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Autore: Alex Wolf    11/01/2015    1 recensioni
Storia prima denominata "La frusta dell'esorcista."
Dal capitolo 7°.
«Siete spregevole!» La mano di Thierry sfiorò la mia guancia, prima che la mia stessa Innocence gli imprigionasse il polso in una morsa ferrea. Riuscii a vedere il mio riflesso nei suoi occhi sorpresi, spaventati: una macchina assassina che non prova pietà per nessuno, neppure per coloro che combattono nella sua stessa fazione.
«Sono un diavolo, scelto da Dio ma pur sempre un diavolo, e in quanto tale è nella mia natura essere spregevole» sibilai, strattonandolo da una parte. Il corpo dell’uomo volò attraverso la foschia, tagliando la nebbia e creandovi un corridoio che si andò a riempire qualche minuto dopo il suo passaggio; dopo di che, atterrò sotto l’albero del Generale. Richiamai a me l’innocence, tornando a vedere a colori abitudinari e sistemai entrambe le braccia sui fianchi. Gli puntai un dito contro, affilando lo sguardo quasi a volerlo tagliare. «Prova a sfiorarmi ancora e la tua vita finirà in quell’istante.»
Genere: Generale, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Allen Walker, Nuovo personaggio, Rabi/Lavi, Un po' tutti, Yu Kanda
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 9.


Past.



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Remember me.
 
Londra, sede Ordine Oscuro, quattro anni prima.
 
Era buio, umido e, come sempre da quando vi era entrato, pieno di cervelloni in camice bianco. A differenza sua i loro quozienti intellettivi superavano la media di molto, ma questo non era certo un dato importante. L’unica cosa che gli fregava in quel momento era di scoprire il volto di gli era stato affidato da Komui, che dopo una varia e alquanto pesante discussione l’aveva fatto cedere. Alla fine, quanto mai sarebbe potuto essere problematico occuparsi di un giovane esorcista? Ci era già passato, tanto tempo fa. La Home non gli aveva più affidato allievi dopo che l’ultimo si era ritirato, affermando di trovare i suoi modi bruschi e ben poco ortodossi. Chissà perché, poi, tutto d’un tratto  gliene volevano affidare uno. Bah. Gente alquanto strana, quei cervelloni.
Dandosi qualche pacca sull’elmo d’acciaio, Sokaro avanzò fra i meandri del laboratorio scientifico. Erano mesi che non ci metteva piede, tutti gli occhi erano impressi su di lui e la sua imponente figura. Con i suoi due metri e cinque, e la sua Madness riposta sulle spalle non si poteva certo dire che passava inosservato.
«Mhhh» il borbottio riverberò nell’elmo, spandendosi con forza nell’aria attorno a se. Gli scienziati distolsero svelti lo sguardo impauriti, tornando al loro lavoro.
«Generale Sokaro, bentornato.» L’uomo si guardò intorno, corrugando le sopracciglia. Aveva già sentito quello voce, se la ricordava. L’aveva immagazzinata in un angolo della mente, ma per qualche ragione non riusciva a ricordarsi di chi fosse. Non riusciva neppure a individuare la provenienza di quella voce. Da dove diavolo veniva?
Si guardò attorno, sbattendo costantemente le palpebre. Che cosa strana, l’avevano davvero chiamato?
«Generale Sooooookaroooooo! GENEEEERALEEEEE, SONO QUI, SONO QUIIII!» L’uomo si guardò alle spalle, ma ancora niente. Eppure, il richiamo gli era arrivata forte e chiaro questa volta, come se il proprietario fosse sotto di lui.
Abbassò lo sguardo, ancora accigliato, ed eccola li: alquanto bassa (anche se rispetto a lui erano tutti bassi), con gli occhi più azzurri del cielo primaverile, con sfumature che riportavano alle nubi plumbee di metà ottobre.
I capelli rossi finemente intrecciati in una complicata treccia le ricaddero sul viso, mentre con lo sguardo, a sua volta,  esaminava attentamente l’uomo. Con i colori sgargianti che si ritrovava, in netto contrasto fra loro, la giovane gli ricordò  una qualche specie rara di pappagallo. Si ritrovò involontariamente a sorridere, ricordandosi solo allora che il nome di lei era Anita.
La scienziata fece un passo indietro, poggiando i pugni sui fianchi. «Bentornato, Generale Sokaro» ripeté allora, sbuffando su un ciuffo ribelle. Questo traballò in aria, per poi cadere di lato con leggerezza. «Sono Anita, spero si ricordi di me, prego mi segua.»
I colleghi del canarino non smisero di seguirli con lo sguardo finché non voltarono l’angolo e furono soli, persi in mezzo alla luce offuscata di quella che era l’entrata antecedente allo studio di Komui. I passi della donna erano veloci, i tacchi degli stivali rimbombavano fra le pareti come innumerevoli spari di pistola. Pistola. Solo pensare a quell’arma gli riportava alla mente Marian Cross, la sua innocence. Chissà che fine aveva fatto quella canaglia.
Scacciando quel pensiero dalla testa, Sokaro affondò lo sguardo sulla sua guida. Avrebbe voluto chiederle qualcosa riguardo l’esorcista che gli stavano per affidare, ma lei fu più veloce e iniziò con un nome: «Evangeline.» Poi si voltò ad aspettarlo, e riprese a camminare al suo fianco. «Tredici anni, quattordici il prossimo novembre. Impertinente, arrogante, molto chiusa per quanto riguarda i rapporti. Una specie di peste sotto forma umana, che Komui-san ha deciso di affidare a lei» fece una pausa, arricciando le labbra rubine in una smorfia. «Spero che riesca a resisterle. E’ con noi da solo un mese, ma per quanto riguarda alcune sfaccettature del suo carattere, mi creda, abbiamo già imparato a conoscerle bene. Ha sempre la risposta pronta, oppure non parla quasi mai. Una ragazzina alquanto-»
 «Mi state affidando una… ragazzina?» Ringhiò il Generale, bloccando la rossa nel bel mezzo del monologo. Proprio non riusciva a capire: anni prima lo ritenevano troppo violento, e adesso gli affidavano una ragazzina. Che problema aveva Komui, oltre il complesso della sorella, ovvio.
«Gliel’ho già detto, Generale, quella non è una ragazzina è una peste» lo rimbeccò lei, incrociando le braccia al petto.
Sokaro schioccò le nocche, prima di rivolgerle uno sguardo di soppiatto. «Perché dovreste affidarmi una peste, Anita? Sapete bene i miei metodi d’insegnamento e-»
«Proprio per questo le stiamo affidando Evangeline, Generale. Speriamo che con i suoi metodi poco ortodossi lei riesca a far uscire quella ragazzina dal guscio, che si è creata con le sue stesse mani.» L’uomo non poté fare a meno di notare negli occhi di lei una scintilla; probabilmente, anche se la definiva come una specie di demonio doveva volerle molto bene. «Eve-chan… ha visto i suoi genitori morire davanti ai suoi occhi. Briciati dopo l’attacco di alcuni akuma, mentre la stavano portando al quartier generale per farla sincronizzare con la propria Innocence. Da allora ha eretto un muro, in cui non è penetrato nessuno se non Lenalee-chan. Ma anche su questo ho i miei dubbi.»
«Capisco. Quindi me la state affidando perché, pensate che restando al mio fianco riuscirà a far crollare la barriera. Certo.» Il messicano annuì, incrociando le bracci al petto muscoloso. Beh, se la ragione della richiesta di Komui era quella allora l’avrebbe accettata volentieri. Avrebbe aiutato con piacere un nuovo membro dell’Ordine, senza contare che finalmente avrebbe potuto divertirsi nuovamente a punzecchiare qualcuno, che non fossero i finder, durante le missioni. «Beh, credo che far crollare i muri sia la mia specialità» affermò poi.
«Lo spero vivamente, Generale.» Anita aveva una strana luce negli occhi mentre si fermava e gli si parava davanti, bloccandogli l’entrata allo studio di Komui. «Lo spero con tutto il mio cuore. Evangeline ha bisogno di far crollare quel dannato muro, che la sta privando di tante belle cose. Perciò, Signore» inaspettatamente strinse le sue piccole mani attorno alle proprie, facendo fermare il cuore di lui per qualche istante, «faccia crollare realmente quel muro.» Sokaro annuì, sorpreso dalla decisione che il canarino mise in quel gesto.
 
«Evangeline, questo è il Generale Sokaro. Sarà il tuo nuovo maestro.» Komui le diede una spinta leggera, invitandola ad avanzare.
Sokaro si tolse l’elmo e lo strinse contro il fianco col braccio, camminando a sua volta verso la bambina. Mugugnò qualcosa, fissandola con gli occhi socchiusi come quelli di un felino a caccia. Lei inarcò le sopracciglia, incuriosita. La sua nuova allieva era una piccola massa, più bassa di quanto si aspettasse per qualcuno di quell’età, con una folta chioma di lunghi capelli ombrosi e due occhi scuri come il mare in burrasca. Uno sguardo così docile. Non aveva nulla della peste che Anita gli aveva descritto.
«Avanti, Eve-chan, non avere timore» la spronò sorridente il Supervisore, poggiandole una mano sulla spalla.
La bambina strinse i pugni, voltando la testa verso l’uomo con uno sguardo assassino. Il contatto visivo che si era creato col Generale si scheggiò di colpo, come a volerlo riportare alla realtà. L’uomo sbatté la palpebre. «Se mi chiami ancora “Eve” ti spedisco a volare con i golem dello strapiombo.» Komui impallidì, Sokaro sorrise. Allora Anita non gli aveva detto una bugia.
Si preannunciava una lunga convivenza.
 
Berlino, Fairy’s inn, quattro anni prima.
 
Erano passate tre settimane da quando Evangeline gli era stata affidata, e ancora non lui non era riuscito a buttare giù quel muro. Si era rivelata un’impresa più difficile del previsto. Quella mocciosetta era così fredda e distaccata da tutti. Quasi che, col passare del tempo, la vita uscisse dal suo corpo lasciando solo un involucro vuoto. E non aveva senso dell’umorismo.
Persino adesso, dopo che lui aveva tentato di farla sorridere con una di quelle battute che raramente era solito fare, lo ignorava. Se ne stava seduta alla scrivania della propria camera, con le caviglie incrociate sotto la sedia e il naso infilato in un complesso libro di matematica. E lui se ne stava a osservarla con le braccia appoggiate sullo schienale della scheda, e il petto spinto contro esse.  L’elmo riluceva contro luce, splendente dei fulminei raggi di sole che entravano dalla finestra e creavano lame di colori ovunque. Qualcuna le colpiva anche i capelli, illuminandoli di sfaccettature candide.
Il Generale si portò una mano alla guancia, affondandoci contro. Che diavolo aveva quella bambina? Il trauma si era talmente radicato in lei da farle congelare il cuore? Sospirò, poi mugugnò.
«Ogni volta che sospiri la felicità ti sfugge, non lo sapevi?» Chiese a un tratto lei, sarcastica, senza degnarlo di uno sguardo. La penna che continuava a correre veloce sul quaderno, infondendo il suo rumore per l’intera stanza.
«Mh. Tu lo fai spesso, però» affermò lui con la solita voce roca, sistemandosi meglio contro lo schienale della sedia. Sentiva le rifiniture di legno premergli contro la maglia, i pettorali. Sentiva il cuore battere con regolarità.
«Io non ho bisogno di fortuna. Non ci credo. La fortuna e la sfortuna sono solo cose per gli stupidi.»
Sokaro sbuffò nuovamente, accarezzandosi i capelli rasati. Certo che quella nanetta era peggio di un akuma, quando ci si metteva. Con quella voce acuta e gli occhi taglienti, la pelle diafana in contrasto con i capelli neri, sembrava realmente una pantera nel corpo di una topolina. Sorrise sotto i baffi, affondando ancora più avanti verso di lei. La sedia scricchiolò. Più la guardava, più vedeva Alex in lei. Certo, la bellezza era stata ereditata dalla madre ma, come dire, i tratti paterni erano come una pennellata di grigio in un dipinto completamente azzurro. Distinguibili, uno per uno. Il modo di tenere la penna, la postura della schiena, il modo in cui sbuffava. Tutte cose semplici, certo; piccoli particolari che, però, la rendevano uguale a lui in tutto e per tutto. Persino il caratteraccio ce si ritrovava ricordava al Generale il padre.
«Smettila di fissarmi, gigante» borbottò quella, come se gli avesse letto nella mente.
Lui la ignorò platealmente, e grattandosi una guancia disse: «Se non credi nella fortuna e nella sfortuna, allora in cosa credi?»
La bambina poggiò la penna sul quaderno, inspirò profondamente e si voltò. Lo sguardo felino lo trafisse da parte a parte, portandolo a raddrizzare la schiena come per affermare che era lui il più grosso e non lei, come al contrario poteva apparire in quell’istante. Con una piccola mano la giovane si accarezzò la fronte, poi tirò indietro i capelli. «Credo in me stessa», affermò. «Credo in me stessa, così come tutti dovrebbero fare. Credo in me e basta, e non ho bisogno di crearmi una cosa chiamata “fortuna”, come fanno alcuni che si vanno a raccontare chissà cosa per trovare la forza di compiere atti che se no non riuscirebbero a fare.» E tornò al suo tomo, senza più fiatare.
Sokaro si ritrovò  ingoiare a vuoto, felice e, al tempo stesso, impallidito a causa di quella risposta così schietta.
 
Bruxelles, Belgio, quattro anni prima.
 
Il nemico era vinto. Evangeline li aveva battuti tutti, senza voler alcun aiuto. Il generale l’aveva lasciata fare, e successivamente si era ritrovato a sghignazzare contento per i frutti del suo insegnamento. La piccola bambina vorticava a destra e a manca come un cobra, letale. La sua innocence spinosa con lei. Ma poi, proprio mentre l’ultimo nemico si accingeva a cadere, quel sorriso era morto sotto l’elmo. L’aveva vista crollare al suolo così, all’improvviso. Toccare terra in una nube di polvere, e di ultimi rottami di akuma. L’aria era stata pungente prima di diradarsi e permettere a Sokaro di accorrere in suo aiuto. Si era spaventato, finché lei non gli aveva sorriso nell’intento di alzarsi. Poi era ricaduta in ginocchio, tremando per lo sforzo e il freddo. L’innocence aveva riacquistato la sua forma originale, così come i suoi occhi. Era tutta coperta di sudiciume a causa dei nemici esplosi, e qualche ferita le sanguinava leggermente, ma pareva non importarle. Il cuore dell’uomo si era quietato, tornando a battere normalmente. Non aveva nulla di grave, solo stanchezza fisica che non le permetteva di alzarsi. Dopo vari secondi in cui si era pregustata la vittoria, lui  l’aveva raccolta fra le braccia e lei aveva mugolato, borbottato contro il Conte del millennio e infine si era decisa a smettere. Senza forze. Priva di voglia di rimanere sveglia, ma con un sorriso soddisfatto sulle labbra. Aveva distrutto i sui primi akuma con le tecniche da lui insegnatole, e sembrava molto contenta di ciò. Si era stretta al suo petto, incurante del fatto che agli occhi suoi e dei finder sarebbe potuta persino sembrare docile, innocente. E lo era davvero, aveva costato il Generale dopo aver sentito più volte il suo respiro infrangersi contro il proprio petto. Era la madre di una dolcezza infinita, nascosta sotto una cupola di spesso e duro adamantio che nessuno riusciva a penetrare. Ma, forse, lui iniziava a intravedere delle crepe in essa. Forse, forse ci stava riuscendo a far crollare il muro.
La posizionò meglio fra le braccia e salì sulla carrozza. Rivolse lo sguardo al cielo notturno, copiosamente disseminato di stelle brillanti come fari e, silenziosamente, sorrise a due suoi vecchi amici. Si congratulò con loro per la vita forte, tenace e preziosa che avevano messo al mondo.
Per tutta risposta, una stella si staccò dal manto blu e volò lontano, come per ringraziamento.
 
La poggiò nel suo letto, e si appoggiò contro il davanzale della finestra. La osservò sorridente: era soddisfatto del suo lavoro; stava plasmando una meravigliosa, nuova esorcista. In tutti i sensi. La piccola Evangeline, lui lo sapeva per certo, prospettava di diventare una meravigliosa donna come lo era stata la madre Cordelia, anni prima di lei. Splendida e letale, come un serpente raro pronto a mordere alla prima occasione se necessario. Non avrebbe voluto essere nei panni del ragazzo che l’avrebbe fatta innamorare. Già se lo immaginava, succube e continuamente ripreso. Senza pensarci rise, svegliandola.
Evangeline si voltò nella sua direzione, esaminandolo sonnecchiante. «Grazie per avermi messa a letto» borbottò, biascicando parola per parola.
«Di nulla, topolina» annuì lui, staccandosi dal suo appoggio per poi dirigersi verso la porta.
La sentì irrigidirsi mentre girava il pomello, udì il materasso cigolare poi, quando meno se l’aspettava, una voce raggiunse le sue orecchie. «Potrebbe... potrebbe restare con me finché non mi addormento, per favore?» Per poco la saliva non gli andò di traverso. Si girò, con la calma con il quale era solito fare – non voleva spaventarla, anche se a dire la verità era lui quello spaventato li – e la trovò poggiata su un gomito, intenta a esaminarlo con lo sguardo.
«Certamente, topolina.» Richiuse l’uscio alle sue spalle, dirigendosi verso la poltrona posta accanto al letto. Ci sprofondò dentro, unendo le mani sul ventre.
«Non chiamarmi to» i loro occhi si incrociarono, lei sospirò bruscamente. «Oh, lasciamo perdere. Buona notte, Generale.» Si tuffò contro il cuscino e gli diede la schiena. Lui rise nuovamente, con più dolcezza questa volta.
 
Vienna, quattro anni prima.
 
 
«Che c’è, topolina, hai esaurito le forze?» Se c’era una cosa che Sokaro aveva fatto capire ad Evangeline, in quel primo mese e mezzo di convivenza, era che a lui piaceva stuzzicare avversari e alleati. Lei, ultimamente, si era ritrovata vittima delle sue battutine con più frequenza in quanto sua allieva. Eppure ancora non demordeva dall’ignorarlo e basta, e ciò rendeva tutto più divertente.
Rispondeva sempre con la violenza, tipica di quel suo caratteraccio. Oh almeno, lo faceva quando lui usava quel degradante soprannome sui campi di battaglia, con il nemico di fronte. Quelli erano di certo i momenti migliori. La bambina diventava rossa in viso, gonfiava le guance e gli sputava contro tutto quello che le passava per l’anticamera del cervello.
L’akuma se ne stava di fronte a loro, le sopracciglia corrugate per l’insolita scenetta a cui non era pronto ad assistere. Doveva essere spiazzante, in un certo senso, e persino buffo. Non si poteva di certo affermare che incontrare un’insolita accoppiata di due esorcisti come loro (una tredicenne alta poco meno di un metro e sessantacinque, e un gigante alto più di due metri di trentasette anni) che litigavano nel bel mezzo di una battaglia come fossero stati al Q.G fosse roba da tutti i giorni. In certi versi poteva persino sembrare una bella scenetta. Si, il Generale l’avrebbe sicuramente raccontata in giro, giusto per fare imbestialire un po’ Evangeline.
«Ma cosa vai dicendo, armatura che cammina? Posso ancora farcela!» sbraitò la bambina, battendo violentemente il piede a terra. Aveva le guance rosse, gli occhi di un demone.
L’akuma si grattò la guancia grigia, imbarazzato. «Ecco… signori esorcisti… i-io sarei qui.»
«Ah! Se proprio ne sei sicura provamelo, topolina» la sbeffeggiò lui, appoggiandosi con noncuranza alla sua grossa Madness. La lama a doppio taglio dell’arma non sembrava scalfirlo minimamente. C’era abituato, dopo tutto. «Non ti muovi? Hai paura?»
«Brutto, mhhhh!» Gonfiando le guance, Evangeline schioccò la punta di Rose a terra. Gli spunzoni s’infilzarono nel terreno sabbioso, che scoppiò in aria quando la richiamò a se. «Chi è che non avrebbe più forze, eh?» e con un movimento del polso la sua arma oscillò in aria, si strinse attorno al collo del nemico imbambolato e gli strappò la testa. Si voltò, la piccolina, mentre questo esplodeva e andava a creare uno sfondo di fumo e fuoco.
«Direi che sei ancora in forma, topolina» annuì il Generale.
Lei gonfiò le guance, adirata per il soprannome, poi voltò la testa indignata e lo sorpassò diretta all’hotel. Con lo sguardo fermo sulla sua schiena, Sokar afferrò il proprio golem e usufruì di uno dei telefoni dei finder. Vi attaccò l’aggeggio, recitò un messaggio per Komui: «Il muro si sta sgretolando.»
Sentì un forte baccano, poi una cornetta che si alzava. «Sul serio?» fu la risposta pronta da Londra. Dalla voce che gli pervenne all’orecchio, Sokaro non seppe dire se Komui fosse stato più sorpreso o felice.
«Si, o almeno credo. E’ sempre acida, ma si comporta con più famigliarità nei miei confronti. Sembra quasi umana.»
 
Londra, sede dell’Ordine Oscuro, tre anni e dieci mesi prima.
 
La Home sembrava quasi piacevole questa volta, si ritrovò a pensare Sokaro. Eppure, non lo era. Evangeline stava al suo fianco, la valigia stretta fra le mani incerottate dopo l’ultima battaglia. Sull’occhio sinistro aveva una benda: una scheggia le aveva causato una ferita alla palpebra, una ferita lieve che sarebbe guarita in pochi giorni aveva detto il medico, tutta via c’era stato bisogno di una copertura. La bambina sospirò, accarezzandosela distrattamente. Komui la osservò, le mani ancora sui fianchi e un accenno di sorriso sul viso giovanile.
«Sono felice che Evangeline abbia appreso tanto da lei, Generale. La ringrazio per averle insegnato.» Un leggero inchino, un altro sorriso.
Sokaro inarcò le sopracciglia sotto l’elmo, poi, d’istinto si ritrovò a scompigliare i capelli della piccola esorcista. La sentì irrigidirsi, visibilmente contraria al gesto, ma non disse nulla. Lui smise poco dopo, sorpreso che la bambina non avesse reagito come suo solito. Tornò serio. «E’ stata una brava allieva.»
«Non ne dubito» asserì Anita, allungando una mano verso il bagaglio di Eve. Sokaro seguì i suoi movimenti, attentamente. «Dammi pure la valigia Eve-chan, te la porterò in camera.»
«Se mi tocchi, ti strappo il collo dal busto come mi ha insegnato il Generale. Sai che non sopporto essere toccata» reagì subito lei, tirandosi indietro per poi sorpassarli tutti. Rizzò la schiena, alzò il mento e strinse forte i pugni contro la maniglia del bagaglio a mano. «In camera mia ci arrivo da sola. Sono stata via solo due mesi, non quarant’anni. E poi, quante volte devo ripeterti di non chiamarmi “Eve”, vecchia strega?!»
«Evangeline» la richiamò Komui, visibilmente sbalordito dal suo comportamento.
Sokaro scosse il capo, prendendo atto di una triste verità. Il muro che lui stesso aveva pensato di aver buttato giù, in realtà, non era mai caduto. Si era solo venato, ma riportandola al Q.G era stato proprio lui a ricostruirlo più forte di prima. Forse avrebbe dovuto tenerla ancora con se, solo qualche mese.
 «Si, è il mio nome. Sono felice che tu te lo ricordi, Signor Supervisore» aveva una voce così fredda, costatò Sokaro, lontana da quella con cui gli si era rivolta nei due mesi successivi. Non aveva nulla di quella bambina che lo aveva pregato di non lasciarla sola nel cuore della notte. «Adesso, se volete scusarmi, ho delle poesie che mi aspettano» la tredicenne incrociò lo sguardo del Generale e lo fulminò, poi gli diede le spalle.
Il cuore di Sokaro tremò un pochino. Aveva riconosciuto bene il sentimento nascosto dietro le iridi di lei: abbandono. Evangeline si stava comportando così perché si sentiva abbandonata, da colui che aveva preso come modello per mesi. Dallo stesso uomo che si era preso cura di lei.
«Il muro c’è ancora» sospirò Anita, abbracciandosi da sola come per confortarsi. Gli occhi grigi si macchiarono di azzurro, quando inaspettatamente levò lo sguardo al Generale. Rimasero muti per qualche minuto, finché la donna non se ne uscì fuori con un: «Può andare, Generale. La ringraziamo per la sua collaborazione, ma da adesso Evangeline torna sotto la nostra giurisdizione. Ha fatto abbastanza. Ora, se volete scusarmi, vado a cercare Lenalee per informarla che Eve è tornata» e lasciò i due uomini soli.
Sokaro strinse i denti e si trattenne. Alla fine sapeva che gli avrebbero rivolto quelle parole, ma erano bastati due mesi perché si abituasse alla convivenza con quella mocciosetta. Poco più di due mesi trascorsi assieme e adesso che l’Ordine l’aveva ripresa indietro, a lui non andava bene. Certo, non era la prima volta che un allievo lo aveva lasciava a tirocinio concluso; anzi, molti l’avevano lasciato anche prima, però nessuno di loro aveva pianto nel farlo. E poi quello sguardo. Quel senso di abbandono che gli aveva rivolto. Senza volerlo ritornò a qualche giorno prima, quando le aveva detto che la Home l’aveva classificata come esorcista a tutti gli effetti e, perciò, che il suo tirocinio era finito. La vedeva ancora davanti ai suoi occhi, piccola, forte e sorpresa. Piangente calde e silenziose lacrime, che avevano iniziato a rigarle le guance senza che lei volesse. Aveva persino protestato contro esse, poi aveva stretto i pugni lungo i fianchi, talmente tanto da arrossare la pelle pallida delle nocche. Non se ne voleva andare, non voleva tornare alla home. «Non voglio tornare là» aveva singhiozzato, prima di aggiungere che, nonostante i suoi capricci, le mancava Lenalee. «Non ho avuto modo di conoscerla bene, mi hanno affidato subito a lei Generale, ma questo non vuol dire che non le voglia bene, a Lenalee intendo. Però… però non ci voglio tornare alla Home; mi ricorda mamma e papà. Non ci sono che esorcisti e scienziati, e quello strano coso melmoso»
«E’ Hebraska» l’aveva corretta lui, sorridendo un poco. Con una mano guantata gli aveva carezzato la testolina, Evangeline non aveva ribattuto.
«Quel che è» aveva ribattuto lei, asciugandosi le lacrime. Poi l’aveva guardato e stretto una delle sue maniche nella propria, piccola mano. «Mi tenga come sua allieva, la prego. Non voglio tornare la dentro. E’ un castello così grande, a volte così silenzioso che mi trovo a perdermi nei ricordi e non voglio. Non voglio farlo! La prego, mi tenga con lei almeno i ricordi non torneranno più. Lei rimane sempre con me la sera, non mi lascia mai sola. Non mi mandi via.»
Vederla piangere così era strano, pensò Sokaro. Vederla pregarlo di qualcosa, però, lo era ancora di più. Anche se la sua era una richiesta del tutto lecita. L’immagine che si era fatto di lei, di una corazza vivente, si era lentamente sgretolata fra le braccia di lui, mentre la bambina si apprestava ad abbracciarlo stretto incurante dell’armatura che indossava. «Evangeline» la sua voce, usualmente graffiante e roca, uscì bassa e si disperse nella loro camera d’albergo.
«Non mi faccia tornare la. Non mi faccia tornare alla mia solita stanza, dove tutto è così silenzioso e buio, e i ricordi affiorano nella mia testa come nulla. Non mi faccia tornare nel mondo in cui sono cresciuti mamma e papà, la prego. Io non voglio.» Piangeva, e non accennava a smettere.
Smise solo quando Sokaro la distanziò da se, spiegandole il motivo di quella scelta. «Hai imparato tutto, Evangeline. Non hai più bisogno di insegnamenti, puoi affrontare da sola missioni che prima non potevi. E smettila di piangere, non ti si addice proprio topolina.»
Lei era rimasta in silenzio, cercando di calmare il cuore che sembrava impazzito. Poi, quando ebbe finito, respirò a fondo. «Il mio nome è Evangeline» sibilò sommessamente, riservando all’uomo uno sguardo glaciale. «Non osi dire a nessuno quello che le ho appena raccontato, oppure le taglio la testa.» Si accarezzò il viso caldo e rigato dalle lacrime, e uscì.
E allora Sokaro, ripensando a quel momento, seppe di aver detto le cose sbagliate, di aver ferito quella piccola allieva a cui, infondo, aveva fatto l’abitudine. Il muro che aveva iniziato a crollare era risorto, più spesso e forte di prima. Anzi, non era mai caduto ma lui se n’era accorto troppo tardi.
 
India, Oggi.
 
Sokaro aprì gli occhi. La luce del sole veniva mitigata dal fogliame degli alberi sopra la sua testa, che la filtravano tra le foglie bloccando la sua caduta verso terra. Sbatté più volte le palpebre, sbadigliando sonoramente. Si era appisolato non appena finito il pranzo, quando per noia si era distaccato dai suoi finder e aveva deciso che era il momento di starsene un po’ in santa pace. A quanto pare, però, neppure nel sonno gli era concessa. Forse a causa del troppo cibo ingurgitato, oppure per la notizia che Komui aveva aggiunto alla squadra di esorcisti affidatagli Evangeline, si era ritrovato a sognarla. Che cosa strana, non l’aveva mai fatto. Non più almeno. Non dopo che, finalmente, anni prima era riuscito a scacciarsi dalle spalle il peso opprimente che continuava a spingerlo verso terra, intimandogli che non era stato in grado di comprende la richiesta disperata di una bambina. Il suo bisogno di non sentirsi abbandonata.
Si passò le mani sugli occhi, e ancora assonnato decise che poteva permettersi un altro po’ di riposo. Tanto dovevano aspettare quei quattro esorcisti, no? C’era ancora del tempo; a quanto ne sapeva sarebbero arrivati verso sera. Magari, nel suo nuovo sonno ristoratore, avrebbe sognato qualcosa, qalcuno che non fosse stato Eve… No. Impossibile. Strano ma vero era troppo curioso di sapere, conoscere ogni suo cambiamento. Voleva vederla, scoprire se quegli occhi erano diventati meno severi, se i capelli si erano allungati, se si era abbronzata un pochino. Voleva conoscerla di nuovo, era curioso. Ansioso di scoprire come quella bambina si era trasformata; e se, finalmente, era riuscita a buttare giù il muro e vivere in pace con se stessa. Con il mondo.
Sospirò, accarezzato dal vento indiando.
«Il tuo brutto vizio di sospirare non lo perderai mai, è vecchio? E’ ora di alzarsi.» La voce gli era arrivata da lontano, offuscata dal rumore del fiume che scorreva poco distante. Incuriosito, tese le orecchie. Silenzio. «Alzati, armatura ambulante!» Una scarpata lo colpì dritto sulla spalla, facendolo sobbalzare e cadere di lato. Colto alla sprovvista da quella voce nuova, il Generale si issò in piedi di scatto e scagliò in avanti  un pugno, che prontamente l’avversaria schivò.
«Evangeline, ma cosa fai?! Non puoi prendere a scarpate un Generale!» gridò qualcuno, visibilmente sorpreso e allarmato dal gesto della giovane.
Sokaro abbassò le difese rimanendo col fiato sospeso, come sul filo di un rasoio. «Perché no? Voglio dire, tanto, in un modo o nell’altro, andava svegliato comunque, stupido di un Kazana» borbottò l’attentatrice, rifilando al compagno uno sguardo veloce. Il vento fece frusciare le fronde verdi degli alberi, cullando anche qualche ciocca scura della giovane.
«Ma…» il ragazzo dai capelli castani scosse il capo, pronto a concludere la frase, quando lei gli rifilò un pugno sulla spalla. La ragazza lo fissò intensamente, uscendosene poi con un: «Tzk, fa silenzio.»
«Evangeline-san, ti sembra il modo?!» intervenne una terza voce, più baritonale della prima, attirando l’attenzione della nominata su di se. Contro luce, i tratti degli esorcisti erano difficili da studiare. Solo una cosa saltava agli occhi: il colore dei capelli. Il nuovo arrivato li aveva neri, così come la giovane donna.
Lei digrignò i denti, visibilmente infastidita da tutte quelle paternali. «Ascoltatemi bene: potete essere esorcisti da molto più tempo di me, ma io con questo caprone ci ho convissuto, e so che con le buone non si sveglia! Perciò, fatevi i fatti vostri e non intromettetevi più nei miei affari, o vi taglio le palle. E giuro che lo faccio!» I due sbiancarono, ma non ancora contenta la giovane si avvicinò un poco al nuovo arrivato ed aggiunse: «E io mantengo sempre la mia parola, Chakar.» Questo s’irrigidì.
«Sei impossibile» commentò una quarta voce.
«Sta zitto Suman» ringhiò furente lei, prima di voltarsi verso Sokaro.
Il Generale non aveva aperto bocca da quando si era alzato; anzi, era rimasto muto a osservare la scena, quasi sorpreso. No, evidentemente sorpreso. All’inizio gli era parso di riconoscere Cordelia nel profilo contro luce della figura, ma poi avevano tutti detto quel nome e il suo pensiero era sfumato assieme al vento.
L’attentatrice fece un passo avanti, l’ombra del fogliame che si depositò sulla pelle di lei permise agli occhi del Generale di studiarla. Aveva innanzi una splendida ragazza, non la tredicenne bassina che aveva sognato poco prima. Davanti ai suoi occhi sostava una bellezza rara, di quelle che vanno comprese e sapute prendere. Evangeline. Era cresciuta. Tanto. Di quella bambina che era stata non era rimasto nulla, neppure un segno ad indicare che fosse realmente esistita. Persino la sua Innocence sembrava diversa.
 L’Evangeline di adesso era alta, almeno un metro e settanta abbondante, e aveva gli occhi più taglienti del filo di una scure; la pelle pallida era più lucida di quanto era mai stata in passato, riluceva al sole come fosse stata fatta di diamante; le labbra che da bambina aveva sempre curato con diligenza –in quanto diceva che alla sua mamma piacevano tanto, che era la cosa che preferiva di lei-, ora erano leggermente screpolate, tagliate; i capelli erano corti, le sfioravano le spalle a mala pena; e il fisico era asciutto e con forme non troppo eccessive. Ricordava, sotto certi aspetti, un’agile gazzella, sotto altri una temibile pantera.
Negli anni era cambiata così tanto che Sokaro fece fatica ad associare la ragazza che aveva davanti a quella piccola bambina che aveva addestrato. Fatica, quel termine era solo un diminutivo di ciò che sentiva dentro. Fatica, stupore, incomprensione e tante altre cose vorticavano all’interno del proprio corpo.
«Beh?» chiese lei, squadrando l’uomo da cima a fondo. Portò le mani ai fianchi e spostò il peso su un piede solo, senza perdere mai il contatto visivo. «Che ti è successo, armatura che cammina, la vecchiaia ti ha fatto dimenticare come si fa a parlare? Oppure le ossa non riescono più a muoversi come dovrebbero?» Sfacciata. Terribilmente sfacciata ed arrogante.
Sbattendo una volta le palpebre, il Generale tornò alla realtà. Forse, dopo tutto, il carattere non era cambiato.  Sbuffò, lanciando uno sguardo al cielo terso. Ah, è tutto tuo questo caratteraccio Alex! Stesso D.N.A., non ci piove. Mi ricorda te all’inizio di tutto.
«No, nient’affatto topolina» scosse il capo lui, avviandosi verso la ragazza. Quando le arrivò vicino, si fermò e le scompigliò i capelli. Lei trattenne il fiato, gonfiando le guance fino a diventare rossa.
Eve sapeva bene che non poteva picchiare il Generale ancora un volta, gli altri tre esorcisti che stavano assistendo alla scena non gliel’avrebbero permesso. Tanto meno lui.
«Smettila! Ti stacco un braccio!» lo minacciò, voltandosi di scatto. «E non chiamarmi più “topolina”! Non ho più tredici anni!»
Lui rise, procedendo spedito verso la carrozza. Con un sorriso sulle labbra, nascosto alla vista dei suoi subordinati, sorrise felice. Un po’ sollevato. Forse non era cambiata del tutto. Cresciuta, certo, ma in fondo in fondo rimaneva sempre la bambina con cui aveva avuto a che fare.
 
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Evangeline: E QUESTO COSA SAREBBEEEEEEEEE?! Come hai solo osato rendere pubblici questi momenti imbarazzanti della mia vita!? VECCHIO!
Sokaro: Zitta, topolina. Il capitolo lo gestisco io, e io decido cosa metterci e cosa no. Taci.
Evangeline: Giuro che ti stacco la testa #AlzaPugno
Sokaro: Shhhh. Se continui a urlare così, ti rovinerai le corde vocali.
Evangeline: AL DIAVOLO LE CORDE VOCALI, IO TI CANCELLO DA QUESTO MONDOOOOO!
Isil: E così si conclude questo capitolo di passaggio. #Sogghigna# e così anche Evangeline sa piangere. Bene bene, muahahahhaa… Oh, siete ancora qui? Beh, non fate caso a quello che ho detto prima, eh :3
Evangeline: E’ ANCHE COLPA TUA, VECCHIA PAZZOIDE! ORA TI ELIMINO DA QUESTO PIANETAAAA!
Isil: Sono morta…. A PRESTOOOOOOOO!
Evangeline: Torna qui, vecchia!
 
 

 
 
 
 
  
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