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Autore: Florelle    18/11/2008    0 recensioni
La storia è ambientata in Israele, durante la prima Intifada. E' nata come corollario ad una serie più lunga che sto continuando a scrivere, Caramel Popcorn, ma si può leggere benissimo come storia a sé stante. I pensieri di una donna e di una madre dopo la morte del marito non più amato e l'impatto del lutto nella vita di ogni giorno..
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Entra nel corridoio, in penombra. La casa è silenziosa, ma ormai ci ha fatto l’abitudine: c’erano anni in cui dovevi alzare la voce per trovare un po’ di quiete, per calmare l’irruenza infantile dei tuoi figli.

Appoggia la cartella di pelle nera sul pavimento lustro, con movimenti precisi, e reprime la tentazione di accenderti una sigaretta. Ne ha già fumate quattro venendo a casa; ha notato lo sguardo che ti lanciavano per strada alcuni uomini, scandalizzati e attratti dalla sua impudenza, dal movimento carnoso delle tue labbra attorno alla sigaretta.

Ha preferito non prendere l‘autobus per tornare, non è sicuro in questi giorni: la città vive in stato di assedio. Militari pattugliano le strade col mitra spianato, fermando chiunque sia sospetto, alcuni vecchi dagli occhi lucidi e cisposi, le rughe rigonfie nei visi rimasti magri, attendono, seduti di fronte a casa il conto dei nuovi morti dalla radio gracchiante, il fruscio di una televisione dalle finestre spalancate della signora Morritz (la pingue moglie del macellaio) apre una finestra perenne sull’orrore.

Tra poche ore inizia il coprifuoco, la città diventerà muta come la sua casa.

Sarah, questo è il nome della donna, guarda il suo orologio, un vecchio e prezioso Cartier, primo regalo di quell’uomo che fu il suo fidanzato. Tra pochi minuti suo figlio dovrebbe tornare a casa. No, tornerà a casa: aboliamo i condizionali, non facciamoci spaventare dal terrore.

 

Accende una lampadina fioca nel salotto perfetto e si accomoda sul divano color panna. E’ un vecchio sofà che hanno loro regalato il giorno delle nozze. Soltanto l’anno scorso, poichè il rivestimento originale era logoro e vecchio e neppure la lavatrice riusciva più a renderne brillanti i colori e ti eri stancata di rattopparne i buchi con le tue maldestre nozioni di cucito, hai deciso di farlo rifoderare.

Non hai detto niente a tuo marito, un giorno è tornato a casa e ha trovato il divano come nuovo. E’ rimasto stupito e sorpreso, vi si è seduto incredulo con quell’aria di imbarazzo che aveva sempre, quasi si sentisse un estraneo tutte le volte che tornava a casa.

Ha proibito ai bambini – bambini, si possono davvero definire così due creature di quattordici e nove anni e di questi tempi poi- di saltarci sopra, quasi di sedersi là senza permesso.

La disciplina è  la caratteristica che accomunava  i due coniugi. Con soddisfazione passa una mano sul cotone fresco e accendi la televisione, facendo forza sul telecomando nero che non funziona più così bene. Forse dovrebbero esserne sostituite le pile.

Si toglie le scarpe, sono decolletés dal taglio classico, nero lucido, molto sobrie e le lascia sul tappeto a colori variopinti, come due grossi insetti uccisi dal DDT. Poi ci ripensa, come per un subitaneo rimorso, si alza a fatica, le gambe gonfie per il troppo caldo, prende i due animali per appoggiarli sulla soglia di camera. Il contatto tra il pavimento lucido e i piedi, appena ovattato dalla calze fini è piacevole forse fin quasi lussurioso.

Di nuovo torna in salotto, stavolta si stende sul divano, sganciando i primi bottoni della camicetta di seta. La televisione proietta le immagini colorate di qualche programma di fine pomeriggio. Si alza di nuovo irrequieta e accaldata, vorrebbe aprire la finestra, ma non vuole che i rumori della strada disturbino la sua quiete. Nell’armadietto di finto noce sotto il televisore fanno bella mostra alcune videocassette disordinate. Ne prende una, la custodia nera è consunta, l’etichetta appiccicata sopra (un foglio di quaderno a quadretti con la rigatura viola ormai appena intuibile) reca in bella calligrafia, quella di suo marito, il titolo inglese di un cartone animato.

Inconsapevolmente si lascia assorbire dal fruscio della coda iniziale e poi dal mondo di fiaba che entra improvvisamente nella stanza, mentre Little John l’orso scorrazza per il bosco insieme a quella volpe di Robin Hood.

 

“Non ci si comporta così a due mesi dal lutto.” Le pare di sentirle le voci del quartiere, le voci della gente, di quella massa di imbecilli (niente più sono ai tuoi occhi) là fuori.

Ai loro occhi è sempre stata una donna diversa, una straniera. I suoi genitori sono venuti dall’America..ma che cosa conta questo in un paese che non è un paese, ma una pentola bollente di ingredienti diversi?

Si è sempre vantata di essere indipendente economicamente e culturalmente, di poter decidere anche in assenza di tuo marito. E d’altronde come avrebbe vissuto altrimenti con un maresciallo per compagno, sempre fuori di casa? Se non fosse stata così com’è, non si sarebbero neppure sposati.

Ha sempre deciso da sola, sull’educazione dei figli, sulla condotta della casa, dalla copertura del divano ai lavori di manutenzione.

Non che non la insospettissero mai le lunghe assenze del marito, ma ormai ci aveva fatto l’abitudine e inoltre non aveva così voglia di sapere. Abituata alla ricerca come lavoro, voleva lasciarla dietro la porta di casa alla sera.

Ci sono cose che è meglio ignorare.

Toglie i collant, divenuti improvvisamente fastidiosi e insopportabili. Sono bagnati dove toccano l’incavo perfetto delle ginocchia.

E’ affascinante e lo sa. Le dicono che si comporta da attrice, ma per lei non è un vanto. E’ una donna intelligente, piena di risorse, una donna per la quale il copro è solo un utile strumento. Si accarezza per un attimo le cosce, sollevando leggermente la gonna.

Quanto la fanno sospirare quelle carezze.

 

Quelle mani, le sue, sulla tua pelle.... E lo sguardo, è importante lo sguardo di un uomo, il suo tocco gentile, la sicurezza che può darti.

David l’ha fatto innamorare, innamorare davvero, quattro anni fa.

Non le è mai passato inosservato quel collega di qualche anno più grande di lei, ma si saziava di guardarlo nell’esibizione del suo fisico snello e asciutto, quasi piccolo, nella perfezione del suo volto pulito. Saggia ostentazione.

Neppure Jahvé può evitare di innamorarsi, anche se si è già sposati. Si può sbagliare nel trovare la propria anima gemella.

David le offre un amore maturo, un amore geloso, ma non oppressivo, che rispetta il suo essere donna e la sua forza, ma adora anche le sue debolezze.

Le dona ogni suo respiro e lei lo cattura e lo conserva nel petto e negli occhi, anche la notte è attenta a non farsene scappare neppure uno. E’ forse questo il vero amore.

Così è cominciata la sua doppia vita, di cui nessuno si è accorto. Non un marito troppo distratto e non certi i figli, già così assenti, divorati tra lezioni e sport. Così è cominciata la favola.

 

E a ben pensare non voleva due figli, uno bastava. Ma avrebbe tanto desiderato una bambina. Una piccola femmina da crescere, con cui condividere l’innata scienza dell’essere donna.

A volte si trova spiazzata, non sa come interpretare i silenzi di due adolescenti.

Il più piccolo è rimasto gioviale, forse un po’ troppo irruento, le guance rosse e la voce ancora stridula da bambino felice. La mattina va a scuola poi via al campo da calcio con i suoi compagni.

La madre di un suo amico, una buona vicina di casa, una casalinga che ha almeno la decenza di farsi glia affari propri, lo ha preso sotto la su ala protettiva e ne sorveglia gli spostamenti, mentre lei è al lavoro, insieme a quelli del figlio.

Ha un carattere buono, forse troppo ingenuo, ma l’esperienza colmerà il difetto. Non nega mai un sorriso a nessuno, riesce ad allacciare facilmente rapporti coi coetanei  a mantenerli, non è mai solo. Ha capito, con occhio clinico di madre, che forse si è innamorato per la prima volta, come capita alla sua età, di una ragazza un po’ più grande. L’ha intravista una o due volte, andando a riprenderlo a qualche festa.

Quella ragazzina ha l’aria smaliziata, occhi neri profondi intagliati da ciglia lavorate con le pinzette, i capelli lunghi e lisci maliziosamente lucidi, ricadono occultando le spalle tozze. Ha un sorriso invitante e capisce come possa piacere adesso.

Apre le palpebre appesantite dal torpore, di scatto, come uno spillo l’avesse punta dietro la nuca, là dove i capelli biondi sono tesi dalla pettinatura.

Suo figlio maggiore non le assomiglia per niente, ha la dura segretezza del padre. Prova per lui rabbia e dispiacere, quando incrocia il suo sguardo vetrificato, che giudica e non la sopporta.

Cattivo.

Sono fratelli agli antipodi, a volte lei stessa si chiede come possono averli generati lo stesso seme e lo stesso ventre. Quale scherzo alchemico li abbia separati così nel fisico e nell’anima; forse l’uno è magicamente figlio del padre e l’altro della madre sola.

Poi si pente di dire così. Si porta le mani curate e bianche al volto, ripiegandosi su se stessa: da più di un mese suo figlio è all’ospedale. Non ha reagito alla morte del padre che cercando una morte più lenta. Va a trovarlo due, tre volte alla settimana, tanto lui non le parla. . E lei è sicura che la odi di un odio inutile e cattivo che nasce solo dall’amore più profondo. E’ il tipo di odio che si prova solo contro se stessi.

Non parla, non mangia. Fissa il vuoto con lo sguardo, ogni tanto chiama il padre che non c'è più. Lo hanno ricoverato nel reparto psichiatrico, insieme a gente che urla, che uccide, che scalpita. Lui non fa nulla. Rimane lì a lasciarsi morire di inedia.

 

Il vecchio telefono nero gracchia insistentemente, costringendoti ad un brusco risveglio. Corri all’ingresso nella penombra, improvvisamente conscia del tempo. Rispondi e guardi nuovamente il quadrante dell’orologio. E’ tardi e attendi dal ricevitore solo qualche brutta notizia.

-David- resta sospesa la sua voce.

-Amore, ti ho disturbata? Forse stavi dormendo?- Non ha più voglia di raccontarle il proprio tormento, vuole solo lasciarsi cullare dalla voce del principe azzurro.

-Hai la televisione accesa?-

-Pensavo che il volume fosse basso...- si vergogna quasi e le sue guance rotonde si tingono graziosamente di rosa.

-Che cos’è?-

-Robin Hood. Quello della Disney.- In quest’istante scatta la serratura di casa e fa capolino il piede del suo bambino, più l’altro. La saluta con rispetto senza disturbarla e sparisce per il corridoio con passo strascicato e gioiosamente rumoroso. Adesso il cuore di lei è leggero, festoso, più disponibile alle parole.

 

-Ciao, tesoro mio.- lo trovi in camera sua, già in pigiama, intento a mettere ben in ordine i libri nello zaino per il giorno dopo.-Hai fatto più tardi, perchè non hai avvertito?- gli chiede con impazienza e una rabbia finta.

-Non te lo ricordavi mamma? Oggi la zia mi ha accompagnato all’ospedale.- Lei lo abbraccia stretto a sè. Com’è che se n’è scordata?-Gli fanno ancora le flebo.- le dice, l’avidità di raccontare degna della sua età.-Ma l’ho visto meglio. Ha fatto dei compiti e la zia gli ha portato alcuni libri. Poi abbiamo giocato un po’ a memory. Però ho vinto io, perchè sono più bravo.- la voce diventa più acuta, un piccolo canto di orgoglio.

-Ti manca tuo padre?- gli chiede, non sa neppure lei perchè.

-Un po’.- risponde laconico, cercando di allontanarsi dal suo abbraccio.

-Anche a me.-

   
 
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