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Autore: Ornyl    18/01/2015    0 recensioni
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prendevo il calesse ogni mattina, prima del sorgere del sole. La città non era lontana nemmeno per una viaggiatrice silenziosa e solitaria come me, con lo sguardo perso sulla strada davanti e la borsa sul grembo. Ma quel viaggio era necessario, diceva papà.
Mamma era malata e la signora l'aveva cacciata, mentre papà faceva gli straordinari per procurarle le medicine. Mia sorella maggiore Helen le sarebbe stata al capezzale, io sarei andata in città a lavorare. Ma quel lavoro era necessario, diceva papà.
Una segretaria in uno studio medico, questo sarebbe stato almeno per ora il mio posto.  L'aiutante di un luminare di città a cui sarebbe bastata come aiutante una ragazzetta di campagna capace di leggere, scrivere e far di conto. Papà conosceva il nostro futuro benefattore tramite il suo giardiniere, un nostro lontano cugino: era un certo Lord Albert Lloyd, un medico, appena rimasto vedovo. L'idea di andare a lavorare per un tipo come lui mi spaventava e divertiva insieme, soprattutto dopo aver sentito le storie che circolavano sul suo carattere: dicevano, al paese, che Lord Lloyd fosse cupo e scontroso come un orso, e l'improvvisa vedovanza aveva forse acuito la sua pessima indole. Per una ragazza certo non sarebbe stato conveniente andare a fargli da segretaria. Ma quell'impiego era necessario e mi sarei accontentata di buon cuore anche se fosse stato il diavolo in persona.
Lord LLoyd abitava e lavorava in un gigantesco palazzo del quartiere elegante, una grande villa bianca come marmo e con le imposte delle finestre d'ebano. Quello era un mondo lontano che io non ignoravo ma non conoscevo, opposto al mio paesello di casupole basse e cadenti, e quando per la prima volta il calesse si fermò davanti al cancello di villa Lloyd anche il mio cuore parve bloccarsi insieme alle ruote. Lord Albert mi attendeva davanti la porta, scortato da una domestica rossa e panciuta come una mela, e mi scrutava con sguardo severo e indagatore. Appena scesi, i miei occhi incontrarono i suoi e mancò poco svenissi:con severità e durezza il suo sguardo accigliato, incorniciato da spesse sopracciglia nere, con quegli occhi verdastri e serpentini, mi stava piantato in fronte e non si scostava. Non pareva felice di aver accolto una ragazza così giovane e sciocca in casa e, appena mi inoltrai sul vialetto di ingresso, egli, dalla sua postazione, simile ad un terribile giudice, iniziò a parlare.
-Siete appena arrivata, Sylvie, e vi offro il mio più caloroso benvenuto. Già qualcosa ci lega- biascicò togliendosi il sigaro dalle sottili labbra, circondate da una folta e grigiastra barba-Voi avete la necessità di lavorare per comperare le medicine di vostra madre, ed io ho la necessità di accogliere in casa mia una ragazzina perchè, con l'avanzare dell'età, non riesco a raccapezzarmi più con il lavoro-
La domestica mi lanciò un sorriso maternamente imbarazzato e prese la mia borsa.
-Suvvia, signore, non siete così anziano! E la fanciulla farà al caso vostro .. Vieni cara, accomodati pure-
Lord Albert continuava a guardarmi di sottecchi, con le labbra arricciate intente a creare anelli di fumo. La donnina aveva ragione, non pareva poi tanto vecchio, ma il suo terribile e gigantesco aspetto lo faceva apparire più anziano e spaventoso di quanto, forse, in realtà fosse: era alto almeno cinque spanne in più di me, e altrettanto larghe parevano le sue spalle, strette nella sua giacca di tweed oliva. I capelli, corti fino alle orecchie, non erano ancora radi come negli uomini in età ma luminosi e folti come quelli di un ragazzo, seppur attraversati da alcuni fili d'argento. Le grandi dita tenevano in mano un portasigari d'oro su cui cadde il mio occhio e, appena notai questo particolare, si strinsero in pugni minacciosi. Nemmeno la fede brillava tra di esse: eppure zio Charles, che era vedovo, portava comunque la fede dopo anni dalla morte della mia amata zia. Diceva che fosse un pegno d'amore eterno. Il cuore mi si strinse e pensai all'evanescente figura della sua trapassata consorte, per niente amata da quell'omone spaventoso.
-Non temete, signorina mia, e non accusatemi di incoerenza guardandomi fumare- disse in un tono falsamente paterno mentre mi introduceva in casa- Ognuno ha i propri vizi, e ad essi cede a prescindere dalla sua posizione. Ma non è ancora tempo di farvi paternali .. I pazienti arriveranno a breve, signorina. Considerate questa mattina come una prova. E un'altra cosa- disse prima di sparire dietro la porta del suo studio- Non sono avvezzo a parlare con .. le donne. Soprattutto con quelle giovani-
-E vostra moglie? Non era forse una donna, che Dio l'abbia in gloria ?-
Ma aveva fortunatamente chiuso la porta. Essa sbattè violentemente e fece tremare un quadro appeso nell'atrio e coperto da una spessa stoffa nera. Mi avvicinai per vedere cosa celasse, ma la donnina mi bloccò con un urlo.
-No, signorina cara! Non osate vederlo! Vi basta sapere che è il ritratto di sua moglie .. Poveretta, quanto abbiamo pianto per lei!- il suo tono si fece più basso e si avvicinò al mio orecchio- Questo orso non è nemmeno andato al funerale della nostra signora! E ora vuole eliminare tutti i suoi ritratti .!-
La porta dello studio si aprì di colpo e lord Lloyd ci sorprese, lanciandoci uno sguardo di fuoco.
-Nora, torna a lavorare. E voi, signorina, seguite il suo esempio e recatevi in sala d'attesa-
Le sue parole erano fredde e dure, e il pensiero andò subito alla signora Lloyd. Mi domandai da sola chi fosse e, recandomi a passi lenti alla mia nuova postazione, quasi desiderai che la casa mi parlasse per descrivere le sofferenze di quella povera donna andata in moglie ad un mostro del genere. Entrai nel mio studio e mi sedetti alla mia postazione, e quasi mi parve che qualcuno chiamasse il mio nome. Poi la porta si aprì e Nora introdusse il primo paziente della giornata.

Eppure, nonostante il suo carattere, presto riuscii a convincerlo delle mie capacità nel giro di poche settimane. Mi impegnai a fondo per essere affidabile e responsabile. scrupolosa amministratrice dei conti di fine giornata e dei certificati e attenta alle esigenze dei pazienti. Quasi quasi dottor Albert mi fece i complimenti per aver dato al suo studio medico un "tocco femminile e casalingo" e, dunque, mi concesse dei regali: un aumento dello stipendio, libri da leggere, momenti di pausa durante la giornata. Il miglior regalo giunse in primavera: casa LLoyd aveva un grande e curatissimo giardino sul retro, rigoglioso e verde come quello dei grandi parchi di città. Era una piccola tenuta piena di alberi e aiuole, ombreggiata da salici lussureggianti e siepi dalle strane e fantasiose forme. Ecco che quindi, nei miei momenti pausa, il dottore mi lasciò rilassare nel suo paradiso silvestre. Ero giovane, diceva, e muovermi e passeggiare mi avrebbe reso più forte e bella di quanto già fossi; il suo giardino sarebbe stato la mia palestra, dove sarei stata libera di camminare e, se lo avessi voluto, correre e sonnecchiare come una fanciulla, senza alcun disturbo da parte sua o di alcuni.
Lord Albert restava nella sua stanza a studiare, io riposavo in giardino per mezz'ora. Era uno spettacolo caldo e familiare nelle ore della tarda mattinata, che mi ricordava peraltro casa, e tanto ero felice di quella miracolosa concessione che le sue domestiche quasi mi invidiavano e i pazienti mi scambiavano per una sua figlia segreta. Le mie passeggiate furono solitarie fino ai primi di aprile e, una mattina, qualcosa di lontano, nascosto oltre le siepi, colpì la mia attenzione. 
Stavo camminando tra i fili d'erba e le aiuole, sfiorando quel dolce verde con le punte delle dita, finchè, alzando gli occhi, vidi avanzare una figura in abito da passeggio. Mettendo a fuoco tra i raggi del sole che mi colpivano gli occhi, inquadrai una giovane donna, forse mia coetanea, muoversi verso di me. Ella indossava un abito azzurro chiaro, leggermente scollato sulle spalle e molto simile ad una sottana, ma coperto da una mantella blu scuro dai ricami d'oro. La pelle, bianchissima e levigata come se fosse fatta di marmo, cozzava con i riflessi sanguigni dei suoi lunghissimi capelli, lasciati sciolti in maniera infantile e curiosa: proprio ciò che in un'altra donna sarebbe apparso volgare, in lei era incredibilmente delicato ed elegante. I suoi occhi nerissimi, grandi come pozzi, spiccavano su quel viso eburneo e ovale, morbido come quello di un bambino, e mentre le sue rosse labbra mi sorridevano, le bianche mani tenevano il manico del suo parasole di pizzo. La sconosciuta mi venne incontro dolcemente e lentamente, a piccoli passi silenziosi, quasi fluttuasse in aria, e iniziò a parlare.
-Davvero non esiste nessuno che non riesca ad apprezzare il giardino di casa Lloyd. Proprio nessuno!- e con una vezzosa moina fece ruotare il parasole.
Era praticamente impossibile entrare in giardino scavalcando il cancello, e fui tentata di urlare per richiamare l'attenzione e far cacciare la sconosciuta. Non sembrava però una donna di bassa condizione, venuta lì per rubare, e il suo sorriso era troppo dolce e buono per nascondere alcun male. Decisi di chiederle il nome ed ella ridacchiò vezzosamente.
-Io dovrei chiederlo a voi, mia giovane sconosciuta. Vaghi per questi giardini da qualche tempo ormai, e son venuta ad incontrarti! Non aver paura di una come me, presentati e ne sarò felice!-
-Il mio nome è Sylvie, signora. Sono la nuova segretaria di Lord Lloyd. Egli stesso m'ha concesso di passeggiare nel suo giardino- tentai di avere un tono duro, ma la mia voce non la spaventò nè la irritò. Ella non poteva davvero farmi alcun male.
-Oh, Lord Lloyd! Egli ama circondarsi di belle fanciulle!- e rise rumorosamente, portandosi una mano alle labbra-Ecco perchè m'ha abbandonata! Povera Manon che non son altro!-
Il suo nome era dunque Manon e quasi fui sollevata dal conoscere la sua identità. Mi porse dolcemente il braccio e mi portò sotto il parasole.
-La solitudine è terribile sempre, ma soprattutto alla nostra giovane età: invecchia ed imbruttisce le belle fanciulle! Mia cara Sylvie, son contenta di avervi conosciuta. Siete l'unica donna di Lord Lloyd che possa starmi simpatica!-
-Non son la sua donna .. Manon! Lavoro per lui e basta!-
Il sole toccava le sue braccia nude e marmoree e faceva brillare i suoi occhi di luci fantasmagoriche. Tanto era pallida che i raggi parevano attraversarla! La osservavo dalla testa ai piedi in silenzio, stupita da quello strano incontro: dava l'aria d'essere un'amante di vecchia data del dottore, forse da lui abbandonata, e quasi odiai il mio benefattore per aver ferito una donna così bella. Eppure ella non pareva odiarlo nè pareva odiare me ed esserne gelosa, ma il suo sguardo e la sua serafica espressione facevano trasudare dolcezza e simpatia.
-Ne ebbe tante? Davvero?- chiesi incuriosita.
-Oh, tantissime! Non hai ancora subito il suo fascino!- e a ridere fui io. Lord Lloyd non era bello di certo, col suo pancione e l'aria torva!
-Ammiro e rispetto il mio benefattore, ma bello di certo non è! E pare così anziano!-
Manon mi lanciò uno sguardo tristemente malizioso.
-Devi solo attendere, mia ingenua e dolce Sylvie. Il dottore ama le donne del tuo stampo, e in poco tempo sarai sua .. Proprio come lo son state, anche se per poco, tutte le donne con cui ha avuto a che fare!-
Subito finì la mia mezz'ora di pausa e decisi di rientrare. 
-Oh, già vai via? E allora domani t'attenderò, sempre alla stessa ora .. Ma devi farmi una promessa, Sylvie-
-Dimmi, Manon-
-Non fare il mio nome al padrone, ti prego. Egli non deve sapere che sono qui, anche se non intendo fargli alcun male nè farlo a te! Ma, comprendimi .. Questo giardino mi ha lasciato così tanti ricordi!-
Le sorrisi e la guardai negli occhi: no, non v'era cattiveria in essi. Solo una dolce malinconia, tanto brillavano ancora di lacrime sprecate per un uomo così rozzo.
-Lo farò, Manon. A domani!-
E proprio l'indomani, la ritrovai lì. Ed ero stranamente felice di parlarle e di starle accanto, quasi avesse capito quanto soffrivo la solitudine in una città che non conoscevo. Forse era compresa nelle sorprese di ringraziamento che mi aveva concesso il dottore, forse era un miracolo, forse il mio desiderio di avere un'amica in città s'era arrivato, ma poco ormai importava da dove venisse e chi fosse Manon. Mi bastava sapere che fosse una vecchia amante del dottore che non serbava alcun rancore, nonostante fosse stato così crudele con lei, e mi bastava vedere quei grandi occhi e quelle manine roteanti per sollevarmi. Ecco che così la mia dolce Manon divenne la mia più cara e paziente confidente, scoperta e conosciuta in quel giardino da fiaba.

I mesi passavano e giunse, tiepida e aranciata, l'estate. E Manon, la mia dolce Manon con l'abito color del cielo, era sempre lì ad attendermi. Non solo era la donna più cara che avessi in città, nella quale ormai lavoravo da quasi un anno, ma aveva previsto qualcosa di inaspettato e per me terrificante: col passare del tempo e la pratica quotidiana avevo sviluppato una sorta di ammirazione nei confronti del mio benefattore, sempre intento ai suoi studi e attento ai malanni stagionali dei pazienti, con quelle grosse mani che armeggiavano strumenti e libri polverosi; codesta ammirazione s'era tramutata, almeno così io sentivo, in amore, e ciò mi terrificò ed elettrizzò allo stesso tempo: ogni qualvolta che poggiava le grosse dita sulla scrivania su cui lavoravo e tenevo i conti, io tutta avvampavo ed egli mi sorrideva, con quelle sottili labbra da bambino dispettoso. Egli forse aveva già inteso e forse aspettava che io mi innamorassi di lui in modo da sedurmi e traviarmi come aveva fatto con le altre, ma cercai di mantenere sempre un atteggiamento freddo nonostante il mio volto si facesse di mille colori ogni volta che la sua grande ombra incontrava la mia.
-Ah, dunque abbiamo una fanciulla innamorata!- sorrise senza cattiveria Manon appena glielo confessai- Te lo dicevo io! E come intendi comportarti?-
-Io lo chiedo a te, mia cara! Voglio che mi noti, che si accorga dei miei sguardi adoranti! Eppure ..-
-Eppure?-
E le confidai i miei timori.
-Non voglio esser sedotta e abbandonata, mia cara Manon! Voglio essere sua, sua per sempre, e sempre al suo fianco!-
Manon mi strinse dolcemente la mano e per un attimo tacque. Il suo sguardo si diresse lontano, oltre i salici ondeggianti, e i suoi occhi brillavano di lacrime. Ebbi il timore di aver risvegliato in lei gli antichi ricordi dolorosi e mancò poco piangessi anch'io, ma subito si voltò verso di me sorridendo amabilmente.
-Non accadrà questa volta!- e si alzò in piedi continuando a stringermi le mani-Tu, dolcissima e bionda Sylvie, lo metterai sulla buona strada! E' ora per quell'orso di accasarsi!-
-Di accasarsi!- arrossii tutta e Manon ridacchiò rumorosamente-Sicuro? Me lo confermi? E la sua povera moglie?-
Manon si voltò verso di me con espressione seria e parve quasi piangesse.
-E' come se non si fosse mai sposato, in realtà. Odiava quella poveretta più della morte-
Manon mi consigliò per filo e per segno cosa si dovesse fare per conquistare un uomo come il dottore: apparire serie e composte, intente al lavoro, servizievoli e all'occorrenza attente ai suoi discorsi. Nei momenti di pausa, mi disse, di restare con lui a trattar dei suoi argomenti: lo avrebbe sicuramente colpito e sarebbe stata un'occasione per star insieme a lui, quasi marito e quasi moglie. Manon mi disse di comportarmi in tale foggia per qualche tempo e, appena ci sarebbero stati cambiamenti, avvertirla. Non attesi molto prima di comunicarglielo: il dottore cominciava ad osservarmi, mi faceva trovare piccoli regali sulla scrivania e mancò poco che, prima di finire la mia giornata lavorativa, mi chiedesse di ballare per lui mentre suonava al piano! 
Manon sorrideva e mi abbracciava quando le raccontavo tutto, senza mostrare segni di invidia o gelosia. Eppure i suoi grandi occhi parevano spegnersi ogni giorno di più, e così la sua pelle che da eburnea si faceva grigiastra e fredda come quella di una morta. Temetti per la sua salute e le chiesi se fosse davvero sicura di voler sentir parlare delle mie giornate col dottore, ma ella sorrideva e mi spingeva a raccontare per filo e per segno.
-La tua felicità è la mia, mia cara Sylvie- diceva stringendomi le mani- In amicizia non esiston rancori. La tua favola si avvererà presto-
E così fu. Una sera, prima di prendere il mio calesse, il dottor Albert mi si avvicinò e mi chiese la mano: piangeva come un bambino, poveretto, e la sua aria minacciosa e terribile pareva affievolirsi mentre lo osservavo dal basso con l'anello tra le dita e la grande fronte imperlata di sudore. 
-Sì, mille volte sì!-
E fu quello il mio primo bacio, e forse il suo milionesimo. Chissà quante labbra avevano sfiorato le sue, chissà quanti fianchi avevano posseduto le sue braccia, chissà in quale misura e contesto, che fosse Manon o che fosse la sua sfortunata moglie trapassata. Ma ora Albert era mio, tale come ero per lui, e la sera stessa volle accompagnarmi a casa per chiedere la benedizione dei miei: papà quasi pianse dalla gioia, Helen mi baciò sulla fronte e mamma, nel giro di qualche giorno, finalmente guarì.

Io e Albert ci sposammo in città e fu il coronamento di un sogno. Albert aveva pagato di tasca sua il confezionamento del mio abito e il mio corredo venne subito portato in casa sua: ero la nuova signora Lloyd, moglie e amica del dottore, sua più onorevole compagna. E la sua anima era mia, mia soltanto, e lo stesso valeva per lui. Eppure, un'unica nuvola offuscò quel giorno: Manon non c'era. Nonostante la conoscessi da ormai un anno, non mi aveva mai dato un suo indirizzo o recapito a cui inviare l'invito, e mentre attraversavo la navata la cercai comunque con lo sguardo! Solo un attimo, durante il ritorno a casa per i festeggiamenti, mi parve di vedere il suo viso pallido e triste tra la folla e quasi le corsi incontro per ringraziarla, per aver reso possibile il mio sogno: eppure non potei chiamarla, temendo che mio marito potesse accorgersi di lei.
La festa finì e mi recai nella nostra stanza: volevo apparire bella per lui mentre era ancora al piano di sotto, intento a salutare gli ultimi ospiti. M'ero appena vestita e inoltrata sotto le coperte che un fruscio mi richiamò da dietro e mi fece voltare, quasi spaventandomi: in piedi al mio capezzale, vidi Manon, sorridente come un miracolo.
-Manon! Cosa ci fai qui? Come sei entrata?-
Ridacchiò rumorosamente e mancò poco che le tappassi la bocca per quel fracasso!
-Per le amiche questo ed altro! Son entrata dalla porta sul retro!-
-Volevo .. Ringraziarti, Manon, davvero. Oggi ho pensato intensamente a te! Perchè non c'eri?-
-Eccome se c'ero! La chiesa era piena zeppa, mia cara, e non m'hai notata ..- si voltò a guardare l'orologio e sospirò-Oh, è già tardi!-
Mi baciò sulla fronte con fare materno e sorrise.
-Buona notte, Sylvie. Possa continuare la tua favola per i giorni a venire-
Fece qualche passo, si allontanò e la vidi sparire nella penombra. Tanto era silenziosa e furba da non aver nemmeno fatto rumore sbattendo la porta.
-Sylvie ..- 
Albert entrava e si impossessava delle mie labbra. Poi mi guardava e mi sorrideva.
-Cosa c'è? Pare tu abbia visto un fantasma ..-

 

Rimasi presto incinta.
Non erano passati nemmeno tre mesi dal matrimonio che subito avvertii tutti i sintomi della gravidanza: nausea, giramenti del capo e gonfiore al ventre. Le visite di Albert confermarono i miei sospetti: saremmo diventati genitori.
Appena il mio ventre cominciò ad ingrossarsi avvertimmo amici e parenti; la nostra casa nel frattempo era già in festa e già era stato chiamato l'architetto per sistemare la stanza del bambino, al secondo piano, adiacente la nostra. In casa arrivavano regali e amici a visitarmi, mamma ed Helen si preoccupavano che stessi bene e addirittura volevano assistermi; ma era ancora presto, sentivo, nonostante quella gravidanza procedesse tanto velocemente quanto dolorosamente: la mia pancia cresceva a vista d'occhio e le mie notti erano tormentate da nausee continue e incubi aggravati da una continua tristezza. Nel frattempo Manon era sparita: non la vedevo dalla mia prima notte di notte e ciò accresceva le mie preoccupazioni.
Mi chiedevo se fosse malata, o se fosse partita, o peggio ancora se fosse morta! E, qualora fosse morta, mi interrogavo sulle cause del suo decesso: malattia fisica o spirituale? S'era forse uccisa, piena di ricordi tristi causati mestamente dalla sua buona azione?
I mesi passavano e non v'era nessuna risposta, ma presto arrivarono le doglie del parto.
Partorii che era piena notte, svegliata come fui dai dolori del travaglio. Albert si svegliò di colpo e corse ad avvertire il portiere, ordinandogli di avvertire la vecchia ostetrica che abitava poco lontano. Ella arrivò che già mi dibattevo e sanguinavo, con Nora che mi teneva le braccia e Albert al mio capezzale. Il parto fu laborioso e doloroso, terribilmente: pareva che dentro di me non ci fosse un bambino ma un'enorme creatura impaziente di uscire, tanto si dibatteva. Pareva quasi che quel figlio volesse distruggermi il ventre!
Spinsi più che potei, con tutte le mie forze che nel frattempo si affievolivano. Albert piangeva e sudava, stringendomi la mano, e quasi ebbi pietà di lui quando levai l'ultimo, possente urlo che preannunciava l'ultima spinta: la testa era finalmente uscita. 
Pochi movimenti dopo, partorii una creaturina robusta come un puttino, ricoperta ancora di sangue. Ma l'ostetrica mi lanciò uno sguardo triste e sentivo la mia vita abbandonare le membra.
No, non poteva esser nato morto.
No, non doveva. Pregai Dio, pregai tutti i santi, pregai le buone anime dei morti e quella triste della trapassata signora Lloyd. E poi lanciai una preghiera per Manon, affinchè pregasse per me.
Poi un vagito richiamò la nostra attenzione. Il frutto del mio grembo era vivo e voleva che il cordone venisse tagliato.
-Congratulazioni! Che bella bambina!-
Venne lavata e poi l'ostetrica me la porse. Ella si attaccò subito al seno e mi lanciò una tenera occhiata, con gli occhi già adulti per esser quelli di una neonata. Enormi occhi neri che mi chiamavano dal basso.
Marianne, mi dissi. Il suo nome sarà Marianne. 
Questo mi suonava in mente appena guardai mia figlia per la prima volta.

Lo sviluppo di Marianne spaventava e stupiva noi genitori. Ella cresceva robusta e forte, troppo forte per essere una bambina di pochi anni, ma la cosa che più ci sorprendeva non era il suo sviluppo precoce. Marianne non assomigliava nè a me nè ad Albert: troppo bruna per assomigliarmi, con quei primi boccoli rossastri sulla testa pallida e i grandi occhi neri, troppo pallida per assomigliare al padre, con quella pelle chiara e il visetto ovale. 
Guardavo la mia Marianne che cresceva velocemente. C'era qualcosa di strano in quella mia bambina, qualcosa che trovavo terribile: già a due anni correva su e giù per le scale e spariva per più di un'ora in giardino, dove poi la balia la trovava addormentata, ed era arrivata alla soglia dei tre anni con un'intelligenza spiccata e una bella parlantina. Che fosse stata l'imitazione del padre, che fosse stata l'ammirazione che ogni figlia cova per il genitore, questo non lo sapemmo mai. Marianne pareva più grande della sua età ma allo stesso tempo diversa dagli altri bambini, come i cuginetti dalla parte di Albert, e questa diversità tra noi e lei faceva spaventare tutti i nostri conoscenti.
Ma che bella bambina! Dove sono gli orfanotrofi che celano creature così belle?
Queste erano le parole più gentili che la gente ci rivolgeva guardando Marianne.
Ella aveva poi mutato comportamento di punto in bianco: se i primi anni adorava le attività dei suoi coetanei, improvvisamente si fece più chiusa e iniziò ad isolarsi dalla loro compagnia; se prima giocherellava tranquilla col padre che la prendeva in braccio e l'alzava in aria, adesso la sua figura quasi la spaventava e la irritava, e Marianne si rifugiava alla mia gonna, con il visetto abbassato verso la stoffa.
Marianne, mi dissi in confessione, era troppo simile a Manon, se non identica.
Che fosse nostalgia di lei? Che fosse il mio continuo pensare a quell'amica lontana, sparita nel nulla?
Ma le mie domande si interruppero di colpo quando Marianne si ammalò.

Albert la etichettò come meningite, altri non seppero dare altre spiegazioni.
Marianne fu improvvisamente costretta a stare a letto divorata dalla febbre, che al posto di abbassarsi saliva ogni giorno di più. Marianne piangeva e strepitava nel letto e quasi detestava il contatto di noi genitori. Voleva star da sola, urlava nel suo linguaggio di bimba di cinque anni, sola come era sempre stata: ebbene, l'avevo più volte sentita ripetere questa frase, e ogni volta era una pugnalata al cuore.
Arrivò ad un punto che non riuscì più a mangiare. La tata ed io cercavamo di convincerla, ma lei scostava il viso sul cuscino e chiudeva gli occhietti. Poi la facevo addormentare e piangevo al suo capezzale, temendo che da un momento all'altro potesse arrivar la morte e falciarla.
E così, così proprio accadde.
Marianne s'era addormentata dolcemente e non s'era più svegliata. Io e Albert piangemmo un giorno intero al suo lettino, circondando quel suo piccolo sacrario di giocattoli e bambole. Venne il fotografo e così la immortalò, quasi commuovendosi alla sua vista.
Vennero amici e parenti a portar le condoglianze. Albert li ricevette ed io stavo alla finestra della nostra stanza a osservare il giardino sul retro, quei fili d'erba tra cui tante volte avevo passeggiato con Manon e tra cui Marianne s'era goduta i primi e ultimi anni della sua piccola vita.
Non volevamo un funerale pubblico, io e Albert. Nostra figlia sarebbe andata nella tomba di famiglia degli Lloyd.
La avvolgemmo in un sudario e la portammo in braccio sino al calesse. Eppure, più la strada scorreva, più quel corpicino morto e caro pareva appesantirsi, tanto che mi sembrò di tenere in braccio una ragazza e non una bambina!
Il cimitero era vuoto, illuminato solo dalle fiaccole, piccoli punti sanguigni nella penombra dell'alba. Albert prese le chiavi del mausoleo, girò la chiave nella toppa ed entrammo nell'ultima, polverosa stanza in cui avremmo salutato Marianne. E intanto, più mi muovevo, più pareva che il suo corpo si fosse fatto più grosso e pesante, quasi tenessi in braccio una donna adulta e non una bambina.
Due erano i sarcofagi nell'oscurità, e presto l'oscurità si fece luce, illuminandoli.
Un raggio di sole penetrò dalla finestrella e sfiorò la salma di Marianne, ancora tra le mie braccia.
Una mano scivolò fuori dal lenzuolo. E non era una mano di bambina, quella: era una mano di donna.
Avanzammo verso il sarcofago e mi sporsi a leggere le lettere.
Pesante era quel corpo, ma mai pesante quanto il mio cuore.

MARIANNE "MANON" PENNINGTON
SPOSATA LLOYD

18**-19**

LO SPOSO DEPOSE

   
 
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