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Autore: Teddy_bear    10/01/2015    1 recensioni
Vi siete mai fermati a pensare a quanti avvenimenti, nel corso delle ore, dei giorni, succedono? Prendiamo la città di Londra, quante vicende accadono al suo interno? Vorrei provare a raccontarvi una storia.
Ma non è una semplice storia.
C'è un lui e c'è una lei. Un Aaron ed una Rain.
In questo racconto non saprete se è più malato lui, lei, o il loro rapporto.
E voi lo amereste mai... Un cannibale?
Genere: Dark, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=JrnDDpjIwkc



Secondo capitolo}
 

«Nella solitudine, il solitario divora se stesso.

Nella moltitudine, lo divorano i molti.

Ora scegli.»

-Friedrich W. Nietzsche

 

Quella notte, Aaron, la passò abbastanza serena. Dormì profondamente, e si svegliò solo una volta, dopo l'ennesimo incubo, raffigurante la stessa figura femminile. Non si chiese il perchè, era abituato a quei viaggi della mente durante il sonno, inoltre la zia l'aveva rassicurato, la sera prima.

Così la mattina venne svegliato dai rumori provenienti dalla stanza da bagno accanto alla sua camera; si doveva trattare della cugina, la quale si stava preparando per andare a scuola. Lui sarebbe andato il giorno dopo, dopo essersi ripreso dal viaggio; si sentiva ansioso, ed aveva un po' di paura. Si morse il labbro inferiore, rigirandosi tra le coperte e chiudendo nuovamente gli occhi.

Coraggio, Aaron, andrà tutto bene; si ripetè, alzando ancor più le coperte.

Il vociare delle persone presenti in quella casa gli mostrò come doveva esser una vera famiglia: nessun malato, problemi piccoli e risolvibili, e molto linguaggio tra i componenti. La sua famiglia non era mai stata così; quando, ad appena undici anni, cominciarono a presentarsi i primi sintomi della predazione infraspecifica, tutto cambiò. E quando il padre di Aaron morì l'anno successivo, fu il caos completo. Il moro, infatti, si chiuse in se stesso, evitando qualsiasi tipo di contatto fisico e verbale. Probabilmente la sua sindrome cominciò a prendere il sopravvento da lì, e lo ridusse a tanti pezzettini invisibili sparsi ovunque. Di Aaron rimasero solo i resti, ma sua madre e sua sorella, tra questi suoi resti, restarono. Ed egli non potè mai ringraziarle abbastanza. Da quel periodo iniziò quasi una variazione completa del carattere; lui, infatti, passò da bambino vivace -quale era- ad un preadolescente -e, successivamente, un adolescente- triste e morto interiormente. Trovò conforto e compagnia nella solitudine, nelle cose deprimenti e nel dolore. Dolore che piano piano seppe sopportare ed amare. Aaron, infatti, amava il suo dolore, la sua malattia ed il suo vivere, ma al tempo stesso li odiava. Quello che a lui sembrava giusto, per gli altri era indiscutibilmente sbagliato.

Perchè era sbagliato fare certi pensieri sugli uomini, ovviamente.

Perchè era sbagliato chiudersi in se stessi, giustamente.

E perchè era sbagliato esser malati, normalmente.

Aaron era "fuori dalla norma", ed era proprio questo a renderlo speciale. Per quale ragione tutto ciò che è diverso, o insolito, deve esser reputato automaticamente sbagliato? Le persone si guardano con occhi ciechi, si ascoltano con orecchie sorde e parlano troppo. È questo ciò che colpevolizza ancor di più certi, come Aaron. La gente che capisce davvero, o quella che ama, piuttosto che quella che non solo sente, ma ascolta, non rende la tua esistenza un errore, ma un bellissimo dono. Aaron Cabell non si considerava un dono, ma lo era; lo era per tutte le persone che gli erano vicine. Come può una persona sentirsi sola, nonostante non lo sia? Talvolta, nella vita, esiste l'inspiegabile. L'amore, ad esempio, lo è; o il destino, il fato... Gli esseri umani sono attratti da questo "inspiegabile"; lo sono talmente tanto da farsi male, delle volte, pur di scoprirlo. E tutto ciò che non ha spiegazioni si trova nel cuore e nella mente. Cuore e mente. Due rivali sempre in guerra nel corpo di Aaron. Quest'ultimo, dopo l'ennesimo cambio di posizione, decise quindi di alzarsi. Aprì la porta di camera sua, e si diresse verso il bagno vicino, trovandovici dentro la cugina intenta a truccarsi ed a pettinarsi.

«Buongiorno.» bofonchiò, il ragazzo.

Bonnie gli rispose con un cenno del capo, per poi tornare a sporgersi verso lo specchio, con intenzione di mettersi meglio il mascara sulle ciglia.

«Se ti dicessi che sei bella anche senza trucco, mi faresti usare il bagno? Ne avrei seriamente bisogno.» disse poi, sbadigliando poco dopo.

«Prima di tutto, oggi nemmeno vieni a scuola. E, seconda cosa, no. Fattela addosso, non m'importa.» proferì l'altra, acidamente.

«Sei sempre così comprensiva, Bonnie.» ribattè sarcasticamente il moro.

In risposta la ragazza gli sorrise, facendo l'occhiolino. E, dopo una buona manciata di minuti spesa in ritocchi, si decise ad uscire dal bagno.

«Grazie a Dio, finalmente!» esclamò Aaron, sollevato, una volta che la cugina uscì.

Era evidente che non poteva esser il benvenuto in quella casa; certo, i suoi zii erano stati gentili e disponibili, ma sua cugina era una ragazza acida ed indisponente. E lui credeva di esser accolto a braccia aperte, invece. O, perlomeno, credeva di esser accolto.

Sei un illuso, Aaron; si disse, infatti.

Si sciacquò le mani ed il volto, sentendo, successivamente, un brontolio allo stomaco dovuto forse alla fame. Così decise di dirigersi in cucina e, sebbene fosse presto, di iniziare a far colazione.

Il corridoio contornato da quadri, opere d'arte e vari oggetti, gli sembrò bellissimo e gradevole, così come il salotto, e la sua camera, che gli parve il suo piccolo rifugio già alla prima occhiata. Fu quello che si dice "amore a prima vista". Ed anche la cucina non era da meno, soprattutto perchè al suo interno c'erano delle persone che si amavano, e che vivevano serenamente, almeno prima del suo arrivo. Lo rattristò questo pensiero, incupendo il suo sguardo. Entrò piano, infatti, in quella stanza, come se sperasse che nessuno facesse caso a lui, o alla sua inevitabile presenza. Ma, ovviamente, fu il contrario.

«Buongiorno Aarry.» parlò per primo Joseph, che era intento a leggere il quotidiano.

«Tesoro, ti sei alzato presto! Dormito bene?» chiese invece la zia, sorridente come sempre.

«Sì, abbastanza. Voi?» domandò cordialmente a sua volta, il ragazzo.

«Anche noi, grazie.» gli sorrise lo zio.

«Vuoi un po' di latte e cereali?» aggiuse poi, gentilmente.

«Magari, grazie.» sorrise lievemente, mentre la zia gli porse la colazione.

«Beh, io vado a scuola, ciao.» sentenziò Bonnie, alzandosi e salutando la sua famiglia.

La ragazza ricevette dei "buona giornata" ed un "fai la brava", in risposta. Così, Aaron respirò sollevato, una volta sentita la porta sbattere.

«Pensavo di uscire stamattina, e di fare un giro per il quartiere.» confessò il moro, portandosi alla bocca il cucchiaio con i cereali.

«É una bellissima idea! Almeno ti svaghi un po' e conosci qualcuno.» appoggiò l'iniziativa, Elizabeth.

«Sì, infatti. Ti farebbe bene, Aarry.» concordò lo zio.

Aaron annuì, sorridendo lievemente. Finì la sua colazione, si lavò i denti e, dopo essersi cambiato, uscì dicendo ai suoi zii che tornava per pranzo.

Scese i gradini di pietra dell'ingresso ed attraversò il giardino, finendo subito in strada. Sebbene fosse ottobre il freddo pungente gli entrò nelle ossa, nonostante fosse coperto con il suo cappotto nero ed una sciarpa grigia di lana. Le villette accanto a quella dei suoi zii erano simili, se non identiche, e la nebbiolina che adornava il posto, lasciando un'atmosfera tetra e misteriosa, lo fece sentire incredibilmente a suo agio. Respirò profondamente, dando modo all'aria fredda di entrare nei suoi polmoni ed a quell'ambiente di invadere la sua anima tormentata e vacillante tra il bene ed il male. Guardò alla sua sinistra, intravedendo, tra la nebbia, un bosco. Aggrottò le sopracciglia, e si avviò verso di esso, incuriosito e voglioso di scoprirlo. Camminò piano, assottigliando lo sguardo, di tanto in tanto. Una volta giunto, si fermò esattamente dove questo iniziava; la stradina di terriccio ed erba lo intrigava a tal punto da pensare che, aldilà di quel miscuglio di piante ed erbacce, ci fosse l'infinito; gli alberi erano maestosi, la maggior parte erano querce, e vi erano presenti anche alcuni salici piangenti e pini. Fu una sorprendente coincidenza quella che, anche lì, a Dublino, a pochi passi dalla casa dei suoi zii, ci fosse un bosco quasi del tutto abbandonato. Si guardò intorno Aaron, spiando se ci fossero delle persone presenti; poi, una volta sicuro di esser completamente solo, fece un respiro profondo ed entrò in quell'immensa distesa verde insidiosa e stuzzicante.

Il gracchiare di uno stormo di corvi invase completamente il suo udito, mentre la sua mente lo riportava ad immagini passate, di quando il suo disturbo era agli inizi e procedeva, portando egli verso il peggioramento ed il completo distacco dalla realtà.

 

Era un giorno qualunque, Aaron andava alla scuola secondaria di primo grado, era al primo anno, e stava passando l'intervallo con i suoi migliori amici: Jeremy ed Andrew. Erano tutti e tre arrabbiati, perchè la signora Dyer aveva dato loro delle brutte, gigantesche e rosse "F" al compito di storia. Ovviamente, da bambini monelli quali erano, avevano dato tutta la colpa all'insegnate, non a loro stessi che, i giorni prima, avevano giocato, invece che studiare.

«La odio!» aveva esclamato Jeremy, iroso contro ella.

«E non sei l'unico; mia mamma mi toglierà tutti i videogiochi, quando lo saprà.» aveva ribattuto Andrew, sbuffando.

«Se potessi la mangerei viva.» era stata, invece, l'affermazione di Aaron, detta sadicamente.

Andy -soprannominato così- e Jeremy, avevano strabbuzzato gli occhi, facendo poi una smorfia di disgusto. Chiendendo poi, ad Aaron, se l'avrebbe fatto davvero.

Ed egli, quasi ghignando, aveva risposto «non sarebbe male.» lasciando perplessi i suoi amici.

 

Ebbe un brivido lungo la schiena, al ricordo. Inoltre si alzò un vento freddo, che lo fece tremare ulteriormente.

Gli venne quasi il magone all'idea che era stato lui a rovinare la famiglia. Lui credeva di esser la rovina, vera e propria, della famiglia.

Dovresti vergognarti di ciò che sei, Aaron. Si disse.

Troppe voci nella sua testa. Troppe cicatrici nel suo cuore.

 

«Quindi mi sta dicendo...» aveva tentato di proferire la madre di Aaron, lasciando la frase a metà.

«Suo figlio soffre di predazione infraspecifica; meglio conosciuta come antropofagia, o cannibalismo.» aveva detto lo psichiatra del ragazzino. Quest'ultimo era diventato suo paziente un mese dopo la morte del padre; Gwen aveva pensato che per far affrontare meglio la perdita al figlio, c'era bisogno di un aiuto esterno. Un aiuto più capace ed esperto, come quello del dottor Shapiro.

«Sta scherzando. Non è possibile...» aveva ribattuto la donna, guardando il figlio seduto sulla poltroncina, alla sua destra, che era intento a giocare ai videogiochi, ignaro quasi del tutto.

«Signora, mi ascolti: questa malattia potrebbe rivelarsi, con il tempo, pericolosa e fatale. Certo, Aaron potrebbe migliorare; alla fine, ora come ora, è solo un bambino. Ma, ovviamente, non c'è da escludere anche un progressivo peggioramento. Non è colpa sua, nè tanto meno colpa di suo figlio. È un qualcosa che nasce e si manifesta poi. Tutto quello che possiamo fare noi è provare ad aiutarlo, mi capisce? Standogli vicino e con le cure giuste potrebbe esser un problema risolvibile.» aveva spiegato meglio, Shapiro.

«Il mio bambino... Mi ero accorta che qualcosa non andava! Me lo sentivo... Io... Io lo sapevo!» le lacrime avevano preso a rigarle le guance, mentre nella sua mente tutto si faceva più limpido ed ogni cosa "strana" ora aveva una spiegazione.

Non aveva fatto in tempo a singhiozzare di nuovo, che Aaron -il quale non aveva prestato molta attenzione a quella conversazione tra adulti- si era precipitato verso di lei, veloce come un fulmine.

«Mamma, perchè piangi?» le aveva chiesto, abbracciandola forte.

«Perchè ho paura di perderti.» aveva risposto, Gwen, sincera.

Aaron aveva scosso il capo, stringendola più forte, come per dirle che no, non lo poteva perdere e che lui era lì. Il dottor Shapiro, commosso da quella scena, aveva dato alla donna un fazzoletto, e l'aveva rassicurata dicendole che si sarebbe risolto tutto.

Gwen aveva perso suo marito, ed il padre dei suoi figli, solo un mese prima. Aaron sembrava un bambino forte, ma era solo un guscio, dove all'interno c'era il vero lui, quello sofferente, che si stava chiudendo sempre di più in se stesso e che stava aumentando lo spessore della sua scorza protettrice. Inoltre, si era aggiunta la sua malattia, ed avrebbe dovuto lottare contra di essa. Ma non era solo. Gwen aveva deciso che l'avrebbe aiutato e che, da questa battaglia, ne sarebbero usciti vivi ed illesi, con solo un brutto ricordo alle spalle.

«Voglio che Aaron continui la terapia.» aveva detto, facendo sedere il figlio sulle ginocchia.

«È il mio lavoro, signora Cabell. Ce la faremo.» aveva sentenziato lo psichiatra.

 

Farcela. Non è così facile.

Cadere da una bicicletta e rialzarsi, è facile.

Fare pace dopo una piccola litigata, è facile.

Ma guarire... Guarire no. Guarire è la cosa più complessa; che sia guarire da un amore, guarire da una delusione, guarire da una perdita, guarire da una sconfitta, o guarire da una malattia. Si ammalano ogni giorno, le persone. A volte non si da peso, perchè le ferite nel cuore potrebbero esser piccole ma, anche queste, se si accumolano diventano insopportabili. Se si prende un barattolo di zucchero ed una formica ci entra, non succede nulla, perchè una sola di queste, anche volendo, non riesce a mangiare l'intero contenuto del barattolo. Ma se una colonia di formiche entra in quest'ultimo, lo zucchero ha buona probabilità di finire o, perlomeno, di abbassarsi di livello. E così è anche per ogni lacerazione, che sia nel cuore, o che sia all'esterno. Aaron incominciò con un piccolo taglio dentro di sè e, non curandolo, se ne aggiunse un altro, e poi un altro, e poi un altro ancora. Era profondamente ferito, e non si sapeva se queste brutte cicatrici si potevano ancora curare. Una cosa era certa: egli si poteva salvare, solo se si lasciava salvare. Perchè, anche con tutta la buona volontà del mondo, non si può portare a galla una persona a cui piace affogare. Ed Aaron nella marea della sua sindrome stava annegando. Chiuse gli occhi, una volta raggiunto il centro del sentiero, e si fece cullare da quel lieve vento gelido che sembrava portarlo via da un momento all'altro.

 

«Aarry, piano, piano.» aveva emesso queste parole, la voce di Trevor.

«Dai, papà, sbrigati. Altrimenti ce lo perdiamo.» aveva ribattuto il ricciolino in braccio all'uomo.

«Sei incredibile.» aveva ridacchiato il padre. E poi «eccoci arrivati.» aveva aggiunto, posando il figlio a terra.

«Giusto in tempo.» aveva proferito Aaron, intento a guardare davanti a sè.

E poi era arrivato, il tramonto. Le sfumature del cielo arancioni, quasi rossastre, erano uno spettacolo meraviglioso e quel venticello era gradevole e fantastico.

«È splendido.» aveva sussurrato Trevor, posando una mano sulla spalla del figlio.

«Ti voglio bene, papà.» proferiva Aaron, invece, accoccolandosi alla figura paterna.

«Voglio che tu sappia che, anche quando non ci sarò, ti basterà guardare il tramonto per sapere che ti sono accanto. Ed, ogni volta, che sentirai un soffio di vento sappi che saranno le mie carezze.» aveva detto, baciando la fronte al bambino.

 

In quel momento, Aaron, capì di non esser del tutto solo. La brezza fredda corrispondeva al tocco gentile ed affettuoso del padre, ed il rumore dell'ondeggiare delle foglie poteva esser paragonato alla sua voce. Il ragazzo aprì gli occhi, quasi di colpo, come se si fosse appena svegliato da un sogno, e si sentì più rilassato, più tranquillo. Sospirò poi, guardandosi dietro le sue spalle larghe, notando che la nebbia diventava, di poco a poco, più lieve, e pensò che fosse meglio tornare a casa. Così, s'incamminò, mentre sistemava meglio la sciarpa e portava, alla bene meglio, il ciuffo all'indietro. Mise le mani gelide all'interno delle tasche del suo scuro cappotto, chiedendosi qual era stata l'ultima volta in cui qualcuno non solo gli aveva scaldato le mani, ma gli aveva scaldato anche il cuore.

 

«Tu riprovaci, e sei un uomo morto.» aveva detto Brittany, la morosa di Aaron, di quando egli aveva quattordici anni.

«Dai, Brit, un po' di solletico non ha mai ucciso nessuno.» aveva ridacchiato il ragazzo, beccandosi un buffetto sulla nuca da parte dell'altra.

«Io lo odio, cucciolo.» aveva ribattuto lei, scompigliando i capelli ricci del ragazzo che diceva di adorare.

«Detesto quel soprannome.» aveva, invece, sentenziato il moro, disgustato da quella parola «Ed è per questo che meriti altro solletico!» aveva aggiunto poi, buttandosi sulla sua ragazza, muovendo le dita sui suoi fianchi, per crearle prurito.

«Ti odio, Cabell!» aveva riso Brittany, dimenandosi.

 

Brittany Davies. Una morsa divorò lo stomaco di Aaron, al ricordo della persona che portava quel nome. La sua prima "cotta", come dimenticarselo. Anche se, dimenticare, fu la cosa migliore da fare, dopo i sei mesi più intensi che egli provò. Non era un vero sentimento d'amore, il suo, -aveva anche solo quattordici anni-, era qualcosa solo d'intenso. Inspiegabile ed intenso.

 

«Aaron, senti... Dobbiamo parlare.» aveva sospirato ella, martoriandosi le dita tra di loro.

«Parlare? Ma davvero? Credo che non ci sia nulla da dire.» aveva detto arrabbiato e ferito, il ragazzo, dopo che aveva visto una scena alla quale non voleva assistere.

Brittany, la sua ragazza, la sua prima esperienza, il suo domani, la sua metà... Aveva baciato un altro. Un altro e davanti ai suoi occhi. Dannazione.

«Io e Glenn ci conosciamo da un paio di mesi. Eravamo solo amici, nulla di più, ma poi...» aveva tentato di dire, la biondina.

«Sta' zitta, ti prego. Non voglio sentire una sola parola in più.» aveva ribattuto l'altro, sentendo qualcosa fare un sonoro "crack", all'interno del suo petto. Poi, aveva aperto la porta di casa sua, indicandole l'uscita. E «Vattene dalla mia vita.» le diceva, mentre guardava a terra, mordendosi l'interno della guancia destra.

«Mi dispiace, Aaron, davvero.» gli aveva parlato un'ultima volta, prima di andarsene.

«Dispiace più a me. Sii felice, Brittany.» le disse invece lui, chiudendo la porta di casa una volta uscita la sua ex-ragazza. Da quel giorno, non solo la porta di casa si chiuse, ma anche la porta del suo cuore.

 

Non piangeva mai, Aaron. L'ultima volta che pianse aveva dodici anni, ed ora si ritrovava un diciottenne freddo e senza sentimenti. Vuoto, si descriveva lui. I sentimenti, secondo il suo punto di vista, erano per i deboli: l'amore faceva schifo, l'amicizia era inutile e le uniche persone che contavano davvero erano quelle della sua famiglia. Per sua madre e sua sorella avrebbe anche dato la sua vita, e con loro non aveva paura di mostrare sentimenti od emozioni, perchè loro non gli avrebbero mai e poi mai voltato le spalle. Ma gli altri... Gli altri non avevano spazio nel loro cuore per Aaron. Così, dopo l'accaduto con quella ragazza, egli si chiese: "perchè io devo donare il mio cuore alle persone, se queste non hanno nemmeno un spazio dentro di esso per me?". Non era un ragazzo presente, perchè gli altri gli davano modo di andarsene. Chi se ne va da tutti, vuole solo esser fermato da qualcuno. Ed egli, credeva di non meritarsi una persona che si ferma con lui e per lui. Una persona che punta i suoi piedi a terra e che rimanga, nonostante lui le gridi contro di andarsene. Ai suoi "vattene via", le persone se ne andavano. Nessuno restava; magari per paura, timore, o codardia. Ma le paure vanno affrontate, non da soli, certo. Una persona che ha paura del buio, in una stanza senza luci, impazzisce; due persone che hanno paura del buio, in una stanza senza luci, si fanno forza.

Aaron credeva che la forza fosse solo nelle sue debolezze; come la sua malattia, o la sua solitudine, ad esempio. Ma non capiva che la sua vera forza fosse quella di alzarsi sempre al mattino, e di lottare contro se stesso ogni giorno.

Guardò l'ora sul suo cellulare: era mezzogiorno. Si accorse che era passato davvero molto tempo da quando era entrato nel bosco, e che aveva fatto un bel po' di strada. Intravide la casa dei suoi zii, e si sentì più sollevato, all'idea di non essersi perso.

Sospirò, una volta arrivato nuovamente all'ingresso e, con cautela, aprì la porta di casa, sorprendendosi che non fosse chiusa a chiave.

«Oh, guarda chi si vede.» disse Bonnie, sarcasticamente, mentre era in cucina, intenta a preparare il pranzo.

«Non dovresti esser a scuola tu?» chiese il ragazzo, confuso.

«Teoricamente sì. In pratica siamo usciti un'ora prima, perchè l'insegnante del corso di francese mancava.» spiegò ella, sbattendo l'uovo al lato della padella, per poi aprirlo, dove c'era la crepa, delicatamente.

«Capisco.» disse Aaron, sospirando.

«Dove sei stato?» gli domandò nuovamente.

«Nel bosco vicino casa vostra. Una passeggiata, niente di che.» rispose lui, pacatamente.

«Mia madre pensa che io debba scusarmi con te.» proferì improvvisamente, la rossa.

«Non sei obbligata a farlo, ti capisco. Non è bello avere un cugino malato, pazzo e pericoloso.» confessò Aaron, gesticolando eccessivamente.

«Già, infatti. Ma mi scuso lo stesso perchè, anche se sei strano, rimani mio cugino.» disse la ragazza, incominciando ad apparecchiare, mentre il pranzo cuoceva.

«Mi dispiace, Bonnie.» sussurrò il moro, in modo ferito.

«Di cosa?» chiese invece lei, aggrottando le sopracciglia.

«Di essere come sono.» rispose egli.

La rossa, strabbuzzò inizialmente gli occhi, ma poi annuì, lasciando correre il resto del tempo in un silenzio fastidioso. Il ticchiettio dell'orologio in cucina fu l'unico rumore presente, e l'ansia, l'imbarazzo erano molto percepibili.

«I miei torneranno tra poco.» bofonchiò la cugina, guardando l'oggetto appeso che segnava le dodici ed un quarto.

Aaron assentì, dicendo un "okay" impercettibile seguito da un "vado in camera mia", un po' più udibile.

Una volta arrivato in camera sua -se si poteva descrivere così- si buttò immediatamente sul letto, chiudendo poi gli occhi, improvvisamente stanco. Ricordare era l'incubo peggiore con cui doveva vivere ogni giorno. Si ricordava più vicende brutte, che vicende belle e, spesso, quelle belle erano automaticamente diventate brutte. Perchè, si sa, le cose belle non durano a lungo. Tutto ciò che è bello, finisce, inesorabilmente. Ma è normale, perchè non devono esser belli solo gli avventimenti, i sentimenti, o le sensazioni. Ma devono esser belle anche le persone che li provano, li sentono ed, in quel determinato momento, li vivono. Aaron non si considerava una bella persona e gli facevano paura i piaceri della vita. Eccolo, il vero inghippo. Quando si ha paura di esser felici, significa che si pensa di non meritare la felicità.

«Aaron, sono arrivati.»

La voce di Bonnie, oltre la porta, di camera sua, che aveva, precedentemente, chiuso, lo risvegliò dai suoi pensieri.

Si alzò dal letto sbuffando e stropicciandosi gli occhi, nonostante non avesse dormito. Si diresse in corridoio e sentì come un peso sopra la sua testa, e la vista diventare più opaca, mentre le orecchie si tapparono e fischiarono insopportabilmente. Poi cadde, a terra. Svenne.

 

«Aaron...»

Ma di chi era questa voce?

«Aaron!»

Ancora, ma stavolta più forte.

«Non sei solo.»

Ma cosa stava accadendo? Un'allucinazione, un sogno..? E poi eccolo, il volto dell'altra sera.

 

«Aaron, svegliati.» udì più chiaramente, stavolta, mentre gli occhi sembravano aprirsi da soli.

Sembrò quasi perplesso nel vedere i volti famigliari dei suoi zii e della cugina; sbattè le palpebre, cercando di orientarsi e capire meglio cosa gli fosse successo. Si mise seduto sul divano infatti, studiando la situazione.

«Sei svenuto, Aarry. Ci hai fatto stare in pensiero.» sospirò sollevata zia Betty, abbracciando il nipote.

«Mi dispiace... Sarà stato sicuramente un calo di pressione, capita.» si portò una mano alla fronte, il ragazzo, mentre chiudeva gli occhi ancora confuso.

Ma chi era quella persona? Si chiese. Poi però, cercò di convincersi che era solo un altro scherzo di pessimo gusto che aveva da offrirgli la sua mente.

«Dovresti mangiare qualcosa.» disse Joseph, mettendogli una mano sulla spalla.

I suoi occhi si aprirono, ancora una volta, di scatto; le pupille si dilatarono ed il respiro si mozzò, mentre un leggero tremolio si impadronì delle sue mani.

«Tranquillo, tesoro, va tutto bene. È tutto okay.» lo rassicurò la zia, prendendolo tra le sue braccia nuovamente. Era un abbraccio così simile a quello della madre che egli immediatamente ci sprofondò dentro, come se fosse l'ultimo abbraccio della sua vita.

«Shh, siamo qui. Siamo qui.» gli accarrezzò i capelli ricci, stringendolo.

«Sì, Aaron, ci siamo noi.» disse Bonnie, per la prima volta, gentilmente, mentre gli accarezzava un braccio.

«Grazie.» fu l'unica parola che uscì dalla bocca del moro.

«Siamo la tua nuova famiglia, adesso.» proferì lo zio, rassicurandolo.

Ed Aaron, per la prima volta, ci credette.

Angolo autrice:
ecco qua il secondo capitolo di questa storia :). Come vi sembra? Scorre bene? Dai, lasciatemi anche solo una piccolissima recensione :3.
Detto questo, lo so che magari pensate: "ma cavolo! Rain non arriva più!", beh, credetemi, arriverà.
*sente un coro dietro che le dice: "Non ce ne frega nullaaaaaaa, a casaaaaaaa!"*.
Hahahah, dai, davvero, ditemi se secondo voi ne vale la pena continuare oppure no ;).
Grazie a tutti i complimenti, comunque. E grazie delle visualizzazioni, ne sono onoratissima! :D.
Detto/scritto questo, buon sabato!
Bacioni x.

   
 
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