Chapter 12: Nails and memories
Dapprima
pensò ad
un'allucinazione. Era rimasto in quella stanza buia per talmente tanto
tempo
che non si sarebbe stupito del fatto d'essere impazzito e di vedere
cose che
non esistono. Fu per questo motivo che inizialmente non fece molto caso
a
quello che aveva visto. Ma più pensava che il chiodo fosse
un'allucinazione,
più la sua coscienza diceva che non lo era. Lloyd da parte
sua non sapeva
proprio a chi credere, se alla sua ragione o alla sua vista.
Inizialmente era orientato verso
la ragione, ma continuava a dubitare dei suoi stessi ragionamenti, e
continuava
a gettare occhiate nervose al piccolo arnese di ferro. E se fosse stato
reale?
Se non fosse stato solo il frutto della sua immaginazione e della sua
pazzia?
Se magari fosse veramente quel che sembrava e la mente non gli stesse
giocando
un brutto scherzo? D'altro canto se ci avesse voluto arrivare si
sarebbe dovuto
muovere, ed era un bel po' di tempo che non cambiava posizione. Le
zampe non
rispondevano più ai comandi, ed era un miracolo che
riuscisse a muovere ancora
la testa e il collo.
Alla fine decise di rischiare.
Avrebbe sì speso preziose energie, ma sarebbe stato per una
buona causa.
Lentamente, faticosamente, cominciò a trascinarsi verso il
pezzettino di ferro.
Doveva essere veramente uno spettacolo penoso e umiliante, ma oramai
aveva
cominciato quell'impresa ed era intenzionato a portarla a termine,
indipendentemente dal risultato che avrebbe ottenuto. Alcune volte le
forze gli
vennero meno e fu costretto a fermarsi, e la sua volontà
più volte vacillò
all'infida idea di fermarsi e tornare a dormire.
Ma, nemmeno Lloyd riuscì mai a
capire come, resistette. Resistette alle tentazioni e all'impulso di
fermarsi.
Resistette al buio che l'avvolgeva, resistette alla voglia di
arrendersi. La
sua forza di volontà si rivelò abbastanza forte,
e in qualche modo riuscì a
muovere ancora per un po' le spalle, cercando di trascinarsi fino al
muro.
E quando effettivamente arrivò a
toccare la parete tirò un sospiro di sollievo e
ringraziò Arceus per avergli
dato la forza. Mosse il collo e la testa, cercando di individuare la
posizione
del chiodo. E lo vide, a meno di un metro di stanza, piantato nel muro
a circa un
metro e venti da terra. Adesso doveva solo toccarlo per vedere se era
davvero
consistente come la sua vista gli stava facendo credere.
Ed era proprio questa la parte
difficile. Non aveva la minima idea di come fare a toccarlo. Prima di
tutto era
posto troppo in alto per la sua statura. Avrebbe potuto cercare di
ergersi
sulle zampe per provare a toccare con la testa il chiodo, ma aveva
già speso
tutte le sue forze nel suo viaggio di poco prima. E non gli venivano in
mente
altre idee, per cui alla fine giunse alla conclusione che la soluzione
migliore
era aspettare che gli tornassero. Per cui si mise lì,
adagiato al muro, e
aspettò.
Presto la realtà cominciò a
confondersi con la fantasia, e si ritrovò nel mondo dei
sogni. "Eppure non
mi sembra di essermi addormentato". Ma in fin dei conti in quelle
condizioni poteva fare poco o null'altro. E quindi eccolo
lì, sospeso
nell'oscurità. Si ricordava di averlo già fatto,
quel sogno. E ricordava anche
la muraglia nera. Infatti era lì, non molto distante da
Lloyd, e pulsava come
suo solito. Ovviamente a un ritmo più veloce dell'ultima
volta, ma questo il
Deino lo sapeva già.
Dapprima non gli sembrò di
provare niente, almeno finché non sentì il
calore. Ebbe un fremito, ma poi
riconobbe che gli piaceva quella sensazione. Si abbandonò
allora al piacere, e
pensò che in fin dei conti quella cosa non era poi
così brutta come l'aveva
pensata. Poi però il calore si fece più intenso
fino a scottare. E decisamente
questo non gli piaceva.
Provò a scuotersi e a muoversi in
tutti i modi per scacciare il fastidioso calore, ma non
sembrò funzionare.
Anzi, si fece anche più intenso, e la percezione del pokemon
da fastidio si
tramutò in dolore. Si divincolò come un pazzo
tentando di far cessare il
dolore, ma più opponeva resistenza e più
aumentava d'intensità. Fu così che
cominciò ad urlare.
La voce riscosse dal sono il
pokemon Impeto. Strinse più volte gli occhi per riprendersi
dall'incubo, poi
cercò di muoversi. Ciò gli procurò un
po' di dolore dovuto all'indolenzimento e
anche allo sfregamento delle corde sulla pelle, ma con soddisfazione
realizzò
di essersi mosso di qualche centimetro.
Solo allora pensò alla voce. Non
era stato di certo lui a parlare, non era la sua. E allora chi...
- Lloyd? Sei... sei tu?
Nellie. Allora era lei ad essersi
svegliata. "Forse è un bene" pensò il Deino "Non
so se Finley mi
avrebbe potuto effettivamente aiutare". Non sapeva perché ma
sentiva che
il Rufflet non gli sarebbe potuto tornare utile.
- C-c... - provò a farfugliare
Lloyd - C'è d... c'è d...
- Lloyd... cosa vuoi dirmi...?
Il pokemon Impeto non riusciva a
parlare. Aveva totalmente esaurito le forze, o forse invece era solo
l'euforia
per aver trovato una possibile via di fuga a farlo balbettare. Decise
di
rinunciare in ogni caso. Pensando che magari l'amica potesse avere fame
mosse
ripetutamente la testa verso il vassoio col cibo. La Torchic
seguì con lo
sguardo i gesti e alla fine comprese, dirigendosi verso le Bacche.
Nellie provò a muoversi, ma
realizzò presto la gravità della loro situazione.
Si trascinò allora fino al
cibo e cercò di afferrarne col becco un po', masticando
mentre il succo le
colava sulla guancia. "Non è un bello spettacolo"
pensò Lloyd, e
chiuse gli occhi.
Nellie, vedendo che l'amico aveva
chiuso le palpebre, si preoccupò e lo richiamò.
- No! - esclamò a bocca piena -
Lloyd, non farlo! Non ti riaddormentare!
Il Deino venne riscosso dai suoi
avvertimenti. Non si era nemmeno accorto di aver chiuso gli occhi. Se
ne
dovevano andare di lì al più presto. Ma prima
avrebbe fatto finire di mangiare
a Nellie, e solo dopo avrebbe tentato di farle capire le sue intenzioni.
Quando era arrivato al muro aveva
pensato a come poter fare per arrivare a toccare il chiodo. Non ci
sarebbe
arrivato da solo, questo era certo. Vedendo svegliarsi Nellie aveva
però avuto
l'illuminazione, e forse poteva trovare una soluzione. Adesso che aveva
recuperato le forze avrebbe potuto tentare di puntellarsi sulle zampe,
e magari
prendendo Nellie in groppa lei sarebbe potuta arrivare a toccare il
metallo. E,
chissà, magari quel chiodo sarebbe stato abbastanza
acuminato da lacerare quel
materiale che le teneva bloccate le ali.
- Prima stavi urlando.
Le parole di Nellie riscossero
Lloyd dai propri pensieri. Non potendo parlare fece un gesto perplesso
con la
testa. La Torchic, probabilmente intuendo il problema dell'amico,
glielo confermò
di nuovo.
- Stavi urlando. Forse è stato
merito tuo se mi sono svegliata. - . Si gettò un'occhiata
intorno, e poi
affermò che quel posto non le piaceva per nulla. "Bella
scoperta"
pensò leggermente infastidito Lloyd "Ah, le donne.".
Quando il Pulcino ebbe finito di
mangiare Lloyd cercò di attirare la sua attenzione. Una
volta che Nellie lo
ebbe adocchiato, Lloyd prese a indicare con la testa sopra di
sé, verso il
chiodo. Vedendo che la compagna non capiva, il Mezzo Drago
cercò di aiutarsi
con il labiale.
- S-sopra... sopra d... d...
di... sopra di...
- Cosa? Sopra di cosa? - chiese
Nellie, leggermente preoccupata.
- Sopra di... me... sopra di
me...
- Sopra di te cosa?
- Ch... Chi... chio... sopra di
me... chio...
- Sopra di te chio?
- Chiodo... chiodo...! - sibilò
il Deino, esasperato.
- Sopra di te chiodo? - e solo
allora lei alzò la testa verso la direzione indicata
dall'amico. Vide il chiodo
e abbassò di nuovo la testa verso Lloyd. Sembrava ancora
confusa. Lloyd non
sapeva che Magikarp prendere per farglielo capire. Finché
gli venne un'idea.
Chinò il muso fino alle corde che legavano le zampe
anteriori e le morse,
facendo come per cercare di lacerarle. Poi indicò con la
testa il chiodo. Lo
fece ancora per due o tre volte, e finalmente Nellie comprese cosa
Lloyd voleva
farci con quel chiodo.
- Ho capito! Vuoi usare il chiodo
per sciogliere le corde!
Il Deino disse di sì con la
testa, gratificato. Ora doveva cercare di farla salire sulla sua groppa.
- S-sal... sali...
- Lloyd, ho capito che non ce la
fai a parlare. Forse ho capito come fare per usare il chiodo. Ce la fai
a
prendermi in groppa?
A sentire queste parole il Deino
sbatté la testa contro la parete.
***
Neville
si svegliò dall'ennesimo
sonno. Non se ne stupì affatto, anzi, oramai nemmeno gliene
importava più. Di
lì a poco sarebbe morto, e per quel che riguardava aveva
risolto tutti i suoi
affari in sospeso, se pur ne aveva mai avuti.
Si portò una mano agli occhi e se
li strofinò, cercando di scacciare le ultime tracce di
sonno. Si guardò
attorno, e capì di essere nel suo studio. Si tirò
su e si diresse verso la sua scrivania.
Il libro era lì, con la sua lucida copertina nera e le sue
scritte dorate e
rilucenti. Si sedette, e prese a sfogliarlo.
Le pagine erano ingiallite dal
tempo e molto sottili, quasi al punto che vi si poteva vedere
attraverso. Le
scritte vergate in inchiostro nero risaltavano su quella fragile carta,
al
punto che ogni volta che Neville vi posava gli occhi quasi vi si
perdeva.
Sorpassò il nome dell'autore, oramai sbiadito. Le uniche
lettere rimaste
leggibili erano la "R" iniziale del nome proprio e il "son"
del cognome, ovvero la sua parte finale. A Neville in fondo non
importava
veramente sapere chi l'avesse scritto, gli bastava che lo fosse stato.
L'aveva trovato mentre era ancora
intento a peregrinare, molti anni prima. Un giorno era entrato in una
grande
biblioteca, e aveva portato via con sé qualche libro giusto
per passare il
tempo. Ma tra tutti quelli che aveva preso era stato quello a colpirlo
di più,
in particolare la sua parte finale. L'aveva letto e riletto, e
più lo rileggeva
e più gli piaceva. E più gli piaceva e
più ne diventata ossessionato.
Ossessionato a tal punto da progettare la propria fine sul modello
della morte
del protagonista.
Richiuse il libro. Si sentiva
ancora troppo frastornato per poter leggere. Due passi all'aria aperta
gli
avrebbero solo fatto bene.
***
La
cosa che più suscitò orrore e
sorpresa nel gruppo fu il momento in cui trovarono la scritta. Era
stata fatta
sul muro del salotto, in un punto spoglio da oggetti come quadri,
mensole o
cose del genere. Il materiale con cui era stata vergata sembrava
vernice, ed
era rosso. Quando ancora non si era asciugata del tutto delle gocce
erano
colate giù lungo l'intonaco, lasciando striature sanguigne
in mezzo a quel
giallo smorto, il che contribuiva a rendere la scena più
desolante di quanto
già non fosse.
Gli umani non sono morti. Il
messaggio recitava così. Nessuna
possibilità di fraintendimento, il suo significato era stato
recepito forte e
chiaro da chiunque l'avesse letto. Cioè praticamente tutti.
I più colpiti
sembravano essere Olston e Sanford, forse perché loro li
avevano già visti una
volta, gli umani, visto che erano presenti alla Battaglia. Nessun
membro della
famiglia poteva vantare d'essere anziano quanto loro, e i trentaquattro
anni di
Darren impallidivano a confronto dei cinquantaquattro di Olston e dei
cinquantatre di Sanford.
Per un po' nessuno seppe cosa
dire. Olston si era portato l'artiglio destro sugli occhi e aveva
stretto i
denti. Sanford invece era rimasto fermo ed immobile ad osservare la
scritta,
gli occhi sgranati e la bocca leggermente aperta per lo stupore. La
loro
reazione in fin dei conti era comprensibile, sapere che gli umani non
erano
stati eliminati mezzo secolo prima era una notizia assai sconvolgente,
e lo
doveva essere soprattutto per i due membri anziani. Era normale che
reagissero
così.
Cominciarono allora a serpeggiare
i primi mormorii.
- Esistono ancora umani?
- Cosa è successo mentre non
c'eravamo?
- Che fine hanno fatto quelli che
erano qui?
- E adesso, cosa succederà?
Sanford si girò, un'espressione
indecifrabile in volto. Si diresse verso la poltrona più
vicina, vi si lasciò
cadere a sedere, si chinò su sé stesso e
portò le zampe in volto, coprendoselo.
"Deve essere rimasto davvero traumatizzato" pensò Avery
"Perdere
una figlia non dev'essere per nulla facile". All'interno della loro
famiglia erano pochi i legami di sangue veri e propri, e uno di questi
era
quello tra Sanford e la figlia Nellie.
Olston invece rimase dov'era.
Nessuno osò nemmeno avvicinarglisi, poteva non essere sicuro
farlo in momenti
come quello. Il Gabite era sempre stato molto più
controllato rispetto a
Sanford, al quale non importava di nascondere la rabbia, e ben di rado
Olston
era stato visto perdere il controllo. Ma quelle poche volte era bastato
a
tutti. Lo testimoniavano le finestre rotte dall'ultima volta, e si era
pensato
che fosse entrato nello Stato Berserk, anche se fortunatamente si era
ripreso
alla svelta. Se fosse entrato nel Berserk avrebbe fatto molti
più danni.
Dopo quello che parve un tempo
infinito, finalmente il Gabite si voltò, uno sguardo pregno
di determinazione
impresso in volto. "Non l'ha mai avuto prima d'ora" pensò
Avery,
leggermente turbato. Di solito Olston manteneva sempre un portamento
calmo ma
allo stesso tempo intimidatorio, senza mai però eccedere in
espressioni troppo
convinte o movimenti bruschi. Questa faccenda doveva essere
più grave di quanto
tutti loro potessero lontanamente immaginare.
- Darren, John, Tohr, Mike,
Pearl, andate fuori e cominciate a perlustrare la zona. Voglio che ogni
fenditura, ogni sentiero, ogni roccia, ogni lago, ogni ruscello, ogni
sasso di
questa montagna venga controllato bene, e quando avrete finito passate
al Benn
Englar e all'Amochag. Voglio che siate qui entro domattina. Via, andate.
- Aspetta - ribatté John, uno
Snover piuttosto slanciato per la sua specie - Come facciamo a
controllare
tutto per domattina? Potrebbero essere dovunque, anche non...
- Andate. - sibilò il pokemon
Grotta, fulminando, anzi, incenerendo lo Snover con lo sguardo -
Subito. E
tornate entro domattina. I cinque non poterono far altro che obbedire,
e
uscirono nel silenzio generale.
- Beth, Cirian, Keith, Ioseph,
andate a guardia degli ingressi. Roland e Devlin, sul tetto. Augustine,
torna
in infermeria e comincia a curare chi ne ha più bisogno.
Tutti gli altri,
aiutatela. Una volta che ci saremo rimessi andremo alla ricerca di
Nellie e
degli altri. Gliela faremo pagare eccome a chiunque li abbia presi, sia
un
umano un pokemon o quel che cazzo Giratina ha deciso di metterci
contro. Non
permetterò che a nessun membro della mia famiglia venga
torto un pelo. - .
Detto questo uscì dalla stanza, dirigendosi presumibilmente
verso la sua
stanza. "Eppure siamo partiti in ventitré e siamo tornati in
diciassette,
escludendo Sanford. Forse è tardi per reagire."
pensò Avery, un tantino
amareggiato.
Tutti rimasero immobili per
alcuni istanti, finché qualcuno incominciò a
rompere le righe. Ogni membro
della famiglia si diresse verso dove gli era stato ordinato da Olston.
Almeno
tutti fuorché Avery. C'era ancora qualcosa che non aveva
intenzione di lasciare
in sospeso.
Invece che andare verso le scale,
le quali gli avrebbero permesso di raggiungere facilmente la soffitta e
quindi
il tetto, si diresse a grandi falcate verso Sanford, ancora seduto il
poltrona.
Con una forza che nemmeno il Machop pensava di possedere,
sbatté violentemente
le mani sui braccioli (il Blaziken non vi aveva appoggiato le braccia),
e
cacciò fuori un urlo poderoso, con una voce che Avery stesso
stentò a
riconoscere.
- Ci avete mentito! Ci avete
sempre mentito! Avevate detto che gli umani erano morti, che erano
stati uccisi
tutti nella Battaglia, cinquant'anni fa, e invece ecco qua! Sarebbero
morti,
eh?! Pretendo una spiegazione! Perché ci avete mentito?!
Eh?!? PERCHE'!?!
Per un secondo Sanford rimase in
silenzio, chino su se stesso, nascondendosi la faccia con le zampe. Il
secondo
successivo la scoprì, rivelando un volto contratto, anche
troppo. Quello dopo
si raddrizzò sulla poltrona, facendo notare la differenza di
altezza, pure più
del doppio, rispetto ad Avery, guardandolo negli occhi. Quello dopo
ancora si
lasciò ricadere stancamente sul morbido schienale.
Nella stanza era ancora rimasto
qualcuno, e la scena era stata vista da un po' di gente. Dalla fine
dello sfogo
di Avery c'era stato solo silenzio, che venne infine rotto dalla voce
di
Sanford.
- Hai ragione, vi abbiamo
mentito.
Il tono era molto diverso da
quello che il Blaziken possedeva solitamente. Di norma manteneva sempre
un
comportamento spavaldo, iracondo e superbo, degnandosi ben poche volte
di
ammettere i propri errori o comunque di darla vinta a chicchessia.
Adesso
invece il tono era molto più mesto, quasi rassegnato, e nei
suoi occhi non era
rimasto nulla di quell'espressione fiera che lo caratterizzava. Non
c'era
preoccupazione, rabbia o paura, solo... tristezza. Avery tutto si
sarebbe
aspettato, meno che quello.
- Adesso, se magari volete starmi
a sentire, vi racconterò tutto. - . Si riaccomodò
sulla poltrona, dando il
tempo a chi lo voleva di avvicinarsi per sentire la storia.
- Come tutti voi saprete, io ed
Olston combattemmo nell'Ultimo Esercito, quasi cinquant'anni fa oramai.
Eravamo
due giovani spavaldi, io ancora un Combusken e lui un Gible, e ci
arruolammo
come volontari non appena sapemmo della costituzione dell'armata. Ci
unimmo per
il gusto del combattimento, per la voglia di avventure e di nuove
esperienze,
ma anche per il Sacro Obbiettivo: distruggere gli umani.
Io e Olston al tempo abitavamo, o
per meglio dire eravamo, nella Repubblica, giù a sud.
Più di preciso eravamo a
Londra, la grande città umana che era un tempo, adesso
capitale repubblicana.
Eravamo venuti a sapere di questa guerra, ma inizialmente non ci
interessava,
almeno finché non sentimmo predicare. Tutta la
città si era riempita di
religiosi, fanatici predicatori di Arceus e della liberazione dalla
schiavitù
umana. Anche se va detto che in realtà erano almeno
sessant'anni che nessun
pokemon era stato più soggetto al volere di un uomo.
L'umanità era una grande razza,
questo va detto, ma fu messa in ginocchio da due grandi guerre,
svoltesi
nell'arco di meno di mezzo secolo. All'inizio dei conflitti erano
numerosi,
molto numerosi, ma le guerre furono talmente devastanti che le loro
fila si
assottigliarono drasticamente. E come se non bastasse, una volta finita
la
seconda guerra cominciarono le Guerre di Liberazione. Dapprima furono
in pochi
a insorgere, man mano sempre di più. I pokemon cominciarono
a prendere il
sopravvento, dapprima scacciando gli umani dalle loro case e
depredandoli dei
loro averi e possedimenti, poi passando direttamente a trucidarli.
Così, quelle
che dapprima erano cominciate come semplici scorribande, presto si
trasformarono in Guerre Sante.
Furono quindici anni di sangue.
Umani e pokemon si affrontarono i centinaia, migliaia di scontri, l'uno
più
sanguinoso dell'altro, e quasi sempre la vittoria arrideva a noi.
Ritenendo i
loro animali indegni anch'essi vennero trucidati, nonostante molti
sapessero
che gli umani per crearci si erano ispirati a loro. E così
noi avanzavamo, e
loro retrocedevano. Sempre di più, sempre di più,
finché rimasero in pochi. La
maggior parte di loro si raggruppò proprio nelle terre dove
ci troviamo noi,
forse un po' più a sud di qui, magari dopo il lago di Ness.
Questi
sopravvissuti fondarono un nuovo stato, e piuttosto che tentare di
resistere
con le armi cercarono di arrangiare una pace con la nostra specie, che
nel
frattempo si era impossessata della parte sud dell'isola
(perché sì, la nostra
è una grande isola).
Per tre o quattro anni la pace
sembrò reggere, al punto che l'ultimo stato umano
cominciò piano piano a
stabilizzarsi. Ma fu allora che cominciarono le prediche e i fanatismi.
Certi
avevano paura che gli umani, una volta riorganizzatisi, cercassero di
riacquistare il dominio su di noi, altri invece vedevano quella nazione
come
una minaccia da stroncare, e fu così che quei facinorosi
trovarono un terreno
fertile su cui coltivare.
Io ed Olston avevamo sempre
vissuto per strada, e ci unimmo all'Ultimo Esercito per tre motivi:
stava
arrivando l'inverno e il cibo cominciava a scarseggiare, le motivazioni
dette
prima e infine perché rimanemmo affascinati dalle parole dei
predicatori. Non
so perché, ma c'era qualcosa nel loro modo di parlare, nel
loro modo di
trasmettere le proprie idee... Insomma, alla fine ci arruolammo, e
partimmo
verso nord.
Nel giro di un mese le poche
difese che gli umani erano stati in grado di disporre furono
annientate. Gli
uomini si ritirarono a nord, sempre più a nord, mentre noi
li incalzavamo, non
lasciandogli tregua. Ne uccidemmo molti in svariati piccoli scontri, ma
era
robetta. Di uomini ne restavano ancora qualche migliaio, e scelsero
come ultima
soluzione quella di barricarsi all'interno della fortezza di Stirling.
Stirling era, ed è tutt'oggi, un
vecchio forte umano risalente a molti secoli fa, dalle mura spesse e
dalla
posizione favorevole. Gli uomini lo scelsero proprio per questo come
ultima
dimora, e anche perché non avevano altri posti dove andare.
Decisi a farli
soffrire fino alla fine, assediammo la fortezza al fine di farli morire
lentamente per fame.
Ma non avevamo fatto i conti con
la loro determinazione. Una notte si levarono canti dal forte, quasi
come se
stessero festeggiando, e il giorno dopo ci fu tutti che quella chiamano
la
Battaglia, lo Scontro, l'Ultima Battaglia, lo Scontro Finale e cose del
genere.
Ricordo bene quel momento. Io ed
altri ci eravamo accampati in prossimità di un bosco, e
proprio lì, grazie ad
una rete di passaggi segreti, emersero molti uomini dal terreno,
assieme a
delle strane macchine di metallo. Vi montarono sopra, azionarono i
motori e ci
caricarono. Ricordo di essere stato travolto e solo dopo di aver
iniziato a
combattere.
Quel giorno uccisi almeno una
mezza dozzina di avversari, ma uno di loro mi restò
particolarmente impresso.
Era un umano basso, tozzo e vecchio, a giudicare dal suo aspetto. Ci
ritrovammo
l'uno davanti all'altro a causa della confusione e del movimento
continuo della
battaglia, e ci preparammo ad ingaggiare battaglia. Vedendo che
assumeva la
posizione iniziale delle arti marziali lo imitai. Da giovane le
praticavo, dopo
averle imparate nell'Ultimo Esercito. Me la cavavo anche discretamente,
a dirla
tutta.
Ma, nonostante fossi bravo, il
mio avversario lo era di più. Nonostante fossi
più alto, più atletico e più
forte di lui, riuscì a farmi mettere sotto. Mi incalzava
sempre, non mi dava
tempo di riprendere fiato, mi stava col fiato sul collo e non mi
permetteva di
utilizzare appieno il mio potenziale. Allora ebbi paura, e feci una
cosa che il
codice d'onore prima e la mia coscienza poi mi hanno sempre
rimproverato di
aver fatto. Deciso a non farmi sconfiggere da un umano, caricai il
pugno di
fiamme, così - e eseguì la mossa per dimostrarlo
- e, cercando di concentrarvi
tutta la potenza che avevo in corpo, lo colpì.
Lo presi alla gamba, che si
incenerì all'istante. Non mi dimenticherò mai lo
sguardo che fece. Sgranò gli
occhi e mi guardò per un tempo che parve infinito. Poi
crollò a terra, morto. Lo
uccisi slealmente, continuo a ripetermelo tutte le notti. Violai il
codice
d'onore delle arti marziali, e questo non me lo sono mai perdonato.
Lì per lì
non ci pensai, ma dopo qualche tempo decisi che non le avrei praticate
più. Ne
avevo abusato già una volta, e non l'avrei fatto di nuovo.
Nel
frattempo che io combattevo,
altri umani erano usciti dal forte, tentando di rompere l'assedio. Ma
ottennero
solo l'effetto di spalancare le porte alla loro rovina. I miei compagni
d'arme
si riversarono all'interno della fortezza, chi passando attraverso la
porta
aperta e chi distruggendo sezioni di muro. Fu un massacro. Gli uomini
di
entrambi i sessi, i loro cuccioli, i loro animali, i loro oggetti,
qualunque
cosa si trovasse all'interno della fortezza, venne distrutto.
La mattina dopo venne accolta dai
gemiti e dalle urla dei feriti, dal crepitio del fuoco e dall'odore du
fumo e
sangue. Niente né di eroico né di glorioso,
checché ne dicano i libri. Avevamo
ucciso gli umani, ma ad un prezzo altissimo, per cui per quel momento
ci
ritirammo.
Visto che né io né Olston eravamo
rimasti feriti in modo grave nella battaglia, ci mandarono alla ricerca
di cibo
all'interno del forte. Non vi dirò cosa vidi lì
dentro, vi basti sapere che la
pietra che costituiva la struttura della fortezza da marrone era
diventata
rossa. Vi dirò invece quello che vidi quando mi affacciai
alle mura. Tre
uomini, a bordo di una di quelle macchine di metallo, che si
allontanavano dal
luogo della battaglia. Eravamo troppo lontani da loro per poter fare
alcunché,
e non avevamo per niente voglia di combattere, così non
dicemmo niente.
Dissero che dopo la battaglia di
Stirling la razza umana si era estinta per sempre, ma io e Olston
sapevamo che
non era così. Ho sempre convissuto con la consapevolezza che
c'erano ancora
umani in giro, e ho sempre avuto la paura che un giorno ce l'avrebbero
fatta
pagare. E credo che quel giorno sia arrivato. Si sono presi la mia
bambina, e
non si fermeranno qui. - .
Il silenzio, che pure era stato
presente sin da quando Sanford aveva cominciato a raccontare, si fece
ancora
più carico di tensione.
- Adesso, se volete scusarmi,
devo andare. Devo parlare con Olston.
Si alzò, e uscì dalla stanza.
Buon anno! Buon 2015 (in ritardo ma va bene lo stesso)! Come va? Come state? Io benissimo, e come potete vedere la storia si avvia verso la sua fine. Spero che la storia della fine degli umani vi sia piaciuta, e tengo il pezzo forte ancora in serbo per gli intenditori, aspettate e abiate fiducia.
A_e