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Autore: Kim WinterNight    08/01/2015    4 recensioni
«Violet era diversa, speciale, e io l'ho lasciata andare.»
♥ SECONDA CLASSIFICATA e vincitrice del premio MAGGIOR NUMERO DI LACRIME al contest "Lasciati Ispirare - Inspiration Time" indetto da Hanna McHonnor ed è ispirata alla poesia "Mi Pento", scritta da lei affinché i partecipanti si basassero sui suoi versi per comporre un proprio racconto.
Potete trovare le due poesie tra cui scegliere a questo link:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2918646
Buona lettura!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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NdA:

SECONDA CLASSIFICATA e vincitrice del premio MAGGIOR NUMERO DI LACRIME al contest “Lasciati ispirare – Inspiration Time” indetto da Hanna McHonnor.

Mi sono ispirata ad una delle due poesie che lei ha creato appositamente per il contest, chiedendo ai partecipanti di sceglierne una e di trarre da essa una storia.

Quella che ho scelto io si intitola “Mi Pento”, vi consiglio di leggerla prima di addentarmi nel mio breve racconto.

Potete trovarla a questo link, in cui sono presenti entrambe le poesie:

http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2918646

Detto questo, vi lascio alla mia composizione, buona lettura e grazie in anticipo a chi leggerà/recensirà.

 

Kim ♥

 

♣♣♣

 

Lo specchio della cecità

 

 

 

Mi guardo allo specchio e non mi riconosco.

Ero una brava persona, un tempo, anche se mi sembra un’utopia, ora come ora.

Ero un ragazzo che sapeva stare in mezzo alla gente, che sapeva rapportarsi con chiunque e regalare un sorriso a chi ne aveva bisogno.

Adesso desidero disperatamente che qualcuno regali a me un tenue bagliore di vita, di speranza, ma so per certo che non sarà possibile.

Non più.

Distolgo lo sguardo dal mostro che sono diventato e ripenso a quando e come la stupidità si sia impossessata di me.

Ero diverso, mi ritenevo un ragazzo, anzi, un uomo intelligente, la mia vita era perfetta, tutto andava come desideravo.

Avevo una ragazza quasi storica, Denise. Con lei tutto era naturale, spontaneo, bello.

Però, poi, è successo qualcosa, senza che neanche me ne rendessi conto.

Avevo conosciuto un’altra ragazza, ma subito non mi ero accorto di quanto lei fosse diversa, speciale, non ordinaria come Denise.

Tuttora penso che lei non avrebbe mai preso il posto di Denise, poiché non è di sentimenti amorosi che parlo.

Spesso mi è stato detto, nel corso della mia vita, che non ci si accorge di quanto sia prezioso qualcosa finché non lo si perde.

Io ho sempre dato ragione a tutti, senza realmente pensare che ne avessero, perché tutto ciò che avevo perso non mi mancava neanche un po’.

Lei era diversa e preziosa, l’ho lasciata andare perché ero più cieco dei suoi occhi che non potevano vedermi.

L’ho conosciuta per caso, di sera, in un locale. Lei non poteva vedermi, i suoi occhi non percepivano alcunché in quella semioscurità.

Si è avvicinata a me con l’aiuto di un’amica, era un po’ imbarazzata all’inizio, ma poi si è lasciata andare.

Ho avvertito la strana sensazione di quando ti sembra di conoscere qualcuno da una vita, ma non ho voluto darle adito, non ho voluto ascoltarmi.

Lei poi mi ha dato un regalo.

Non me l’aspettavo, sono rimasto colpito, ma l’ho presa come una cosa di poco conto, come qualcosa che chiunque avrebbe potuto fare, essendo io un personaggio abbastanza noto a livello sociale e artistico.

L’ho accettato, l’ho ringraziata e me ne sono andato.

Quando poi l’ho aperto e ho scoperto che era un oggetto simbolico, col quale lei voleva rappresentare una passione comune o qualcosa che non mi sono soffermato ad analizzare, accompagnato da poche righe di elogio nei miei confronti, ho sorriso e ho mostrato il tutto a Denise.

Lei, con una risata divertita, ha commentato: «Eccone un’altra».

Si riferiva alle fan che, di tanto in tanto, mi regalavano qualcosa, mi scrivevano lettere strappalacrime, si sbracciavano per attirare la mia attenzione e tutta una serie di altri gesti che, ormai, avevo imparato a gestire e a considerare “normali”. Inoltre, finché Denise fosse stata accanto a me, non mi sarei dovuto preoccupare, perché lei comprendeva sempre e non era gelosa. Non sarebbe potuta stare insieme ad un personaggio famoso, altrimenti.

Così, non ci ho più pensato.

Ci siamo visti altre volte, abbiamo anche scambiato delle e-mail, ma niente è nato e niente è cambiato per me.

O almeno, così credevo, finché non ho saputo cosa le è successo.

E finché non ho saputo cosa significavo per lei.

E cosa lei significava per me.

Si chiamava Violet, una ragazza come tante. No, non come tante, come nessuna.

I suoi occhi erano spesso persi nel vuoto e questo mi induceva a cercarli, disperatamente, a fissarli e a tentare di capire se riuscissero ad intravedere i miei.

Ma era inutile, Violet non mi vide mai.

Non ho mai pensato di incontrarla al di fuori delle mie serate, non ho mai avuto alcun motivo per farlo.

Se lo avessi fatto, forse, qualcosa sarebbe stato diverso.

Ma, del resto, non ne avevo bisogno. Avevo tutto: un lavoro che mi appassionava, una donna che mi amava, una famiglia come tante, amici a volontà… lei era solo una fan, una delle tante.

E allora perché mi sento in colpa, ancora oggi?

Sono passati anni, Denise non so neanche che fine abbia fatto, non mi importa.

Sono solo.

E sono un mostro.

Lei mi aveva inviato dei segnali. Mi aveva detto che sentiva di trovarsi a suo agio con me, che sentiva come se ci conoscessimo da una vita, confermando così la mia stessa impressione.

Ma non le ho badato, non era così importante.

Sono stato gentile, questo sì, lo ero sempre con tutti.

Però lei avrebbe voluto di più.

E no, non voleva il mio cuore, non il mio amore, bensì avermi al suo fianco, accettando qualunque cosa avessi potuto darle. Forse mi amava, non lo saprò mai, ma sapeva che il mio cuore non poteva appartenere che a Denise.

In ogni caso, non era una relazione amorosa che desiderava, non era questa la sua priorità.

In me aveva scorto qualcosa e anch’io avevo trovato lo stesso in quello sguardo senza vita.

L’avrei capita, l’avrei aiutata, avrei fatto ciò che era necessario, invece sono rimasto a guardare.

Cerco di ricordare il suo sorriso, così luminoso, così spontaneo e affettuoso, la sua mano che cercava a tentoni la mia, per poi stringerla forte, con fare rassicurante e, allo stesso tempo, con un’implicita nota di disperazione, che celava una richiesta d’aiuto che io ho prontamente ignorato.

Si sentiva oppressa dalla vita che non aveva. Ora me ne rendo conto.

Era intelligente, brillante, piena di potenzialità, ma non aveva i mezzi per realizzarsi.

Io l’avrei potuta aiutare, cosa mi sarebbe costato concederle la mia amicizia, il mio appoggio, il mio sostegno?

Non lo capisco, credo di aver temuto, inconsciamente, di rimanere intrappolato in sentimenti che non volevo prendere minimamente in considerazione.

E ora me ne pento, forse avrei dovuto dare ascolto al mio cuore, all’istinto, senza pensare soltanto in maniera razionale.

E il suo sorriso non lo ricordo più.

L’unica immagine che è rimasta nitida e inalterata nella mia mente, continuando a tormentarmi per tutto questo tempo, è quella dell’ultima volta che l’ho vista.

Gli occhi tristi, spenti, come se tutta la sua persona fosse stata prosciugata da ogni sentimento positivo.

Lei non si è avvicinata a me e io non sono andato da lei.

Perché?

Non me lo spiego, ci sono troppe domande a cui non riesco a fornire una risposta.

L’ho osservata da lontano, ma ho capito che era strana.

Ho avvertito una sensazione sgradevole, poi ho subito pensato a Denise e ho scacciato i cattivi pensieri.

Poi ho trovato, il giorno dopo, la sua ultima e-mail, così triste, così disperata, così vuota e piena allo stesso tempo.

Mi si è stretto il cuore, perché lei mi stava salutando, mi stava abbandonando come io avevo abbandonato lei.

Mi ha chiesto perché la vita le avesse voltato le spalle, perché l’ultima sua speranza si fosse spenta, perché tutto fosse destinato a finire ancor prima di cominciare.

Infine, in maniera confusa, mi confessava che un tumore la stava mangiando, che non avrebbe resistito a lungo e che non voleva più saperne di me, perché il mio pensiero le faceva male, la feriva più dell’indicibile destino che la aspettava.

Io non avrei saputo fare niente per quel tumore, questo lo so, certe cose non rientrano certo nelle potenzialità di un comune essere umano.

Ma so che le avrei potuto dare molto di più, allietare la sua scomparsa, fare qualcosa, se solo avessi aperto gli occhi, se solo non avessi galleggiato perennemente nella mia vita perfetta.

Invece, l’ho lasciata morire da sola e non ho saputo rispondere a quelle parole, all’ultimo, disperato appello che mi ha lanciato.

Ho semplicemente chiuso gli occhi, calando su di essi uno spesso drappo nero, accettando per l’ennesima volta una cecità che non avrebbe dovuto appartenermi.

Se c’è una cosa che ho imparato da lei, è che non sono gli occhi a donarci la vista, ma ciò che le sensazioni cercano di comunicarci. Non dovremmo mai ignorarle, perché la vita è troppo breve, troppo effimera per permetterci di sprecare momenti preziosi.

Quest’esperienza mi ha distrutto.

Continuo a guardarmi allo specchio, sforzandomi di trovare in me un tenue riflesso di ciò che lei è stata.

Ma in me non c’è niente, fuorché un dolore inspiegabile.

La mia vita è stata perfetta e io l’ho distrutta con le mie stesse mani, nonostante qualcuno abbia insinuato che è stata Violet a farlo. Lei mi avrebbe reso una persona migliore, mi avrebbe fatto conoscere il dolore e la morte, in modo che, in seguito, imparassi ad apprezzare e a godermi maggiormente la vita. Avrei potuto vivere per lei, portarla con me in ogni ricordo e in ogni gesto, invece ho smesso di vivere con lei, travolto e corroso dai sensi di colpa e da una sofferenza che non so descrivere a parole.

Non le ho permesso di aiutarmi e non ho saputo aiutarla.

Ho preferito non vedere, voltarmi dall’altra parte e adagiarmi sulla mia illusoria felicità.

E adesso, fissando la mia immagine allo specchio, capisco di essere diventato cieco anch’io.

Violet ha sofferto molto ma non ha mai smesso di vivere, di lottare, di sperare, neanche quel giorno in cui i suoi occhi mi erano parsi tanto tristi e spenti.

Quel giorno lei era lì, con il cancro che la divorava e il sorriso sulle labbra, nonostante il suo viso non fosse più luminoso come una volta.

Ma io l’ho ignorata, come al solito.

E adesso so che non avrei dovuto farlo.

  
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