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Autore: rachel_hetfield    16/01/2015    3 recensioni
Scossi la testa con nervosismo. Aveva uno sguardo così penetrante. Non poteva essere Gerard Way, lui era morto. Era morto ieri sera, davanti a me, davanti ai miei occhi, avevo assistito ai suoi ultimi secondi di vita. Mi sentii stringere il petto. Che sensazione orribile.
«Volevo chiederti se è libero accanto a te» disse con tranquillità, come se non avesse capito che ero terribilmente a disagio. [...]
Non sapevo nemmeno che faccia avesse Gerard Way, poteva essere chiunque. Forse il ragazzo della macchina era un soggetto, quello della panchina era un altro, e Gerard Way non era nessuno. Sì, non era nessuno. Dovetti ripetermelo diciassette volte per convincermi. Gerard Way non era nessuno. Non l’avevo mai visto. Stavo bene. Non ero pazzo.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Quella mattina non mi ero ritirato dall’andare a scuola, anche se la notte precedente non avevo chiuso occhio, non ne volevo sapere. Gerard non si era trattenuto in casa mia per troppo tempo, appena era andato  via mamma si era svegliata, ma non mi aveva fatto domande. Chissà, forse se n’era dimenticata.
Odiavo andare a scuola il giovedì, era sempre stato il mio giorno sfortunato. Entrai in classe deglutendo più volte, finché non mi si seccò la bocca. Sentirmi tutti quegli sguardi addosso, quei maledetti sguardi insistenti che sembravano volermi spogliare anche delle ossa. Mi mettevano così in imbarazzo. Raggiunsi in fretta il mio banco e mi sedetti, rannicchiandomi quasi su me stesso. Ero così bravo a sembrare invisibile.
«Iero» sussurrò una voce femminile dietro di me. Mi voltai quasi all’istante. «Che fine hai fatto ieri? Ti ho visto davanti alla scuola, ma non sei venuto.»
Ma chi era quella, Jamia? Cosa le importava? Era la tizia che avevo aiutato in informatica. Mi strinsi nelle spalle e tornai nella posizione che mi rimpiccioliva.
«Dai, Frank, a me puoi dirle queste cose» insistette «hai marinato?»
Venni scosso da brividi di rabbia e mi sentii avvampare. Non le risposi di nuovo, doveva star zitta.
«Ti va di fare un giro questo sabato? È il giorno prima della Vigilia.»
Mi stava prendendo in giro?
«Ho impegni.»
«Non sei mai impegnato.»
Strinsi i pugni. Era entrato il professore in aula. «Come fai a saperlo? Che cosa ti interessa?»
«Sei l’unico in questa classe che sta sempre da solo, credevo te ne fossi accorto, e volevo solo farti un po’ di compagnia.»
Sospirai. «Non ne ho bisogno.»
Venimmo interrotti dal professore che ci richiamò. Ci mancava questa. Maledissi quella ragazza con tutto me stesso. Tornai a farmi piccolo ma non feci in tempo a nascondermi che il professore mi chiamò.
«Iero, vieni alla lavagna e svolgi questi esercizi.»
Per tre secondi rimasi fermo sul posto. Nessuno mi chiamava mai, e aveva anche sbagliato la pronuncia del cognome. Non sapevo svolgere quegli esercizi di fisica, non avevo studiato. Deglutii. Immaginai di avere tutti gli sguardi rivolti verso di me, che mi fissavano, come a volermi spogliare anche delle ossa. Lo avevo detto due volte nel giro di dieci minuti, il che mi inquietò. Che giornata iniziata di merda.
«Prendi il gessetto.»
Sapevo cosa dovevo fare, non ero stupido. Ma non sapevo svolgere l’esericizio. Non sapevo nulla. La vergogna mi travolse, arrossii cercando di non sbattere il gessetto sul nero della lavagna, per far sentire quanto mi sentissi frustrato e umiliato in quel momento. Non doveva andare così. Non doveva succedere, potevo ignorarla o marinare anche quel giorno, sperare di essere abbastanza pazzo da rivedere Gerard Way e non pensare a nient’altro che a lui.
Mi balenò nella mente il suo volto, la sua voce.
Gerard.
Lo vidi entrare dalla porta dell’aula senza fare rumore, nessuno badò a lui. Si sedette al posto vuoto accanto al mio, sorridendomi composto. Nessuno l’aveva notato. Il professore mi richiamò.
«Iero, l’esercizio.»
Lo guardai velocemente prima di rivolgere di nuovo lo sguardo a Gerard. Sbagliò di nuovo la pronuncia.
«Non hai nemmeno giustificato l’assenza di ieri.»
Si stava facendo pesante. Iniziai a odiarlo, e si appesantì la testa, il respiro, il peso sotto al mio corpo. Cercai con gli occhi una risposta da Gerard, che non arrivò. Abbassò la testa con un sorrisetto trattenuto, e fu un colpo al cuore. Non perché fosse bello, o che mi avesse fatto tenerezza, lui aveva detto di avermi voluto aiutare e non lo stava facendo.
«Non vorrei costringermi ad avvertire i tuoi genitori.»
«Sono maggiorenne.»
«Finché sei in questa scuola, non sei libero di scorrazzare in giro per il paese invece di svolgere il tuo dovere» alzò il tono di voce e avrei voluto tappargli la bocca, o scappare, o dare un calcio al muro. Non scelsi nessuna di queste opzioni.
«Non ho scorrazzato in giro per il paese» risposi a denti stretti.
«Frank» dissero due voci in coro, una femminile e una maschile. Gerard, e anche la stupida dietro di lui. Maledissi lei e implorai lui con lo sguardo. Gerard ricambiò lo sguardo implorante, voleva che tacessi. Avrei taciuto, se era così che voleva.
«Bene, prendi le tue cose e vai in Presidenza, convocheremo tua madre.»
Battei un pugno sulla coscia stringendo le labbra, per combattere la rabbia. Andai al mio posto e sussurrai un grazie a Gerard, che ricambiò con un sorriso spento. «Ci vediamo dopo.»
Annuii.
«Perché grazie
Era stata Jamia a parlare. La guardai torvo. «Non dicevo a te.»
Per un attimo la vidi spalancare gli occhi, poi mi alzai dal posto e a passo svelto lasciai l’aula. Chiusi la porta alle mie spalle, sospirando, forse per non piangere. Non avevo intenzione di andare in presidenza, perciò guardai l’ora: ero ancora in tempo prima che il professore finisse la lezione e mi portasse dal Preside, perciò chiamai mamma e mentii che non mi sentivo benee che forse avevo un’influenza. Arrivò non troppo tempo dopo, giusto in tempo per firmare e poi la campanella suonò. Andai a passo svelto verso l’uscita accompagnato da mamma e salii in macchina, facendo finta di avere mal di stomaco. Arrivati a casa, senza dirci una parola, sentii un nodo in gola. Corsi nel bagno del piano terra e vomitai per davvero, inaspettatamente. Mamma mi soccorse tenendomi la fronte, come succedeva ogni volta.
«Devi restare a casa» mugolò.
Scossi la testa emettendo un no strozzato, ansante. Come avrei visto Gerard? Dovevo vederlo, potevamo fare lezione insieme. Potevamo parlare, potevo avere un amico, non volevo restare a casa.
«Frank, ti prego, non sei in ottimo stato, e poi domani...»
Quell’interruzione non mi piacque. Era il telefono che squillava. Sentii la mano della mamma allontanarsi dalla fronte, e mi pulii la bocca con l’asciugamano. Ero in ansia, mi ero dimenticato che il professore avrebbe chiamato mamma e gli avrebbe detto che avevo marinato. Mi avrebbe messo in punizione, mi avrebbe fatto mille domande, mi avrebbe tolto il permesso di farmi altri piercing e di uscire ancora di meno, mi avrebbe impedito di vedere Gerard. Ma non potevo permetterlo, non potevo non vedere Gerard. Avrei inventato una scusa, una qualsiasi, qualcosa di credibile ma che non mangi la foglia, qualcosa di idiota e semplice in modo che non andasse alla ricerca di prove o che mi cacciasse in altri guai. Già la storia della canna doveva rimanere nascosta il più possibile, andava bene tutto, ma non che sapesse quello.
Mamma pose fine alla telefonata, non avevo fatto in tempo a preparare una scusa e andai nel panico, sentii un altro conato di vomito minacciare di uscire. Ecco perché vomitavo: gli attacchi di panico.
«Frank» pronunciò il mio nome senza espressione, atona. Dovetti reprimere un altro conato. Avevo caldo ma allo stesso tempo sentivo il gelo nelle vene. Stai calmo Frank, Cristo santo, stai calmo.
«Papà vuole venire a prenderti.»
Papà. Papà era peggio dell’essere scoperti di aver marinato. Era peggio dell’essere convocati dal Preside, era peggio dell’essere scoperti a fumare una canna con gente quasi estranea e poco di buono, papà no, non volevo stare con lui, mi odiava, odiava anche mamma, no.
Mi aggrappai alla porta del bagno per non cadere. Lui mi voleva male. Voleva uccidermi, lo aveva sempre voluto. Mamma lo aveva allontanato perché voleva farci del male. Ero il suo male. Mamma diceva che lo amava ancora, ma lui voleva solo il nostro dolore. Scossi violentemente la testa.
«Frank, lui non vuole farti del male» sentii una nota di rimprovero nella sua voce. Come lo sapeva? Lei non sapeva niente di cosa mi faceva papà quando ero solo con lui a casa. Mi avevano tenuto lontano da lui, da casa sua, perché sapevano che mi avrebbe fatto del male, che mi avrebbe ucciso.
Disapprovai scuotendo la testa con forza, stringendo i pugni. Volevo vomitare.
«Smettila
«Mamma, no! No! Non voglio stare con lui!»
«Lui non ti ha mai fatto del male!»
«Sì, invece! Mi ha colpito con un piede di porco! Mi ha spinto sugli scalini, mi sono rotto il naso, mi ha chiuso in quel posto orrendo, senza luce, mi ha picchiato! Mi ha sempre picchiato!»
«ERA LA SCHIZOFRENIA A FARTELO CREDERE, FRANK!»
Mi sentii mancare. No. Non ero schizofrenico. Non ero malato. Nemmeno pazzo. Provai a scuotere il capo, a rispondere, a reagire, ma ero paralizzato. Non ero pazzo, lui mi picchiava davvero, lo avevo visto, lo avrebbe rifatto. Non sarei andato con lui, non di nuovo. Arretrai nel bagno, piegandomi sul water.
«Oddio, Frankie, scusami, scusami tanto...» singhiozzò, prendendomi la fronte. Vomitai di nuovo. «Non avrebbero dovuto smettere di controllarti.»
«Non sono pazzo» sputai tra i colpi di tosse «mi odia.»
«Hai smesso di prendere i farmaci...»
«Non sono pazzo...»
«Va tutto bene, Frank, va tutto bene. Stai bene.»
Mi presi la testa tra le mani, preso da un forte mal di testa, poggiando i gomiti sul bordo del water. La testa girava lentamente, volevo dormire, dormire e non svegliarmi più. Non sono pazzo, mamma. Papà mi picchiava. E Gerard è mio amico. Gerard esiste, e io ho bisogno di lui.
 
 
«Come ti senti?»
Guardai la figura che mi scrutava di sottecchi dal bordo del letto, e mi misi a sedere. «Mi fa male la testa.»
«Vuoi che vada via?» chiese sottovoce, ma scossi la testa. Non volevo restare solo, soprattutto prima di vedere papà. Non avrei nemmeno dovuto chiamarlo papà quell’uomo, avevo paura di lui.
«Mio padre verrà a prendermi e...»
Gerard si fece vicino. A pensarci, non avevamo mai avuto un contatto fisico, nemmeno con le mani. Trasalii quando mi guardò dritto negli occhi. «Io sarò con te, Frank.»
«Vuole farmi del male, lo so.»
«No, io sarò al tuo fianco.»
Annuii. Tirai fuori la mano da sotto le coperte e lui l’afferrò. Tremai, era caldo, mi stringeva. Era così vero, così vicino. Mi stesi di nuovo stringendo la sua mano, ma non si mosse di più, e ne rimasi quasi deluso, ma non potevo aspettarmi di più. Era solo un amico. Un amico bello e misterioso.
Chiusi gli occhi, ma non dormii, il mal di testa era troppo forte per conciliarmi il sonno. La presa era ancora salda, stretta, sicura. Non mi avrebbe lasciato andare.
Dopo qualche minuto lo sentii fare dei rumori con i vestiti, alzai un occhio e vidi che si salva togliendo le scarpe senza spostare la presa delle nostre mani. Salì le gambe sul materasso con cautela, come se avesse paura di svegliarmi, e si posò accanto a me, verso l’esterno, con le mani ancora intrecciate ma senza toccarmi di più. Deglutii, e temetti mi avesse sentito. Aprii gli occhi e mi stava guardando intensamente.
«Gerard-»
«Dormi, Frank.»
«Mi distrai» ammisi, distogliendo lo sguardo da quegli occhi verdi, verdi, verdi, verdi. Così verdi. Così fottutamente verdi.
Lo vidi sorridere. «Anche tu mi distrai.»
Lo guardai di nuovo con aria interrogativa.
«Mi distrai dalla realtà.»
«Inizio a pensare che sia io la tua allucinazione» ridacchiai, anche se sotto sotto non ne ero divertito da quell’affermazione. Avevo detto a me stesso di essere pazzo, forse.
«Frank, sei ancora convinto che io sia un’allucinazione?»
Mi guardai intorno. «Sto cercando di non chiedermelo.»
Le mani erano ancora strette. Più strette di prima, lo stavo stringendo, come se avessi paura che svanisse come polvere, ma era ancora lì, fermo, sereno.
«Se continui a guardarmi così ti ritrovi con me addosso» fece una risata più rumorosa, quasi seduttiva, mostrando i suoi denti così insoliti. Risi con lui, imbarazzato.
«Ma tu mi stai tenendo la mano» mi giustificai, come se servisse a qualcosa. Invece lo fece avvicinare di più con la testa e deglutii rumorosamente, non staccava gli occhi da me. Erano così penetranti. Così maledettamente... verdi.
Sollevò il capo e lo fece vicinissimo alla mia faccia e per poco non gli finii addosso per la voglia di baciarlo. Volevo baciarlo, perché era bellissimo, e le sue labbra sembravano così morbide. Gli stavo urlando “baciami” da tutti i pori, ma non lo faceva. Restava solo a pochi centimetri da me, respirando sofficemente sulle mie labbra, stringendomi la mano.
«Gerard...»
Suonò come un gemito e avvampai allontanandomi.
«Non ti lascio, Frank.»
«Non devi.»
«Non lo farò.»
«Promettimelo.»
«Te lo giuro sulla mia anima.»
«Ce l’hai un’anima, Gerard?»
 
 
Temetti che mi avrebbero imbavagliato e legato con la camicia di forza pur di farmi stare zitto e fermo, ma il fatto di dover vedere papà ed essere costretto a passare con lui un’intera giornata mi faceva andare nel panico. Aveva fatto credere a tutti che era una persona a posto e che quello pazzo fossi io, perché diceva che inventavo cose, ma io vedevo, non ero stupido, e ricordavo. Ricordavo quando mi colpì con un piede di porco sulla schiena mentre sistemava il garage e io rientravo da scuola. Ricordavo quando da piccolo stavo salendo gli scalini e mi spinse facendomi rompere il naso. Ricordavo qualunque avvenimento, qualunque cosa mi avesse fatto, ma nessuno mi credeva, pensavano che fossi pazzo e paranoico, ma non lo ero, avevo la certezza che fosse lui il folle assassino che cercava di farmi fuori nel modo peggiore possibile.
L’ansia mi travolse di nuovo diventando presto panico. Dov’era Gerard? Lui non mi avrebbe lasciato solo.
«Frank, io vado, d’accordo?» mormorò mamma nell’orecchio e trasalii. Mi stava lasciando solo con dei camici bianchi sconosciuti a farmi incontrare di nuovo papà. Sarei voluto svenire e svegliarmi il prossimo mese, o il prossimo anno, magari la prossima vita. Quell’uomo aveva soldi, donne, tutte le lussurie della vita, ed era quasi rivoltante definirlo mio padre. Mamma ed io eravamo la sua sventura. E voleva uccidermi, voleva togliermi dai suoi piedi per sempre. Veniva a prendermi per questo, ne ero certo.
Annuii a mamma dopo un tempo indeterminato che stesse aspettando.
«Mi prometti che ti comporterai bene?»
No. Scossi la testa. Non le promisi un cazzo. Mi avrebbe ucciso.
«Ti aiuteranno, Frank.»
Solo Gerard poteva aiutarmi, e non era con me. Avevo bisogno di lui in quel momento e mi sentii schiacciare i polmoni, sentivo che stava arrivando. Papà stava arrivando.
Mamma mi lasciò un bacio sulla tempia e andò via, lasciandomi nella stanza poco arredata con due uomini con un lungo camice bianco. Dottori.
«Non voglio stare qui» mi lamentai «voi dovete fare qualcosa. Quell’uomo mi ucciderà, mi odia, avete capito?»
«Signorino Iero, non è il caso» uno dei due fece pressione maggiore sulle spalle per tenermi fermo.
«Un cazzo! Non voglio morire! Che ne sarà di Gerard? Che farà senza di me?»
«Non siamo tenuti a rivolgerle la parola in questo momento» masticò l’altro in un borbottio.
«Lasciatemi andare!» dovetti protestare cercando di liberarmi, ma mi tenevano fermo, erano davvero più muscolosi.
«Dottor Toro! Il cliente è arrivato» squittì una voce femminile e acuta alle nostre spalle.
No. No. No, no, no, no. Non poteva essere vero. Volevo morire, all’istante, senza sofferenze. Volevo scappare, fuggire lontano e non tornare mai più nella speranza di non rivederlo nemmeno quando saremmo stati entrambi nella tomba.
Il personaggio ambiguo in camice bianco alla mia destra si piegò verso di me, sorridendomi con falsa gentilezza, me lo sentivo, era lui la causa dell’inizio dei miei problemi. Me lo ricordavo, quell’uomo. Parlava come anche qualche anno fa, mi faceva domande di continuo e mi chiedeva se fossi da solo o ci fosse un amico con me. Era lui il paranoico, io non vedevo mai nessuno con me. E continuava a farmi la stessa domanda: Frank, c’è qualcuno con te?
Rispondevo sempre di no.
Vidi Gerard sedersi accanto al dottore, gli sorrisi e ricambiò.
«Non mi hai mai sorriso così, Frank» si immischiò il pazzo.
Lo guardai stranito. Ero strabico? Avevo guardato male? Non ero mica io il pazzo là in mezzo. E poi, quanti anni poteva avere, venti? Non era nemmeno chissà quale adulto esperto della vita e della psicologia umana, e cercava anche di capire se avessi malattie e altre cose.
Involontariamente, voltai la testa verso di lui credendo che Gerard mi avesse chiamato, e invece no, e quindi il dottore, come lo chiamavano gli altri uomini vicino a me, mi lanciò un’altra occhiata inquisitoria.
«Chi guardi, Frank?»
Ad ogni domanda, ogni frase, ogni sillaba metteva sempre il mio nome alla fine, come se non ricordassi come mi chiamavo e avevo bisogno di farmelo ricordare. Non ne avevo bisogno, idiota.
Scrollai qualcosa dalle spalle, forse una foglia. Poi lo guardai fingendomi innocente e gli sorrisi di sghembo. «Guardavo i tuoi capelli.»
«Ti piacciono?»
«No.»
Si alzò in piedi, allontanandosi. «Oh, salve Mr. Iero!»
Rabbrividii. Il cielo fuori dalla finestra si era fatto più scuro. Presi a tremare, mentre una voce mi chiamava. Era accanto a me, mi teneva la mano.
«Frank, Frank, Frank» parlò velocemente «ci sono io qui con te, va tutto bene.»
«Gerard, non lasciarmi» non fui ancora capace di alzare la testa e guardarlo in faccia. Avevo paura di incontrare il suo sguardo, di vederlo incendiarmi con gli occhi, non volevo essere bruciato da quell’odio.
«Non ti lascio, te l’ho promesso.»
«Voglio morire» dissi con un filo di voce, singhiozzando, avevo già la vista offuscata. Piansi. Una mano forte e sicura mi prese la spalla, costringendomi ad alzare la testa. Mi stava fissando. Papà, non farmi del male. Non farlo. Non ti odio. Non farmi male.
 
 
SPAZIO AUTRICE
E con più di dieci giorni di ritardo sono qui! Sì beh oh avevo un attimo perso il filo della storia e avevo bisogno di qualche problema da mettere in mezzo, e non avevo idea di come svilupparlo, quindi mi sono presa il mio tempo.
Come avevo anticipato, con la scuola (e i debiti da recuperare, soprattutto) il tempo di aggiornare si è ridotto, ma non lascio la storia. Forse. O forse no.
Detto questo, grazie delle recensioni a Gwen, Gaia e alle altre, grazie anche a Miriam, Elis e Ada che leggono sclerandomi in chat. Lov iu.
Alla prossima. Un abbraccio, Adam Angelica
  
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