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Autore: Nuel    12/01/2015    4 recensioni
Durante il lungo e rigido inverno del Nord, la regina madre Esyllt rivela al figlio Gavio la propria storia: da incantatrice nata nell'ultimo villaggio del mondo, ai piedi della montagna del drago, a regina di Tara. Da pedina a giocatrice, in un tempo scandito dal cadere della neve.
♣ Questo racconto si è classificato quinto e si è aggiudicato il Premio Giuria nel contest "La Caduta dell'Inverno Boreale" indetto da Deidaradanna93 sul forum di EFP.
♣ Questo racconto si è classificato sesto e si è aggiudicato il Premio Miglior Storia Fantasy nel contest "Cento giorni di introspezione, fantasia e romanticismo" indetto da WhatHasHappened sul forum di EFP.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Uno

La quarta notte


 ❦ 
 

La breve estate del Nord era giunta al termine. La neve aveva già spruzzato di bianco la torbiera che presto non sarebbe più stata distinguibile, diventando una trappola mortale per gli incauti che avrebbero cercato di avvicinarsi alla fortezza.
Il vento frustava la mura di cinta e la torre, portando con sé il verso dei gufi e il profumo degli aghi dell’abete rosso. Spifferi gelidi penetravano senza pietà nella piccola stanza da cui la regina guardava, immobile come una statua, il sentiero che, dalla foresta, attraversava la torbiera e moriva davanti le mura di pietra e fango della sua dimora: suo figlio sarebbe arrivato prima della tormenta, come faceva alla fine di ogni estate. 
Erano quattro notti, ormai, che attendeva il suo arrivo, ma quella era la notte giusta: i segni non mentivano. Le strolaghe erano partite all’inizio del mese, segno che l’inverno sarebbe giunto presto e quattro lupi avevano iniziato ad uscire dal riparo degli alberi sul finire della settimana precedente. Non oltrepassavano mai la torbiera, ma guardavano l’edificio coi loro occhi d’ambra, come se potessero vedere attraverso i muri.
Infine, quella mattina, gli uomini avevano inseguito un topo muschiato fin dentro la sua tana e lì l’avevano ucciso: Gavio sarebbe giunto quella notte, la quarta dalla comparsa dei lupi.
    Gli uomini di guardia al portone stavano bivaccando intorno al piccolo fuoco che respingeva il freddo e cercava di tenere lontane le tenebre, coi loro fantasmi e le paure che accompagnavano gli uomini dalla notte dei tempi. Parlavano più forte, col sopraggiungere del buio, come a volersi dare coraggio, a riempire il silenzio frastagliato dai versi degli animali notturni, forieri di maledizioni superstiziose e di presagi oscuri. La regina sentiva le loro voci, ma non le ascoltava: le erano fedeli, vincolati a lei dalla sua magia, fino alla morte e, forse, anche dopo. Lei lasciava che lo credessero. Lasciava che credessero molte cose.
    Un gufo volò sopra le mura, bubolando sinistro e l’eco del suo verso giunse dal basso, in forma di coro d’imprecazioni che coprì lo scalpiccio di zoccoli in avvicinamento, sul sentiero. Nuvole coprivano le stelle dell’Orsa, quasi allo zenit, concedendo a cavallo e cavaliere un occultamento pressoché perfetto finché non giunsero in prossimità delle mura, illuminate dai bracieri ed una voce ruppe il silenzio: « Alto là! » intimò il soldato di guardia, mettendo sul chi vive i compagni, all’interno del cortile, ma quando giunse la risposta: « Aprite, sono il re! », la regina aveva già lasciato la sua stanza, iniziando a scendere i piccoli gradini di legno.
    Una porta venne aperta nel grande portone di legno rinforzato, ampia abbastanza da far entrare un cavaliere sulla sua cavalcatura, ma non un carro; una misura di sicurezza probabilmente inutile per un edificio senza un fossato e con un tetto di paglia. Il re smontò dalla sella affidando il destriero allo stalliere accorso a compiere il proprio dovere.
    « Benvenuto, Sire. Erano giorni che vi aspettavamo, ormai » lo salutò l’uomo, prendendo in custodia il cavallo, mentre Gavio già muoveva verso l’edificio principale, il fiato che usciva denso dalle sue labbra ad ogni respiro.
    « Gavio! » la voce della regina si espanse nel cortile come il suono di un corno o l’ululato del vento non appena la porta si aprì. Protese le braccia al figlio, restando sull’uscio, vestita solo degli abiti scuri e pesanti che aveva portato tutto il giorno, ma che non lo erano abbastanza per la notte e l’esterno ed il giovane re la raggiunse a grandi passi, stringendola in un abbraccio.
    « Madre! Che gioia rivedervi! State bene? »
    « Vieni! Entra... stai congelato! » la regina gli accarezzò le guance coperte di barba nera, corta e curata e lo condusse al riparo dell’edificio. « Bronia! » chiamò a gran voce « Portaci della birra calda e metti a scaldare lo stufato! » Poi si rivolse al figlio « Saliamo! » e salirono gli stretti gradini  fino al piano intermedio, dove il fuoco del camino riscaldava e rischiarava l’unica stanza che la donna occupava giorno dopo giorno, anno dopo anno.
    Una volta al riparo, Gavio tolse il pesante mantello foderato di pelliccia e lo mise accanto al camino, ad asciugare, prima di stringere di nuovo in un abbraccio la madre e tenerla stretta fino a quando lei non si scostò. « È bello rivedervi, madre » le disse osservandola e lei sorrise, accomodandosi vicino al fuoco e facendolo sedere accanto a sé. 
    « Vieni a scaldarti, Gavio... la tua pelle è fredda ». Lo osservava, in cerca di ogni cambiamento, di un segno, di un’ombra che le svelasse quello che il figlio avrebbe potuto tacerle, avvalendosi di quel misto di conoscenze che derivavano dall’essere sua madre e dal possedere doti arcane.
    Lui le sorrise fugacemente, prendendo posto accanto al camino. « Non ho freddo, madre. Sapete che non posso. Il sangue del Drago genera da sé il proprio calore. Ditemi di voi, piuttosto: come state? » chiese, sfuggendo al suo sguardo indagatore, spostando l’attenzione sul focolare per qualche istante. Accanto alla fiamma i suoi occhi neri divennero rossi, quasi fossero tizzoni ardenti, capaci di celare i segreti più oscuri e, quando tornò a guardare la madre, nella luce dello stesso fuoco scorse i suoi capelli color del rame quasi incendiarsi. 
    « E tu sai che la magia mi protegge, figlio mio. Non posso invecchiare né ammalarmi, come fossi sospesa nel tempo, a rivivere eternamente un lungo giorno; non hai nulla da temere per me, ma sento che qualcosa turba il tuo animo... ».
    « Vorrei riportarvi a casa, dove è il vostro posto! » mise tutta la sua enfasi in quelle parole, il giovane re, mentre si protendeva a prendere le mani della madre nelle proprie. « L’inverno è lungo, madre e questo luogo non sarà sicuro ancora per molto! »
    « Dovrebbero perire tutti quelli che mi hanno conosciuta, Gavio, prima del mio ritorno. Come spiegheremmo la mia giovinezza? E quando prenderai moglie, credi forse che la tua sposa vorrà avermi accanto? » rise piano « Gli inverni arrivano e passano. Nessuno si è mai spinto oltre la torbiera ».
    « Finora! » Insistette lui, alzandosi di scatto e cominciando a camminare avanti e in dietro per la stanza, misurandola con ampi passi. Gli stivali di morbida pelle non facevano rumore sugli spessi tappeti di lana che coprivano il pavimento. « C’è chi mette in dubbio la legittimità del mio trono... »  le disse con voce preoccupata, ma la regina gli fece cenno di tacere: dalla scala giungevano i passi pesanti della fantesca che portava due grandi boccali di birra.
    La regina si alzò, andando ad aprire la porta alla vecchia serva che saliva l’ultimo gradino 
« Grazie, Bronia. Posali sulla tavola ».
    Bronia chinò il capo e si fermò ad inchinarsi maldestramente al re che aveva visto nascere, prima di raggiungere la tavola, posando i due boccali fumanti. « Ho messo a scaldare lo stufato di renna, mio re. Tra poco ve lo porto su e vedrete come vi scalderete, con quello! » fece la donna, un sorriso sdentato e le guance rosse sotto i piccoli occhi azzurri e velati.
    « Riesci ancora a fare le scale, Bronia? Posso venire giù io a prenderlo, se preferisci » le rispose lui, con la confidenza del bambino e la responsabilità dell’adulto, strappando alla fantesca una risata catarrosa. 
    « Voi pensate a fare il re, mio re, che a fare la serva ci penso io! » scosse il capo candido e lasciò la stanza con il sorriso sulle labbra.
    « Bevi, prima che si raffreddi » lo invitò la madre, porgendogli un boccale e prendendo il secondo per sé. « Tu sei il re, chi osa metterlo in discussione? »
    « Moerg, della tribù di Judoc...»
    « Serviva il vecchio re. Non è ancora morto? » chiese lei, accigliandosi al ricordo del vecchio consigliere che aveva sempre messo in guardia il sovrano da lei e dalle sue stregonerie.
    « Non solo non è morto, ma è sostenuto dai villaggi che si trovano a sud del Lago delle Stelle fino a quelli ai piedi della Montagna di Fuoco. Si stanno armando... dicono che la montagna è spenta, che il dio che l’abitava se ne è andato... perché io non sono il vero re » si interruppe in modo secco, guardando la madre, con la consapevolezza che lei sapesse che lui conosceva la verità da tempo, ormai.
    « Un esercito bene in armi e addestrato teme una manica di contadini armati di forche? » chiese scettica, tenendo le mani intorno al boccale, per scaldarle.
    « Molti dei nostri soldati vengono da quei villaggi e non vorranno combattere contro i loro amici e parenti... » si avvicinò alla madre, togliendole il boccale dalle mani per stringerle nelle proprie. « Ma tu potresti convincerli, potresti dire loro che il dio della montagna non li ha abbandonati... » dal suo sguardo traspariva il timore che i sudditi dicessero il vero, che l’antico drago che dimorava nel cuore della montagna fosse morto.
    « Da molto tempo io non lo incontro » ammise la regina, con voce esitante « egli non visita più le mie stanze da quando tornò sulla montagna, dopo la tua incoronazione... » vide negli occhi del figlio la sorpresa, forse anche la comprensione, per la prima volta, di quanto fosse assoluto il suo esilio. « ma sono certa che vive ancora! »
    « Come potete saperlo? » chiese in un soffio il giovane re, cercando negli occhi grigi della madre una risposta comprensibile, ma lei portò le mani al petto, dove ogni guizzo del fuoco veniva catturato dalla grande gemma preziosa che le pendeva dal collo.
    « Se tuo padre fosse morto, io lo saprei » rispose lei, sussurrando, come aveva sussurrato lui, ammettendo, per la prima volta, che Gavio fosse il figlio del drago e non del re. 
    « Non è abbastanza! » gemette lui « Non è abbastanza per il popolo che il vostro cuore senta che lui vive ancora... saliranno sulla montagna. Vogliono che io salga, ma solo voi... solo voi siete salita sulla montagna e siete tornata ».
    La regina annuì e liberò le mani dalle sue, raggiungendo uno dei grandi bauli coperti di pelli che affiancavano il letto. Ne trasse una grande mappa del regno e la distese sul tavolo, fermando i due angoli superiori coi boccali, mentre Gavio teneva uno di quelli inferiori e lei l’altro. 
« Indicameli! Quali sono i villaggi? » gli chiese guardando la vecchia pergamena su cui era riportato ogni villaggio, ogni fiume e lago e montagna del regno. Il dito di Gavio si spostò rapido lungo le linee tracciate. 
    « Il villaggio di Judoc. Il villaggio di Dewi. Quello di Somhairle... e questo » le mostrò i punti e la regina vi fece scorrere sopra il palmo della mano, come se, così facendo, potesse vederli coi propri occhi, come se li sorvolasse e non come fossero soltanto righe tracciate su una pergamena. 
    « Bean Sidhe » mormorò la regina toccando l’ultimo dei simboli che rappresentavano i villaggi e sollevò lo sguardo sul figlio « È lì che dovrai andare per placare il tuo popolo, a Bean Sidhe, dove io sono nata ».
    Gavio annuì, scrutandola. « Siete anche voi un’adoratrice del drago?! » le chiese infine, riportando lo sguardo sulla mappa: Bean Sidhe si trovava proprio sotto la montagna.
    La regina gli rivolse un sorriso mesto. « Nacqui laggiù » sembrava che non volesse dire altro. Tornò a sedere accanto al fuoco e Gavio la seguì, inginocchiandosi di fronte a lei, per posarle la testa in grembo, come quando era piccolo e la donna gli accarezzò i capelli scuri, gli occhi ancora rivolti alla fiamma viva che bruciava nel caminetto. « Mia madre possedeva la Vista... » cominciò dopo qualche momento di silenzio. « e mio padre era un patetico mago che mischiava le erbe con la fuliggine del camino per garantire la guarigione degli uomini e la salute dei bambini... trovava sempre una ragione per la mancata efficacia dei suoi intrugli! » sospirò. « Mia madre, invece, conosceva le ragioni profonde e dava alla gente i consigli giusti. Credo sia stato grazie a lei che mio padre non venne mai cacciato dal villaggio. Lei mi raccontava le antiche leggende... mi parlò di Ynyr, il dio della Montagna di Fuoco, ma a me non importava: possedevo un dono più grande di quello di mia madre e credevo che mi avrebbe aperto qualsiasi porta » di nuovo sfiorò il medaglione, l’occhio del drago, una gemma rossa come sangue, che, davanti alle fiamme, sembrava pulsare di vita propria. « Se il mio potere o quello di mia madre derivasse da Ynyr, come diceva la gente del villaggio, non lo so, non mi importava. Avevo appreso da lei a leggere i segni e da mio padre ad ingannare i creduloni. In più, il mio potere era reale, potevo incantare gli oggetti, rendere fragile il ferro e affilato il legno, potevo fare molte cose, ma sapevo che ve ne erano altre, molte altre, che avrei potuto imparare a fare ».
    Gavio aveva colto la tenerezza nella voce materna nel pronunciare il nome dell’antico drago e rimase in silenzio, attendendo che lei continuasse, consapevole che di Ynyr erano gli occhi sul suo volto e suoi erano i capelli neri, l’altezza e la struttura... chiunque avesse conosciuto il cavaliere nero, chiunque l’avesse visto passeggiare nel cortile con la regina Esyllt, nella breve estate di Tara, sapeva chi fosse il padre del giovane re.
    «  Quando andrai a Bean Sidhe, figlio mio, fatti dire dove era la casa di Edana e del suo sposo e porta con te della birra da versare sopra la terra su cui era costruita. Gli anziani apprezzeranno che tu conosca i loro costumi e ti ascolteranno per questo » disse lei, invece, tornando a guardarlo col sorriso sulle labbra. 
    « Cosa è accaduto alla casa in cui siete nata? » le chiese allora Gavio, strofinando il volto contro il suo grembo perché non smettesse di accarezzarlo.
    « Quando una casa rimane vuota, senza figli ad abitare il luogo dei padri, viene bruciata perché trapassi nel regno delle anime e perché, vedendo il fuoco, Ynyr sia benevolo al villaggio e non scenda a bruciare le altre case ed i campi » spiegò lei. « Vai ad aprire la porta, Gavio: Bronia sta salendo con la tua cena ».
    Ubbidiente, il re andò ad aprire, proprio quando la fantesca stava salendo l’ultimo gradino, recando nelle mani un vassoio grossolano, ricavato dalla sezione di un albero su cui erano posati un piatto di terracotta ed alcune fette di pane. « Ora lo prendo io, Bronia, grazie. Puoi andare » la congedò senza farla entrare, così che non interrompesse il dialogo con la madre. « Cosa vi fa credere che mi ascolteranno? » chiese alla regina quando ebbe posato il vassoio sul tavolo, vicino alla mappa dagli angoli inferiori arrotolati.
    « Appartieni alla stirpe degli adoratori del drago » rispose lei, pacata, mentre il figlio cominciava a mangiare.
    « Appartengo alla stirpe del drago, se è per questo, ma non a quella reale! » obiettò lui, sogguardandola mentre mangiava con più appetito di quanto avesse pensato di avere. Il profumo della carne e del pane abbrustolito era invitante e Gavio non aveva mangiato dal giorno precedente, cavalcando fin quasi a sfiancare il cavallo, per non fermarsi nella foresta.
    « Loro non lo sanno » replicò la regina, senza cambiare tono « ma il sangue del drago, nelle tue vene, ti rende il legittimo re ». L’ululato del vento, fuori dall’edificio, sembrò rispondere alle parole della regina con una risata di scherno.
    « Più di Eoghan? » chiese, sibilando sottovoce il nome del fratellastro, disperso molti anni prima, quando lui era appena un bambino. Non ricordava molto del fratello maggiore: Eoghan era già adulto e sarebbe diventato re, alla morte del padre. Arrogante e spregevole, guardava Gavio e sua madre con odio palese. Pur bambino, Gavio comprendeva che, per Eoghan lui e quella sua madre plebea erano poco più che insetti e che si sarebbe sbarazzato di loro, alla prima occasione.    
    Esyllt alzò le spalle con indifferenza. « La corona non è andata a lui ». Si avvicinò al figlio, posando le mani sulle sue spalle. « Eoghan era uno stolto: credeva che il potere di sua madre l’avrebbe protetto per sempre... ma i figli devono imparare a camminare da soli, Gavio ». Gli posò un bacio sulla testa e tornò di fronte alla mappa, aprendola e guardandola. Tracciò una linea dal confine del regno fino ad un punto che si perdeva fuori dalla pergamena, sulla tavola di legno scuro.  « Vi è un luogo di nebbie eterne, dove gli incauti smarriscono la via ». Lasciò di nuovo la pergamena e tornò a sedere accanto al fuoco.
    « Voi sapete... ? » Gavio aveva sempre sospettato che la madre avesse tirato i fili della malattia e della morte del padre e, un tempo, l’aveva sfiorato il pensiero che fosse implicata anche nella scomparsa del legittimo erede al trono, ma non aveva mai voluto indugiare troppo a lungo su quell’idea. Eoghan era un erudito o lo sarebbe diventato, in capo a pochi anni, più interessato alle trame sottili della politica che alle armi, mentre lui, come principe cadetto, prendeva lezioni di spada e apprendeva l’arte della guerra da Ynyr, il cavaliere nero, comparso un giorno dal nulla, senza passato. A quel tempo, lui era troppo giovane e il re troppo malato, quando si rese necessaria la presenza del sovrano al fronte. Eoghan partì, ma non fece più ritorno.
Gavio, irrequieto, aveva sofferto per l’assenza di Ynyr, in quei giorni. Sua madre aveva pianificato ogni cosa perché lui imparasse a camminare su una strada libera da qualunque ostacolo.
    « So molte cose e molte altre credo di saperle, come ogni creatura che abbia vissuto a lungo ed abbia viaggiato in terre lontane. È di tuo gradimento la cena? Bronia ci tiene molto, lo sai ».
    « È squisita » rispose, poco interessato, in verità, alla cena. « A Tara non parlavate mai del passato. Oggi sembra che vi tormenti... »
    « Tormentarmi? No » rise Esyllt « Il passato mi tiene compagnia. A Tara non potevo rischiare che qualcuno sapesse troppe cose: c’era in ballo la tua vita e non potevo rischiare nemmeno che qualcuno sospettasse la vera natura di Ynyr ».
    « Perché lui non era umano... » la imbeccò, desideroso di avere la conferma di quello che aveva sempre saputo.
    « Avevi bisogno di lui per imparare a padroneggiare il fuoco. Ynyr il cavaliere nero era Ynyr il drago, tuo padre. Quando fosti incoronato stava iniziando, per lui, il tempo del lungo sonno. Solo così può restare in vita e per questo devi impedire agli uomini dei villaggi di salire sulla montagna: non puoi permettere che trovino il drago addormentato! »
    « Cosa mai potrebbero fargli?! » chiese Gavio, come se non credesse possibile che qualcosa di male potesse venire fatto all’antico drago.
    « Gli uomini, figlio mio, sono le più spaventose delle creature! Capaci di compiere il male con la medesima spontaneità con cui fanno il bene! » lo redarguì lei, con il tono più severo. « Mentre dorme, Ynyr è vulnerabile! »
    « Quando si risveglierà? » le chiese allora, ma questa volta, la regina non rispose; chinò il capo e sembrò che il vento, fuori dalla torre, le avesse rubato la voce.
    « Fino a quando sarà, io l’attenderò ».
    Il freddo parve penetrare le pietre e scendere su di loro con la sua coltre di brina e ghiaccio, rendendoli improvvisamente coscienti della notte. Il richiamo dei lupi sembrò più vicino, trasportato dal vento sferzante ed il crepitio del fuoco che consumava l’ultima legna parve sancire la fine di quella conversazione.
    « Metti altra legna nel caminetto, Gavio » disse infatti la regina « e poi vieni a letto ».
    Mentre la madre si coricava, il re che re non era, ma era il figlio del drago, aggiunse altra legna al fuoco, perché non si spegnesse, durante la notte. Il fuoco circondò la sua mano, mentre lo attizzava e danzò intorno alle sue dita, senza bruciarle, prima che lo lasciasse andare e poi Gavio si distese accanto alla madre, nel letto coperto di pelliccia, sentendosi al sicuro nell’abbraccio di Esyllt, come quando era bambino e lei gli raccontava il futuro come una meravigliosa avventura, come se avesse potuto prepararlo al suo destino.
   
 
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