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Autore: Elissa_Bane    10/01/2015    1 recensioni
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*dal testo*
Se si guardava poteva chiaramente vedere il tremore che dominava le sue mani, quelle mani che avevano salvato tante vite. Tante, tranne l'unica che avrebbe davvero voluto prendere e strappare dalla Morte, urlarle “No, lascialo, lui è mio!”. Ma non ci era riuscito, e la Morte gli aveva riso in faccia, quella Morte, arrivata vestita di bianco come una sposa e col sorriso sulle labbra, se l'era portato via. Poteva vedere qualche capello grigio spuntare tra le ciocche bionde, Dio, era invecchiato più in quei due anni che nei lunghi mesi al fronte! Poteva vedere anche la piega sarcastica e cinica che avevano preso le sue labbra. Gli avevano tolto tutto. Tutto ciò che aveva tenuto tra le mani con quella cura derivata dal terrore di rompere un oggetto fragile, eppure stringendolo con quella disperazione rabbiosa di chi vede un'ultima possibilità e non intende lasciarla andare. Gli avevano strappato via ciò che lo spingeva ad andare avanti.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fandom: Sherlock
Pairing/Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes.
Rating: Verde.
Beta: la dolcissima gaarg (tanto love per te che mi hai sopportato)
Genere: Angst, Malinconico, Introspettivo
Warning: Nessuno.
Words: 890
Note: Scritta per seeyouthen, perchè io le regalo oneshot e capitoli come se fossero caramelle. Questa, in particolare, una caramella al gusto di lacrime e dolore. Ti si ama Giuls <3

DISCLAIMER: Purtroppo nessuno all'interno di questo telefilm mi appartiene o John e Sherlock starebbero facendo sesso come porcospini sarebbero tutti felici in un mondo pieno di unicorni, biscotti e arcobaleni. Non posseggo alcun diritto su di loro, anche se vorrei tanto. Soprattutto su Sherlock.
 

 

Dov'è il dolore, là il suolo è sacro.
 

Camminava lentamente, John Watson. Si sentiva male. Avrebbe voluto correre lontano, via, il più distante possibile da lì. Ma le sue gambe non gli rispondevano e continuavano a condurlo con una lentezza esasperante attraverso quelle strade che ben conosceva.
Se si guardava poteva chiaramente vedere il tremore che dominava le sue mani, quelle mani che avevano salvato tante vite. Tante, tranne l'unica che avrebbe davvero voluto prendere e strappare dalla Morte, urlarle “No, lascialo, lui è mio!”. Ma non ci era riuscito, e la Morte gli aveva riso in faccia, quella Morte, arrivata vestita di bianco come una sposa e col sorriso sulle labbra, se l'era portato via. Poteva vedere qualche capello grigio spuntare tra le ciocche bionde, Dio, era invecchiato più in quei due anni che nei lunghi mesi al fronte! Poteva vedere anche la piega sarcastica e cinica che avevano preso le sue labbra. Gli avevano tolto tutto. Tutto ciò che aveva tenuto tra le mani con quella cura derivata dal terrore di rompere un oggetto fragile, eppure stringendolo con quella disperazione rabbiosa di chi vede un'ultima possibilità e non intende lasciarla andare. Gli avevano strappato via ciò che lo spingeva ad andare avanti.
John Watson, se si guardava allo specchio, vedeva bende sporche di sangue scuro fasciargli il petto. Poi passava la mano, e sentiva solo la sua pelle, segnata da qualche vecchia cicatrice, ma nel suo sguardo le bende rimanevano lì, immobili, il sangue che sbocciava come un fiore purpureo sulla neve. Quel sangue ancora scorreva dallo squarcio nel petto che Morte, la bianca Morte, gli aveva lasciato, quando gli si era avvicinata sorridendo gentile, prima di affondargli una mano sottile nel petto, lacerando pelle, muscoli, tendini, nervi e ossa fino a raggiungere il cuore e strapparglielo.

Le gambe lo avevano portato a girare per Londra, perché doveva uscire di casa, o sarebbe impazzito a causa del suo ricordo. Ormai John non lo chiamava più per nome, nemmeno nei suoi pensieri. Dargli un nome avrebbe significato ammettere che non era finita, che non sarebbe mai finita questa morsa di dolore che pulsava e premeva dentro il suo petto, deformandolo con i suoi colpi. E quelle bastarde delle sue gambe dove lo avevano portato? Davanti a quella che era stata la loro casa. Entrò, salendo piano gli scalini e prestano particolare attenzione al diciassettesimo, perché il vecchio legno scricchiolava inviperito alla minima sollecitazione. La porta era lì, davanti a lui, poteva entrare e respirare ancora, di nuovo lui, il suo ricordo, oppure poteva tornarsene indietro e lasciarsi alle spalle tutto questo. E per un istante davvero l'idea lo allettò, ma la sua mano già stava aprendo la porta e le sue gambe lo stavano guidando dentro. Se dentro una semplice casa o dentro all'Inferno, John non lo avrebbe saputo dire.

Tutto era rimasto al proprio posto, come lo avevano lasciato loro quell'ultimo giorno, stretti nella presa dell'adrenalina. C'era persino ancora un cerotto alla nicotina appoggiato sulla poltrona. Due tazze del tè ad asciugare sul lavapiatti. La sua vestaglia abbandonata per terra. Come lui, in fondo. Lui aveva lasciato anche John allo stesso modo, per terra.
Cosa c'era di sbagliato in quella scena? Una porta, che lui aveva lasciato chiusa e che ora era aperta. La rabbia salì in John, perché nessuno doveva permettersi di cancellare ciò che lui aveva fatto, fosse stato anche chiudere una porta. Entrò piano, a passi leggeri, come se temesse di poterlo ancora svegliare, come un fedele entrerebbe in chiesa, come Ulisse tornò a casa. Era ancora tutto un casino unico, libri appoggiati ovunque, mappe e fogli che uscivano dall'armadio insieme a occhiali e camicie, il microscopio con ancora il vetrino appoggiato. Tutto come lo aveva lasciato lui. Congelato. Immobile, ad aspettare che lui tornasse, che leggesse i libri, che sbirciasse le mappe per poi appenderle al muro, che ricominciasse ad usare le camicie e i suoi stupidi travestimenti, che finisse quell'esperimento su Dio solo sapeva cosa.
Quello era il suo santuario, l'unico luogo in cui John Watson riuscisse ancora a pregare. Si sedeva lì, sul bordo del letto e osservava il tempo scorrergli addosso. E pregava, sempre la solita richiesta d'aiuto.

Non essere morto.

Per due anni nessuno aveva risposto, e nessuno rispose nemmeno quel giorno, mentre la pioggia batteva sulla finestra.
Nessuno.
John Watson pregò le sue gambe di riportarlo a casa, ma queste sembrarono rispondergli che quella era casa. «Aiutami.» sussurrò «Ti prego, un'ultima volta, aiutami.»
E d'improvviso una mano pallida era posata sulla sua spalla e John stava urlando perché cazzo, erano due anni che non vedeva quel benedetto sorriso saccente e gli stava dicendo i peggiori insulti che gli venissero in mente. Ma lui accettò tutto, senza smettere di essere lì, senza morire. E alla fine, John si calmò e sorrise. Il primo vero sorriso da talmente tanto tempo che gli fecero male i muscoli della faccia, un sorriso aperto, stanco ma sollevato. Era tornato per lui.

«Allora» disse John, ben conscio del grande ego dell'altro «Come hai fatto a fingere la tua morte?»
Il viso di Sherlock si oscurò un poco e il sorriso parve spezzarsi sul suo volto, diventando amaro. John fu quasi certo che ci fossero lacrime nei suoi occhi azzurri. Sembrò sbiadire lentamente, finché davanti a lui non rimase solo la carta da parati. Ma la sua voce vibrò un'ultima volta.

«Non l'ho fatto.»

  
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