Buongiorno
a tutti!
No,
non state sognando: sono proprio io, sono tornata. Molti di voi mi
avranno data per dispersa (lo avrei fatto anche io) e non mi
dilungherò troppo
nello spiegarvi il perché della mia prolungata assenza;
sappiate soltanto che
non ho mai smesso di scrivere, cercando di ritagliare una fetta del mio
- poco
- tempo libero per dedicarlo all'attività che amo di
più al mondo.
Sono
tornata con una nuova avventura, una sfida che mi mette i brividi di
eccitazione e di paura.
Non
ricordo esattamente come ho scoperto il telefilm Merlin, ma so per certo che è entrato nel mio
cuore con una prepotenza che
non ritenevo possibile. Non scherzo, dicendovi che è
diventato il mio preferito
e che non smetterei mai di guardarlo. Per questo scrivere una long in
questo
fandom (comincio subito alla grande) mi rende felice e spaventata allo
stesso
tempo. Sarò mai all'altezza? Sarò in grado di non
andare OOC? Questo non posso
saperlo, ma di una cosa sono certa: in ogni capitolo, in ogni
paragrafo, in
ogni riga, c'è un pezzetto del mio cuore. Spero che lo si
capisca.
Questa
storia non è ancora conclusa ma, contrariamente al mio modus
operandi,
ho deciso di iniziare a pubblicarla ugualmente come
incentivo a me stessa: è un progetto che voglio portare a
termine nel migliore
dei modi e visto che mi sento un po' bloccata al momento, magari il
vostro
sostegno e i vostri consigli saranno in grado di darmi una scrollata.
Sempre se
vi piacerà...
Ora,
visto che ho già farneticato abbastanza, un paio di piccole
precisazioni prima che iniziate a leggere - finalmente - il primo
capitolo:
1) fino a cinque minuti fa, questa storia non aveva un titolo: non
è per
giustificarmi, ma almeno sapete il perché faccia
così pena;
2) la storia è ambientata nel futuro, ai giorni nostri, con
Merlino alle
prese con la vita e i problemi che ognuno di noi potrebbe avere;
3) i personaggi di questa storia non mi appartengono (ho pregato e
pregato
al mio altare della BBC, ma è stato inutile, sob)
e le loro azioni e i loro pensieri sono del tutto inventati da me
medesima, secondo il mio particolarissimo punto di vista e la mia
fantasia
sfrenata (ogni commento in proposito è ben accetto). Tutto
è scritto senza
alcuno scopo di lucro, anche ogni riferimento a persone e a fatti reali.
Ora
vi lascio davvero e spero che sia di vostro gradimento. Grazie per aver
letto fino a qui, se ci siete arrivati.
Un
abbraccio enorme.
_Pulse_
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1.
The
knight of the lake
Una
mano leggera, delicata come una piuma, si posò
sulla sua spalla sinistra.
«Merlino», lo chiamò piano Alex, china
di fianco al
suo orecchio, su cui sentiva il suo respiro caldo ed aromatizzato al
caffè.
«Merlino, svegliati».
Il ragazzo trattenne abilmente un sorriso. Abilmente
perché ormai mentire era diventato il suo più
grande talento, visto il tempo che
aveva avuto per fare pratica.
Non aveva dormito quella notte, ma non era un problema
per lui. Non più. Lo faceva ancora e il suo corpo richiedeva
qualche ora di
sonno quando tirava troppo la corda, ma un essere immortale come lui
non era
per forza costretto a vivere secondo i bisogni fisici dei mortali.
Finse quindi di svegliarsi all’improvviso, rendendosi conto
pian piano di dove
si fosse addormentato, e quando voltò il capo verso Alex
accennò un sorriso,
stropicciandosi gli occhi con i pugni.
«L’ho fatto di nuovo?»,
domandò, schiarendosi un poco la voce.
«A quanto pare», rispose lei, offrendogli un
bicchierino di caffè.
Merlino la ringraziò con una semplice occhiata e la
guardò mentre si dirigeva
verso le finestre per scostare le tende e lasciar entrare la luce del
sole
appena sorto.
«Al meteo davano pioggia per oggi, ma credo proprio che si
siano sbagliati».
«Lo spero», commentò Merlino.
«Ho l’auto dal meccanico e non la riavrò
prima di
giovedì».
«Ecco perché sei venuto in bicicletta,
ieri». Alex sorrise birichina e si fermò
al suo fianco, gli occhi posati su Steve e Gabriel, i bambini che
dormivano
profondamente nei loro lettini con le sbarre rialzate, le coperte
accuratamente
rimboccate fin sotto il mento.
«E io che pensavo volessi tenerti un po’ in
forma…».
Merlino sollevò gli occhi, improvvisamente venati di
tristezza.
Non smetteva mai di pensare ad Artù – il re del
passato e del futuro, il suo
migliore amico, il destino che aveva compiuto solo a metà
– ma c’erano momenti
in cui i ricordi lo travolgevano come un’onda anomala,
lasciando il suo cuore
ad annaspare in un mare di nostalgia e dolore.
Quella battuta era stata lo scossone che aveva agitato le acque di
solito
quiete nel suo animo, riportando a galla spezzoni della sua ormai
lontanissima
vita a Camelot.
Ciononostante ripeté le stesse parole che si era sentito
dire troppo tempo
prima, improvvisando persino un tono di voce vagamente offeso:
«Stai dicendo
che sono grasso?».
Alex arricciò le labbra, trattenendo una grassa
risata. «Tu, grasso? Sei
magro come un chiodo! Dovresti fare seriamente un po’ di
palestra, ecco cosa».
Merlino inarcò un sopracciglio, sogghignando. «Ti
sorprenderesti, se vedessi
che cosa c’è sotto questi vestiti».
Riuscì a farla boccheggiare, rossa d’imbarazzo
fino alla punta dei capelli, e
quando se ne accorse il mago ridacchiò e le
pizzicò più volte il fianco,
facendola scostare con una risata stretta tra le labbra e il viso
rivolto verso
il pavimento.
Quindi finì il caffè bevendolo tutto
d’un fiato e si stiracchiò sulla
poltroncina che aveva portato accanto al letto la sera prima. Solo in
quel
momento si rese conto del plaid arancione che aveva sulle gambe.
Era sempre la stessa coperta, e compariva solo quando Alex faceva il
turno di
notte e lo trovava addormentato in una delle tante stanze del reparto
di
oncologia infantile, con il suo libro di favole ancora tra le mani o
semplicemente rannicchiato con la testa abbandonata su una spalla.
La guardò di sottecchi e la ringraziò
mentalmente, conscio che l’avrebbe messa
ancora una volta in imbarazzo se l’avesse fatto ad alta voce.
Un tempo avrebbe
reagito allo stesso modo. Un tempo.
Piegò con cura la coperta e si alzò per gettare
il bicchierino di plastica
vuoto nel cestino e recuperare il libro di favole che aveva lasciato
sul
comodino.
«Merlino».
Il ragazzo si voltò verso Alex e gli bastò
un’occhiata per capire che avrebbe
fatto l’ennesimo tentativo e lui avrebbe dovuto rifiutare
ancora, facendo sì
che un’altra piccola crepa si aprisse sul suo cuore.
«Che ne diresti di una colazione vera e propria? Il
caffè della macchinetta è
pessimo».
Merlino annuì, dirigendosi verso la porta.
«Sì, lo è».
Era già nel corridoio ancora deserto ed immerso nella quiete
della mattina
presto, quando la voce di Alex lo costrinse a fermarsi sul posto.
«Non hai risposto alla mia domanda».
Merlino chiuse gli occhi e respirò profondamente. Quanto
avrebbe voluto dire di
sì, quanto avrebbe voluto poter stare con lei come entrambi
desideravano. Ma ci
aveva già provato e sapeva come sarebbe andata a finire: il
suo cuore sarebbe
andato in pezzi e ci sarebbe voluto troppo tempo, troppa fatica, troppe
lacrime, prima che riuscisse a rimetterlo insieme alla bell’e
meglio.
Si voltò di tre quarti, guardando distrattamente
l’orologio che aveva al polso.
«Credo di non riuscire a fare in tempo»,
esclamò, stiracchiando un mezzo
sorriso. «Ho proprio bisogno di una doccia e conosci la
signora Begum: durante
l’orario di lavoro non si fanno i propri comodi».
Alex si sforzò di sorridere a sua volta, ma i suoi occhi,
verdi come l’erba
nuova in primavera, erano incapaci di mentire, e Merlino li conosceva
troppo
bene ormai per non accorgersi della delusione che aveva tolto loro la
solita
luminosità.
«Sarà per la prossima volta, allora».
Merlino annuì con un breve cenno del capo e
sollevò una mano in segno di
saluto, poi si allontanò a passo svelto lungo il corridoio.
Inforcata la bicicletta, aveva pedalato a più non posso,
così forte da farsi
venire il fiato grosso, e nonostante non ne avesse il tempo aveva
deciso di
fare il giro largo per tornare a casa, quello che, seguendo la pista
ciclabile
senza tagliare in stradine secondarie, l’avrebbe portato a
passare davanti al
lago.
Il sole appena sorto oltre le colline tingeva il cielo di rosso, rosa
ed
arancione, e la nebbia che si sollevava sopra le acque tranquille di
Avalon era
così fitta da nascondere l’isola posta proprio al
centro di esso.
Merlino rimase per diversi minuti fermo sulla strada, ancora in sella
alla
propria bici e stretto nel giubbotto blu, ad osservare quel paesaggio
che
nonostante il passare dei secoli non era mai cambiato, intoccato.
Per quanto ne sapeva, era uno degli ultimi posti in cui la forza della
Religione Antica non era ancora svanita del tutto, uno degli ultimi
posti in
cui poteva sentirsi un tutt’uno con la terra, il cielo e
l’acqua e la magia
scorreva irrefrenabile dentro le sue vene, cercando uno sbocco
qualunque e
trovando solo resistenza.
Non era più lo stesso Merlino di una volta: i sensi di
colpa, la nostalgia, la
sofferenza e il tempo – in modo particolare il tempo
– l’avevano cambiato,
inevitabilmente; soprattutto, gli avevano tolto la speranza.
Lui che una volta riusciva a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno e
che
lottava fino a che ne aveva le energie, senza arrendersi di fronte alle
difficoltà, ora non aveva niente per cui combattere, nulla
per cui essere
ottimista.
Si limitava ad occupare il tempo, aspettando un qualcosa che
probabilmente non
sarebbe mai accaduto, nonostante il grande drago Kilgharrah avesse
predetto il
contrario. Ma come poteva fidarsi ancora delle sue parole, dopo aver
realizzato
che tutto ciò che aveva fatto per aiutare Artù a
costruire Albione era stato
vano, dato che il suo re se n’era andato senza avere il tempo
di godere dei
frutti dei loro sforzi?
Il rumoroso passaggio di un camion alle sue spalle lo riscosse dai
propri
pensieri.
Tirò fuori le mani dalle tasche del piumino e rendendosi
amaramente conto che
certe cose, invece, sarebbero sempre state delle costanti nella sua
vita
immortale – come per esempio il suo arrivare continuamente in
ritardo e le
lavate di capo che per questo riceveva dai propri superiori –
riprese a
pedalare.
***
Alex
lanciò con ben poca delicatezza la borsa sul
divano e si sciolse la coda di cavallo.
Si sentiva una stupida, una perfetta idiota, e quello che le faceva
più rabbia
era che non poteva comportarsi diversamente quando c’era
Merlino nei paraggi:
era più forte di lei.
Frustrata più che mai, salutò a malapena
Artù, il piccolo gattino randagio che
aveva trovato una mattina, di ritorno dall’ospedale, e che
non aveva più avuto
la forza di lasciare.
Quel piccolo batuffolo di pelo nero su cui risaltavano due magnetici
occhi
azzurri aveva ben poco in comune col valoroso re di Camelot, ma quando
aveva
dovuto decidere come chiamarlo le era sembrato inopportuno dargli lo
stesso
nome del ragazzo di cui non aveva proprio potuto fare a meno di
innamorarsi.
Sarebbe stato quantomeno imbarazzante se un giorno – anche se
non riusciva
nemmeno ad immaginare un motivo per cui sarebbe mai potuto accadere
– avesse
dovuto presentarglielo: «Merlino, questo è
Merlino. L’ho chiamato come te
perché i suoi occhi mi ricordano terribilmente i
tuoi».
L’unico altro nome che le era venuto in mente era stato per
forza di cose Artù,
il protagonista delle favole che Merlino non si stancava mai di
raccontare ai
bambini dell’ospedale, così ricche di dettagli,
colpi di scena mozzafiato e
passione da far pensare che avesse vissuto quelle avventure in prima
persona.
Seguendo la borsa, si gettò a peso morto sopra il piccolo
divano in salotto e
sbuffò rassegnata: non avrebbe mai trovato il coraggio di
dire a Merlino ciò
che provava ogni volta che lo vedeva o gli stava vicino e tantomeno
l’avrebbe
trovato per dirgli che se lui non ricambiava i suoi sentimenti avrebbe
fatto
meglio a metterlo in chiaro fin da subito. Probabilmente Alex non
sarebbe più
riuscita ad essergli amica se le avesse spezzato il cuore in quel modo,
perciò
era contenta, più o meno, che Merlino trovasse sempre
qualche scusa per non
trovarsi da solo con lei fuori dall’ospedale – in
quello che le sarebbe
sembrato un appuntamento, illudendola – anziché
schiaffarle in faccia che non
era interessato.
Merlino non si sarebbe mai comportato così. A volte aveva la
netta impressione
di conoscerlo come le sue tasche, altre che venisse da un altro mondo e
che
nascondesse mille e più segreti dietro quei suoi limpidi
occhi azzurri e i suoi
mezzi sorrisi spesso e volentieri intrisi di tristezza.
Quello di cui era convinta, era che Merlino avesse l’animo di
un cavaliere e
che mai, mai l’avrebbe fatta soffrire intenzionalmente. Per
questo forse era
arrivato il momento di comportarsi da adulta e di smetterla di
illudersi, sognando
notte e giorno quell’amore evidentemente unilaterale. Doveva
sforzarsi di
reprimere qualsiasi sentimento provasse per Merlino, per il bene della
loro
amicizia e soprattutto del suo cuore.
Artù si accoccolò sul suo addome e Alex sorrise
teneramente, accarezzandogli il
soffice pelo nero e tirandogli le piccole orecchie.
«Troverò anch’io il mio cavaliere un
giorno, vero Artù?».
Il micio iniziò a fare le fusa e prima che se ne rendesse
conto Alex si
addormentò.
Solo la sveglia che fortunatamente si era dimenticata di disattivare il
pomeriggio precedente fu in grado di destarla dai propri sogni.
Raccattò la borsa che vibrava sotto i suoi piedi e una volta
trovato il
cellulare la spense, massaggiandosi poi il viso gonfio di stanchezza.
Si sentiva distrutta, ogni osso ed ogni muscolo le dolevano, tanto che
pensò
che sarebbe stato meglio se non avesse dormito affatto.
Con uno sforzo sovraumano si alzò e si trascinò
in bagno, dove si sciacquò la
faccia e si rese conto di essere più che assetata. Si
attaccò direttamente al
rubinetto e fu un vero piacere sentire l’acqua gelata
scorrere nella sua gola
arida. Quando ne ebbe abbastanza, si guardò allo specchio e
si sistemò sulla
fronte la frangetta un po’ bagnata.
Controllò l’ora ancora una volta e capì
che solo una cosa le avrebbe ridato
l’energia giusta per affrontare l’ennesima nottata
in ospedale: correre.
Faceva freddo, dannatamente freddo, ma Alex non poteva davvero farne a
meno.
Adorava sentire il cuore batterle più forte nel petto, col
sangue che le riscaldava
i muscoli e le arrossava le guance; adorava correre immersa nel verde,
vedere
il paesaggio non cambiare mai e cambiare in continuazione, riempirsi i
polmoni
del profumo della natura, anche gelata com’era ai primi di
marzo, svuotare la
mente da qualsiasi preoccupazione ed ascoltare le sue canzoni preferite
con le
cuffiette calcate nelle orecchie, sotto il cappellino di lana.
Il loro era un piccolo paesino, in confronto la vicina Caerleon
sembrava una
metropoli ben più interessante, perciò non si
sorprese di non incrociare anima
viva dopo le cinque del pomeriggio, orario di chiusura dei piccoli
negozi del
centro. Ma se anche ci fosse stato in giro qualcuno di sicuro non le
avrebbe
fatto compagnia: era lei l’unica matta in grado di fare
jogging a qualsiasi
ora, giorno e stagione dell’anno.
Era quasi a tre quarti del suo percorso abituale, nelle vicinanze del
lago –
avvolto dalla nebbia e tetro più che mai, – quando
si rese conto del vento che
alzandosi aveva portato con sé delle minacciose nuvole
scure, probabilmente
cariche di pioggia. Doveva affrettarsi, prima di ritrovarsi a dover
correre per
non prendersi una bella lavata anziché per il piacere di
farlo. Anzi, forse
avrebbe fatto meglio a prendere l’autobus per tornare a casa,
giusto per non
rischiare. Decise che quella era la soluzione migliore e che, se non
ricordava
male, aveva ancora dieci minuti buoni prima che il mezzo raggiungesse
la
fermata una ventina di metri più avanti.
Si appoggiò al muretto in pietra che delimitava il giardino
di una villetta a
due piani e respirando profondamente fece un po’ di
stretching, piegando le
gambe al petto, stirando i polpacci e roteando le spalle.
All’improvviso un fulmine dalla potenza dirompente, in grado
di illuminare a
giorno l’intera superficie del lago e di far tremare la
terra, la fece
trasalire.
Si strappò le cuffie dalle orecchie e dimentica dello
stretching si appoggiò al
muretto, una mano stretta sul cuore che le batteva furiosamente nel
petto.
Aveva i brividi, brividi che non c’entravano nulla col
freddo, ma piuttosto con
lo spavento che si era presa.
Provò a calmarsi, dicendosi che nonostante fosse caduto
davvero vicino a lei –
forse proprio sull’isola al centro del lago – era
ancora tutta intera e non
c’era davvero nulla di cui aver paura. Ci provò,
ancora e ancora, invano.
Avvertiva una sgradevolissima sensazione alla bocca dello stomaco, come
se il
peggio dovesse ancora venire, ed infatti una manciata di secondi dopo
l’acqua
scura e fredda sotto lo spesso strato di nebbia iniziò a
ribollire, in un modo
tutt’altro che naturale, come dopotutto lo era stato quel
terribile fulmine.
In quel momento avrebbe tanto voluto fuggire, correre via sotto la
debole
pioggerellina che aveva iniziato a cadere, ma le sue gambe sembravano
come
paralizzate, i suoi piedi ben radicati al suolo.
Ad un tratto, proprio nel bel mezzo di quel furioso ribollire, emerse
una
figura annaspante e senza fiato, con i capelli biondi incollati al viso
e puro
e semplice terrore negli occhi blu.
Per quanto fosse incredula e spaventata, non dovette nemmeno pensarci
prima di
lasciar cadere il lettore mp3 sull’erba e correre verso il
lago, spogliandosi
del giubbotto e del cappellino e lasciando che la pioggia, ora
più forte e
scrosciante, la bagnasse da capo a piedi.
Si tuffò nell’acqua gelata e nuotò
più in fretta che poté verso il ragazzo che
non faceva altro che agitarsi, guardandosi intorno e respirando
affannosamente.
Probabilmente stava avendo un attacco di panico.
«Sto arrivando! Calmati!», urlò per
farsi sentire sopra il rumore del
temporale.
Il ragazzo biondo si voltò verso di lei e Alex
rischiò quasi di annegare,
stordita dalla bellezza di quegli occhi blu come il mare. Si costrinse
a fare
ancora qualche bracciata, sentendo i muscoli intirizzirsi ora che
l’adrenalina
stava abbandonando il suo corpo. Sapeva di non potersi fermare, o
sarebbero
arrivati i crampi e sarebbe stato davvero il colmo se quel ragazzo
fosse stato
costretto a doverla salvare, quando lei si era gettata apposta per
salvare lui.
«Sai nuotare, vero? Ti prego, dimmi di
sì!».
Il ragazzo annuì con un cenno del capo e Alex
sospirò di sollievo,
allungandogli una mano. Il biondo la fissò per qualche
secondo, intimorito o
forse solo in stato confusionale, fino a quando Alex non
gridò ancora, gettando
un’occhiata preoccupata verso il cielo, terrorizzata dalla
possibilità che un
fulmine colpisse l’acqua: «Non è la
giornata migliore per una nuotata, magari
il prossimo week-end!».
Quelle parole, o forse il tono scherzoso con cui aveva cercato di
pronunciarle,
riuscirono a far breccia nell’animo del ragazzo, il quale
decise di fidarsi ed
afferrò la sua mano, iniziando a nuotare insieme a lei verso
la riva.
Erano all’incirca a metà strada dal loro agognato
traguardo, quando Alex sentì
avverarsi il suo peggior incubo: i crampi. La corsa e quella folle
nuotata
avevano sfiancato i muscoli dei suoi polpacci, che ora le dolevano
facendole
vedere letteralmente le stelle.
Si voltò sulla schiena, provando a respirare profondamente
per stare a galla e
a nuotare solo con le braccia, ma la stanchezza era troppa. Per un
attimo finì
sott’acqua, gli occhi increduli ancora aperti. Fu solo un
attimo però, perché
il ragazzo la recuperò e stringendosela al petto con un
braccio riuscì a
raggiungere la riva.
Entrambi senza fiato e allo stremo delle forze rimasero sdraiati
nell’acqua
bassa, tra le canne e la ghiaia che pungolava loro la pelle ricoperta
di
brividi, fino a quando Alex non sentì i denti batterle
così forte nella bocca
da farla tornare alla realtà. Guardò il ragazzo
che avrebbe dovuto salvare e
che invece aveva salvato lei e solo in quel momento si rese conto del
suo
stranissimo abbigliamento: sembrava una specie di uniforme da
cavaliere, molto
realistica, con tanto di armatura, maglia di ferro e un lungo mantello
rosso,
ma era logorata dal tempo e chiazzata qua e là di verde,
come se vi fossero
cresciute sopra delle alghe.
Mille e più domande le affollarono la mente, ma le
scacciò via tutte quante,
rimandandole a più tardi, quando si accorse che anche lui
stava andando in
ipotermia.
Lo sforzo che aveva fatto quando poche ore prima si era alzata dal
divano dopo
il pisolino le era sembrato “sovraumano”, ma allora
non aveva la minima idea di
quanto potesse essere spossante tuffarsi in un lago gelato per cercare
di
tirarci fuori qualcuno.
Con immensa fatica si alzò a quattro zampe e poi in piedi,
nonostante il
cerchio alla testa e i crampi. Il ragazzo sollevò le
palpebre sentendola
muoversi e la guardò quasi incredulo, con le labbra blu che
tremavano, prima di
perdere del tutto conoscenza.
Alex raggiunse il giubbotto che aveva lasciato cadere qualche metro
più in là,
vicino al ciglio della strada, e cercò freneticamente il
cellulare.
Avrebbe dovuto chiamare un’ambulanza, sarebbe stata la cosa
migliore da fare
viste le loro condizioni, ma gettando un’occhiata a quel
ragazzo emerso
all’improvviso dal lago, con indosso quegli strani indumenti,
decise di non
farlo. Selezionò invece il primo numero memorizzato nella
sua rubrica,
nonostante non l’avesse mai chiamato negli ultimi sei anni.
Ma quella era una
vera e propria emergenza, e aveva bisogno del suo aiuto.