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Autore: Dust Fingers    14/01/2015    0 recensioni
Gli tornò alla mente il ragazzo col grifone nero piombato come un sacco nel cortile qualche tempo prima – non era facile tenere il conto del tempo che passava in quel luogo, a stento contava gli anni. Quella maledetta cassa, consegnata da quello strano tipo con i capelli di un colore mai visto, aveva rivelato il suo contenuto poco tempo dopo...
(Non l'ho riletta, non mi andava e quindi per pigrizia non l'ho fatto. Se trovaste robe orrende ditemelo D: )
Genere: Dark, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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010. Disillusionment
 
Entrambi erano pallidi e ricambiavano il suo sguardo con evidente tensione, e quando Vexe si mosse sussultarono contemporaneamente, alzando le lance.
  «Fermo» disse una delle guardie. Vexe lo scrutò profondamente prima di voltarsi per tornare indietro al centro del cortile per svolgere i suoi test giornalieri e qualche esercizio fisico di riscaldamento. Non gli avevano permesso di tornare indietro anche se aveva detto loro che aveva intenzione di parlare con il dottore. Sì beh, non era da stupidi non credergli, quante volte aveva tentato di scappare, facendo anche loro seriamente del male anche se mai con intento omicida. A lui era sempre e solo importata la fuga, quel posto infernale era sempre più buio e sanguinoso, ogni giorno gli facevano del male, sempre più male: il dottore ormai gli riapriva una vecchia cicatrice ogni volta che lo faceva stendere su quel maledetto tavolo e lui non poteva più sopportare anche solo di sentire il legno contro la pelle o quelle mani dure ma grassocce tastarlo ovunque e senza alcuna delicatezza nemmeno sulle ferite più recenti.
 
  L’uomo dagli occhi verdi, sempre con il cappuccio tirato sulla faccia, lo aveva raggiunto poche ore più tardi, nel cortile, quando il vento soffiava più forte. Gli aveva detto che era tempo di un test di esclusiva resistenza al freddo così lo aveva legato, mani e polsi, con pesanti catenacci alla parete di fondo e più esposta alla tempesta.
  Che originalità, aveva pensato Vexe con stizza.
  Il test cui invece lo avevano sottoposto la sera prima lo aveva già messo a dura prova e si sentiva ancora provato.
  «Ti veniamo a riprendere domani» disse l’uomo quando ebbe fissato anche l’ultima catena. E se ne andò.
  Già, ma loro che ne sapevano di cosa provava, pensò Vexe seguendo con lo sguardo la camminata rapida dell’uomo e il mantello che si levava al vento. Sì, non gliene era mai importato, era evidente, ricordava…ricordava forse ancora qualcosa? Non riuscì a forzare la memoria su cosa ricordasse prima di finire lì, anzi, di risvegliarsi in quel luogo orrendo e privo di ogni calore.
Le uniche frasi che avevano mai mostrato un minimo d’interesse verso di lui in realtà avevano sempre e solo mirato a sapere se tutti i loro esperimenti avevano prodotto qualche reazione nuova, inaspettata od orribile. Ma ormai lo aveva aperto e sezionato in ogni sua parte, mancava solo che gli tagliassero gambe e braccia per rimontarle in un ordine diverso. Rabbrividì al solo pensiero.
Li avrebbe voluti poter uccidere tutti e questo pensiero lo colpì, con l’improvvisa consapevolezza di non essere più umano di loro.
  Una folata di vento più tagliente delle precedenti gli mozzò il fiato, trafiggendolo da parte a parte al ventre e alle costole, e spazzando la neve sul lastricato e ammucchiandogliela tutta attorno alle gambe che ormai erano sparite nel bianco fin quasi alle ginocchia. Si sentiva gelato e intirizzito e dalla vita in giù aveva già perso la sensibilità. Forse avevano scelto quel particolare giorno per legarlo fuori: il vento mordeva glaciale più del solito ed era quasi insostenibile anche per lui che passava le ore al freddo sia nella sua piccola cella che in quel cortile infernale. Prima o poi sarebbe riuscito ad arrampicarsi su per quelle mura, a costo si strapparsi tutte le unghie dalle dita, e se ne sarebbe andato, per sempre. L’avrebbero rivisto solo al sopraggiungere della loro morte, per mano sua. Si sentì di nuovo poco umano, i suoi sentimenti erano anestetizzati quanti le sue gambe e le braccia. La testa gli girava e se la sentiva leggera, tirava per staccarsi dal collo.
  Gli tornò alla mente il ragazzo col grifone nero piombato come un sacco nel cortile qualche tempo prima – non era facile tenere il conto del tempo che passava in quel luogo, a stento contava gli anni. Quella maledetta cassa, consegnata da quello strano tipo con i capelli di un colore mai visto, aveva rivelato il suo contenuto poco tempo dopo, e niente di quel che era successo era stato divertente. L’ultima incisione che gli avevano praticato…sì beh, meglio non ripensarci.
  Volgendo gli occhi socchiusi al cielo plumbeo che si faceva sempre più scuro, a malapena sfiorato dai raggi del settimo sole morente dietro un probabile orizzonte montuoso, oltre quelle mura così alte e sterili.
  Pensò a come sarebbe stato semplice oltrepassarle quelle mura, volando, e sarebbe andato via, per sempre e nessuno lo avrebbe più rivisto.
  L’unico modo per far sì che quel desiderio si avverasse, però, era che quel ragazzo con quel suo animale enorme tornasse: avrebbe atteso l’occasione giusta per salire su quell’animale alato e fuggire via…forse era più semplice chiedere al ragazzo di portarlo con lui, ma sicuramente si sarebbe opposto. No infatti, meglio fare da sé.
  Senza rendersene conto, perso nei suoi pensieri, aveva iniziato a perdere i sensi e la neve a ricoprirlo. Cadde così nel buio.
 
  «Avanti, riprenditi!» strepitava una voce da lontano che lo raggiunse rapido come la secchiata d’acqua rancida che seguì e uno schiaffo gli fece spalancare definitivamente gli occhi, facendolo sussultare e alzare di scatto sul solito tavolo. Si portò una mano alla fronte, gelata e che pesava; quando la ritrasse un attimo dopo si trovò una sbavatura di sangue sulle dita.
  Mi hanno di nuovo trascinato per i piedi, pensò Vexe, scocciato. Si girò verso il lato del tavolo per scendere ma le catene ai polsi lo frenarono, gli dolevano più che mai: improvvisamente si sentì immensamente stanco e ricadde sul tavolo.
  «Guarda che macello hai combinato» lo rimproverò il dottore, liberandogli un polso ed esaminandolo attentamente. Il sangue gli colava pigro lungo l’avambraccio nervoso. Il dottore si voltò: «Che ti prende?» chiese duro, prendendogli il mento e girandolo in modo da poterlo guardare negli occhi, ma il ragazzo non rispose: stava ancora pensando al modo di fuggire.
  Senza sentirlo obbedì docile, il vecchio dottore lo fece sedere, poi prese uno degli attrezzi che usava per incidere, afferrò una ciocca di capelli che ora superavano la vita del ragazzo di un paio di spanne buone e iniziò a tagliarle, una ad uno finché quei fili biondissimi non ricoprirono il pavimento e si poterono scorgere le scapole e la nuca.
Pallido, infreddolito e magro più del solito – anche il dottore parve accorgersene, anche se non si mostrò turbato più del dovuto – si distese nuovamente su quel tavolo infernale mentre il vecchio gli curava le lacerazioni ai polsi e alle caviglie senza che lui si accorgesse di niente.
 
  Lo aveva aspettato per giorni e giorni, perché tornasse, ma mai aveva scorto di nuovo la sagoma nera di quell’animale in cielo tra le nuvole, aspettando che si schiantasse di nuovo al centro del cortile con una nuova cassa e la sua opportunità per tornare.
  Non era più tornato.
  
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