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Autore: HellWill    10/01/2015    0 recensioni
(Ho visto questa challenge (goo.gl/XBoRTK) e non potevo non farla.)
"«È da più di quindici anni che non dormo perché tu popoli i miei incubi!» le urlò, e Arya si strappò la casacca lercia di sangue dal petto, rimanendo con il fisico emaciato e pieno di cicatrici in mezzo all’arena, i seni scoperti e il sangue a ricoprirla, e a fatica si alzò in piedi.
«È da più di quindici anni che l’unico luogo in cui sono in pace sono i miei sogni!» le urlò contro di rimando la sorella, in lacrime, e si rannicchiò su se stessa piena di dolore e vergogna. Noreen tacque, senza riuscire a piangere perché l’orgoglio glielo impediva, così diede un calcio alla spada della sorella, guardandola furente.
«Vattene! In nome del nostro inesistente legame di sangue, vattene!» le gridò, furiosa e secca (..)"
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '365 DAYS WRITING CHALLENGE'
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10 gennaio 2015
Disillusionment

Gliel’avevano detto spesso: doveva dormire di più. Eppure Noreen andava a letto presto, si stendeva sul proprio pagliericcio e fissava il soffitto della casupola in cui dormiva, una delle ultime rimanenze del villaggio in cui anni ed anni prima avevano stabilito l’accampamento; lentamente tutti gli abitanti se ne erano andati, o si erano arruolati con loro, oppure erano morti nelle incursioni degli esseri umani: non rimaneva più nessuno a rivendicare quelle case, e le tende diventavano fredde ed umide d’inverno; così, si erano stabiliti dentro le casupole, riparandole e curandole come meglio potevano fra un’occupazione e l’altra.
Eppure, nonostante la comodità di avere delle pareti a proteggerla e delle coperte a riscaldarla, Noreen si limitava ogni notte a fissare il soffitto e battere le palpebre: il sonno non arrivava, e non arrivava da anni, togliendole il respiro quando si allenava e facendole sfumare la realtà delle cose. Eppure era una stratega molto abile, nonché una pacificatrice nata: il senso di colpa, forse, le faceva cercare un compromesso in qualsiasi cosa le capitasse di dover affrontare.
I suoi uomini la amavano, la chiamavano per nome e non più “comandante” come i primi tempi; tutto andava per il meglio, e lei poteva dirsi ‘in pace’, combattendo solo quando gli esseri umani pretendevano che restituissero i territori macchiati dal sangue dei nonni dei popoli che avevano oppresso per millenni. Sentiva di fare la cosa giusta, Noreen, quando affondava la spada nella gola o nello stomaco di quegli esseri patetici; non che le piacesse, gli esseri umani puzzavano parecchio per i suoi standard, ma sapeva di stare facendo la cosa giusta.
Noreen batté ancora le palpebre e sospirò, girandosi sulla branda e fissando un punto a caso nell’oscurità; nemmeno la luna gettava luce, quella notte.
Poteva quasi sentire la presenza nel granaio dell’assassino che avevano catturato: si trattava del Serpente d’Acqua Dolce, un sicario che stava dando grossi problemi fra i Regno Faël e il Regno di Mame… e catturarlo per lei era stata una dolce vittoria, dal momento che aveva giurato ai suoi uomini, nemmeno un anno prima, che l’avrebbe battuto in singolar tenzone a costo della sua stessa vita.
Ma ora, dopo che averlo interrogato, sentiva solo una enorme ansia chiuderle la bocca dello stomaco: l’assassino aveva preteso delle condizioni in caso fosse lui a vincere. Voleva che gli fosse restituita tutta la sua roba.. compreso un forchettone che ora era proprio sul comodino di Noreen, e che ammiccava bianco nell’oscurità. Con un sospiro, la donna si sedette e lo afferrò, girandoselo nelle grandi mani piene di calli da spada: era intagliato in modo sbozzato nel corno di un cervo, aveva un’estremità biforcuta da usare come forchettone e un’altra estremità affilata e tagliente, adatta a lacerare o tagliare la carne. Noreen ci passò sopra un paio di dita e sentì gli occhi pizzicarle: era stato fatto da sua sorella, e quell’assassino glielo aveva rubato, forse prima che lei morisse o dopo, strappandolo dalle sue mani fredde o prendendolo dalla sua borsa.
Aveva un milione di motivi per uccidere quel sicario, dopo averlo interrogato: lui aveva spalancato gli occhi di colori diversi, uno viola e uno azzurro, e l’aveva guardata con un’incredulità che era sembrata quasi sincera, che l’aveva quasi convinta… ma no, non ci era cascata.
«Noreen» aveva detto, e la prima cosa che la comandante aveva pensato era che uno dei suoi uomini andava punito. Dopodiché aveva stretto gli occhi e gli aveva sibilato di non osare chiamarla per nome, perché non ne era degno.
«Sono Arya.. Arya!».
No, nessuno dei suoi uomini aveva spifferato. Noreen si era sentita girare la testa, forse complice il poco sonno, e gli aveva dato un pugno. L’assassino era legato ad una sedia, disarmato, senza forze perché giaceva da una settimana legato in una stalla, nutrito esclusivamente con acqua e pasta e cavolo drogata, e non avrebbe potuto rispondere ai colpi nemmeno se ne avesse avuto l’occasione.
«Non osare pronunciare quel nome!» gli aveva urlato, stravolta, tanto che i suoi uomini erano accorsi credendo che l’assassino stesse scappando, solo per ritrovarlo che giaceva per terra, pesto, con Noreen che gli urlava contro e gli dava calci su calci.
Ci aveva messo un po’ a calmarsi, e si era scusata con i suoi uomini: nulla giustificava quelle sue azioni. Eppure, nel ripensare alle sue parole, Noreen si sentiva ribollire il sangue nelle vene e per la prima volta provava la smania del sangue: voleva vederlo scorrere a fiumi sulla propria spada, voleva vedere il cadavere di quell’assassino dai capelli verdi e voleva infierire su di esso, voleva cavargli gli occhi ed usarli come pendagli, voleva staccargli la testa e metterla su una picca in mezzo all’accampamento, in pasto ai corvi, voleva fare del suo corpo un pastone per i maiali, quell’assassino doveva essere cancellato dalla faccia dalla terra e lei era felice di adempiere a quel compito.
Si disse con amarezza che erano proprio dei bei pensieri, per una persona che avrebbe dovuto difendere altre vite; eppure il nome di sua sorella toccava un tasto dolente e lasciava spazio al baratro di senso di colpa che le scavava nell’anima.
Noreen sapeva che era stata colpa sua: Arya era più bella, Arya era più brava, Arya era più dotata. Erano sorelle gemelle, ed erano sirene: vivevano sott’acqua ed erano nate contemporaneamente, uguali in tutto; erano piccole, ma tutti non facevano che scavare un abisso fra di loro.
Noreen non ricordava esattamente cosa era successo poi, ma le avevano raccontato che lei stessa era stata rapita quando l’obiettivo era Arya, così loro padre, il Re dei Sirenidi, aveva mandato Arya sulla terraferma. Anche senza di lei, Noreen viveva nella sua ombra, tutti si lamentavano della sua mancanza e sul fatto che Noreen non fosse che la brutta copia, denigrandola ed isolandola, e dal momento che la piccola sirena dormiva sempre con sua sorella nello stesso letto, quando lei non fu più lì non riuscì a dormire, trovando il letto troppo grande per una sola piccola sirena. Dopo qualche anno si persero tracce e notizie di Arya, e tutti dimenticarono l’accaduto, persino Noreen, che per sfogare la frustrazione di sentirsi continuamente invisibile aveva iniziato ad apprendere l’arte della scherma e del canto, diventando una delle allieve più brillanti di molte comunità Sirenidi. Lentamente Noreen diventò bravissima in ciò cui si dedicava con passione e dedizione, prendendo l’abitudine di salire in superficie di notte quando non riusciva a dormire; si limitava a sedere sulle scogliere, guardando il mare, o cantando o in silenzio, ma una notte una ragazzina umana la vide e, dalla sorpresa, cascò in acqua.
Non era altri che Arya e Noreen, felicissima di rivederla perché erano molto legate affettivamente, la riportò sott’acqua; subito riprese la solita storia: Arya è più bella, Arya è più brava, Arya è più carina, e questo nonostante fossero uguali in tutto e per tutto… ma in quegli anni Arya aveva dimenticato tutto a proposito della sua vita sott’acqua, per cui Noreen ora era quella più brava in qualunque cosa, e subito tutti lo notarono con stupore e piacere. Arya si rifugiò nelle loro stanze, chiedendole con amarezza se l’avesse portata indietro per umiliarla; Noreen rimase ferita dall’insinuazione, ma solo perché percepì con dolore che in parte era vera, come se avesse voluto dimostrare che non era così inutile ed invisibile come tutti pensavano. Arya aveva allora commentato che il mare in realtà non era altro che tutte le lacrime delle sirene, e che sott’acqua era impossibile piangere: aveva preso le sue poche cose e se ne era andata senza avvertire nessuno. E anche Noreen non avvertì nessuno: restò sul letto immobile per tutta la notte, con la testa vuota che le ronzava; quando suo padre bussò chiedendo di Arya, confessò con colpa che se ne era andata ore ed ore prima. Preoccupato, il Re mandò a controllare la casa in cui abitava la ragazzina sulla terraferma, ma non c’era nessuno lì.. e fu allora che si iniziò a sospettare il peggio: probabilmente Arya era stata rapita, e il Re confessò a Noreen che Arya non era mai stata realmente sua sorella, bensì una bambina Menide da proteggere, in quanto incrocio di razze diverse e molto potenti.
Noreen, incredula, chiese spiegazioni e il padre gliele concesse: c’erano diversi incantesimi che, imposti su Arya, l’avrebbero fatta apparire proprio come Noreen fino ai tredici anni, dal momento che con i cambi della pubertà la magia poteva subire variazioni poco piacevoli. Amareggiata, senza dire nulla a nessuno, Noreen aspettò che il padre partisse alla ricerca di quella che aveva sempre creduto sua sorella e, mentre lui era via, si era arruolata nell’Esercito Sirenide.
Da allora la sua scalata era continuata imperterrita e, quando l’Esercito Menide aveva accettato di arruolarla allo stesso grado che aveva nelle truppe Sirenidi, Noreen era passata sulla terraferma: da neri, i suoi capelli erano divenuti di un turchese scuro con riflessi azzurri, e gli occhi argentati incutevano molto timore nei nemici umani che si ritrovava ad affrontare.
Eppure, il senso di colpa per aver permesso che Arya fosse rapita e probabilmente uccisa non l’aveva mai abbandonata; e solo risentire quel nome, il giorno prima…
La donna scosse il capo e posò di nuovo il forchettone sul comodino, con un gesto secco. Si alzò e si sciolse un po’, dolorante, e osservò i muscoli guizzarle sotto la pelle: aveva un fisico scolpito e scattante, ed era più veloce di chiunque altro perché la maggior parte dei suoi allenamenti erano avvenuti quando era ragazza, sott’acqua, e l’aria esercitava molta meno resistenza rispetto alla pressione delle profondità marine. Pur tuttavia, i muscoli non le impedivano di avere delle curve floride e un abbozzo di seno, che equilibrava un po’ il ventre piatto su cui erano ben visibili gli addominali. Si dedicò all’esercizio fisico e dopo circa un’ora andò alla cucina del campo, cercando degli avanzi della cena: era notte fonda e i suoi uomini sapevano bene che lei era insonne, per cui gli uomini di guardia si limitarono a farle un cenno del capo e non la disturbarono mentre si versava in una scodella dello stufato di carne ormai quasi freddo.
«Domani c’è il grande scontro» scherzò un soldato, e lei fece un sorriso tirato.
«Già» rispose, prendendo un altro sorso di stufato, non avendo trovato posate pulite.
«Vincerai, Noreen» disse l’altro, sorridendo sicuro. «Tu vinci sempre!».
Noreen sentì lo stomaco stringersi e posò la scodella vuota sul tavolo, guardando l’oscurità, crucciata.
«Già. Immagino si possa dire così».
«C’è qualcosa che ti preoccupa…?».
«No. No, niente» ribatté lei, e fece un sorriso stanco.
«Dovresti dormire di più» osservò uno dei suoi uomini, e lei chiuse gli occhi, sorridendo: riecco la tiritera.
«Beh, dato che ho sonno penso che dormirò qui».
«Ci pensiamo noi, Noreen. Dormi pure».
E nonostante fosse al freddo, la donna si assopì appena, seduta, con ai fianchi i due soldati; l’alba la sorprese con le palpebre semichiuse e gli occhi feriti dal sole, così si riscosse e si stiracchiò, notando che il turno di guardia era cambiato e lei non se ne era nemmeno accorta.
«Oggi è il grande giorno» le annunciò un soldato, eccitato, e Noreen sorrise appena, sentendosi più sicura di sé rispetto a quella notte: era preparata, era arrabbiata, ma non avrebbe permesso ai sentimenti di offuscarle la ragione e impedirle di combattere da stratega qual era.

Il Serpente d’Acqua Dolce era in ginocchio, disarmato, e Noreen gli torreggiava sopra con gli occhi d’argento che sembravano metallo fuso, tanto ardevano di rabbia.
«Sott’acqua, nessuno vede le tue lacrime» mormorò l’assassino, chiudendo gli occhi di colore diverso. «Forse il mare è solo tutte le lacrime dei sirenidi che hanno pianto in passato» concluse, e una lacrima gli scese sulla guancia.
Noreen batté le palpebre: erano sole, lei e Arya, completamente sole, quando la sorella le aveva detto quelle esatte parole.
«Beh? Non mi uccidi? Uccidimi. Non fa molta differenza, ormai» sussurrò il sicario, con voce strozzata, e Noreen capì che stava cercando di trattenere i singhiozzi: aveva paura o era solo tristezza?
«Sei un’assassina» mormorò infine la comandante, piena d’orrore. «Come hai potuto?» sussurrò, stringendo gli occhi argentati e rafforzando la presa sulla spada, che era puntata al collo della donna in ginocchio per terra, quasi spingendola per andare a fondo, ma Arya arretrò di qualche millimetro, e la squadrò con freddezza.
«E tu sei un soldato» le sputò verbalmente addosso, e Noreen si sentì come se le avesse davvero imbrattato l’anima di sangue e saliva. «Come hai potuto?» ripeté, nello stesso esatto tono deluso e ferito della sorella.
Noreen strinse gli occhi, l’anima colma di risentimento e disincanto, poi chiuse le palpebre e gettò di lato la spada, sentendo Arya trattenere il fiato e aspettandosi che l’assassina le balzasse addosso, ferite gravi o meno. Ma non le diede il tempo, perché fu lei a lanciarsi su Arya, tempestandola di pugni, e riuscì a darle anche un paio di ginocchiate allo stomaco prima che l’assassina potesse svicolare ed arrancare via, lontana un paio di metri dal soldato. Allora Noreen si sollevò in piedi e le urlò contro, raccogliendo sabbia dall’arena e lanciandogliela addosso, sperando che le ferite le si infettassero.
«È da più di quindici anni che non dormo perché tu popoli i miei incubi!» le urlò, e Arya si strappò la casacca lercia di sangue dal petto, rimanendo con il fisico emaciato e pieno di cicatrici in mezzo all’arena, i seni scoperti e il sangue a ricoprirla, e a fatica si alzò in piedi.
«È da più di quindici anni che l’unico luogo in cui sono in pace sono i miei sogni!» le urlò contro di rimando la sorella, in lacrime, e si rannicchiò su se stessa piena di dolore e vergogna. Noreen tacque, senza riuscire a piangere perché l’orgoglio glielo impediva, così diede un calcio alla spada della sorella, guardandola furente.
«Vattene! In nome del nostro inesistente legame di sangue, vattene!» le gridò, furiosa e secca, dopodiché si voltò verso i soldati basiti che stavano assistendo all’incontro. «Tu, e tu! Dategli le cose che aveva con sé!» abbaiò, con rabbia. Arya sollevò lo sguardo, sorpresa e pesta, l’occhio azzurro che stava iniziando a gonfiarsi per le botte; poi lo abbassò di nuovo, riprendendo l’espressione fredda e amara che aveva prima che lo scontro iniziasse: quando le portarono il mantello vi si avvolse, nascondendo la parte superiore nuda, e risollevò lo sguardo sulla sorella.
«Noreen, io…».
«Vattene. Se ti rivedo, ti ammazzo.. e senza duello di cortesia. Ti giustizierò in nome del Re, con l’accusa di tradimento ed omicidio» mormorò Noreen, senza nemmeno guardarla: non la riconosceva più, quella non era sua sorella, non era la bambina con cui era cresciuta per ben dieci anni, non era nessuno. Era solo un’assassina che si fingeva un uomo per non essere beccata dalle autorità di Mame. Era solo una delusione.
Arya rimase immobile per qualche istante, fissando il profilo della sorella, dopodiché prese la propria borsa, porta da un soldato, ed uscì dall’arena a passo malfermo, ondeggiando per le ferite subite.
Noreen si girò a guardarla, sentendo gli occhi pizzicare, e guardò la sua ultima delusione sparire nel bosco, senza voltarsi indietro.
   
 
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