NdA:
SECONDA
CLASSIFICATA e vincitrice del premio MAGGIOR NUMERO DI
LACRIME al contest “Lasciati ispirare – Inspiration Time” indetto da Hanna McHonnor.
Mi sono
ispirata ad una delle due poesie che lei ha creato appositamente per il
contest, chiedendo ai partecipanti di sceglierne una e di trarre da essa una
storia.
Quella che ho
scelto io si intitola “Mi Pento”, vi consiglio di leggerla prima di addentarmi
nel mio breve racconto.
Potete
trovarla a questo link, in cui sono presenti entrambe le poesie:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2918646
Detto questo,
vi lascio alla mia composizione, buona lettura e grazie in anticipo a chi
leggerà/recensirà.
Kim ♥
♣♣♣
Lo specchio della cecità
Mi
guardo allo specchio e non mi riconosco.
Ero una
brava persona, un tempo, anche se mi sembra un’utopia, ora come ora.
Ero un
ragazzo che sapeva stare in mezzo alla gente, che sapeva rapportarsi con
chiunque e regalare un sorriso a chi ne aveva bisogno.
Adesso
desidero disperatamente che qualcuno regali a me un tenue bagliore di vita, di
speranza, ma so per certo che non sarà possibile.
Non più.
Distolgo
lo sguardo dal mostro che sono diventato e ripenso a quando e come la stupidità
si sia impossessata di me.
Ero
diverso, mi ritenevo un ragazzo, anzi, un uomo intelligente, la mia vita era
perfetta, tutto andava come desideravo.
Avevo
una ragazza quasi storica, Denise. Con lei tutto era naturale, spontaneo,
bello.
Però,
poi, è successo qualcosa, senza che neanche me ne rendessi conto.
Avevo
conosciuto un’altra ragazza, ma subito non mi ero accorto di quanto lei fosse
diversa, speciale, non ordinaria come Denise.
Tuttora
penso che lei non avrebbe mai preso il posto di Denise, poiché non è di
sentimenti amorosi che parlo.
Spesso
mi è stato detto, nel corso della mia vita, che non ci si accorge di quanto sia
prezioso qualcosa finché non lo si perde.
Io ho
sempre dato ragione a tutti, senza realmente pensare che ne avessero, perché
tutto ciò che avevo perso non mi mancava neanche un po’.
Lei era
diversa e preziosa, l’ho lasciata andare perché ero più cieco dei suoi occhi
che non potevano vedermi.
L’ho
conosciuta per caso, di sera, in un locale. Lei non poteva vedermi, i suoi
occhi non percepivano alcunché in quella semioscurità.
Si è
avvicinata a me con l’aiuto di un’amica, era un po’ imbarazzata all’inizio, ma
poi si è lasciata andare.
Ho
avvertito la strana sensazione di quando ti sembra di conoscere qualcuno da una
vita, ma non ho voluto darle adito, non ho voluto ascoltarmi.
Lei poi
mi ha dato un regalo.
Non me
l’aspettavo, sono rimasto colpito, ma l’ho presa come una cosa di poco conto, come
qualcosa che chiunque avrebbe potuto fare, essendo io un personaggio abbastanza
noto a livello sociale e artistico.
L’ho
accettato, l’ho ringraziata e me ne sono andato.
Quando
poi l’ho aperto e ho scoperto che era un oggetto simbolico, col quale lei
voleva rappresentare una passione comune o qualcosa che non mi sono soffermato
ad analizzare, accompagnato da poche righe di elogio nei miei confronti, ho sorriso
e ho mostrato il tutto a Denise.
Lei, con
una risata divertita, ha commentato: «Eccone un’altra».
Si
riferiva alle fan che, di tanto in tanto, mi regalavano qualcosa, mi scrivevano
lettere strappalacrime, si sbracciavano per attirare la mia attenzione e tutta
una serie di altri gesti che, ormai, avevo imparato a gestire e a considerare
“normali”. Inoltre, finché Denise fosse stata accanto a me, non mi sarei dovuto
preoccupare, perché lei comprendeva sempre e non era gelosa. Non sarebbe potuta
stare insieme ad un personaggio famoso, altrimenti.
Così,
non ci ho più pensato.
Ci siamo
visti altre volte, abbiamo anche scambiato delle e-mail, ma niente è nato e
niente è cambiato per me.
O
almeno, così credevo, finché non ho saputo cosa le è successo.
E finché
non ho saputo cosa significavo per lei.
E cosa
lei significava per me.
Si
chiamava Violet, una ragazza come tante. No, non come
tante, come nessuna.
I suoi
occhi erano spesso persi nel vuoto e questo mi induceva a cercarli,
disperatamente, a fissarli e a tentare di capire se riuscissero ad intravedere
i miei.
Ma era
inutile, Violet non mi vide mai.
Non ho
mai pensato di incontrarla al di fuori delle mie serate, non ho mai avuto alcun
motivo per farlo.
Se lo
avessi fatto, forse, qualcosa sarebbe stato diverso.
Ma, del
resto, non ne avevo bisogno. Avevo tutto: un lavoro che mi appassionava, una
donna che mi amava, una famiglia come tante, amici a volontà…
lei era solo una fan, una delle tante.
E allora
perché mi sento in colpa, ancora oggi?
Sono
passati anni, Denise non so neanche che fine abbia fatto, non mi importa.
Sono
solo.
E sono
un mostro.
Lei mi
aveva inviato dei segnali. Mi aveva detto che sentiva di trovarsi a suo agio
con me, che sentiva come se ci conoscessimo da una vita, confermando così la
mia stessa impressione.
Ma non
le ho badato, non era così importante.
Sono
stato gentile, questo sì, lo ero sempre con tutti.
Però lei
avrebbe voluto di più.
E no,
non voleva il mio cuore, non il mio amore, bensì avermi al suo fianco,
accettando qualunque cosa avessi potuto darle. Forse mi amava, non lo saprò
mai, ma sapeva che il mio cuore non poteva appartenere che a Denise.
In ogni
caso, non era una relazione amorosa che desiderava, non era questa la sua
priorità.
In me
aveva scorto qualcosa e anch’io avevo trovato lo stesso in quello sguardo senza
vita.
L’avrei
capita, l’avrei aiutata, avrei fatto ciò che era necessario, invece sono
rimasto a guardare.
Cerco di
ricordare il suo sorriso, così luminoso, così spontaneo e affettuoso, la sua
mano che cercava a tentoni la mia, per poi stringerla forte, con fare
rassicurante e, allo stesso tempo, con un’implicita nota di disperazione, che
celava una richiesta d’aiuto che io ho prontamente ignorato.
Si
sentiva oppressa dalla vita che non aveva. Ora me ne rendo conto.
Era
intelligente, brillante, piena di potenzialità, ma non aveva i mezzi per
realizzarsi.
Io
l’avrei potuta aiutare, cosa mi sarebbe costato concederle la mia amicizia, il
mio appoggio, il mio sostegno?
Non lo
capisco, credo di aver temuto, inconsciamente, di rimanere intrappolato in
sentimenti che non volevo prendere minimamente in considerazione.
E ora me
ne pento, forse avrei dovuto dare ascolto al mio cuore, all’istinto, senza
pensare soltanto in maniera razionale.
E il suo
sorriso non lo ricordo più.
L’unica
immagine che è rimasta nitida e inalterata nella mia mente, continuando a
tormentarmi per tutto questo tempo, è quella dell’ultima volta che l’ho vista.
Gli
occhi tristi, spenti, come se tutta la sua persona fosse stata prosciugata da
ogni sentimento positivo.
Lei non
si è avvicinata a me e io non sono andato da lei.
Perché?
Non me
lo spiego, ci sono troppe domande a cui non riesco a fornire una risposta.
L’ho
osservata da lontano, ma ho capito che era strana.
Ho
avvertito una sensazione sgradevole, poi ho subito pensato a Denise e ho
scacciato i cattivi pensieri.
Poi ho
trovato, il giorno dopo, la sua ultima e-mail, così triste, così disperata,
così vuota e piena allo stesso tempo.
Mi si è
stretto il cuore, perché lei mi stava salutando, mi stava abbandonando come io
avevo abbandonato lei.
Mi ha
chiesto perché la vita le avesse voltato le spalle, perché l’ultima sua
speranza si fosse spenta, perché tutto fosse destinato a finire ancor prima di
cominciare.
Infine,
in maniera confusa, mi confessava che un tumore la stava mangiando, che non
avrebbe resistito a lungo e che non voleva più saperne di me, perché il mio
pensiero le faceva male, la feriva più dell’indicibile destino che la aspettava.
Io non
avrei saputo fare niente per quel tumore, questo lo so, certe cose non
rientrano certo nelle potenzialità di un comune essere umano.
Ma so
che le avrei potuto dare molto di più, allietare la sua scomparsa, fare
qualcosa, se solo avessi aperto gli occhi, se solo non avessi galleggiato
perennemente nella mia vita perfetta.
Invece,
l’ho lasciata morire da sola e non ho saputo rispondere a quelle parole,
all’ultimo, disperato appello che mi ha lanciato.
Ho
semplicemente chiuso gli occhi, calando su di essi uno spesso drappo nero,
accettando per l’ennesima volta una cecità che non avrebbe dovuto appartenermi.
Se c’è
una cosa che ho imparato da lei, è che non sono gli occhi a donarci la vista,
ma ciò che le sensazioni cercano di comunicarci. Non dovremmo mai ignorarle,
perché la vita è troppo breve, troppo effimera per permetterci di sprecare
momenti preziosi.
Quest’esperienza
mi ha distrutto.
Continuo
a guardarmi allo specchio, sforzandomi di trovare in me un tenue riflesso di
ciò che lei è stata.
Ma in me
non c’è niente, fuorché un dolore inspiegabile.
La mia
vita è stata perfetta e io l’ho distrutta con le mie stesse mani, nonostante
qualcuno abbia insinuato che è stata Violet a farlo.
Lei mi avrebbe reso una persona migliore, mi avrebbe fatto conoscere il dolore e
la morte, in modo che, in seguito, imparassi ad apprezzare e a godermi
maggiormente la vita. Avrei potuto vivere per lei, portarla con me in ogni
ricordo e in ogni gesto, invece ho smesso di vivere con lei, travolto e corroso
dai sensi di colpa e da una sofferenza che non so descrivere a parole.
Non le
ho permesso di aiutarmi e non ho saputo aiutarla.
Ho
preferito non vedere, voltarmi dall’altra parte e adagiarmi sulla mia illusoria
felicità.
E
adesso, fissando la mia immagine allo specchio, capisco di essere diventato
cieco anch’io.
Violet ha sofferto molto ma non ha mai smesso di
vivere, di lottare, di sperare, neanche quel giorno in cui i suoi occhi mi
erano parsi tanto tristi e spenti.
Quel
giorno lei era lì, con il cancro che la divorava e il sorriso sulle labbra,
nonostante il suo viso non fosse più luminoso come una volta.
Ma io
l’ho ignorata, come al solito.
E adesso
so che non avrei dovuto farlo.