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Autore: Melitot Proud Eye    22/11/2008    1 recensioni
«Allora, perché mi hai chiamato così? “Kenji” è “la via della spada”, hai dimenticato? Perché?»
Non è mai facile trovare il giusto mezzo. E bisogna fare attenzione a non perdere qualcosa d'importante nel tentativo.
[8-11-2011: inizio edit della storia - primo capitolo]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota dell'autrice: pronti per un'altra super-dose di angsts? Finalmente Kenji e Kenshin si rivedono! Sì, non ci sono andata leggera in questa fic XD ma neanche nelle altre, direi...
Ancora grazie a Killkenny per i suoi commenti <3




Capitolo IX
Quando le parole fuorviano





“La bocca è spesso causa delle calamità.”

Proverbio giapponese




L’alba.

S’illuminava il mondo, come l’acqua che lascia cadere le sue impurità.
Ma gli occhi dei suoi bambini potevano vederla? Avrebbe ritrovato Shinta e Kenji?
Kenshin si vestì con pochi movimenti meccanici, imitato da Kaoru, mentre Inoi dormiva nel terzo futon aggiunto su loro richiesta. Per nessuna ragione avrebbero lasciato sola l’ultima…
Abbassò un attimo le palpebre, distrutto. Quella notte erano crollati, ma avevano dormito sonni spaventosi.
Dovevano trovarli e mettere fine a quell’incubo.
«Kenshin.»
Abbracciò sua moglie senza neanche sforzarsi di sorridere.
«Per favore, sveglia Inoi. Io scendo da Aoshi.»
Quando fu arrivato al supposto cuore dell’organizzazione (per i clienti, l’ufficio del direttore, che nessuno vedeva mai) trovò il vecchio amico in compagnia di Misao.
«Himura!» esclamò lei «Sono vicini.»
Risvegliato da quello che sembrava un sonno millenario, il suo spirito combattivo pervase ogni più piccola fibra del suo corpo, svegliandolo.
«Dove
Quei bastardi.
«Sappiamo che gente sospetta è arrivata in città ieri» rispose Aoshi, in piedi accanto alla finestra. Dopo tutti quegli anni, indossava ancora gli abiti da Oniwabanshu. Era una visione in qualche modo confortante. «Sono possibili acquirenti. I miei uomini li stanno sorvegliando per vedere se prendono contatti. Il momento in cui lo faranno, sapremo dov’è tuo figlio.»
Avevano preso Shinta. Avrebbero pagato.
«E’ da parecchio che stiamo dietro a questo caso. Ma sono scaltri. Hanno usato il circo come copertura, di questo siamo sicuri.»
«Da parecchio…?»
«Sì. Un anno fa siamo stati contattati da Saito per una collaborazione. Pare che il governo da solo non riesca a risolvere.»
«Dopo tutti questi mesi a brancolare nel buio, ci credo» commentò Misao. «Se è difficile per noi, per loro deve essere impossibile.»
Kenshin guardò prima l’uno, poi l’altra.
La tensione adrenalinica s’era tramutata in bruciante delusione.
«Non possiamo aspettare che si tradiscano. In questo momento, Shinta―»
«Stiamo setacciando i boschi, Himura. Non è semplice, anche per chi li conosce.»
«Non posso starmene con le mani in mano.»
«Sei libero di muoverti. Dovunque tu sia, in Kyoto ti troveremo.»
Allora annuì e, fatto dietrofront, fece per uscire.
Ma dalla porta sgattaiolò dentro un garzone.
«Oh.»
Aoshi spiegò il foglietto che quello gli porgeva, lesse e Kenshin incrociò il suo sguardo freddo.
«Hiko dice che tuo figlio è in città. Crede che vi stia cercando.»
Non poté che sgranare gli occhi. Kenji? Cercarli? Voleva dire che finalmente tornava a casa?
«Dove?» fu tutto quello che riuscì a dire.
«Probabilmente la porta nord.»
«Già.»
Con ritrovata energia, girò sui consunti talloni dei sandali e uscì, diretto alla camera dove Kaoru vestiva Inoi.

Kenji scese dalla montagna di buona lena, aprendosi la strada tra sentieri e scorciatoie invase dalle erbacce.
Contro la sua schiena era legato quello che, a prima vista, sarebbe sembrato un semplice bastone, usurato dal lavoro, ma che in realtà era la sua spada a filo tradizionale. I tempi erano cambiati e, se dieci anni prima lo zio Yahiko poteva ancora uscire con la sakabato Shinuchi al fianco, ora certi strumenti bisognava camuffarli.
Raggiunse un punto più libero e ne approfittò per controllare la propria posizione.
Sì, come pensava: la porta nord era la più vicina.
Chiunque avrebbe usato quella, scendendo dal versante dove sorgeva la casupola di Hiko. Anche la porta est era abbastanza comoda, trafficata di carrozze come un boulevard parigino ― non che Kenji ne avesse mai visto uno, ma ormai aveva sentito tante volte l’espressione in bocca allo zio Sano da farla propria.
Suonava bene, non c’è che dire.
Il ragazzino mise le mani sui fianchi, storcendo la bocca.
Un obiettivo, un compito soltanto lo separava dal rivedere i propri genitori. Per quello, aveva bisogno di passare inosservato abbastanza a lungo da raggiungere il fabbro.
Usare la porta nord era fuori questione: solo un ingenuo avrebbe pensato di trovarla priva di sentinelle Oniwabanshu.
Certo, probabilmente il discorso valeva per tutte le entrate della città… ma cacciarsi nella tana del leone non andava bene comunque, no?
Per buona misura, sarebbe passato da est. Coprendosi la testa.
Raccattò un’ampia sciarpa dalla bisaccia di bambù, se la drappeggiò su quella che gli copriva le spalle, poi l’annodò e da dietro tirò un lembo fin sopra la fronte, cercando di tenere sotto la frangia.
Si accorse di avere qualche difficoltà. Il nodo che teneva a bada i suoi capelli era troppo morbido. La punta della sua coda spuntava da dietro, irriverente come quella di una volpe.
L’avrebbero sgamato subito. Magari anche prima di metter piede in città.
Sbuffò, strappando via la stoffa e sedendo su un tronco muscoso.
No, lì ci voleva una nuova sistemazione. Slacciò il sottile pezzo di stoffa che gli legava i capelli, lo studiò e prese una decisione.
Poco dopo riprendeva a muoversi, la testa ben coperta. Si notava appena il bozzo della coda alta, che usava a volte per allenarsi. Al massimo l’avrebbero scambiato per una ragazza un po’ timida.
Non che la prospettiva lo esaltasse.
Proseguì rimanendo a metà delle massicce colline, posizione che gli permetteva di scrutare Kyoto dall’alto.
Era quasi giunto a tiro dell’entrata quando si trovò davanti una ripa scoscesa. In fondo scorreva un piccolo torrente, gonfiato dalle piogge. Di saltare non se ne parlava.
Dovrò aggirarlo.
Andando verso il basso trovò una rupe.
«Maledizione.»
Risalire gli avrebbe rubato un sacco di tempo.
Ma s’avviò di buona lena, prestando attenzione a non incappare in altri pericolosi, nascosti imprevisti. Presto fu nel profondo del bosco.
C’erano molte erbacce, però si procedeva bene.
Balzò da un dosso fangoso all’altro.
Nel superare una piccola barriera rocciosa intravide un paio di baracche e storse il naso, colpito dalla puzza che ne proveniva. Dèi, allora c’erano altri disperati che vivevano da eremiti come quel pazzo di Hiko? Ah, correzione: adesso il maestro era benedetto dalla presenza di zia Okon. Per quello che era stato, adesso era un re con tanto di corte al seguito.
Bah.
Scorse una figura cenciosa e s’affrettò a proseguire. Dubitava di voler restare per un tè.
All’uscita dal bosco trovò un sole giovane a riverberare sulla melmosa, chiassosa porta orientale di Kyoto.
E all’improvviso si sentì piombare addosso tutta la tensione che lo scarpinare aveva attutito. Deglutì. Quanto tempo poteva avere, prima che gli uomini di zio Aoshi lo riconoscessero, portassero notizia di lui alla base e tornassero con la sua famiglia?
Forse venti minuti. Mezz’ora volendo essere generosi. La folla era ancora esigua, poche le probabilità di confondersi.
Venticinque minuti. Non chiedeva di più.
Per correggere un particolare che non gli aveva mai ispirato grande entusiasmo…
Poi sarebbe stato pronto.
Si pulì le mani sudate sugli hakama (dicendosi poi di non ripetere, perché dava nell’occhio), indi prese un bel respiro, si stabilizzò sulle gambe e sbucò all’aperto con passo tranquillo.
Forse sarebbe stato meglio trasportare qualche ciocco di legno ― di quei tempi era pieno di garzoni che la vendevano ― ma ormai era tardi.
Non importa.
Salutò le guardie con un educato cenno del capo.
Gli omoni vestiti all’occidentale lo fecero passare senza problemi; si sentì fissato a lungo e dovette reprimere un moto di stizza.
Ci scommetteva quel che voleva che l’avevan scambiato per una ragazza.
In gi e hakama, sporca di terra? Imbecilli.
Ma non era il momento di mandarli al diavolo: doveva essere il primo cliente dal fabbro.
Vi giunse con qualche difficoltà, confondendosi spesso nel moltiplicato numero di bivi e incroci (anche perché, pur avendo visitato spesso Kyoto, non era mai stato fisicamente dal signor Arai). Appena aperta la porta, la signora lo salutò con un sorriso.
«Buongiorno. Prego, entra.»
«Grazie.»
In quel momento ricordò una cosa: lei e il marito conoscevano suo padre.
Forse aveva meno tempo del previsto.

Negli stessi brevi attimi, in un’altra parte di Kyoto, un uomo dal volto zigomoso usciva dalle mura e le costeggiava per un tratto.
Era vestito di scuro, fatto comune per il popolo in tempi di duro lavoro. Le sue mani però, dondolate in modo ingannevolmente spontaneo, erano piene di calli.
E i suoi occhi più neri dello straccio che, legato con due spaghi, avvoltolava sulla sua schiena una lunga vanga.
Quando fu sicuro di non essere seguito, l’uomo tagliò per la boscaglia e sboccò nella zona di Rakuninmura.
Quella baraccopoli era stata sgomberata da anni, vicina com’era a una bella città in espansione. Ma quel giorno non era completamente deserta.
Si fermò.
Due facce spiacevoli sbucarono dalla capanna più vicina, accennando un asciuttissimo saluto.
L’uomo strinse le palpebre.
«Signori. Spero li abbiate in contanti, non facciamo più affari a parole.»
La sua voce era appena un sussurro.
«Lo sappiamo. Voi andate a… vanghe.»
Lui contrasse le labbra.
«Si lavora come si può.»

Aoshi aveva appena finito di stringere l’ampia cintura dei pantaloni, infilandovi le fedeli kodachi, quando un ragazzino entrò dalla finestra.
Era uno dei figli di Omasu, il migliore tra le nuove reclute.
Bene: se l’era sentito che il momento di concludere era vicino.
Accettò da lui il messaggio e scribacchiò due parole su un pezzetto di carta, consegnandoglielo.
«Portalo a Himura. Sai dov’è?»
«No, ma lo troverò.»
In un lampo il giovane Toga era sparito. Aoshi infilò il cappotto blu, uscì dalla stanza e andò in cerca degli altri (per modo di dire, visto che sarebbero stati loro a venire da lui).
La prima che trovò fu Okon.
«Sei tornata?» non poté esimersi dal chiedere. «Non vedo il tuo sgradevole marito, però.»
La donna gli rispose con un candido sorriso.
«Oh, è in cucina adesso. Sta facendo preparare la colazione per Kazuma, stamattina abbiam lasciato la montagna piuttosto di fretta.»
«Hm» rispose, proseguendo.
«Ha detto che parteciperà anche lui alla spedizione!»
La frase gli giunse già lontana, ma arrivò. E dannazione, avrebbe voluto essere più veloce.
Seijuro Hiko grattava sui suoi nervi come pochi altri.
«Misao. Li abbiamo.»

Kenji rinfoderò la spada con un movimento impacciato, percependo la differenza.
Pazzesco. Neanche due settimane e s’era già disabituato.
Lì ci sarebbe voluta pratica.
Sbirciò in direzione dell’orologio da parete e gemette tra sé. Ce n’era voluto del bello e del buono per convincere il signor Arai che non voleva un’affilatura, ma piuttosto il contrario. E adesso era tardi.
Riportò la propria attenzione sull’uomo e la moglie e sorrise, inchinandosi.
«Vi ringrazio infinitamente. Se mi dite il prezzo del vostro servigio, appena potrò―»
«Oh, non ce n’è bisogno» esclamò lui, grattandosi la nuca. «Davvero. Non posso dire di essere contento maneggiando spade, ma finché si tratta di un intervento simile, collaboro volentieri. Non mi devi niente.»
Fantastico.
Cercò di non mostrarsi troppo felice.
«Siete davvero gentili» e s’inchinò di nuovo.
«Sciocchezze» rispose la signora, muovendo per offrirgli un tè caldo. «Piuttosto, dicci, come sta tuo padre? E’ qualche anno che non lo vediamo.»
La domanda gli ricordò ciò che doveva fare ora e Kenji s’irrigidì.
«Ci farebbe piacere salutarlo» stava blaterando il signor Arai. «Prima che tu nascessi, ha salvato il nostro Iori… non lo ringrazieremo mai abbastanza.»
«Sono sicuro che apprezzerà il favore che avete fatto a me» affermò, la gola stretta. «Comunque glielo ricorderò. Adesso devo andare, grazie di tutto.»
«Ma―»
La torre cittadina rintoccava le dieci mentre Kenji attraversava di corsa il giardino, lontano dai loro convenevoli, sparendo nelle viuzze del centro storico.

La galoppata non gli distese i nervi come aveva sperato. C’era poco da fare, era teso.
Arrivato al grande momento, metteva tutto nelle mani del proprio coraggio… e scopriva che quello aveva le dita di burro.
Vibrò un pugno in aria, stizzito.
Ah, andiamo! Aveva davvero così poco fegato? Ma per favore!
Controllò il respiro, come Hiko gli aveva insegnato a fare se andava in battaglia; poi, calmatosi, proseguì verso il mercato.
Tempo di ricongiungersi alla famiglia.
Di confrontarla.
In realtà gli sarebbe bastato levarsi la sciarpa di testa ed entro cinque, dieci minuti al massimo un qualche Oniwabanshu non precisato avrebbe fatto il suo lavoro, portandolo dove doveva andare ― o portando chi voleva vedere direttamente da lui.
Ma era un metodo troppo radicale. Necessitava di più tempo.
Una bella camminata per Kyoto gli avrebbe rilassato i nervi.
«Se credi veramente in quello che fai, devi insistere. Parla a tutt’e due, e vedrai che da quel momento ti aiuteranno.»
«Spero che tu abbia ragione» mormorò.
Pochi minuti dopo, confusosi nel chiasso del mercato ortofrutticolo, li sentì.
Li riconobbe subito. Anche perché… erano davanti a lui, e gli venivano incontro.
Il cuore gli fece una strana capriola, scendendo nei piedi e rimbalzando nello stomaco.
Si voltò d’istinto verso la bancarella.
La sciarpa gli schermava il viso.
Calma. Andrà bene. Non se tu a essere in torto. O magari― ma non è questo il punto! Concentrati, prendi un bel fiato e fallo.
Ma invece di voltarsi si fermò ad osservarli, oltre il bordo del cappuccio verde.
C’erano suo padre, sua madre, sua sorella Inoi (certo Shinta dormiva ancora all’Aoiya) e lo zio Sano, vestiti da viaggio. Lo zio gli bloccava la visuale ― si spostò più vicino, sentendosi ogni battito cardiaco nelle orecchie.
Santo cielo, sembrava dovesse andare a suicidarsi.
Erano solo i suoi genitori.
E avevano un’aria terribile. Sua madre mostrava al mondo un viso pallidissimo, intorno a due occhi arrossati dal pianto, mentre suo padre guardava in giro stringendo forte la mano di Inoi. Fu assalito dai sensi di colpa.
Forse… forse si era davvero comportato in modo immaturo, scappando di casa.
Però ci sei stato tirato.
Certo lo avrebbero riconosciuto presto.
Ma avresti dovuto pensarci di più, forse.
Cosa gli avrebbero detto?
Nel giocherellare coi frutti del banco, pateticamente timoroso del confronto, colse qualche stralcio di conversazione.
«Dove sarà, Kenshin?»
La voce di sua madre era bassa.
«Qui vicino, ha detto Aoshi. L’hanno visto passare.»
Parlano di me.
«Dovrebbe mancare poco.»
«Lo spero.»
«Inoi, non allontanarti.»
«Kenshin, quando riavremo i nostri figli? Non ne posso più di aspettare…»
Uh?
«Kenji sta bene. E anche Shinta starà bene, vedrai» sussurrò suo padre, strozzato. «E’ mercato di schiavi: non si danneggia la merce prima della vendita.»
Uh?
«Non puoi esserne sicuro! Come fai a essere così calmo?!»
«Non sono calmo, Kaoru. Sto solo cercando di dare un minimo di sicurezza a nostra figlia.»
Kenji si ritrovò a fissarli apertamente.
Figli? Shinta? Mercato di schiavi? Di che diavolo stavano parlando?
Non erano lì per lui?
Perlustrò la via con gli occhi, certo di aver sentito male. Shinta sarebbe saltato fuori da un attimo all’altro.
Ma il quartetto continuò a restare tale, senza fratellino minore.
Un rivolo di sudore freddo gli colò lungo il collo.
«Quando pensano che succederà?» disse lo zio.
«Presto. Stanno seguendo uno dei loro nel bosco.»
«Perché non possiamo andare anche noi?» esclamò sua madre. «Shinta potrebbe―»
Suo padre la prese per le spalle. «Non si può.»
«Perché no!»
«Sarei voluto andare io per primo. Ma quando arrivano le notizie, gli Oniwabanshu sono già avanti.»
Sua madre singhiozzò.
«Riavremo il nostro Shinta, vedrai.»
Kenji smise di ascoltare, scioccato.
Shinta.
Rapito.
No…
Di punto in bianco ebbe una visione. Nella sua testa si scatenò un tifone plumbeo: un lampo gli mostrò la via di casa, a Tokyo, e Shinta accosciato davanti a un fiore. Un altro gli occhi di uomo, due pozzi neri. Un altro ancora, quell’uomo che passava guardandolo come se volesse squartarlo, scomparendo alla fine oltre l’angolo, ridendo della sua minaccia.
Le sue gambe persero forza.
Non poteva essere. Non poteva, lui era―
Era venuto lì proprio per poterli proteggere tutti, un giorno. A che serviva, se la sua famiglia―
Rivide il fratellino, sempre impegnato in qualche stupido gioco, tutto dolcezza e gioia.
Non lui. Per favore.
«Shinta.»
Ma era successo. Era così sconvolto che non vide neanche il gruppo muoversi. Sentì solo una spalla cozzare contro la sua, alcune parole di scusa.
Trattenne il respiro.
E’… passato, pensò. Mi ha urtato e non mi ha visto.
Né lui né sua madre né sua sorella.
«I boschi sono immensi, qui intorno. Saranno in qualche baracca.»
Erano venuti per lui, forse, ma avevano testa solo per Shinta. Come al solito, del resto. Si tenne per gli hakama, con la mascella incastrata.
Smettila. Hanno ragione. Tu sai badare a te stesso, Shinta no.
Si voltò del tutto, deciso a farla finita. Togliere quel peso avrebbe solo reso più facile la situazione.
Voleva dare una mano a trovare il suo fratellino.
Mentre cominciava a seguirli, accelerando, vide un garzoncello vestito in modo molto sobrio sbucare da uno dei vicoletti e prender suo padre per una manica. Lo riconobbe: l’aveva visto all’Aoiya. E se anche avesse avuto un qualche dubbio sul motivo della sua venuta, vedere sua madre, sua sorella e lo zio Sanosuke stringersi attorno a suo padre, che apriva un minuscolo messaggio, confermò tutti i sospetti.
«L’hanno trovato.»
Il suo cuore impazzì.
«Davvero?!»
«Sì. Ci aspettano alla porta est.»
«Andiamo allora!»
E Kenji, tra il felice e l’allibito, li vide partire di slancio.
«Aspe―»
«Ah!» la voce di sua madre coprì la sua. Lei s’era bloccata nel bel mezzo della strada, andando a sbattere contro un tizio.
Suo padre frenò.
«Muoviti, Kaoru.»
«Kenji! Dovrebbe essere qui!»
Non fu difficile distinguere la sorpresa sul volto dell’uomo. Il ragazzo si piantò le unghie nei palmi.
C’è Shinta, c’è Shinta, c’è Shinta.
Ma una sordida rabbia cominciò a farsi strada nel suo petto. Due figli mancanti, però Shinta era sempre al primo posto, eh?
Gli erano passati accanto senza riconoscerlo. L’avevano persino urtato. Ora li stava guardando in piena luce del giorno, il cappuccio storto, la faccia completamente visibile, e ancora non lo notavano. Eppure era lui quello che non vedevano da più tempo.
«La tua famiglia ti ama. Ti vorrà sempre accanto.»
Loro―
«Allora diglielo. Gridaglielo, se non vuole ascoltarti.»
Zia Okon aveva ragione, non doveva rinunciare così presto. Era importante. Voleva bene alla sua famiglia.
Accennò un altro passo.
«Dobbiamo cercarlo e andare con lui» stava dicendo sua madre. «Sono sicura che è qui, in una di queste vie» e si guardò in giro, agitata, mentre suo padre sembrava fatto di pietra.
Da questa parte. Guarda da questa parte!
«Aoshi non ci ha più detto niente. Non sanno dove sia.»
«Aveva detto in città, in centro!»
«Kyoto è grande, Kaoru. Potrebbe essere a chilometri da noi.»
Dove voleva arrivare…?
Zio Sano sembrò chiedersi la stessa cosa, ma si finse estraneo, stranamente a disagio.
«Avanti, Kenshin!»
«Kaoru. Venderanno Shinta questo pomeriggio.»
«Ah
«Il posto è lontano. Non abbiamo tempo.»
Lontano.
«Dobbiamo andare subito.»
«Ma… Kenshin… e Kenji?»
Le labbra di suo padre si tramutarono in una linea, fino a scomparire. Nello stesso momento Kenji sentì i suoni della strada attutirsi.
Alla fine, dopo una pausa soffocante, suo padre buttò fuori due parole, le mani che tremavano contro i fianchi.
«Prima Shinta.»
Sua madre parve divisa, poi scosse la testa. «No. Kenji è qui, lo voglio
Lui la trattenne per un braccio.
«Prima volevi Shinta. Sai bene chi è più in pericolo. Kenji può aspettare.»
Ogni sillaba era un ago di ghiaccio.
«Voglio entrambi i miei figli!»
«Allora dividiamoci!» sbottò Kenshin, lasciandola andare. «Basta con le discussioni. Non c’è motivo per andare insieme. Tu cercherai Kenji. Io andrò con Aoshi, a salvare Shinta che potrebbe esser mezzo morto di freddo
Sua madre sbiancò, le guance rigate di lacrime silenziose.
«Non mi merito questo» disse. «Anche Kenji è importante.»
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Il ragazzo vide suo padre indurirsi come una radice; per un istante pensò che sarebbe stramazzato al suolo.
«Non ho tempo, adesso, per quel ragazzo e le sue stronzate sull’Hiten!» Parecchia gente si voltò, costernata dal volume della sua voce. «Se fosse stato ragionevole e non fosse scappato di casa, non saremmo in questa situazione! Invece no, ha dovuto essere testardo, fino all’ultimo! E ora Shinta rischia la vita. Sarà traumatizzato a vita!»
Basta.
Kenji si voltò, rapido. Aveva sentito abbastanza.
Abbastanza…
Ma si mosse troppo in fretta e cozzò contro qualcuno, mandandolo a terra.
«Oh, scu―ah.»
Gli occhi di sua sorella lo inchiodarono dal basso, grandi, trasparenti.
Cristallizzò sul posto.
Quando s’era mossa?
Perché spalancava la bocca?
Perché non le diceva di stare zitta?!
«Kenji

Lo strillo attraversò la via e Kaoru smise di parlargli.
Kenshin levò la testa di scatto, torse il collo e lo vide. Suo figlio era lì, a pochi passi da loro.
Con una sciarpa scivolata sul collo a scoprire i brillanti capelli rossi e Inoi ai piedi, caduta. Lo guardò con un moto di sollevata, avida disperazione, notando che sembrava in salute.
Stava bene. L’avevano trovato.
Ma, quegli abiti…?
«Kenji-chan!» gridò ancora Inoi, alzandosi con foga.
Assistettero ammutoliti all’agile balzo del ragazzo, che si mise fuori portata della sorella.
«Kenji. Kenji!» esclamò Kaoru, avanzando.
La gente mormorava.
«Hey voi, che avete da guardare? Smammate» esclamò Sanosuke.
Lo sguardo pallido di Kenji non li sfiorò neanche. Era puntato su di lui, suo padre, accusatorio e ferito.
Sembrava sul punto di dire qualcosa, poi ci ripensò. Prima che Kaoru potesse scattare per catturarlo e abbracciarlo, il ragazzino sparì.
«Kenji!»
Solo grazie alla vista pronta e allenata Kenshin poté cogliere un barlume di verde, verso la fine della strada. E scattò.
Le case cominciarono a passargli accanto, assieme alle persone che si ritraevano tra lo spaventato e il confuso, in un caleidoscopio di colori. La sensazione familiare dell’inseguimento lo avvolse. Incontrò molti bivi, sempre più larghi, meno affollati.
Si stava allontanando dal centro.
«Kenji!» chiamò. «Aspetta!»
Era veloce. Più veloce di quel giorno alla radura. Questo poteva significare solo una cosa: Hiko lo stava istruendo.
Col passare dei minuti il suo corpo cominciò a diventare sempre più fiacco, sempre più difficile scorgere il movimento che indicava la direzione di Kenji.
L’avrebbe perso!
Lo chiamò ancora, rallentando.
Un attimo.
Si guardò intorno e riconobbe alcuni edifici: lui conosceva bene quella zona… qui, decenni prima, la spada di Battosai aveva colpito più di una volta.
Sorrise amaramente al crudo presagio. Ma ora, forse quel ricordo avrebbe potuto aiutarlo.
Tornò indietro per un tratto e, facendo appello a tutto il proprio fiato, saltò il muricciolo che individuava dall’altra parte un vicolo cieco.
Da lì, con poche rapide svolte, giunse presso la zona residenziale più bella, quella dei giardini e delle case laccate.
Udì i suoi movimenti ancora prima di girare l’angolo.
Aveva visto giusto.
Suo figlio andò quasi a sbattergli addosso: sbarrò gli occhi, mandò un’esclamazione e si contrasse violentemente per saltare indietro, sfuggendo alla sua presa.
Nessuno disse niente. Kenji indietreggiò ancora.
Kenshin sentì un coltello straziargli il cuore e incidervi parole senza nome. Eccolo, il suo irruento, testardo, maleducato ragazzo.
Era in piedi davanti a lui, appena piegato in avanti, vestito di nero, i capelli raccolti alti sulla nuca… l’immagine vivente dell’assassino che aveva macchiato le strade di Kyoto trent’anni prima, che lui stesso aveva eliminato.
E quella che portava sulla schiena, non più celata dalla sciarpa―
«Kenji.»
Una spada vera.
Si misurarono, scossi dagli ansiti.

Kenji era convinto di averlo seminato quando entrò nel quartiere nobiliare. Rallentò, congratulandosi per aver reagito così alla svelta.
Non ce l’avrebbe mai fatta a confrontarli, ora.
Non gli sarebbe uscita una parola.
A dire il vero, non gli usciva neanche un pensiero. La sua testa era un calderone amorfo e grottesco.
Attraversò al trotto la via, progettando vagamente di tornare alla montagna, o almeno di trovarsi un buco dove riflettere. Doveva farlo…
Svoltò l’angolo.
Accecò all’istante.
Ostacolo.
Il tempo rallentò mentre il suo corpo reagiva inchiodando, flettendo le ginocchia e fiondandolo indietro, a cinque metri di distanza.
Giusto in tempo per non andare a sbattere.
Per non essere preso, corresse la sua mente, inviando segnali d’allarme più complessi.
Era suo padre. L’aveva raggiunto.
Impossibile.
Fece alcuni passi indietro, ansimando forte per lo spavento. L’aveva preso di sorpresa. Non se l’aspettava. Ma come…? Un’occhiata ad alcuni punti di riferimento gli rivelò la verità.
Ah. Aveva quasi girato su se stesso. Maledizione. Aveva dimenticato che suo padre conosceva Kyoto meglio di lui, ma non avrebbe mai pensato che avesse tanta energia in corpo.
Beh, lui si allena, Kenji.
Il pensiero e la sua voce misero in moto tutti gli ingranaggi e perse la paradisiaca ignoranza data dallo shock.
Strinse le palpebre, riprendendo ad arretrare.
L’espressione di suo padre era contratta.
Hah. Era sopraffatto dalla compassione, proprio.
«Kenji… non scappare più. Per favore.»
Pur odiandosi per quell’atto di codardia, il ragazzo puntò il naso altrove, lasciando appena uno spiraglio tra le ciocche di capelli per controllarlo.
«Stai sprecando tempo. Vai a prendere Shinta.»
Cazzo. Gli tremava la voce.
«Allora hai sentito tutto. Sei davvero la persona con cui mi sono scontrato alla bancarella.»
Al diavolo tutto. Doveva scappare.
Fece per scattare, ma se lo ritrovò misteriosamente davanti.
«Non farlo. Adesso parliamo, vuoi? Per favore.» Sembrava disperato.
Però in realtà era lui quello disperato, pensò Kenji, stringendo i denti. Era lui ad esser stato finalmente rifiutato, dopo una vita di distanze.
Pensandoci, in quelle settimane erano venute a galla tante cose, tanti particolari penosi. E che cos’aveva fatto di male? Voler bene alla sua famiglia? Voler proteggere i suoi fratelli e seguire una passione ben controllata dalla ragione?
«Lo sai che non intendevo in quel senso, quando ho detto di cercare prima Shinta. Hai una vaga idea della situazione? Hai pensato cosa dev’essere per lui stare lontano da casa, in mano a gente che lo colpisce e lo maltratta e lo venderà ad altri schiavisti? Io ci sono passato.» Suo padre pareva sul punto di crollare. «Quando avevo otto anni sono stato rubato dal letto di morte dei miei genitori e portato via, completamente indifeso finché non mi ha trovato il maestro.» Stava alzando di nuovo la voce. «Lo sai, te l’ho raccontato quand’eri piccolo! Ma allora, come fai a non capire? Come ti permetti di pensare che io o tua madre non ti amiamo nel momento in cui cerchiamo di salvare tuo fratello? Lui non ha la tua spada o la tua forza!»
Quelle cose le sapeva benissimo, sì.
Ma checché dicesse zia Okon, ormai era convinto.
Gli scappò una risatina, poi deglutì per evitare che si tramutasse in un singhiozzo.
Non era così patetico.
Suo padre parve sconcertato.
«Volevate trovarmi a tal punto» disse, sempre guardando la fine della strada «che non vi siete neanche accorti quando mi siete passati accanto. O quando mi sono avvicinato, col viso scoperto, visibilissimo.»
«Kenji―»
«Oppure quando vi ho chiamati―»
«Non ci hai chiamati.»
«Sì invece. Mentre tu correvi via e la mamma ti fermava.»
Non aveva più molto tempo. Doveva chiudere in fretta.
Prima però voleva sapere.
«Dimmi, è perché sono il tuo ritratto? O per il mio carattere?»
«Che… cosa?» sussurrò suo padre.
«Sì, dev’essere per il mio aspetto. Uguale nel corpo, uguale nel destino, no? Anzi» s’interruppe, colto da un’intuizione «dev’essere tutta colpa dell’Hiten. Già, è per quello che mi hai sempre tenuto a distanza, in un modo o nell’altro.»
«Tenuto a distanza?»
«Ma sì, tu odi quella tecnica. Ora che ci penso è fin troppo evidente. Hai dimenticato che ti ha permesso di proteggere le persone che ami, che è nata per proteggere, alla faccia di tutto quello che dice Hiko, e che non è detto che “quattordicesimo maestro” equivalga a “quattordicesimo assassino”!»
Si accorse solo ora di aver urlato.
Questo, invece che schiacciare ancora di più l’uomo che aveva davanti, lo risvegliò.
«Kenji… io ho ucciso con quella tecnica.»
«Era tanti anni fa, in guerra!»
«L’uomo è sempre lo stesso.»
«Ma i tempi di pace vengono.»
«No, tu non capisci. La violenza chiama la violenza. Il kenjutsu è l’arte dell’assassinio. Non sto dicendo che tu sia cattivo, Kenji, non c’è bisogno di essere cattivi. Io ho imbrattato queste stesse strade di sangue credendo di fare il bene, il futuro del Giappone!» Venne verso di lui. «Non ti ho tenuto distante da me! Ti ho tenuto lontano da una cosa pericolosa, che può solo farti del male.»
Il ragazzino lo guardò dritto negli occhi, sperando oltre ogni speranza di farsi capire.
«Allora, perché mi hai chiamato così? “Kenji” è “la via della spada”, hai dimenticato? Perché?»
Suo padre parve sorpreso.
«Io e tua madre… pensavamo al Kamiya Kasshin. Non certo all’Hiten.»
Se solo fosse riuscito a farsi capire.
«Ma è una parte di te.»
Il volto di suo padre intristì. «Credi che ne sia felice?»
«Dovresti, visto che è grazie alla spada che ora hai tutto quello che hai.»
«Allora per te il fine giustifica i mezzi.»
«No. So solo che l’Hiten non ti ha portato solo tragedie.»
Quello lo fece esitare. «Hai ragione. Ma dimentichi una cosa importante» i suoi occhi erano severi ― lo chiudevano fuori come un muro «per arrivare qui, ho fatto esperienze che non augurerei al mio peggior nemico; men che meno a mio figlio. La Bakumatsu, Tobafushimi, l’Hiten Mitsurugi ― che è poi la causa di tutto ― mi hanno lasciato cicatrici fisiche e mentali che non mi abbandoneranno mai. Solo te, tua madre e i tuoi fratelli le rendete accettabili.»
Tutto quel parlare di spade e guerra rinfrescò a Kenji la memoria.
«Allora perché pratichi ancora?»
«No io―cosa
Affondato.
«Ti ho visto, sai? Nel boschetto del Tempio. Tante belle parole e poi…» Sarcastico, incrociò le braccia anche se aveva voglia di piangere. «Oltretutto eri così lento che avrebbe potuto superarti una farfalla. Che pena. Lo facessi io, la mamma e Inoi e Shinta sarebbero più al sicuro.»
Suo padre ci mise un po’ di più a recuperare, stavolta.
Il suo viso mostrò i chiari, rarissimi segni della collera.
«Già, così al sicuro che ora Shinta è sparito.»
Kenji avrebbe voluto darsi un pugno in faccia.
«Io ho smesso davvero di praticare per anni, a causa della mia salute ― e poi per proteggere te. Preferivo evitarti una passione malsana. Ma sei diventato un piantagrane lo stesso, allora, per poterti difendere in un altro modo, pian piano ho ricominciato.» I suoi occhi irradiavano rabbia e dolore e… amore. «Avevo giurato di rimediare ai miei errori difendendo la gente, ricordi? Ti sembra ipocrita riprendere la spada?»
Sembrava attendere un suo diniego. Una conferma.
«Per te.»
Prima di tutto per lui.
«Kenji, torniamo a casa. Riprendiamoci Shinta e torniamo.»
Kenji esitò, diviso fra sensazioni contrastanti.
«Può darsi che non voglia capire, ma anche tu sei in torto. Conosci i suoi motivi.»
Non avrebbe rinunciato all’Hiten Mitsurugi. Ed era stato messo per secondo ― ma… un attimo, era davvero così? Avevano atteso tanto per venire a prenderlo a causa del rapimento.
«Io…»
Ora lo cercavano. Lo volevano.
Riprenditi. Avanti, riprenditi.
Suo padre cominciò ad avvicinarsi.
«Io voglio restare da Hiko» disse, lasciandosi quasi toccare.
Il volto di suo padre scurì.
«No.»
Kenji balzò indietro, scottato. «Allora vattene da solo! E’ così difficile accettare che è quello che voglio?! La via della spada ― qualunque stile mi piaccia!»
«Tu puoi ancora uscirne, sciocco ragazzo! Prima che ti succeda qualcosa.»
«Oh, piantala. Non mi succederà niente.»
Cominciò a slegare i muscoli delle gambe, pronto allo scatto. Vide gli occhi di suo padre cogliere il movimento; anche la sua postura si fece più morbida, pronta a qualunque mossa.
«Non farlo, Kenji.»
«Se ci tieni così tanto, accettami per intero.»
«Non con l’Hiten.»
Ah. Ah, non c’era proprio niente da fare.
Fletté le ginocchia, soffocato da un peso lacerante.
«Non è me che vuoi, allora.»
E in un attimo era dentro il giardino di una delle ville, oltre il muro di cinta. E via.
Vedendo a malapena dove andava.



   
 
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