultima volta che sono uscita, anche se ormai potrei anche non ricordarlo, è stato secoli fa, è quasi crollata per l'ansia. Non esco più, però, e almeno a casa può, in qualche modo, darmi uno sguardo. Ogni tanto, ogni minuto della giornata. Sempre. Cerca di darmi libri da leggere, ma non storie d'amore perché le ha silenziosamente abolite, o di farmi guardare un po' di tv. Funziona a giorni alterni. Così, qualche volta, è costretta a lasciarmi andare in camera mia. E Touya prova a chiocciare anche lui, sebbene finisca per arruffare le penne in un modo che ha del ridicolo. Anche lui ci prova, qualche volta. Touya: ha rinunciato al telegiornale del mattino, ai biscotti, al suo colore preferito e a parlare liberamente. Non prova nemmeno a farmi uscire, preferisce quasi che io non lo faccia. Aspetta che io mi addormenti per scendere giù, dalla mamma. E probabilmente mangeranno biscotti su vassoi verdi, ma questo non voglio saperlo. Non m'importa. Le cose di cui m'importa, in verità, si sono ridotte drasticamente. Un mese fa. Quando ero ancora una ragazza vera e avevo solo un velo di brina, un velo lieve come quello di una sposa. Quando mangiavo muffin e biscotti e torte su piatti coloratissimi. Quando la sua mancanza, in qualche modo, non suonava così tremendamente definitiva. Adesso sono completamente congelata, una statua di ghiaccio secco, e non posso disgelare. Solo squagliarmi al sole e sparire sottoterra. In un mese possono cambiare tante cose.

Esattamente trentuno giorni fa, sono scesa da camera mia, ancora in pigiama e con gli occhi gonfi di sonno. Mi sono seduta accanto a Touya e ho addentato un biscotto, riempendo di briciole un piatto orlato di verde. La televisione sputacchiava il suo servizio, fzz, senza che io riuscissi a prestare attenzione. Me l'ha detto allora. Senza giri di parole, tutto briciole e tazza scheggiata sul piatto mezzo bianco e mezzo verde. Ci ho messo un po', per capirlo, l'ha dovuto ripetere più volte: nei mesi cambiano diverse cose. Da me, per prima cosa, è cambiato il modo di fare colazione. E, poi, sono cambiata io.

Quando mamma mi lascia il pranzo sul tavolo, anche se sappiamo entrambe che non lo mangerò finché non salirà Touya per controllarmi, lo ripeto. Dirlo ad alta voce aiuta a percepirlo come reale, più o meno. Non spero più di svegliarmi e scoprire che ho sognato ogni cosa. So che è vero. Me lo sento nelle ossa. Me lo sento nei muscoli quando mi alzo e nella testa quando provo a sognare. Non tornerà. Mia madre mi carezza il capo e ci prova, ci prova davvero, a capirlo. Ma è una cosa che va troppo oltre. Perché, la prima cosa che ci insegnano quando siamo piccoli, è che la distinzione fra bene e male è netta, definita. E lui, se non ne avessi conosciuto ogni spigolo o retroscena, ogni battuta di un copione scritto da altri, avrei dovuto odiarlo. Sarebbe stato meglio e, forse, a casa mia si respirerebbe un'aria meno tesa. Ma, purtroppo, non è così. Sono passati trentuno giorni da quando Touya mi ha detto che N è morto. Continuo a chiedergli ogni mattina, di dirmi che non è vero. E lui me lo rispiega, come se fossi una bambina un po' lenta di comprendonio. Non tornerà. La finestra della mia camera si apre sulla desolazione di Unima. Il sole non riesce a scongelarmi.

 

Non è mai bello quando le persone muoiono.

 

***

 

Ed.... fzz... Sp..ale fzz... fzz... trova...

fra... mac..r...e

Al...fzz... m..rt..

 

Me lo dice Touya una mattina come tante altre, ma faccio finta di non ascoltare.

Lo sputa insieme alle virgole e alle pause che crollano nella tazza di caffelatte.

Lo dice veloce, come una poesia imparata a memoria, come la lezione per la scuola.

E io non lo ascolto nemmeno – potrei? – e lui fa finta di non vedermi.

È successo due mesi fa e non riesco a chiudere la finestra.

 

La cadenza con cui s'intrufolava in camera mia, in qualunque camera dove decidessi di dormire, si aggirava attorno alle due, tre settimane. Una persona cambia anche in quattordici giorni, credo, e lui scuoteva il capo quando glielo dicevo. «Tu non cambierai mai, Touko» diceva. E io gli credevo, semplicemente, perché non avevo che una percezione approssimata, inesatta, di quella che ero. Adesso sono ossa e sporgenze, mentre prima ero carne e sangue. O, almeno, è quello che lui diceva. Era più forte di lui: quando parlava di abbandonava a certi barocchismi che, a me, sarebbero anche piaciutoi se soltanto li avessi capiti. Finché, per osmosi, non ho cominciato a usarli anche io. E ho capito perché si divertiva a usare le parole in quella maniera, come per alterare il senso della realtà, nascondendolo dietro un velo: quando cominci a edulcorare le vicende, in un certo modo ti sembra quasi di poterle controllare solo scegliendo in che maniera narrarle. Quando entrava dalla finestra, e io regolarmente sobbalzavo e quasi urlavo nel vederlo seduto sulla sponda del letto, i capelli scompigliati di vento, cominciava il suo spettacolo. «Lo sto procrastinando» diceva sempre, senza criterio, senza contesto. Non gli chiedevo nemmeno cosa stesse procrastinando, ritardando, rimandando: non volevo saperlo. Se aveva a che fare con me, con noi, forse era meglio la stasi. E si stendeva al mio fianco, N, surreale. N. Sempre in fuga, senza casa, con una brutta fama come un cappio attorno al collo. N. Riusciva a trovarmi, ovunque andassi e io, in qualche modo che già sapevo, lo aspettavo sempre. Fu così per mesi, per otto mesi. Che sono tanti, infiniti, per contare i cambiamenti di una persona. Non so spiegare cosa successe, in tutti quei giorni, perché, alla fine, non accadde proprio nulla che sconfina nella tradizionalità. Non mi toccò nemmeno con un dito, ed è la prima cosa che mi ha chiesto Touya quando ho pianto ed era la mia prima volta. Di lacrime, non sono mai stata un'esperta. N, dopo avermi fatta parlare fino allo sfinimento, dormiva con me, in una vicinanza che aveva qualcosa di doloroso. Il mattino dopo, mi salutava appena. «Sto aspettando il momento».

Non so dire cosa stesse aspettando: non gliel'ho mai chiesto. Non ne ho avuto il tempo. Quando parlava, ero di nuovo ragazzina: piena di complessi, contraddizioni e, probabilmente, con una brutta cotta che non passava. Non è mai passata. Sono sempre rimasta vicino a quella ruota panoramica, in attesa. Anche se non tornerà, non può più. E non saprò mai cosa stesse procrastinando e che momento stesse aspettando. Non potrò mai chiederglielo.

«I segreti sono convenzioni, Touko» mi diceva sempre, quando provavo a porgli una domanda che non arrivava mai. Quando provavo a chiedergli di rimanere, con me, alla luce: l'avrei atteso comunque. Ci sono legami da cui non puoi prescindere. «Solitamente non amo essere convenzionale, ma è l'arte del compromesso».

L'ultima volta, lo guardai negli occhi. E trovai la risposta. «Da quando compromesso e ricatto coincidono?».

Lui rise e mi sfiorò i capelli. «Vedo che hai capito» mi disse, sorridendo appena. «Non voglio rovinarti, Touko».

Mi aveva già rovinata. Definitivamente. Eternamente. Mi avrebbe sempre lasciata così, sospesa, nell'inverno nell'inverno della mia vita. Inconclusa.

 

Non è mai bello quando le persone muoiono.

 

***

 

Edizione Speciale: fzz... trovat...

fra... macerie

Allenator...fzz... mort..

 

Me lo dice Touya una mattina come tante altre, ma faccio finta di non ascoltare.

Lo sputa insieme alle virgole e alle pause che crollano nella tazza di caffelatte.

Lo dice veloce, come una poesia imparata a memoria, come la lezione per la scuola.

E io non lo ascolto nemmeno – potrei? – e lui fa finta di non vedermi.

È successo tre mesi fa. O, almeno, credo.

 

 

Touyo non fa che urlare. Urla sempre. Ogni volta che trovo la forza di andare in camera sua, lui grida.

«Smettila, Touko, smettila!».

Mi copro le orecchie con le mani, rifiutandomi di ascoltarlo.

«Touko, non puoi rimanere qui! Devi andare via!».

Ogni volta, mi viene da piangere. Ma lui non se ne accorge.

«Sei morta da tre mesi! Devi lasciartelo alle spalle... N è vivo e tu sei morta. Non puoi continuare a tormentarlo, a tormentare tutti. Per favore, sorellina, per favore...».

Le mie urla crepano gli specchi.

 

 

Hanno trovato il cadavere di un'Allenatrice, fra le macerie del Palazzo di N.
Touya continua a ripetermelo, ma io non lo capisco quasi mai.
Lo stavo aspettando?
Forse sì.

 

Non è mai bello quando le persone muoiono.

   
 
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