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Autore: Flom    16/01/2015    2 recensioni
Avrei dovuto sposarla, legarla a me con quel patto per lei così importante, ma non lo avevo fatto. Per noia? Per capriccio? Puntiglio? Per me era solo un inutile pezzo di carta che non aggiungeva alcun valore al sentimento che ci univa. Preferivo credere di stare con lei perché lo desideravo e non perché fossi costretto da una firma in calce a promesse formulate da altri. Nessuno poteva amarla quanto me, nemmeno Dio.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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New York – Marzo 1954- Edward

 
Una pennellata bianca e vaporosa dipingeva il cielo sullo sfondo blu intenso di una giornata limpida di primavera, una di quelle occasioni in cui le nuvole sembra vogliano lasciare un messaggio per coloro i quali provano ancora il desiderio di sollevare lo sguardo sopra la testa. Come un pittore attento assistevo all’originale susseguirsi di forme armoniche cercando di carpirne il significato intrinseco o semplicemente di rubarne l’ingegnoso incorporeo tratteggio. Era uno spettacolo meraviglioso e per una volta lasciai che il sorriso avesse la meglio sull’espressione vuota che di solito avevo disegnata in volto e in quell’attimo la grigia nebbia che avvolgeva il mio cuore accennò a diradarsi. Quella sensazione di leggerezza ebbe la durata di un paio di respiri, poi il sorriso morì sulle mie labbra, veloce così come vi era sorto. Chiuso nel mio cappotto, troppo pesante per la temperatura mite di quel mattino assolato, vagavo apparentemente senza una meta precisa, percorrendo lo stesso sentiero lungo il quale, ogni giorno da troppi anni, cercavo disperatamente delle risposte.  
Central Park era un buon posto per pensare. Mi impediva di rimanere solo, sebbene al tempo stesso mi rendesse consapevole di quanto fosse reale e concreta la mia solitudine. Incrociavo volti dalle espressioni più svariate durante il mio peregrinare e sebbene le persone evitassero accuratamente il mio sguardo sentivo di condividerne le emozioni, quasi che l’immenso parco ci accogliesse tutti benevolmente affinché potessimo confortarci silenziosamente a vicenda. 
Lo scricchiolio del ghiaino sotto la suola delle scarpe mi aiutava a calmare la mente, mentre l’incessante canto della natura che avevo intorno sortiva l’effetto di cullare i miei pensieri inquieti, al nucleo dei quali  vi era sempre Lei.
Isabella.
Lei e nessun’altra.
La mia musa, il mio sole, la mia compagna di giochi, la mia amante e grande gioia e il più doloroso rimpianto della mia vita. L’unica che avessi mai chiamata… Amore.
I piccoli sassolini frastagliati del sentiero fuggivano crocchiando sotto i miei passi. Erano di un pallido colore rosa che mi ricordava la crema alle fragole e meringhe che Isabella preparava per guarnire la mia torta di compleanno. Era una ricetta speciale, tramandata dalla sua illustre famiglia da epoche dimenticate, dall’aspetto invitante e dal profumo intenso ed io ne andavo pazzo. Isabella fingeva sempre di aver dimenticato di aggiungere un ingrediente, ma lo faceva soltanto per costringermi a ricordarle quanto fosse brava in cucina e quanto fossero speciali tutte le cose che sapeva creare con le sue splendide mani. Richiamare alla memoria il sapore di quei giorni mi faceva soffrire, perché in essi erano racchiusi i migliori momenti di tutta la mia vita. Mi chinai appoggiandomi al bastone e raccolsi una piccola manciata di quelle rosee briciole dal passato.
Cosa ne era stato di noi? Cosa era accaduto di così terribile da impedire che fossimo felici per sempre? Lo eravamo poi davvero?
Voltai in direzione dell’imponente Bow Bridge che si intravedeva tra i rami degli alberi carichi di gemme. I prati si arricchivano di un colore verde intenso, punteggiati qua e là dei primi fiori di campo. Molte persone sul ponte erano impegnate  a chiacchierare o ad osservare con meraviglia le acque scure che si stendevano pigre sul letto del lago. Una nebbiolina densa e candida aleggiava a pelo d’acqua rendendo alquanto poetico e suggestivo il quadro che avevo davanti.
Nessuno pareva accorgersi della mia presenza. Sfioravo le persone cercando di carpirne i discorsi, tanto per sentirmi ancora parte integrante di questo mondo, ma non cercavo mai di avere un contatto vero e proprio. Mi appoggiavo al parapetto fingendo di osservare le anatre che rumoreggiavano tentando di accoppiarsi e intanto ascoltavo le voci intorno, entravo nelle vite altrui, cercando di provare le loro paure, le loro gioie, i loro entusiasmi, qualsiasi sensazione potesse dimostrarmi di essere ancora vivo. Ma come ogni giorno, da quando compievo quel percorso, dentro di me non sentivo altro che l’eterno dolore che l’assenza di Lei mi procurava.
Isabella viveva in ogni parte di me e lottavo con fermezza per cercare di mantenere vivo e attivo il mio inutile corpo, affinché mi fosse possibile sentirla nelle mie ossa, sotto la mia pelle e nel mio respiro, nell’intensa fitta di dolore che mi lacerava il petto, cercando di evitare di perdere per sempre quell’ultimo brandello che mi rimaneva di lei.
Il suo ricordo.
Abbandonai il ponte affollato e come un automa raggiunsi la mia abituale panchina posta, insieme a molte altre, lungo la via più frequentata. Appoggiai il cappello accanto a me, alla mia destra, dando un piccolo colpetto alla tesa come era mia abitudine. Passai le dita tra i capelli sistemandoli e il bastone lo addossai al poggia schiena alla mia sinistra. La routine nei miei gesti mi rassicurava e sapevo che osservati dall’esterno donavano alla mia persona una parvenza di signorilità. Avevo sempre curato il mio aspetto, anche quando non ero abbastanza ricco per potermelo permettere, sembrava conferisse maggiore rispettabilità e dignità alla mia immagine. Isabella si era sempre burlata per queste mie frivole consuetudini e in alcuni momenti mi pareva di udire ancora le sue risate cristalline, così delicate e carezzevoli,  che mi regalavano quella serenità di cui non ero consapevole che ora sentivo di avere irrimediabilmente perduto.
Come un nodo scorsoio il suo ricordo mi stringeva la gola e più i pensieri volavano a lei più si riduceva lo spazio vitale intorno al collo. Cercai di distrarmi osservando le giovani mamme che sfilavano una accanto all’altra spingendo le carrozzine dei loro neonati. Sembravano felici. Probabilmente il recente lieto evento le rassicurava sul loro futuro, come se quel figlio rappresentasse la conferma di una serena gioia che le avrebbe accompagnate fino alla fine dei loro giorni. Ma l’esperienza vissuta mi aveva insegnato che le nostre certezze sono effimere, che nulla può durare per sempre e che la sorte, troppo beffarda per elargire gratuitamente favori, agisce contro la nostra volontà, per puro capriccio e senza logica apparente. Avevo imparato a concedere che il destino si prendesse gioco di me, poiché dopo la perdita di Isabella non vi era più nulla che potesse ferirmi o scalfire il mio cuore infranto. Non mi importava di nulla.
Nulla se non di lei.
Infilai le mani nelle tasche e assaporai sotto le dita la consistenza ormai logora di quel foglio di carta dove erano impresse a chiare lettere, e di suo pugno, le ultime parole che Isabella mi aveva voluto lasciare prima di andarsene. Mi trattenni dall’estrarla, quasi che l’attesa potesse modificarne il doloroso contenuto.
Sospirai ripensando al giorno in cui era scomparsa senza dirmi una parola, senza concedermi l’opportunità di tentare di trattenerla dal compiere quell’insensato gesto. Ancora non trovavo una spiegazione valida per accettare quella sua scelta così risoluta e mi condannavo attribuendomi ogni sorta di responsabilità, pur non essendo certo di quale fosse la mia colpa. Ero confuso e non trovavo il modo di rassegnarmi al fatto che se ne fosse andata e avesse scelto di lasciarmi solo. Più solo di quanto io lo fossi prima di incontrarla.
Il parco era particolarmente affollato e la presenza di molti bambini in età scolare mi confermò che doveva essere un giorno di festa. Si rincorrevano sollevando senza intenzione i piccoli sassolini, colpendo gli ignari passanti e affrettandosi poi a nascondersi dietro le strette gonne delle loro madri vestite a festa per non essere rimproverati. Indossavano dei pantaloni corti tenuti in vita da bretelle più grandi di loro e calzavano quei berretti a coppola che, più che fornirgli reale riparo, donavano loro quell’aria da canaglie che li faceva apparire molto più grandi della loro età.
Alcune giovani donne con cappellini sgargianti, gonne ampie e foulard legati in modo sbarazzino intorno al collo, facevano capannello di tanto in tanto lungo la via, assediate dall’incessante corte di altrettanti gruppi di giovani in cerca di una prima vera avventura. Sorridevano spensierati.
Com’era bello essere ragazzi ingenui cullati dalle illusioni. Avere un’intera vita davanti e non conoscere le amarezze che a volte essa riserva ai più sfortunati. Pensare al proprio futuro con entusiasmo e soprattutto con crescente meraviglia. Avere un mondo di cose da scoprire e mille sogni da realizzare.
Alla soglia dei cinquant’anni le mie speranze di felicità si erano dissolte nel vento e non c’era più niente che mi desse ragione di sperare che qualcosa di bello mi potesse ancora accadere. Non avevo progetti che donassero un senso alle mie giornate, che mi impegnassero la mente, nessuno di cui occuparmi, nemmeno un cane che mi facesse compagnia rendendo meno solitarie le mie lunghe passeggiate. Tutto ciò che mi rimaneva e che ancora avesse valore era Lei nei miei pensieri.
Raccolsi la lettera avvolgendola tra le dita, stringendola in attesa di decidermi a leggerla per la milionesima volta. Sapevo che mi avrebbe procurato il tormento, ma al tempo stesso avrei provato il masochistico piacere di risentire la sua voce… anche se le sue parole distruggevano con rinnovato vigore le mie speranze di riaverla accanto.
Abbassai lo sguardo e poi chiusi gli occhi.
Rividi chiaramente il suo volto stanco, l’aria afflitta che cercava di nascondere dopo essere tornata dalla sua vacanza in casa della cugina Rosalie a Boston.  Vi aveva trascorso poco più di un mese, all’inizio dell’inverno del ‘46, invitata in occasione del battesimo del terzo figlio nato in casa Parker. Sembrava felice e quando ricevevo i suoi telegrammi leggevo soltanto di quanto si divertisse e di come Rosalie e il marito Ethan fossero contenti di organizzare cene e festicciole intime per presentarla a tutti i loro amici dell’alta società. La nostra di New York era una casa signorile, ma senza dubbio non all’altezza dello sfarzoso tenore di vita del resto della sua famiglia. Isabella non sembrava dare peso a questa cosa, ma a distanza di tempo e con gli occhi bene attenti di chi in passato non ha avuto cura di osservare, mi resi conto che forse la serenità che ostentava era solo un’ingannevole  finzione. Forse tutta la vita che conducevamo a quel tempo era pura illusione. Eppure ogni giorno Isabella sfoderava un sorriso così straordinariamente contagioso che mi risultava inaccettabile credere che una eventualità simile fosse possibile. Il solo rievocare il suo volto felice mi costrinse a sollevare le labbra e a sorridere a mia volta. Era assurdo che la sua fosse una farsa. Mi rifiutai di credere alle assurde supposizioni che di tanto in tanto elaboravo in testa. Come parassiti esse divoravano i bei ricordi che conservavo di lei, di noi e della nostra vita insieme. E non volevo accadesse. Non ora che rappresentavano la sola cosa bella che mi rimaneva di Isabella.
Non mi aveva fornito alcuna spiegazione per l’atteggiamento scontroso e scostante che mi aveva riservato dopo il suo rientro a casa e io stupidamente non mi ero dato la pena di richiederla. Avevo pensato che il viaggio l’avesse stancata o che il cattivo tempo avesse reso capriccioso il suo umore di natura mutevole, ma mi ero sbagliato. C’era molto di più in quegli occhi velati dal pianto. Qualcosa che avevo sottovalutato e che l’aveva fatta fuggire lontano da me. Da quel giorno non facevo che chiedermi cosa sarebbe accaduto se in quei momenti l’avessi stretta tra le braccia costringendola con dolcezza a rivelarmi le sue sofferenze. Se l’avessi amata con tenerezza, rassicurandola che qualsiasi cosa la preoccupasse io le sarei rimasto accanto sostenendola. Forse così facendo sarebbe andata a finire diversamente. Invece avevo permesso che il silenzio ci dividesse e che il vento dell’inquietudine spegnesse del tutto la fiamma che ardeva dentro di lei sopita.
Non mi sarei perdonato mai di averla tenuta a distanza, di averla abbandonata a combattere sola le sue angosce e di non avere compreso quanto fosse intenso il tormento che serbava nell’animo.
Una brezza leggera si sollevò accarezzando i rami degli alberi e agitandomi i capelli. Li ricomposi con movimenti stanchi. La distrazione mi riportò al presente e il sorriso di Isabella scomparve davanti ai miei occhi dissolvendosi nei ricordi, lasciandomi in bocca l’amaro sapore di un futuro sereno che mi era stato negato.
Tutto il gentil sesso che mi sfilava davanti sembrava felice di stare sotto braccio al proprio uomo. Possibile che io fossi stato tanto cieco da non accorgermi che qualcosa tra noi non stava funzionando?
Avrei dovuto sposarla, legarla a me con quel patto per lei così importante, ma non lo avevo fatto. Per noia? Per capriccio? Puntiglio? Per me era solo un inutile pezzo di carta che non aggiungeva alcun valore al sentimento che ci univa. Preferivo credere di stare con lei perché lo desideravo e non perché fossi costretto da una firma in calce a promesse formulate da altri. Nessuno poteva amarla quanto me, nemmeno Dio. L’avevo convinta quindi che il matrimonio non fosse necessario e avevo sbagliato.
Se mi fermavo ad elencare i molti errori da me commessi la lista diventava infinita e piombavo nella depressione, odiando me stesso e la mia cecità nei riguardi delle sue esigenze. Le avevo fatto così tante promesse e alla fine ne avevo mantenuta una soltanto… amarla per sempre.
Ma questo Isabella non poteva saperlo. Non lo avrebbe saputo mai.
Sciolsi l’abbraccio della mia mano sulla penosa lettera ancora nella tasca e la lasciai dov’era.
Accavallai le gambe e mi abbandonai contro lo schienale della panchina di legno. Gettando lo sguardo sul prato accanto scorsi le prime margherite della stagione e in un attimo fui travolto dal passato.
 
***
 
 
New York - luglio 1925 - Edward
 
Il cuore mi batteva forte mentre salivo di corsa le scale per raggiungere il dodicesimo piano del Palazzo della Swan Industries.
Ero stato assunto come fattorino soltanto da una settimana ed essendo il mio primo lavoro potevo ritenermi veramente fortunato. Le segretarie sembravano essere molto contente di vedermi arrivare per la consegna dei plichi perché venivo accolto ogni volta con grandi sorrisi. La più carina era Jessica che pareva molto disponibile ad approfondire la nostra conoscenza, visto che ogni volta che capitavo da lei non mi lasciava più andare via. Non era l’unica a puntarmi gli occhi addosso, ma era troppo presto per gettare l’amo su uno di quei bellissimi pesci, dovevo prima rendermi conto di che cosa volevo pescare.
La bella giornata era splendente di sole e la calura iniziava già a farsi sentire alle prime ore del mattino. Correvo ormai da due ore e sentivo la camicia appiccicarsi alla pelle. Odiavo sentirmi in disordine, ma per quanto cercassi di non sudare l’impresa era impossibile. Avevo escogitato un buon modo per evitare che la cosa si notasse portandomi un cambio di abiti nella sacca e per il momento il trucchetto sembrava funzionare.
«Ciao Edward, come sei impetuoso stamattina.»
Angela era la più intraprendente delle ragazze presenti nel palazzo. Ventotto anni, capello scuro e raccolto, abiti impeccabili e trucco alla moda. L’occhiale nero, allungato come gli occhi di un gatto, le donava quel vezzo in più anziché sottolineare un difetto. In soli sei mesi era riuscita, da semplice impiegata, a diventare segretaria del vicepresidente e non mi sarei stupito di vederla al quindicesimo piano, seduta sulla scrivania della segreteria del capo prima dello scadere dell’anno in corso. Una bellezza sobria ed elegante che evidentemente sapeva sfruttare nel modo giusto. Era molto intelligente e l’ironia completava il quadro perfetto della sua dotata personalità.
«Le energie non mi mancano se è questo che intendi.»
«Ne sono certa, ma vedi di non bruciare le suole delle scarpe.»
«Non temere, ho le ali ai piedi.»
«Buon per te perché ho sei fascicoli da farti consegnare al quarto e all’ottavo piano, pensi di farcela?» Mi tese un pacco di scartoffie piuttosto pesante e le afferrai senza esitare. Le infilai sotto al braccio agguantando la sua mano prima che la ritraesse. Guardandola negli occhi mi abbassai sfiorandole le dita con le labbra.
«Volerò per te. Sei contenta?» Sorrise divertita. Non c’era malizia nei suoi occhi e scherzare mi veniva più facile che con tutte le altre. Tolse la mano e si permise una risata.
« Va via prima che mi innamori di te, veloce.»
Mi voltai e uscendo dalla stanza le lanciai una sfida.
«Sarai pazza di me prima dello scadere del mese, scommettiamo?» Lei rise.
«Illuso!» Mi urlò prima che chiudessi la porta.
Era divertente gironzolare di scrivania in scrivania scambiando battute e portando qualche sorriso. Appagava il mio ego goliardico e in più riempiva le mie tasche vuote di bei soldoni.
La mia famiglia non era povera, ma il passo per diventarlo era breve e poter contribuire finalmente alle spese di casa mi era di grande conforto. Mia madre Esme era molto attiva e gestiva la famiglia come una vera matriarca giusta ed esigente, mio padre invece sembrava aver dimenticato il buon carattere che l’aveva fatta innamorare e usciva di casa al mattino col muso duro, tornando soltanto la sera tardi da lavoro, il più delle volte crollando sul divano con un bicchiere di whisky in mano. Mia sorella Alice era troppo piccola per accorgersi che le cose non stavano andando bene tra mamma e papà e la mia speranza era che riuscissero a sistemarle prima che lei fosse in grado di farlo. Mio fratello maggiore Jasper era un uomo scrupoloso e molto risoluto. Avvenente e determinato era riuscito ad arrivare dove voleva senza apparente sforzo e di questo dovevo rendergli merito. Un avvocato in famiglia non poteva che riempirmi di orgoglio. Era un uomo con obiettivi importanti. Non era mai soddisfatto a pieno di ciò che otteneva e questo lo rendeva inquieto, senza che in realtà avesse motivo di esserlo. Era fatto così. Probabilmente sereno e tranquillo non lo sarebbe stato mai.
A ventun anni io avevo i miei sogni a cui pensare e non potevo farmi carico anche dei problemi del resto della mia famiglia. Volevo innamorarmi molte volte, uscire con gli amici fino al mattino e avere un buon lavoro che mi permettesse di fare tutte queste cose. L’esempio di Angela mi faceva sperare di poter migliorare la mia posizione lavorativa salendo uno scalino più alto e questo fungeva da motore per cercare di dare sempre il meglio di me stesso.
Portai a termine le mie consegne e continuai fino all’ora di pranzo quando mi era concessa una breve pausa per uscire e metter qualcosa sotto ai denti. Ero stanco e il caldo afoso non mi dava tregua. Volevo uscire da quel palazzo e stendermi per un po’ sotto l’ombra degli alberi del parco di fronte.
Mi avviai al bancone dall’usciere per avvertire che stavo per prendermi la mia ora d’aria, ma quando mi avvicinai Mike Newton mi bloccò prima che potessi aprire bocca. Stava discutendo con una donna che mi dava le spalle e non mi accorsi subito di quanto fosse graziosa.
«Cullen c’è un’urgenza. La signorina ha bisogno che consegni questa busta all’ultimo piano per il capo Swan.» Lo guardai sbuffando un po’.
«Sono appena sceso e stavo per prendermi qualche minuto di pausa.» Mi voltai per parlare direttamente con la giovane donna e restai folgorato dal volto bellissimo che mi trovai di fronte. Il suo profumo mi avvolse elevandomi in paradiso e la reazione del mio corpo mi lasciò stordito.  Le parole che volevo dire scomparvero dalla mia mente e la bocca rimase penzoloni. Lei mi guardava divertita e qualcosa mi spinse d’istinto ad afferrarle il braccio e a trascinarla in disparte. Mi seguì incuriosita.
«Hai fame?» Spalancò gli occhi all’inaspettata domanda.
«Ma cosa ti salta in mente, sei pazzo?» Rideva.
«Non lo sono. Allora hai fame?» La divoravo con gli occhi, ma non volevo si spaventasse e mi costrinsi a posarli altrove, purtroppo senza riuscirvi molto.
«Certo che sono affamata è ora di pranzo, ma questo che vuol dire?» Mi accorsi di stringere le sue mani e abbassai gli occhi per guardarle. Erano così piccole rispetto alle mie che mi suscitarono tenerezza. Sorrisi e alzai nuovamente lo sguardo su di lei. La fascia di seta che le avvolgeva il capo copriva la sua fronte mettendo in evidenza gli occhi scuri di fuoco e neve. Sprigionava una sorta di energia sensuale molto intensa ed ero sconvolto di me stesso per il facile modo in cui mi stava catturando.
«Vuol dire che pranzeremo insieme. Poi quel che sarà sarà. Ci stai?» Le brillavano gli occhi e fui certo che mi avrebbe accettato. Afferrò invece la busta facendola penzolare davanti alla mia faccia.
«Consegna questa busta per favore. Il capo Swan l’aspetta con urgenza.»
«Gliela porterò dopo.» Feci un passo avvicinandomi di più a lei.
«Subito.» Intimò la ragazza con gli occhioni spalancati sui miei.
Era giocosa e molto intrigante. Ne ero innegabilmente stregato. Doveva avere più o meno la mia età, ma il trucco ben disegnato poteva ingannarmi. I capelli corti, dal taglio alla moda, le stavano d’incanto.
«Non puoi dire al tuo capo che ti sei persa per strada? Che ti si è sciolto un camion di ghiaccio davanti e quasi annegavi? Che una mandria di bufali inferocita ti ha assalita e sei dovuta fuggire?» Scoppiò a ridere.
«Eh no! Non posso proprio…»Lasciò sospesa la frase in attesa che la finissi io per lei.
«Edward, mi chiamo Edward Cullen.»
«Edward…»si avvicinò con fare complice «ora corri di sopra, consegni questa piccola busta e poi vediamo cosa possiamo fare io e te, ok?»
L’abito lungo e scollato rivelava la sua pelle candida e mi venne l’istinto di baciarle la spalla nuda che mi aveva esposta piegando la testa di lato. L’avrei morsa, leccata e baciata fino a marchiarla, ma mi trattenni e le piantai invece gli occhi sulla bocca carnosa, salendo lentamente a sfiorare ogni dettaglio del suo splendido volto. Il trucco perfetto, le labbra disegnate ad arte. Era straordinaria. E sexy da morire.
«Non te ne andrai, vero?» Le chiesi sicuro del contrario.
«Assolutamente no. Promesso.» Si disegnò la croce sul cuore con le dita e poi le baciò allungando le labbra rosse e voluttuose. Arricciò il naso in modo buffo e me ne innamorai.
«Sappi che se non dovessi trovarti quando torno verrò a cercarti in capo al mondo.» Le sussurrai sfiorandole il naso con la punta del dito.
«Ci conto.»
«Ci metto un minuto, comincia a contare i secondi.» A malincuore mi strappai da quella visione afferrando la busta e correndo verso l’ascensore che solitamente mi era proibito. In questo caso era un’urgenza ed ero in pausa pranzo, quindi non mi feci scrupolo e vi entrai in fretta.
«Portami all’attico Tyler, più presto che puoi.»
«E secondo te cosa dovrei fare scendere e spingere?»
«Che c’è, hai una brutta giornata?»
«Son chiuso qui dentro a lavorare tutto il giorno, pensi che sia divertente?»
«E tu cosa pensi che stia facendo? Che mi stia svagando facendo un giro sulla tua giostra?»
«Chiudi il becco.» Aprì il cancelletto facendolo scorrere e brontolando mi permise di uscire dalla cabina.
Trovai Tania in procinto di andarsene e le consegnai in fretta la busta.
Non le diedi modo di dirmi una sola parola che mi lanciai nuovamente nell’ascensore per ridiscendere al piano terra.
Volevo rivederla subito e il desiderio divenne incontenibile. Balzai fuori guardando in direzione della colonna vicino a dove poco prima l’avevo lasciata, ma non c’era più. Corsi nella hall cercandola in ogni persona presente, ma della ragazza non vi era traccia. Deluso corsi al bancone per chiedere se mi avesse lasciato un messaggio.
«Ti ha detto qualcosa Mike?»
«Chi?»
«La ragazza di prima, quella della busta.»
«La signorina è uscita subito dopo che sei salito, non vedo perché avrebbe dovuto lasciar detto qualcosa per te.»
«Perché avevamo un appuntamento, ecco perché.» Non permisi a Mike di finire quel che mi stava dicendo e uscii dal palazzo correndo.
Il caldo era insopportabile e mi colse come una doccia di vapore. Cercai ovunque, ma non la vidi da nessuna parte.
Come uno sciocco mi resi conto di non averle neppure chiesto il nome.
 
New York 1954 - Edward
 
Com’era stato buffo il nostro primo incontro. L’esperienza acerba mi aveva giocato un brutto scherzo e dopo quel giorno ne erano passati molti altri senza che ricevessi alcuna notizia di lei. Chiedevo costantemente a Mike della ragazza con la busta e lui si limitava dire che la signorina non si era più vista nel palazzo. Le notti mi rigiravo nel letto pensando alla sua pelle nuda e candida come la neve fresca, alla sua bocca arricciata in quella smorfia buffa e sedavo la mia brama di rivederla cercando il piacere effimero e frustrante dell’autoerotismo. Gli amici si chiedevano dove fossi finito, ma tutto sembrava diventato insignificante, al confronto del bisogno che sentivo di lei.
Se in quei lontani giorni avessi saputo cosa il futuro ci avrebbe riservato probabilmente non ci avrei creduto. Non era prevedibile che le nostre vite si sarebbero incrociate e strette l’una con l’altra fino a spezzarsi.
Non era lontano dalla mia panchina il luogo esatto in cui più tardi riuscii a rivederla. Ogni giorno, durante il mio girovagare nel parco, desideravo tornarci e poi invece mi convincevo che farlo sarebbe stato inutile perché comunque lei, sotto al grande castagno, non c’era più.
Il mio corpo obbedì al desiderio inespresso e, alzandomi dalla panchina, raccolsi bastone e cappello e mi incamminai lento in direzione della sponda nord del lago. Respirai a fondo cercando di rievocare il profumo di quel giorno e il vento magnanimo mi fece questo regalo. Niente è più potente del profumo di un dolce ricordo. Lungo il cammino tornai a quei giorni… e il laccio al collo si strinse fino a togliermi il fiato.
 
Agosto 1925 - Edward
 
Era passato quasi un mese intero dal giorno in cui avevo incontrato quella ragazza splendida e le mie allegre giornate di lavoro si erano lentamente trasformate in uno sfiancante calvario di attese estenuanti. L’aria era diventata irrespirabile e Manhattan si stava svuotando di tutti i suoi abitanti, impegnati a raggiungere i luoghi di villeggiatura o semplicemente a cercare aria più fresca che desse loro refrigerio. Il mio stato d’animo era altalenante. Passavo dall’intenso desiderio di vederla, all’odiarla perché non me ne dava l’occasione e poi di nuovo a morire dalla voglia di toccare la sua carne bianca e infine a contorcermi di desiderio troppo a lungo inappagato. Stavo per abituarmi all’idea che non l’avrei più rivista quando un venerdì, alla fine del lavoro, addentrandomi un po’ di più nelle zone interne del parco, d’improvviso me la trovai davanti. Non potevo crederci. Tutto quello scervellarmi a pensare dove cercarla e lei ora era miracolosamente lì di fronte a me. Stava giocando con un’altra ragazza sulle sponde del lago, probabilmente un’amica e la sua incantevole risata mi fece rimescolare dentro. Era diventata un’ossessione e ora che la potevo finalmente avvicinare di nuovo non trovavo il coraggio di farlo e perciò rimasi a distanza, nascosto tra il fogliame verdeggiante dei cespugli di ortensia in fiore.
Sostai così per un tempo indefinito. Tutto intorno a lei sembrava sospeso e sfuocato e mi ci volle tutto l’autocontrollo che possedevo per riscuotermi e decidermi ad andare da lei. L’amica la chiamava per tirarle la palla e così finalmente seppi qual era il suo nome.
Isabella.
Uscito fuori camminai lento verso di lei con le mani in tasca, la cravatta snodata e le maniche della camicia azzurra arrotolate fino al gomito. I capelli li avevo tagliati qualche giorno prima e li sentivo disegnati a pennello sulla mia testa. Il pantalone grigio era ampio e nascondeva bene la reazione che mi provocò l’ondata di profumo della sua pelle accaldata.
«Edward?» Mi venne incontro con le guance arrossate e l’abito leggero che le scendeva fino alle ginocchia. Il giallo pastello le donava, in contrasto coi colori scuri dei suoi lineamenti e la sua pelle leggermente ambrata. Doveva aver fatto qualche giorno di vacanza, oppure ero io che, chiuso sempre tra le mura di quel palazzo, non ero ancora riuscito a prendere un po’ di colore.
«Proprio io.»
«Cosa ci fai qui?»
«Sono venuto a prenderti per il nostro appuntamento, non ricordi?» Lei fece una smorfia strana come a disagio, ma non si allontanò e quindi incalzai «Te l’avevo detto che sarei venuto a cercarti in capo al mondo.»
«Siamo a poca distanza dal Bow Building dove lavori, non in capo al mondo.»
«Non è colpa mia se tu sei qui. Ti ho trovata e quindi ora non ti lascio finché non vieni con me a cena.»
«É una minaccia?» Sorrise e io ammiccai abbassandomi d’istinto a baciarle la guancia. Non avevo resistito. Volevo sentire di nuovo il suo profumo e indugiai qualche istante sulla sua pelle calda.
«Una promessa.» Sussurrai alitandole sull’orecchio e la mia voce le provocò un brivido. Mi scostai di poco per guardarla negli occhi e quello che vi lessi produsse nel mio cuore  e nei miei pantaloni un grido di vittoria.
«Ne hai messo di tempo per trovarmi, eh?» Sussurrò a sua volta. Sbarrai gli occhi sorpreso, ma sorridevo. Era divertente oltre che molto bella.
La sua amica mi guardava con palese approvazione colpendo il gomito di Isabella affinché accettasse di seguirmi ovunque la volessi portare.
Avrei mangiato anche l’erba del prato pur di stare in sua compagnia, ero felice, avevo le tasche piene, era estate e avevo finalmente la donna più bella di tutta la città accanto a me.
Rimasi a parlare con entrambe fino a che l’amica si decise ad andarsene. Seduto sul prato, con le braccia appoggiate alle ginocchia, aspettavo che Isabella decidesse le sorti della serata e intanto ci scambiavamo curiosità sulle nostre vite. Mi girava intorno a piedi nudi e ogni tanto si metteva vicino a me sull’erba fresca.
Mi raccontò di essere figlia unica e che suo padre era un uomo molto scontroso e volubile. Per questa ragione si era trasferita, dopo la morte per malattia della madre avvenuta un anno prima, in un appartamento di loro proprietà a un paio di isolati da lì a vivere da sola. Il padre la vedeva solamente per firmare gli assegni e sostanzialmente lei gestiva il proprio tempo come meglio credeva. Le piaceva da impazzire la musica Jazz e amava leggere romanzi d’avventura.
«Quindi lavori solo per diletto?» Le chiesi.
«Io non lavoro Edward.»
«Ma l’altra volta eri dal capo Swan per …»
«…consegnare le ricevute da pagare entro il mese.»
«Tu sei la figlia di Charlie Swan? Il mio capo?»
«Ebbene eccomi qua. Isabella Swan in persona.» Ero stupefatto, ma se pensavo alle circostanze che ci avevano fatti incontrare tutto alla fine aveva un senso.
Il fatto che lei appartenesse alla casta degli intoccabili di Manhattan non mi importava. Non temevo di essere meno meritevole di altri di frequentare una donna della sua levatura sociale. E se avesse davvero deciso di accettare l’appuntamento con me sarei stato felice di portarla a cena in un localino per niente tranquillo che conoscevo bene, a scoprire come ci si diverte nei bassifondi di una città come New York.
«Vuoi ancora uscire con me ora che sai chi sono?» La guardai chiedendomi cosa intendesse. Poi compresi e la gettai sul ridere.
«Certo mi mette un po’ in imbarazzo dover dire ai miei amici che sei la figlia del mio capo, ma che vuoi che sia, nessuno è perfetto.» Si mise a ridere sollevata e le allungai la mano per aiutarla ad alzarsi.
Le serate successive furono una più movimentata della precedente. I miei amici la adoravano e lei sembrava non dare peso al fatto che tutti noi fossimo gente comune con poche pretese. Le bastava condividere la nostra grande voglia di divertirci.
Una volta portò con sé l’amica Victoria che giurò di non essersi mai divertita tanto. Aveva ballato e cantato il più sensazionale jazz che avesse mai sentito suonare. Il locale era il Moonlight e quella sera Jelly Roll Morton e la sua band avevano fatto impazzire l’intera sala da ballo sulle note di Dr.Jazz.
Victoria mi girava intorno insistentemente ed era evidente che non si facesse scrupolo di sorta a provarci con me. La cosa mi infastidiva, ma visto che era una cara amica di Isabella cercai di essere gentile tenendola a distanza con discrezione. Mio fratello Jasper era libero da impegni per qualche giorno e così aveva acconsentito ad uscire con noi. Jasper e Isabella andavano molto d’accordo e una sera delle successive rimasero a parlare per quasi un’ora al tavolo del  Blue River senza degnarmi di uno sguardo. Victoria ed io avevamo ballato e poi con la scusa di farsi indicare il bagno mi aveva trascinato nei corridoi del retro e aveva tentato di baciarmi allungando le mani, tirandomi i capelli; aveva perfino cercato di aprirmi i pantaloni e a quel punto non avevo avuto scelta. L’avevo allontanata in malo modo perché comprendesse una volta per tutte che non c’era niente che potesse convincermi a cederle e questo aveva dato il via ad una accesa discussione.
«Cosa c’è? Non sono abbastanza bella?» Mi alitava addosso e il suo fiato che puzzava di alcol e fumo mi disgustava.
«Lo sei, non è questo il problema Vicky.» Aveva decisamente bevuto troppo. I suoi capelli rosso fiamma e gli occhi blu chiaro non mi piacevano affatto.
«E allora il problema qual è? Forse non sono sufficientemente ricca per i tuoi standard, non è così?» Fumava atteggiandosi con il lungo bocchino nero tra le labbra. Tutto sembrava fuorché una signora.
«Ma di cosa stai parlando? Dovresti sapere che dei soldi di Isabella non mi importa niente.» Scoppiò in una risata sguaiata prima di urlarmi contro.
«Questo è quello che tenti di farle credere, ma io mi sono accorta di come la stai manipolando. Credi sia una sciocca?»
«Hai le visioni credimi. E comunque smettila di starmi addosso e tieni le mani lontane dai miei pantaloni, ci siamo capiti?»
« Sei un bastardo e se credi di farmi paura alzando la voce ti sbagli di grosso.»
« Non voglio farti paura, voglio solo che la smetti di darmi noia. Non mi piaci e non voglio fare sesso con te, quindi mettiti il cuore in pace e datti una calmata.»
«Te la farò pagare per come mi stai trattando.» Non la sopportavo più.
«Ti tratto per quella che sei e non mi interessa che ti stia bene o meno, mi basta che la pianti e ti togli di torno. Non vali nemmeno quanto il tacco della scarpa di Isabella.» Si era girata quasi ringhiando,  mi aveva schiaffeggiato in pieno viso e poi se n’era andata via offesa. Era tornata al tavolo dagli altri chiedendo a Jasper di riaccompagnarla a casa. Lui aveva brontolato un po’, ma alla fine l’aveva accontentata.
Sbattendo la porta del bagno mi ero dato una sciacquata al viso, cercando di togliermi di dosso quel suo insopportabile odore estraneo. Scosso e disgustato ero tornato da Isabella che sembrava non essersi accorta di nulla  se non del caratteraccio ormai noto di Victoria.
Quella notte l’avevo riaccompagnata a casa più presto del solito e lei mi aveva chiesto di salire in casa sua. Aspettavo quel momento da molto tempo e nonostante fossi ancora nervoso per la precedente discussione accettai e la seguii col cuore gonfio. Finalmente avevamo l’opportunità di stare soli e preferii cancellare dalla memoria le ultime ore sgradevoli, per non imbrattare la purezza del tempo che avrei trascorso con lei.
Non appena varcata la soglia del suo appartamento Isabella parve diversa. Il lusso che la circondava sembrava stonare con l’immagine che avevo assimilato di lei e solo in quell’istante mi resi conto del grado di ricchezza cui era abituata. Tutto sembrava studiato nel dettaglio e l’opulenza del mobilio mi mise notevolmente a disagio. Avevo sottovalutato quanto  fosse rilevante nel nostro rapporto la differenza d’ambiente dal quale Isabella proveniva e mentre osservavo le mie certezze dissolversi, sentii crescere in me il tormentato timore di perderla. Si muoveva con naturalezza tra le sue cose senza rendersi conto di quale shock avesse sortito in me trovarmici dentro. Non appena mi fu vicina il candore e la semplicità di Isabella scomparvero rivelando la sua vera indole.
Mi desiderava come io bramavo lei e ci vollero pochi istanti per ritrovarci  stesi nudi sul soffice tappeto bianco che regnava la zona antistante il camino. Le grandi finestre erano spalancate sul parco e qualche occasionale folata d’aria entrava per rinfrescare i nostri corpi sudati.
«Non voglio che tu esca mai più da dentro me.» Ansimava, mentre pompavo lento e profondo dentro la sua carne accogliente. Mi trattenevo per prolungare il piacere e lo sforzo mi faceva diventare pazzo. La sua pelle mi inebriava ed era difficile non perdersi in quell’eccitante paradiso.
«Hai qualche suggerimento?» Non era facile resisterle e parlare di cose futili aiutava nell’impresa titanica di trattenermi.
«Potresti smettere di lavorare, di mangiare, di respirare e pompare su di me senza pausa finché ti imploro di smettere.» Mi eccitai ancora di più. Le piaceva provocarmi. Era la donna perfetta.
«Se fai così non dovrai implorare poi tanto.» Ero al limite, ma potevo ancora dominarmi.
«Voglio che mi guardi negli occhi mentre fai l’amore con me Edward.» Cambiai ritmo. Più veloce, più intimo, sublimando il desiderio in bisogno. Affondai in lei con più energia, aggrappato ai suoi occhi ebbri d’amore. Le accarezzavo il volto con le labbra e la pelle mi regalava il suo sapore.
«Pensi che sia saggio?» Le sorrisi continuando a darle piacere e a prenderne per me.
«Sì penso che sia mooolto saggio Edward.» Rallentai per non venire in lei e scivolai sul fianco trascinandomela sopra. La tenni ferma per riprendere fiato, ma non voleva saperne e cominciò a cavalcare come se avesse visto l’acqua in pieno deserto e volesse raggiungerla per dissetarsi.
«Fermati o vengo subito… ti prego… oddio… Isabella.» Non ascoltava e aggrappandosi ai miei capelli, con gli occhi chiusi,  aumentò l’andatura fino a scoppiare gemendo e spargendo su di me il caldo liquido di un piacere finalmente appagato. La seguii senza più trattenermi e sentendola crollare esausta sul mio petto l’abbracciai stretta. Tremava come una foglia al vento e sentirla scivolarmi addosso fu sublime.
Passarono pochi istanti e mentre riprendevo fiato mi uscì di getto quello che in cuor mio sapevo da tempo.
«Ti amo piccola.» Mi sorprese quello che disse lei di rimando.
«Lo so.» Era appoggiata a me e quindi non le potevo vedere il volto. Il cuore le batteva forte e faceva eco al mio che sembrava scoppiarmi in petto. Attesi di sentirla pronunciare le mie stesse parole, ma non aggiunse altro e rimasi un po’ deluso dandomi dello sciocco per aver creduto che anche lei mi amasse. Passarono alcuni minuti e lentamente il nostro respiro tornò regolare.
«Isabella, va tutto bene?» Si stese accanto a me e appoggiandomi la mano sul petto  si sollevò per guardarmi. Stava lacrimando in silenzio, sprigionando in quello sguardo annebbiato la luce intensa e abbagliante di quello che realmente provava. Sorrise dolcemente, sfiorando le mie labbra con tenerezza.
« Dillo di nuovo. » E un sorriso la illuminò.
Afferrai il suo viso tra le mani accarezzandola con le dita e amandola con gli occhi. In lei vedevo tutto quello che avevo sempre desiderato in una donna e il solo sapere che approvava il mio sentimento appena nato mi faceva arrivare alle stelle.
« Ti amo… ti amo… ti amo…» la soffocai di baci, mentre le risate si sostituivano al pianto e in quella notte di agosto mi convinsi di aver vinto il destino.
 
Central Park – 1954 - Edward
 
Isabella rimase incinta quella notte e perse il bambino il mese seguente appena dopo aver scoperto di essere in attesa di un figlio. La giovane età le avrebbe permesso di averne molti altri, ma per lei fu un trauma violento dal quale si riprese lentamente e con grande sforzo. Le rimasi accanto come avrebbe fatto un marito e il padre non seppe mai dell’accaduto perché Isabella non ritenne necessario metterlo al corrente. Nessuno lo aveva mai saputo, tranne me e lei. Mi trasferii in casa sua convincendo la mia famiglia che era per una giusta causa. Non erano d’accordo, come era prevedibile, ma non diedi ascolto a nessuno e mi stabilii da lei. Suo padre non disse nulla.
Lasciai il lavoro di fattorino e mi iscrissi a giurisprudenza, convinto che offrirle una solida base economica fosse importante per il nostro futuro insieme. Jasper mi diede una mano e nei tempi stabiliti conseguii la laurea e iniziai a praticare come associato nel suo studio già avviato. Le cose sembravano andare bene e Isabella pareva aver ritrovato la serenità e la spensieratezza dei giorni felici.
Era tornata da me. Con il corpo, il cuore e la mente.
Di nuovo riempiva la mia vita di colore e di sapore, di emozione e di sentimento. Lunghi anni di vita insieme che però sembrarono divenire sempre più bui visto che nella nostra vita, nonostante avessimo tanto provato, non arrivava il figlio che Isabella tanto desiderava.
La casa le sembrava vuota senza le grida di un bambino e nonostante comprendessi questo bisogno di maternità non sentivo in cuore di condividerlo. Stavo bene così come stavo e per quanto mi riguardava un figlio non era nelle mie priorità.
Per anni avevamo condotto una vita agiata e apparentemente serena. O così a me sembrava. Periodi alti e bassi che si susseguivano senza ordine in un’altalena che sembrava rientrare nella normalità. Poi quel viaggio a Boston aveva mutato e alterato il nostro equilibrio e nel tempo di un sospiro tutto il nostro precario mondo era crollato.
Ma su quali basi era fondato il nostro amore se era bastato un breve periodo di lontananza a distrarla da noi e a convincerla che fosse d’improvviso giunto il momento di rinunciarvi.
Raggiunsi la sponda sulla quale aveva avuto inizio la nostra storia e fermo tra le aiuole di ortensia ancora in bocciolo cercai la mia Isabella ventenne…
 
1946 Boston - Isabella
 
L’invito che avevo ricevuto da Rose mi aveva sorpreso perché erano alcuni anni che non la vedevo e sapevo che il marito non aveva molta simpatia per me. La mia scelta di vivere accanto ad un uomo senza che a legarci fosse il matrimonio aveva agitato l’intera stirpe degli Swan e mia cugina Rosalie era l’unica della famiglia che si fosse rifiutata di tagliare i ponti con me. Mi ero commossa quando avevo appreso la notizia della nascita del suo terzo figlio, invidiando la famiglia meravigliosa che aveva saputo creare con l’uomo che aveva scelto come compagno. Emmet era un uomo buono. Forse un po’ troppo legato ai rigidi canoni della società in cui era cresciuto, ma pur sempre un buon padre e un marito devoto. Era stata fortunata e io ero molto felice per lei. Questa considerazione mi aveva portato a valutare il mio rapporto con Edward e al fatto di aver accettato con troppa superficialità il compromesso di convivere sotto lo stesso tetto senza rendere legale il nostro legame. Le affinità tra noi erano palesi a tutti, ero la prima a doverlo ammettere,  ma nel profondo del mio cuore mi sentivo in qualche modo tradita da colui il quale avrebbe dovuto sentirsi felice di dichiarare davanti al mondo intero il suo amore per me. Invece si era cortesemente, ma in modo inflessibile, rifiutato di prestarsi per quella che lui definiva una farsa.  Non mi ero sentita di insistere sulla faccenda perché volevo arrivasse da solo a comprendere quanto fosse importante per me quel gesto. Era necessario per essere accettata nuovamente dalla mia famiglia, dagli amici che frequentavo prima di incontrarlo, da chi senza alcuna remora mi guardava come se fossi una poco di buono. Non era sciocca la mia visione della vita, era soltanto pratica o almeno era quello del quale cercavo di convincermi. Mi ero persuasa che nel momento in cui avessi messo al mondo suo figlio anche Edward avrebbe ceduto al desiderio di festeggiare con un matrimonio in piena regola e in quell’occasione avrei ottenuto tutto ciò che desideravo in una sola volta. Ma nessun figlio era più arrivato ad allietare le nostre vite. Dentro di me stavo convincendomi di non poterne avere più, ma tenevo nascosto a Edward questo doloroso fardello per paura che i miei timori divenissero realtà. Avevo superato da un po’ i quarant’anni e nel mio cuore sapevo che il mio tempo era scaduto. Non lo volevo accettare perché farlo avrebbe segnato la sconfitta. La mancanza di un dono tanto prezioso che testimoniasse il nostro amore mi gettava nello sconforto più totale. Edward non capiva. Sembrava non accorgersi di nulla.
Lui mi era stato sempre fedele, ne ero certa. Lo stesso avevo fatto io perché lo amavo come il primo giorno e lo avrei amato sempre con la stessa intensità. Eravamo felici insieme, ma non avevamo costruito niente e del nostro grande amore, una volta passati ad altra vita, non sarebbe rimasto nulla. Nulla che potesse testimoniare quello che eravamo stati l’uno per l’altra.
Mio padre era morto lasciandomi i suoi soldi, ma anche sul letto di morte non aveva chiesto di vedermi. La cosa non mi aveva stupita, ne addolorata. Non era stato un vero padre, ma soltanto un grande portafogli colmo di banconote dal quale attingere al bisogno. La cosa mi aveva fatto comodo, ma mi aveva privato del conforto di una famiglia. Era purtroppo un uomo privo di sentimenti, inaridito dalla vita, da un passato difficile e da un cuore incapace di battere allo stesso ritmo degli altri. Il suo affetto mi era mancato quando ero una ragazzina, ma l’amore sconfinato e sincero di Edward aveva sopperito alla sua imperdonabile negligenza di padre. E per questo lo adoravo, ma sembrava non bastare.
I rapporti tra di noi si erano lentamente adagiati nell’abitudine e nonostante fosse ineccepibile, la nostra vita era divenuta priva di stimoli, stabile e noiosa. E io ero stanca. Stanca di aspettare un qualcosa che perdeva la sua identità  man mano che il tempo inesorabilmente trascorreva.
La permanenza a Boston mi aveva rigenerata, allontanandomi dai tristi pensieri e quando fu tempo di rientrare a casa non vedevo l’ora di riabbracciare l’uomo che amavo.
Il treno per New York  era in ritardo di un paio di ore e me ne stavo seduta in sala d’attesa con un giornale di moda acquistato in città.
L’aria era fresca e avvolta nel mio cappotto di pelliccia stavo benissimo e mi sentivo molto elegante. L’umore era alle stelle e non vedevo l’ora di raccontare tutto a Edward.
Mentre raccoglievo da terra la borsa dei regali per appoggiarla nella panca accanto a me mi si avvicinò una donna. Sollevando gli occhi la guardai in viso.
«Non sei invecchiata per niente.» Riconobbi il tono acido di colei che un tempo mi era amica.
« Ciao Victoria.» Si sedette accanto a me e appoggiò anche lei alcune borse di acquisti. Era ingrassata e sul volto apparivano rughe che un tempo non aveva. I capelli erano tinti di un colore spento, ma gli occhi da serpe erano gli stessi. Era avvolta in una stretta giacca lunga verde smeraldo, eccessiva sia di taglio che di fattura. Guardandola meglio considerai che era molto cambiata.
«Sono anni che non ho tue notizie, come te la passi?» Cercavo di essere gentile anche se non gradivo la sua presenza.
«Molto bene in verità. Sai, mio fratello Harold ha ereditato tutta la fortuna della defunta suocera e così, oltre a Katrina, la sua nuova moglie, ha sistemato anche me …e mia figlia.»
«Oh bene, ti sei sposata, mi fa piacere. Lo conosco?» Mi guardava torva e con un  fastidioso sorrisino sarcastico che mi fece salire i brividi.
«Lo conosci eccome. Il padre è un bastardo che si è voluto divertire a mie spese e poi al momento di prendersi le sue responsabilità si è tirato indietro.»
«Mi dispiace molto Victoria, non potevo sapere. Ma chi è? Quando è successo?» Ero curiosa anche se qualcosa mi suggeriva di tacere.
«Non sai proprio nulla quindi.»
«Ma di che parli?»
«Eppure all’epoca ci frequentavamo. Eri talmente stupida da non vedere neppure quel che succedeva sotto al tuo naso.»
«Sotto al mio naso? Che diavolo vai dicendo?»
«Il caro giovane Cullen, di lui parlo! È un uomo importante adesso, non è così? E non vuole avere rogne nella sua vita. Mi ha mandato dei soldi i primi anni dopo la nascita di Lilian e poi è sparito.» Rideva amaramente, mentre il mio mondo fatto di certezze crollava sprofondandomi nell’abisso più nero.
«Stai mentendo. Sono solo bugie.»
«Lo credi davvero? Chiedilo ai Cullen chi ha mentito per tutti questi anni. Mia figlia ormai è una donna sposata e tra qualche mese sarò nonna. È una ragazza per bene e non sa nulla del suo vero padre e nemmeno le dirò mai niente, ma sono felice di avere avuto l’occasione di dirlo a te che ti sei sempre creduta migliore di me.»
Non avevo la forza di ribattere alle sue stupide accuse quando ancora faticavo a focalizzare una verità tanto dolorosa.
«Salutami Edward, il tuo bel maritino » disse mettendosi in piedi «quello che non ha trovato il coraggio di mettere l’anello al dito neppure a una come te» ero morta «salutamelo tanto e digli che odio lui e la sua famiglia con tutto il cuore e che auguro loro di soffrire così come hanno fatto soffrire me e la mia bambina…» prese le sue borse e se ne andò senza aggiungere altro.
Ero definitivamente a pezzi e niente avrebbe più potuto essere come prima.
Nessun futuro. Nessuna vita. Nessuna famiglia. Avevo fallito in tutto.
 
Central Park – 1954 - Edward
 
Una donna vestita di bianco era seduta sulla riva del lago proprio nello stesso  punto in cui ci eravamo ritrovati Isabella ed io quasi trent’anni prima. I capelli erano raccolti in una crocchia morbida e qualche ciuffo le copriva la nuca donandole un’aria sbarazzina. Le gambe erano piegate di lato e coperte da una gonna ampia che le nascondeva i piedi. Aveva un’aria familiare. Le girai intorno incuriosito, seguendo con gli occhi le eleganti linee del suo collo. Quando volse la testa di lato per guardarsi intorno la riconobbi.
Era la mia Bella.
Mi sentii mancare.
Non la vedevo da nove lunghi anni e nella  mia mente era ancora quella di allora. Il profilo addolcito da un nasino alla francese e quelle labbra soffici e imbronciate alle quali non sapevo resistere. Gli anni non l’avevano poi cambiata molto e ai miei occhi era ancora più bella.
Mi aveva scritto che non voleva continuare a vivere con me che sarebbe andata lontano e che non voleva che la cercassi in nessun modo e invece adesso era Isabella ad essere tornata da chissà dove ed era lì, esattamente dove la nostra storia aveva avuto inizio. Che senso aveva?
Ero paralizzato e ancora pallido per la sorpresa quando volse la testa dalla mia parte e sollevando gli occhi incrociò i miei. Non brillavano più. Non mi amavano più. La speranza mi abbandonò sprofondando nelle acque del lago.
Quel po’ di vigore mentale che mi era rimasto svanì e senza più alcuna fiducia nel cuore l’avvicinai. Non disse nulla. Mi sedetti qualche metro di distanza sull’erba novella e attesi che fosse lei a parlare. Il sole scaldava l’aria, ma dentro al petto sentivo solo il gelo.
«Ciao.» La sua voce aveva la stessa splendida melodia di sempre.
«Ciao, amore.» La mia era un  bisbiglio.
«Non chiamarmi così.» La guardai morendo. Pure quello mi veniva negato.
«Perdonami, ma è quello che sei per me.» Faticavo a togliermi le parole dalla bocca. Non mi sembrava reale poterlo fare di nuovo.
«Puoi smettere di mentire. So tutto.» Sbarrai gli occhi.
«Mentire? Sai che questa è la verità, io ti amo, ti ho sempre amata Isabella.»
«Lo credevo anch’io, ma è evidente che mi sbagliavo. Troppe cose nella vita si danno per scontate...» Abbassò lo sguardo e strappò alcuni fili d’erba. Cominciò a girarli tra le dita con aria rassegnata.
«Come puoi dire una cosa simile. Ti sono sempre stato fedele e credo…»
«Ne sei sicuro?» Mi interruppe accoltellandomi con gli occhi.
«Certamente, cosa stai insinuando? Davvero credi che avrei potuto?»
«Oh, ti prego! So tutto di te e di Victoria. Le ho parlato quando sono stata a Boston e mi ha detto di Lilian e anche dei soldi che le hai mandato per la bambina quando era appena nata.»
Ero esterrefatto delle sue parole e in pochi attimi mi resi conto di quale immenso equivoco avesse provocato tanta sofferenza e tante sciocche supposizioni. Non c’era niente di vero in quella lettera che mi aveva lasciato anni prima. Era stato solo un modo sbrigativo per liquidarmi e impedirmi di raggiungerla per riportarla indietro. La speranza riemerse dalle acque impossessandosi nuovamente del mio cuore.
«Isabella. Lilian è figlia di mio fratello Jasper.» Mi guardò velenosa.
«Dopo tutti questi anni infanghi il nome di tuo fratello per non prenderti le tue responsabilità. È deplorevole che tu ricorra a simili bassezze.»
«Jasper potrà confermartelo. È successo la sera che lui l’ha riaccompagnata a casa perché si era arrabbiata con me. Non le avevo ceduto e lei si è rifatta con mio fratello. Lui lo ha tenuto nascosto a tutti perché la sua carriera non ne venisse macchiata. Soltanto io ne ero a conoscenza. Sono io che ho aiutato Victoria, ma l’ho fatto soltanto perché era tua amica.»
«E perché non me l’hai detto?» La sua voce tremava.
«Perché non volevo renderti partecipe di una cosa che non riguardava noi e perché Jasper mi aveva chiesto espressamente di non farlo e io gli ho obbedito convinto fosse meglio per te, visto quello che ti era appena successo.»
«Il mio aborto?»
«Il nostro bambino Isabella. L’ho amato anch’io, anche se tu sei sempre stata convinta del contrario.»
«Perché non mi hai mai detto nemmeno questo.»
«Perché amavo te di più e questo era per me molto più importante.»
Il sole splendeva sull’acqua e i bagliori illuminavano il suo volto incantevole. Leggevo le sue insicurezze e il veloce scorrere di pensieri contrastanti con i quali stava combattendo. Mi avvicinai fino a sedermi accanto a lei. Il suo profumo divenne parte reale del mio fiato e mi sembrò di tornare a respirare dopo anni di assenza d’aria. Allungai la mano e accarezzai la sua con la punta delle dita. Lei rimase immobile.
Perché sei tornata solo ora.»
«Non lo so.» fece una pausa e continuò sussurrando «Non so più niente ora.»
«Sono passati nove anni. Perché non mi hai parlato prima di questa cosa. Ci saremmo evitati tanta penosa sofferenza.»
«Ero confusa, soffrivo e non ce la facevo più a vivere così. »
«Nove anni Isabella, ti rendi conto di quanto tempo abbiamo perduto?»
«E’ troppo tardi?» Lo disse a occhi bassi.
Non le diedi modo di dire altro. Averla lì mi bastava.
Afferrai le sue mani e stendendola a terra la sovrastai incollando le mie labbra sulle sue. Le energie che mi avevano abbandonato per lungo tempo sembravano risorte da remoti angoli del mio essere e mi sentii giovane, potente e vivo. Vivo come avessi di nuovo vent’anni. Isabella si aggrappò alle mie spalle affondando in me come io le richiedevo e il letto d’erba che ci aveva uniti la prima volta lo fece ancora. La baciai con trasporto e tutto l’amore sprecato in quei nove anni di lontananza lo riversai in lei in un’unica dose riportando me alla vita. Non mi importava nulla della gente intorno, dei commenti di disapprovazione che il nostro agire avrebbe provocato. Volevo solo stringere la mia donna e non lasciarla mai più. La guardai per un lungo istante e mi accorsi del cambiamento avvenuto in lei. L’amore sgorgava dai suo occhi e seppi finalmente che era ancora mia e che niente me l’avrebbe mai portata via di nuovo.
«Vuoi ancora tenermi dentro di te per sempre?» Le sussurrai mordendole le labbra.
«E anche tutto il resto?» Gli occhi le brillavano.
«Anche molto di più.» Le sussurrai.
«Pensi sia saggio vista l’età che abbiamo?» L’eco dei ricordi ci cullava entrambi.
«Mooolto saggio, amore mio. E non  dire altro. Ti prego. Amami e basta.»

 
 
 
 
   
 
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