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Autore: aki_penn    12/01/2015    3 recensioni
“Fare il bagno nel sangue delle vergini mi mantiene giovane” disse, guardandosi le mani dalle dita lunghe e affusolate, sporche di rosso. “Quella ragazza che ti sei portato appresso quando sei arrivato a Rosenrot, è vergine?” domandò poi, guardandolo. Tinkerbell strabuzzò gli occhi e balbettò “Ru-Ruthie? Io non…non so…non ho mai chiesto…” incespicò, preso alla sprovvista, per poi accigliarsi e sbottare “E comunque non ho alcuna intenzione di farti dissanguare la mia assistente, se permetti!”
Genere: Azione, Horror, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Make a wish -

Capitolo trentasei -

La caccia e l’iguana –

 

La prima cosa che Alih pensò, quando di svegliò, fu di essere morta, ma tutto le faceva troppo male per trattarsi del sonno eterno.

Quando aprì gli occhi era tutto troppo bianco, così bianco che gli facevano male anche gli occhi. Aveva qualche cosa sul naso, faceva un po’ fatica a respirare, ma riusciva comunque a sentire odore di morte. Ci mise un po’ a capire che si trattava proprio di se stessa.

Riuscì ad aprire gli occhi solo dopo un po’. Studiò la stanza dove era stata depositata: aveva un’aria familiare, ma non riusciva a capire dove l’avesse già vista, né riusciva a capire come poteva esserci arrivata. Gli ultimi ricordi che aveva erano quelli di Commander che se ne andava lasciandola a morire nella neve ma, a quanto pareva, in quel momento, giaceva fasciata e pulita su un letto con le lenzuola lavate di fresco. La stanza era calda e qualcuno le aveva messo addosso un paio di coperte vecchie, ma morbide.

Il suo cuore perse un battito quando si rese conto che quella era la prima stanza che aveva aperto quando era arrivata a casa di Commander: quella fredda, vuota a buia.

Qualcuno l’aveva pulita, aveva messo la biancheria al letto e l’aveva depositata lì. Gli scuri erano aperti e dalla finestra entrava una forte luce invernale. Alih non sapeva davvero come fosse l’inverno, ma una luce così forte, per il riflesso dato dalla neve, non l’aveva mai vista. Cercò di alzare la mano e sentì un atroce dolore al petto, dove il capitano le aveva sciolto la chiave addosso, cercò di sporgersi in avanti, ma il seno era coperto da una casacca sotto la quale si intravedeva una fasciatura. La buona notizia era che, anche se le faceva male, era riuscita a sollevare il braccio, il metallo fuso non era andato a intaccare muscoli e ossa, a quanto pareva.

La mano dove Commander le aveva rotto le dita era incapsulata in una specie di contenitore bianco rigido. Alih non capiva che cosa fosse, ma non c’era modo di levarselo, così appoggiò di nuovo la testa sul cuscino e guardò il soffitto. Come diavolo era finita lì?

Rimase da sola ancora diverse ore, prima di avere contatti con un solo essere umano.

In quel posto non parlavano la sua lingua, ma l’uomo che le si avvicinò nel pomeriggio doveva essere un guaritore, le spiegò che la sua gamba sarebbe rimasta dritta. La rottura del ginocchio era stata tale da non permettere di essere risistemato correttamente, sarebbe stata zoppa per il resto della sua vita.

I capelli le erano stati rasati, nel tagliarglieli Commander le aveva procurato diverse ferite, per non parlare della ciocca che le era stata strappata di netto, alla base della nuca, lì i capelli non sarebbero più ricresciuti.

Il guaritore, un uomo con una casacca di tweed e uno strano aggeggio appeso al collo, le aveva indicato il seno e, sempre parlando nella sua lingua incomprensibile, le aveva alzato il braccio e aveva sollevato un po’ la casacca per farle vedere la fasciatura. Da quello che poteva capire, il suo seno era quasi completamente sciolto, ma per il resto, la parte superiore del suo corpo era completamente funzionale.

L’ultima buona notizia consisteva nel fatto che il naso non le fosse stato tranciato di netto come aveva temuto.

Il guaritore le aveva dato uno specchio con la cornice di un materiale liscio e bianco che non aveva mai visto e lei si era guardata in faccia. Non era mai stata bella, ma poteva immaginare di esserlo ancora meno, anche sotto il grosso cerotto che correva da una parte all’altra della sua faccia, subito sotto gli occhi. I capelli non c’erano e sul cranio aveva vari cerotti più piccoli a nascondere le ferite da taglio. Le faceva tutto male.

Il guaritore era accompagnato da una donna anziana che profumava di lavanda. Doveva aver superato la settantina da un po’ e aveva un’aria dolce. I capelli erano folti e bianchissimi, le arrivavano di poco sotto il mento. Era una donna piccola, ma in carne, coperta con due o tre maglioni e uno scialle lilla, mentre ai piedi portava un paio di pantofoline consunte. Le aveva stretto la mano sana nella sua, rugosa. Portava un anello sottile all’anulare sinistro e sembrava avere tutte le intenzioni di prendersi cura di lei.

 *** 

La sala da pranzo del bed & breakfast era praticamente vuota. Dopo il ritrovamento del cadavere di Monique, l’amica di Mary, la maggior parte degli ospiti se ne era andata. Solo i residenti e qualche temerario era rimasto, perciò quella sera si respirava un’aria a metà tra il preoccupato e il confidenziale.

Mary appoggiò la seconda tazza di cioccolata calda davanti a Ruthie che la ringraziò, mentre la cameriera rimaneva lì, senza tornarsene al bancone, sperando di fare due chiacchiere con lei, o col vecchio Sullivan e suo nipote. Al bar non c’era granché da fare, non c’era quasi nessun cliente e le luci erano ancora accese solo perché tutti erano preoccupati per la spedizione.

“Non sta esagerando un po’ con quella cioccolata, signorina?” domandò il vecchio Sullivan, vagamente divertito, per quello che poteva.

“Questa è la mia settimana della cioccolata” rispose Ruthie, un po’ scortese, ed afferrò la tazza per prenderne una sorsata. Si bruciò la lingua, ma resistette, stoica, senza farlo notare.

Il vecchio Sullivan era il nonno di Mary, viveva in paese tutto l’anno, come lei, era un uomo piuttosto vecchio, con il cranio calvo e  macchiato, con una lunga barba grigia e sembrava incapace di separarsi dal proprio nipotino, un bambino di sette anni che non si allontanava mai dal proprio Gameboy. Ruthie aveva fatto l’abitudine a quella fastidiosa musichetta. Sia Sullivan che il bambino abitavano in due diverse casette di legno nel paese, ma, con l’emergenza, la famiglia aveva deciso di passare la nottata al bed & breakfast. Il padre di Mary e quello del suo cuginetto, che però non sembrava essersi davvero reso conto della situazione, erano partiti quel pomeriggio per la caccia al lupo.

“Dov’è Tinkerbell?” domandò Mary, che aveva voglia di fare conversazione. Quella serata era davvero stressante per lei. Ruthie fece una smorfia stanca. Aveva ancora un po’ male alla pancia, ma aveva voluto rimanere a dare un’occhiata alla sala della colazione, come le aveva chiesto Clay.

“In camera, gli è venuto un gran male alla testa e ha preferito andare a letto presto” mentì, in modo incredibilmente convincente. Neanche a dirlo, Tinkerbell si era messo sulle tracce della bestia e dei suoi cacciatori. Il suo intento non era davvero quello di salvare delle vite, Ruthie aveva capito da tempo che Clay era tutt’altro che un supereroe. Il fine giustifica i mezzi, se dovevano morire un altro paio di persone, per farlo arrivare alla bestia, andava bene lo stesso.

Ruthie sospirò e pensò alla prima volta che l’aveva visto. Per un secondo aveva davvero avuto l’impressione che le volesse staccare la testa con un colpo di accetta, ma poi si era convinta che fosse stata un’impressione. Aveva sbattuto la testa e si era rotta tutti i denti, non era al massimo della forma e ci aveva messo un bel po’ per fidarsi di Tinkerbell, anche se le aveva aggiustato i denti.

Non era uno scherzo abituarsi all’idea di avere a che fare con una specie di micidiale superuomo che dava la caccia ai mostri e che le aveva promesso che avrebbe vendicato la morte di sua madre. Appena Ruthie aveva sentito delle bestie era stata sicura che sua madre fosse stata uccisa da una di queste, poco importava cosa diceva Tinkerbell a riguardo, gliel’aveva spiegato proprio lui che alcune bestie potevano continuare a uccidere per anni prima che i geni le notassero. Sua madre era stata uccisa da una bestia e Ruthie voleva che Tinkerbell la uccidesse per lei.

Nonostante questo, non poteva fare a meno di pensare che, se l’avesse incontrato a una festa del college, ci sarebbe stata. In realtà, Ruthie, sia al liceo che al college, aveva la reputazione di una che non diceva di no, ma Tinkerbell le piaceva proprio. Era divertente e, a parer suo, riusciva a essere allo stesso tempo il ragazzo che avresti presentato a tuo padre, rimanendo comunque un indicibile impertinente.

Forse non era alto, ma tanto la sovrastava di venticinque centimetri buoni, rispetto a lei era alto chiunque, e le piaceva anche se era gracilino. Quando portava le magliette a maniche corte poteva vedere i muscoli accennati, sotto la pelle delle braccia.

Sospirò, faceva comunque strano pensare a Tinkerbell in quel modo, Tinkerbell era una macchina da guerra, non era per nulla sicura che avesse qualche interesse nei suoi confronti.

Mary fece un altro sospiro, riportando Ruthie alla realtà “Stiamo per chiudere il bar, volete qualcos’altro?” domandò, cortese, tormentandosi il lembo del grembiule nella mano. Ruthie scosse la testa e il vecchio Sullivan fece lo stesso “Non preoccuparti, chiudi la baracca e vai a dormire, stare ansiosi non aiuterà tuo padre e gli altri a cavarsela meglio. Pensa comunque che sono un gruppo di uomini preparati e armati non…” esitò, poi continuò “non una camera che viene colta di sorpresa mentre va a buttare fuori la spazzatura. Torneranno a casa integri, non stare in pensiero. È solo un animale”

Mary annuì, il ragionamento aveva senso, ma lei era in ansia lo stesso. Ruthie le sorrise e annuì a sua volta, sapendo però che, se la bestia avesse voluto attaccarli, un fucile da caccia non sarebbe servito a un bel niente.

 *** 

Un’ora dopo che Ruthie fu andata a letto, Tinkerbell mosse qualche passo su un grosso ramo innevato. Era notte fonda e il freddo era pungente, in mezzo agli alberi. Aveva ricominciato a nevicare e la luna era quasi piena, in una zona aperta il riflesso del ghiaccio e della neve avrebbero illuminato la notte, ma nel fitto del bosco era difficile vedere a un palmo dal proprio naso, se non si era dotati di una torcia o se non si era un genio.

Più in basso, sotto gli occhi vigili di Tinkerbell, inguaiato in un cappotto pesante e scarpe da inverno, la ronda notturna proseguiva, senza nessuna novità. Gli uomini erano affamati e infreddoliti, qualcuno iniziava a dire che era meglio tornare alla baita, se non avessero incontrato il lupo avrebbero rischiato di essere uccisi dal freddo e la cosa era quasi peggiore. I fucili, per di più, rischiavano di incepparsi più facilmente, e un fucile bloccato non serviva molto contro le zanne di un lupo.

Clay li aveva seguiti da poco lontano da quando era partita la spedizione, saltando da un ramo a un altro, qualche albero più indietro rispetto alla loro marcia.

Gli uomini si fermarono in un piccolo spiazzo tra gli alberi che consentiva loro di vedere uno spicchio di cielo, guardando in alto, ma nessuno lo fece, e Tinkerbell si sedette stancamente su un ramo, appoggiando la schiena al tronco.

Non era la marcia ad affaticarlo, era scocciato, era da ore che camminavano senza una meta, Clay iniziava a chiedersi se seguirli fosse stata una buona idea, non avrebbero mai trovato la bestia e, con buone probabilità, nessun mostro avrebbe attaccato un gruppo così folto di persone, andava contro il loro metodo. Per quanto gli omicidi fossero seriali, non erano mai eclatanti. Tinkerbell non aveva idea se dietro al ragionamento ci fosse una logica, ciò di cui era certo era che non sarebbe successo nulla, quella notte, al massimo si sarebbero fatti divorare da un lupo vero. Si sentì un cretino e si rialzò, deciso a tornare indietro. Con un paio di balzi si fu già allontanato, facendo cadere un po’ di neve dai rami che usava come appoggio. Non aveva fatto nemmeno cento metri nella direzione dalla quale era venuto che sentì qualche cosa. Chiuse gli occhi e si voltò nella direzione dalla quale aveva udito il rumore, sembrava un fruscio, ma poi si rese conto che era un urlo, così lontano che per gli uomini che erano usciti in spedizione con lui era impossibile sentirlo.

Tinkerbell scattò verso il richiamo di aiuto, sapeva di non poter fare niente e anche se avesse potuto se ne sarebbe rimasto in disparte. Non si sentiva in colpa nel dire che la sua copertura valesse di più di una vita umana. Se si faceva scoprire e non riusciva a uccidere la bestia a tempo debito sarebbe morta molta più gente.

Atterrò con un balzo nella neve fresca. Dal cielo continuava a cadere e l’aria era silenziosa. Tinkerbell, atterrato su un ginocchio, alzò la testa a guardare la luna. La luce filtrava a malapena tra i rami degli alberi, ma Clay riuscì a identificare benissimo la scia di sangue che usciva da una larga insenatura nella roccia. Era abbastanza grande per fare entrare due uomini adulti, a patto che strisciassero sul terreno. Tinkerbell non poteva vedere cosa c’era oltre l’apertura ma supponeva vi fosse una cavità più larga. La striscia di sangue partiva da lì e si perdeva nel bosco davanti a lui, in direzione della baita dove alloggiavano lui e Ruthie. Per un secondo si domandò se per caso la bestia non avesse preso proprio Ruthie, perse un battito prima di ricordarsi che la cosa sarebbe andata completamente a suo favore.

Era improbabile, però, che Ruthie si fosse avventurata fuori di senza avvertirlo, soprattutto perché era l’unica a sapere che quello che mieteva vittime non era un lupo, ma un vero e proprio mostro.

Si arrampicò di nuovo su un albero innevato e corse seguendo la traccia di sangue, saltando da un ramo a un altro, senza preoccuparsi di fare poco rumore, non c’era un solo rumore nella foresta, sembrava quasi morta.

Arrivò alla baita con il fiatone, non era davvero stanco, ma il respiro gli si condensò, bianco, davanti alla faccia, mentre fissava la baita, con i pugni stretti e le gambe lievemente divaricate. La neve gli arrivata quasi a metà polpaccio e continuava a cadere gentile, con fiocchi radi, sulla coltre già candida.

Il bed & breakfast teneva le lampade esterne accese tutta la notte, sotto il tetto di legno, e le luci si riflettevano sulla neve. Una striscia quasi  nera partiva dalla foresta per poi trascinarsi fin sotto le finestra della stanza che lui e Ruthie dividevano.

In meno di un secondo, Tinkerbell percorse i trecento metri che lo separavano dall’edificio: riverso nella neve, c’era un uomo senza testa. Il capo del cadavere era rotolato diversi passi più in là. Tinkerbell aguzzò la vista per riconoscerlo: non ci aveva mai parlato, ma, per quello che riusciva a capire nonostante il viso fosse quasi sfigurato, doveva essere uno degli uomini che erano partiti per la spedizione. Probabilmente era rimasto un po’ indietro e la bestia l’aveva preso. Non l’aveva ucciso subito, a quanto pareva. Clay indovinò fosse stata una morte dolorosa, il mostro aveva prima iniziato a mangiarlo e poi gli aveva staccato la testa. In fin dei conti era stato un gesto quasi caritatevole.

Si soffermò di nuovo a guardare la scia di sangue, per l’uomo non c’era più nulla da fare, e lui di certo non aveva intenzione di essere di nuovo quello che ritrova il cadavere. La striscia di sangue partiva dal bosco e terminava con il cadavere dell’uomo senza testa, da lì, poi, Tinkerbell poté notare le impronte insanguinate della bestia allontanarsi. Se non avesse avuto una salma accanto, avrebbe quasi sorriso, sembravano proprio quelle di un lupo, come avevano detto gli abitanti del paese. Aggrottò le sopracciglia quando si accorse che, però, le impronte, dopo un po’, iniziavano a cambiare forma.

Clay seguì la strada che il mostro aveva fatto, tutto intorno alla baita. Il peso dell’accetta attaccata alla gamba lo aiutò a restare calmo, si sentiva stranamente inquieto, quella sera.

Dopo una ventina di passi le impronte del lupo si trasformavano in quelle di piedi umani e poi, di nuovo, in quelle di un animale.

Clay chiuse gli occhi e sospirò: doveva trovarsi un padrone al più presto e uccidere quella cosa.

In un attimo fu dentro la propria stanza, infilato sotto le coperte, accanto a Ruthie che, abbracciata a una borsa dell’acqua calda, dormiva.

 

***

 

Sarah Chambers strizzò gli occhi per il dolore e squittì come un topo in trappola, così che Oumi facesse una smorfia e alzasse gli occhi su di lei.

“Vuoi che smetta?” domandò la ragazzina.

Oumi aveva dodici anni e aveva la mano ferma. “Non voglio che tu smetta, voglio che faccia meno male” disse Sarah, indispettita. Oumi si accigliò e tirò in fuori le labbra, mentre guardava la sua migliore amica da dietro gli occhiali dalla montatura nera.

“Non posso farti meno male, lo vuoi o no, il tatuaggio?” sbottò la ragazzina, indispettita.

Sarah voleva una stellina tatuata sulla caviglia, sapeva che sua madre non le avrebbe mai dato il permesso prima di compiere i sedici anni, ma lei la voleva così tanto e Oumi si era proposta di farlo con ago e china.

Avevano passato un’ora buona a disegnare la stella esattamente come Sarah la voleva con il pennarello nero, cancellandola con il sapone quando non veniva bene, poi, Oumi, era andata a frugare nel kit del cucito della propria madre per prenderne un ago. Non sapeva esattamente se ne servisse uno fatto in modo particolare, ne aveva preso uno a caso e l’aveva disinfettato con l’alcol. Sarah aveva rubato della china a suo fratello ed entrambe si erano nascoste nel garage di Oumi. Sua madre era fuori a fare la spesa, infatti il grosso fuori strada non era al suo solito posto e suo padre era in Marocco per lavoro. Non sapeva quando sarebbe tornato, non lo sapeva mai. Suo padre era una persona strana, sapeva che i suoi genitori avevano dei problemi per via del suo lavoro, si era parlato di divorzio, ma poi era arrivato il terzo figlio e sembrava che le cose andassero un po’ meglio, ma suo padre continuava a passare settimane all’estero per lavoro, senza saper mai dire in anticipo quando sarebbe partito e quando sarebbe tornato.

“Allora, vuoi che continui?” continuò Oumi, guardando l’amica dal basso. L’aveva fatta sedere su un tavolo da lavoro che era stato del padre di sua madre e che nessuno usava più da anni. Sarah annuì, con le sopracciglia bionde aggrottate e lei si rimise al lavoro. Oumi era una ragazzina mulatta piuttosto alta per la sua età, aveva una criniera di capelli neri e crespi che le arrivavano come una nuvola corvina sotto le scapole e un’importante miopia che la costringeva da anni a portare gli occhiali.

La ragazzina si rimise a lavorare, in silenzio, mentre Sarah, sopra il tavolo da lavoro, faceva smorfie addolorate e, per poco, Oumi non tracciò una linea sbagliata quando, da fuori il garage, sentirono un rumore di metallo, come di qualche cosa che cadeva a terra.

Le amiche si guardarono e Sarah si tirò giù la gamba dei pantaloni, in modo da coprire il lavoro incompleto.

“Vado a vedere” sussurrò Oumi e, furtiva, si avviò verso l’uscita. Aprì di poco la porta in lamiera del garage che cigolò lievemente ed accostò l’occhio alla fessura. Una ventina di metri più in là stavano suo padre, un uomo alto, dalla pelle scura vestito elegante , in compagnia di un altro uomo, un tipo enorme coi capelli chiari legati in una coda bassa, che indossava una camicia scozzese. Doveva essere stato lui a fare rumore, dato che stava raccogliendo una delle sedie in ferro battuto di sua madre. Sembravano entrambi sorridenti. Oumi non aveva mai visto quell’uomo, non gli pareva fosse del posto, per di più, non si aspettava che suo padre sarebbe tornato così presto.

Si voltò verso Sarah, che contraccambiò il suo sguardo, e poi tornò a sbirciare dalla fessura. Batté le palpebre più volte, l’uomo con la camicia scozzese era scomparso. Oumi era allibita: non ci aveva messo più di cinque secondi per voltarsi verso Sarah e poi tornare a sbirciare il proprio padre, tempo assolutamente insufficiente all’uomo per uscire dal campo visivo di Oumi, dalla posizione in cui si trovava.

Oumi allontanò di poco l’occhio dalla fessura e si fermò a riflettere. Suo padre stava seduto al tavolino in ferro battuto del giardino, con le gambe accavallate, vestito elegante come al solito, sorseggiava quello che poteva essere un succo di frutta e guardava la strada. Oumi non poteva vedere bene la sua espressione, ma tutto nel suo comportamento pareva rilassato.

Possibile che l’uomo con la camicia scozzese fosse stato solo frutto della sua mente? Le pareva impossibile, ma allo stesso tempo era fisicamente impossibile che fosse sparito nel nulla. Si grattò la testa e si apprestò a chiudere di nuovo il portone del garage, quando qualche cosa si intrufolò nella fessura che Oumi stava chiudendo.

La ragazzina si accigliò, quando un rettile variopinto, non troppo grande, le si arrotolò al polpaccio. “Trinidad Scorpion!” esclamò.

Quando tornava suo padre, tornava sempre anche il suo bizzarro animaletto da compagnia.

L’iguana variopinta si arrampicò su per la gamba magra della ragazzina, dribblò la gonna, si aggrappò alla canottiera giallo pallido che indossava e andò a posizionarsi sulla sua spalla, premendo il muso contro la guancia di Oumi. La ragazzina sorrise e gli accarezzò la testa “Anche io sono felice di rivederti, bello” ridacchiò, improvvisamente dimentica dell’uomo con la camicia scozzese.

Sarah si tirò di nuovo su la gamba dei pantaloni sotto la quale era nascosta la stella fatta con la china.

“Ho sempre pensato che quell’iguana fosse strana, sembra più un cane che un rettile” commentò, guardando l’animale. Oumi rise divertita, mentre accarezzava la coda di Trinidad Scorpion. “Lo so” ammise. 

 

Aki_Penn parla a vanvera: Eccomi qua, lo so, sono orribile e manco da ben quattro mesi, non potevo davvero crederci, quando me ne sono accorta (sinceramente pensavo fosse passato solo un mese, dall’ultimo aggiornamento).

Sono davvero dispiaciuta per essere sparita per così tanto. Questo è un capitolo che avevo in cantiere da un po’. Come avevo detto tempo fa, nelle mie chiacchiere super poco importanti, pubblico sempre quando ho già finito di scrivere il capitolo successivo, ecco, questo è il capitolo che tenevo in tasca come riserva, quindi non una cosa nuova, ora come ora, non ho più nulla in attesa di essere postato e spero davvero che mi torni la voglia di scrivere questa storia. Non so bene quale sia il problema, ma nonostante continui a fantasticarci, non ho voglia di scriverla e non credo che qualcuno possa divertirsi a leggere qualcosa che io non mi sono divertita a scrivere.

In ogni modo, ringrazio tutti per avermi seguito fino ad adesso e se vi siete scocciati per l’attesa non posso fare altro che darvi ragione. U.U Ringrazio chi mi ha sostenuto e chi mi ha chiesto notizie di Make a wish in questi mesi di silenzio. E grazie a Dede per avermi consigliato di pubblicare questo capitolo nonostante tutto, spero che, anche se non è un granché, possiate godervelo almeno un po’!

A presto, spero!

 

(E sì, Alih è banalmente sopravvissuta! XD)

   
 
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