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Autore: _Lalli    18/01/2015    2 recensioni
Arya Dröttningu, ambasciatrice degli elfi, protegge l'unico uovo di drago in possesso alla resistenza; Durza lo Spettro attende da anni l'occasione di impossessarsene e finalmente pare esserci riuscito, ma l'elfa riesce a rovinare miseramente i suoi piani. Allo Spettro non rimane che un'unica soluzione: torturare la sua prigioniera senza pietà, fino a che non confessi il luogo in cui l'uovo è stato trasportato.
Ma se, durante la prigionia, qualcosa di inaspettato fosse accaduto ad Arya? Qualcosa di cui nessuno, a parte lei e Durza, è a conoscenza?
Costretta ad un viaggio avventato e ad un'improbabile alleanza, Arya scoprirà lati insospettabili del suo nemico e si lancerà in una ricerca che getterà i semi del suo destino. Coinvolta in segreti incredibili, finirà per svelare alcuni dei molti misteri che ancora oscurano la bellissima terra di Alagaësia.
Genere: Azione, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Altri, Arya, Durza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Ciao
31. Tutto precipita

Nei giorni che seguirono io e Durza ci impegnammo per rendere la storia della mia prigionia il più credibile possibile agli occhi dei nuovi arrivati. Le guardie erano arrivate in città in pompa magna e il loro capitano aveva subito chiesto di essere ricevuto da Durza affinché potessero accordarsi per inserire una decina dei suoi uomini nei turni di guardia sulle mura, in modo da poter svolgere il compito per il quale il re li aveva spediti a Gil'ead.
Cinque di loro presero posto fisso davanti alla mia cella, sostituendo gli uomini dello Spettro e aprendo lo spioncino per sbirciare all'interno molto più spesso di quanto fossi abituata. Sgattaiolare via con Durza si fece ogni notte più difficile, e altrettanto difficile era sostituirmi alla mia immagine ogni mattino perché non era raro che il capitano si affacciasse curioso alla porta e seguisse la processione fino alla stanza delle torture con i suoi uomini.
Le torture. Durza cominciò con l'accarezzarmi lo sterno con un ferro arroventato, nel punto dove aveva fatto sparire le mie cicatrici affinché non risultassero evidenti dallo scollo dell'abito, quando eravamo a Dras-Leona. Il dolore era sopportabile e lo Spettro si premurava di guarirmele ogni sera, almeno in parte.
Ma sapevo che prima o poi avrebbe dovuto cominciare a procurarmi vere ferite, sanguinanti e d'impatto, che potessero risultare soddisfacenti agli occhi di Galbatorix, se e quando avesse deciso di vedere fino a che punto si erano spinte le torture del suo secondo.
Tre giorni dopo ci rendemmo conto che indossavo ancora l'anello di ametiste e che forse era il caso di togliermelo, dato che ufficialmente era una droga a sopprimere i miei poteri, che in realtà erano liberi. Lo consegnai a Durza e lui se lo mise al collo insieme al ciondolo del sole.
«I miei spiriti vorrebbero farti ancora del male» aveva ammesso lo Spettro il giorno prima, con un'espressione di vergogna così penosa in volto, che mi ero sentita il dovere di consolarlo, nonostante fossi io la possibile vittima della rabbia di quelle creature.
«Questo olio ricorda vagamente l'odore della tua pelle» disse lui in quel momento, riportandomi al presente.
Lasciai scivolare le dita tra i suoi capelli fradici e gli massaggiai delicatamente la testa. Eravamo entrambi immersi nel piacevole calore della sua vasca, la sua schiena contro il mio petto, e ci stavamo godendo qualche istante rilassante prima di coricarci. Fuori era notte fonda e solo una fioca candela illuminava la sala da bagno.
Al tocco delle mie mani, lo Spettro chiuse gli occhi e reclinò il capo all'indietro, tirando un respiro appena più profondo dei precedenti.
«Aghi di pino?» mi informai incuriosita, annusando l'essenza che aveva appena versato nell'acqua.
«Qualcosa del genere» mugugnò.
E per qualche minuto restammo in silenzio.
«Hai appeso i manifesti con le immagini del cavaliere?» domandai, cambiando discorso.
Anche quelli erano stati una sorpresa: li avevano portati i soldati mandati dal re, ammucchiati in grandi casse, con l'ordine di distribuirli per Gil'ead e villaggi limitrofi. Le pergamene raffiguravano, con dettagli piuttosto precisi, il viso di un giovane dall'aria seria e composta e dovevano essere state realizzate seguendo le descrizioni fatte dai Ra'zac, che avevano affrontato personalmente il cavaliere a Dras-Leona. A chi lo avesse catturato o avesse fornito informazioni utili alla cattura erano promessi mille pezzi d'oro, a detta di Durza una fortuna. Tuttavia non era citato un drago o la vera natura del giovane, lo si denunciava solo per “crimini contro la corona e il regno intero”.
Durza me ne aveva portato uno affinché potessi vederlo e io avevo constatato che si trattava dello stesso volto che vedevo talvolta in quelle visioni così realistiche che mi strappavano bruscamente alla realtà. Ma di lui sapevo solo che si chiamava Eragon, che aveva i capelli castani e che l'ultima volta che l'avevo visto stava soffrendo immensamente. Il perché di quella strana connessione che sembravo avere con lui restava inspiegato, anche se sospettavo dipendesse in qualche modo dal legame che mio malgrado avevo creato con il drago di zaffiro, che a lungo avevo portato con me, attraversando Alagaësia.
«Ci hanno pensato i soldati del re» mi rispose lo Spettro, con voce impastata. «Li hanno appesi ad ogni incrocio e ad ogni locanda, ma si sono anche presi l'impegno di fare annunci orali al popolo, dato che buona parte di loro non sa leggere. In ogni caso non vedo perché il cavaliere dovrebbe passare di qui. Se ha avuto un pizzico di buon senso ormai sarà già nel Surda o tra i Varden».
«Su questo le tue spie non sono state molto utili» osservai.
Effettivamente aveva ricevuto informazioni da Dras-Leona solo pochi giorni dopo lo scambio avuto con Galbatorix e dagli informatori aveva saputo che due individui avevano lasciato la città a cavallo, con tutte le guardie cittadine alle calcagna. Ma a quanto pareva erano riusciti a cavarsela e a lasciare la città, peccato che nessuno sapesse dire che direzione avessero preso.
«Non prendertela con le mie spie, Elfa» borbottò, le palpebre ancora chiuse.
Continuai a massaggiargli le tempie. «E gli Urgali?»
«Li ho richiamati e credo che già da domattina farò partire un primo drappello in direzione del deserto di Hadarac, con l'ordine di catturare il cavaliere. Tuttavia dirò loro di non correre troppo, così non gli saranno di ostacolo nemmeno per sbaglio».
«Ottimo» decretai, baciandogli la nuca e stringendo le braccia intorno al suo collo.
Durza mi scoccò uno sguardo malizioso da sopra la spalla sinistra e si voltò totalmente nella mia direzione.
Scostai le sue mani quando le strinse sui miei seni. «Mi da fastidio» ammisi.
Non ribatté e si limitò a spostarle altrove.
            Per quella notte non ci pensai più, ma il giorno seguente, dopo che lo Spettro mi ebbe lasciata nella mia cella, mi sedetti sul pagliericcio e mi misi a fare un paio di calcoli.
Era da diversi giorni che sentivo il seno gonfio e cominciai a chiedermi se per caso non stesse per venirmi il ciclo. L'ultima volta risaliva a un bel po' di tempo prima, forse un paio d'anni, mentre ero ad Ellesméra. Ero abituata a simili salti: a causa dei numerosi e pesanti sforzi fisici a cui sottoponevo il mio corpo, il mio sangue mensile non era mai stato regolare e probabilmente non lo sarebbe mai stato fino a che non mi fossi decisa a condurre una vita più tranquilla, vita che effettivamente avevo condotto negli ultimi mesi, nei quali avevo drasticamente ridotto i miei allenamenti per ovvi motivi.
Avrei dovuto usare un paio di incantesimi o chiedere a Durza degli stracci.
            Nel pomeriggio, cominciarono le vere e proprie torture, con lame ed uncini. Io e il mio alleato litigammo per ore sull'argomento: Durza voleva applicarmi un incantesimo che mi avrebbe privata delle sensazioni fisiche e quindi anche del dolore, io non volevo perché sapevo che la pratica rientrava nella sfera della magia nera e io ne ero terribilmente spaventata, anche se non lo avrei mai ammesso.
Alla fine l'ebbi vinta io e nei giorni che seguirono mi spogliai del farsetto e dei pantaloni, così che le ferite potessero prendere piede in tutto il mio corpo.
Lo Spettro non riprese le torture più estreme come le frustate perché il nostro vero e unico scopo era creare il più alto numero di segni possibili su di me, in modo che il re non capisse subito che c'era qualcosa che non andava e lasciasse a Durza il tempo di fare ciò che doveva fare. E che io ancora non potevo sapere.
Riprendemmo, a ritmi ovviamente più leggeri, i tempi che aveva adottato quando io ero ancora l'uccellino da fare cantare. E nonostante il dolore fosse palesemente meno intenso, più calcolato e di breve durata, ricominciai ad essere terrorizzata da quella stanza e dai suoi strumenti. Non chiesi mai allo Spettro di fermarsi nel bel mezzo dell'opera, ma mi lasciai spesso sfuggire gemiti di dolore e piccole grida.
            Smettemmo anche di giacere insieme, come avremmo potuto fare altrimenti? Io ero dolorante in numerose parti del corpo e non era raro che rabbrividissi alla sola vista delle sue mani sulla mia pelle, nonostante sapessi benissimo che non lo stava facendo volentieri -o almeno non la parte di lui che mi piaceva tanto, perché ero certa che gli spiriti dentro di lui stessero esultando. Durza, dal canto suo, faticava a torturarmi di giorno e prendere in considerazione l'idea di amarmi la notte, così non lo fece e io non cercai di persuaderlo altrimenti.
Continuammo però a perdere il respiro in lunghi baci, a dormire insieme e ad affrontare i miei incubi.
Sopportai con tutta la forza d'animo che era rimasta dentro di me, dicendomi che un giorno avrei trovato il coraggio di guardarmi indietro e valutare con serenità quei brutti momenti.
Così come prima o poi avrei trovato il coraggio di dire a Durza che portavo in grembo suo figlio.
Impiegai parecchi giorni prima di riuscire ad ammettere a me stessa la verità, ma ad un certo punto divenne talmente ineluttabile che mi ritrovai a farci i conti per forza. Il mio seno era fastidiosamente gonfio, ma il sangue non veniva; e certamente non era immaginazione il flebile battito che sentii provenire dal mio ventre il giorno che mi decisi a fare un incantesimo per ampliare i suoni alle mie orecchie. Il battito lento, incerto e caparbio di un cuoricino.
Incredibile.
Certo, le occasioni in cui sarebbe potuta avvenire una cosa del genere erano state molteplici nelle ultime, intense, settimane della mia vita, ma in una sola occasione non avevo preso provvedimenti affinché la vita non potesse germogliare nel mio ventre, ed era la notte a Dras-Leona, al Covo Segreto, quando non potevo ancora usare la magia. Tuttavia io ero poco fertile, visti i miei natali, e non ero nemmeno certa che Durza potesse avere figli, visti i mutamenti che gli spiriti avevano operato sul suo corpo.
Quante probabilità c'erano che succedesse una cosa del genere?
Eppure era successo e io non sapevo come fosse meglio comportarmi. Se guardavo sia ai canoni degli uomini, sia a quelli degli elfi, l'unica soluzione possibile pareva quella di procurarsi le erbe giuste, bere un decotto e liberarmi del problema ancora prima che divenisse tale. Io stessa ero stata educata a considerare i figli come la più grande delle rarità e come tale un dono preziosissimo di cui prendersi cura con il massimo impegno e dedizione, il frutto di un'unione stabile, serena e presumibilmente duratura.
E nel rapporto tra me e Durza non vi era nulla di simile: la nostra era una passione sbocciata con la rapidità di una stagione e al momento le nostre possibilità per il futuro non erano esattamente rosee. Non avrei messo al mondo una creatura solo per vederla soffrire, tuttavia qualcosa mi diceva che non avrei mai e poi mai trovato la forza di liberarmene.
Così lasciai passare altri minuti, altre ore, altri giorni. E arrivai alla conclusione che semplicemente non potevo prendere decisioni in quel momento. Sapevo che se volevo mettere fine alla questione avrei dovuto farlo entro i primi tre mesi dal concepimento e, se tutto andava come doveva, in poche settimane tutto si sarebbe risolto: io e Durza saremmo stati liberi o morti. E allora -se si fosse verificata la prima opzione, ovviamente- ne avrei parlato con lui e avremmo preso una decisione. Fino a quel momento avrei lasciato che il bambino crescesse dentro di me, e vissuto la mia vita come se nulla fosse successo. Del resto una buona percentuale di gravidanze finiva entro le prime dodici settimane a causa di aborti spontanei e non era certo che lo stesso non sarebbe capitato anche a me.

Mentre il mio corpo tornava ad essere una selva di tagli ed escoriazioni e il mio compagno mi faceva notare che avevo gli occhi più luminosi del solito, i giorni si tradussero in una settimana. E si avvicinò ineluttabilmente il giorno in cui avremmo dovuto lasciare Gil'ead per incamminarci vero Uru'baen.
Ma ovviamente nulla poteva andare come avevamo previsto, e una mattino -subito prima dell'alba- Durza si presentò al mio cospetto con gli occhi felini spalancati e un lieve tremore diffuso in tutto il corpo.
«Il figlio di Morzan è qui» gracchiò.
«Chi!?» esclamai, scattando in piedi così rapidamente che rischiai di alzarmi da terra.
«Shht» mi zittì, posandomi una mano sulla bocca. Poi mi portò nella stanza delle torture e la sigillò con la magia. «La mia catena di spie funziona molto peggio da quando non c'è più il suo capitano» sospirò.
«Chi?»
Alzò un sopracciglio. «Alba, Principessa».
«Ovvio, scusami» borbottai, spalmandomi una mano sul volto.
«Sei stanca? Vuoi che ti guarisca qualche ferita?» si informò con premura, passando una mano gentile tra i miei capelli.
Stirai un sorriso. «No, ma dimmi del figlio di Morzan, ti prego».
Mi baciò fugacemente, poi riprese il discorso. «Era qui qualche ora fa, ma la notizia mi è giunta un po' tardi purtroppo. A quanto pare era solo, ma non escludo che il cavaliere e Brom lo stiano aspettando fuori Gil'ead».
«Mi sembra improbabile che lo abbiano preso con loro. E in ogni caso cosa ci farebbero qui?» imprecai a denti stretti.
«Speravo me lo dicessi tu a dire il vero».
«Mi spiace deluderti, ma non ne ho la più pallida idea».
«Forse dovresti andare a parlare con loro» disse esitante, socchiudendo gli occhi.
«Io?»
Rise amaramente. «Io no di certo».
«Il massimo che potrei fare a questo punto è mandarli nella Du Weldenvarden, sperando che prima o poi una pattuglia di elfi li trovi, il tutto prima che incontrino pericoli che non saprebbero affrontare».
«Credo che sarebbe comunque meglio che proporre loro di seguirci ad Uru'baen. Se il nostro piano fallisse Galbatorix ci guadagnerebbe un cavaliere e allora sarebbe un problema ancora più serio».
«Sei diventato altruista» osservai stringendogli affettuosamente la mano.
«Si chiama odio sconfinato per il re, piccola elfa» ribatté con un ghigno. «E da qui all'altruismo c'è una bella voragine. Comunque se sei d'accordo stanotte..»
Si bloccò al suono di passi affrettati che si avvicinavano.
«Mio signore!» gridò Hillr, battendo con forza i pugni sulla porta. «Mio signore si tratta di una questione urgente!»
Durza mi spinse dietro di sé e sciolse l'incantesimo che bloccava la porta, permettendo al siniscalco di entrare precipitosamente nella stanza.
L'uomo aveva le guance arrossate come per una grande eccitazione e gli occhi sgranati, come a seguito di un grande spavento.
«Mio signore un drappello di Urgali chiede di vederti. Loro hanno.. lo hanno preso».
«Preso chi?»
Ma il rumore di altri passi impedì ad Hillr di rispondergli.
Un uomo dalla corta barba curata si precipitò nella stanza e, dopo uno sbrigativo inchino nella direzione di Durza, chiese: «Sono vere le voci?»
«Non so di cosa tu stia parlando capitano», rispose lo Spettro con studiata indifferenza, «ma se lascerai al mio secondo il tempo di mettermene al corrente forse potrò risponderti».
L'uomo chinò il capo e fece un rispettoso passo indietro, ma era palesemente inquieto e impaziente. Ne approfittai per sedermi sul tavolo di pietra e assumere un'aria imbambolata, tipica di qualcuno sotto effetto di droghe o al limite delle proprie forze fisiche. Anche se non credevo che qualcuno dei presenti avesse anche solo un minimo interesse per me, erano tutti concentrati su altro.
Hillr si portò una mano al petto ed estrasse un pezzo di pergamena. «L'hanno consegnata gli Urgali ad una delle guardie delle porte esterne e hanno aggiunto che il ragazzo ricercato è stato preso, ma non i suoi compagni».
Il mio cuore prese a battere più forte mentre registravo le parole di Hillr e guardavo le dita bianche del mio amato svolgere con lentezza la pergamena e decifrare con altrettanta calma la lingua aspra che vi era vergata.
«Allora?» fece il capitano, dondolandosi su i talloni.
«Hai sentito Hillr, capitano. I miei Urgali hanno preso il cavaliere, ma non il suo drago. Qui c'è scritto che aspettano sulle sponde del lago che qualcuno vada a prelevare il prigioniero. A quanto pare lo hanno tramortito».
«Andremo io e i miei uomini!» esclamò egli. «Il re ci ha mandati qui per questo ed è nostro compito suppongo».
Durza non poté fare altro che annuire. «Portatelo qui, dovrà essere drogato prima di affrontare qualunque viaggio alla capitale. E in ogni caso tra qualche giorno metà del vostro drappello dovrà seguirmi con la prigioniera». E fece un gesto spazientito nella mia direzione.
Il capitano fece un'altra rapida riverenza. «Dopo dovrò parlarti anche di questo. Ora col tuo permesso vado a prendere il cavaliere».
E senza aspettare una risposta corse via, con la velocità che gli permetteva una cotta di maglia, ovviamente.
«Hillr», fece lo Spettro in un sussurro, «assicurati che il prigioniero venga effettivamente portato qui, nelle segrete. E poi al suo ritorno riferisci al capitano che sarò lieto di conferire con lui nel mio studio, domattina dopo il sorgere del sole».
Hillr deglutì, si inchinò e uscì chiudendo la porta dietro di sé.
«Dannazione» sibilò Durza, sbattendo violentemente i pugni chiusi accanto a me, sul tavolo di pietra.
«Hanno preso il cavaliere» sentenziai.
«Quelli erano i loro ultimi ordini, solo che non mi aspettavo di trovarmelo alle porte di casa mia, quello sciocco!»
Che diavolo aveva in mente Brom? Avrebbe dovuto portare Eragon al sicuro tra i Varden o tra gli Elfi, non dritto nella città più militarizzata dell'impero. E al momento circondata da pattuglie di Urgali.
«Ma il drago è libero» sussurrai.
«Non per molto» fu la cupa risposta. «Basterà minacciare di morte il suo cavaliere e lui volerà al castello di Galbatorix di sua spontanea volontà».
Ovviamente. Nulla era andato secondo i nostri piani. E se da un lato avevamo ancora una buona possibilità di uccidere il re, dall'altra il rischio di rinforzarlo di un nuovo alleato si era fatto incombente.
Con la sensazione di panico che andava aumentando esponenzialmente dentro di me, gettai le braccia al collo niveo di Durza e cercai la sua bocca.
«N-non è che possiamo andare nella tua stanza?» balbettai, con la voce che tremava vergognosamente.
E una volta lì chiusi le tende, spensi le candele e ricominciai a baciarlo, a cercare la sua pelle e l'oblio, ignorando il bruciore delle ferite che si aprivano e sporcavano di sangue le lenzuola di seta del suo letto.
Giacemmo svegli per lunghe ore, stretti l'uno all'altra senza osare sciogliere la presa nemmeno per un istante.
«Mio..» sussurrò lui. Poi interruppe il discorso e lo riprese parecchi minuti dopo. «Mio padre si chiamava Urien ed era nato nel Surda. I suoi genitori erano mercanti ed erano ormai sull'orlo della disgrazia quando lui divenne uomo, quindi decise di dare una nuova spinta all'attività di famiglia aprendo un commercio con le tribù del deserto di Hadarc. Passò parecchie settimane nella tenda del mercante con cui avrebbe dovuto chiudere l'affare e si innamorò della figlia, Damali. L'uomo gli concesse la sua mano solo perché Damali era già incinta e l'onta rischiava di abbattersi anche sul resto della sua famiglia se la figlia avesse dato alla luce un bastardo. Così Urien e Damali si costruirono una capanna tutta loro e qualche mese dopo nacqui io. Mi chiamarono Carsaib. Mio padre riuscì a dare il via ad un commercio e mandò del denaro nel Surda per sostenere i genitori, che tuttavia non rivide mai più. Il mio primo fratello nacque morto, ma i veri guai cominciarono diversi anni dopo la nascita di Rahi, mia sorella: il padre di Damali morì e il fratello prese il suo posto negli affari, rifiutando però di avere a che fare con Urien, che reputava uno straniero e disprezzava. Così fu la mia famiglia a cadere in disgrazia. Mio padre si indebitò fino al collo e quando i suoi creditori vennero a pretendere il loro pagamento, egli dovette ammettere di non aver mai posseduto il denaro per poterli ripagare. Lo chiamarono spergiuro e la mia intera famiglia venne bandita dalla tribù. Non ci uccisero, ma da un certo punto di vista ciò che fecero fu anche peggio: un piccolo gruppo, solo nel deserto, non può che soccombere sotto le forze dei briganti che vi si aggirano. Ed in effetti fu così. Una notte mi allontanai dal nostro piccolo campo e tornai solo quando sentii delle grida. Mio padre era a terra e il suo sangue macchiava la sabbia, mia madre stava urlando, ma smise presto e mia sorella venne violentata e poi portata via in fin di vita. Io credo.. spero che fosse già morta».
Non lo interruppi mai e continuai imperterrita ad accarezzargli i capelli, anche quando smise di parlare e tacque per un tempo tanto lungo che credetti non volesse più ricominciare. Eppure lo fece.
«Non intervenni perché avevo paura e non volevo morire, ma sarei morto comunque se un uomo speciale non avesse incrociato la mia strada. Si chiamava Haeg e ai miei occhi era un mago potentissimo. Egli era venuto nel deserto per stare solo in meditazione e migliorare le proprie capacità, ma si imbatté in un ragazzo cencioso ed ebbe pietà di me. Mi portò con sé e dopo qualche anno cominciò ad educarmi all'uso della magia. Mi piaceva, mi affascinava e avevo un dono naturale, tuttavia il mio maestro mi continuava a ripetere di non essere avventato con essa perché avrebbe potuto trasformarmi in un mostro. Il dolore per la perdita dei miei familiari scemò lentamente e passò così un altro pugno di anni. In quel lasso di tempo Haeg divenne come un padre per me e io fui come un figlio per lui. Mi chiamava il ratto del deserto».
«Ecco perché il Ratto» osservai delicatamente. «Mi hai detto che ti si adattava come soprannome, a Dras-Leona».
«Già, mai soprannome fu più adeguato di quello. Mi chiamava così perché correvo veloce sulle dune e mi orientavo d'istinto in quelle lande, cosa che lui riusciva a fare solo con la magia. Eravamo una bella squadra, ma poi tutto è finito. Ci hanno attaccato dei briganti e io sono certo che fossero gli stessi uomini che avevano già ucciso la mia famiglia, non è facile dimenticare i volti di qualcuno che ti ha fatto così male. Haeg li ricacciò e protesse entrambi con la magia, ma consumò molta energia, troppa. Quando provai a passargliene un po' della mia il suo cuore aveva già smesso di battere e non riuscii.. a svegliarlo. La notte dopo ero accecato dal dolore, non avrei potuto sopportarlo un istante di più, così evocai gli spiriti, inseguii i banditi e li uccisi. Tutti loro. Ma prima di morire, uno mi disse che la sua discendenza era viva, nascosta in una delle tribù del deserto. Così mi ripromisi che sarei andato a cercare i suoi figli e avrei ucciso anche loro..»
«Il resto lo conosco» lo interruppi, depositandogli un bacio sulla testa.
«Scusa. Volevo che ci fosse qualcun altro a conoscere la verità prima.. prima di tutto» fece flebilmente.
Lo abbracciai e in quel momento fui certa che nessun gesto e nessuna parola sarebbe mai riuscito a trasmettergli anche solo un minimo di ciò che provavo per lui. Toccai la sua mente e, ottenutone l'accesso, vi riversai il mio affetto, le mie insicurezze, la mia pena, la gratitudine per essersi infine aperto in quel modo con me.
In risposta tornò a baciarmi e ricambiò la mia stretta.
Un pensiero balenò fugacemente nella mia mente: forse avrei dovuto dirgli della creatura che custodivo dentro di me. Una parte di me mi diceva che l'idea di un figlio lo avrebbe reso felice, ma sapevo che l'idea di un figlio in quello specifico momento lo avrebbe terrorizzato a morte, almeno un millesimo di quanto terrorizzava me.
Così tacqui e sprecai probabilmente l'ultima occasione ideale per comunicargli la notizia.
«Che cosa significa il tuo nome, Durza?»
«Nulla. Lo scelsero i miei spiriti per me e io decisi di mantenerlo, perché racchiudeva al suo interno i motivi che mi hanno spinto ad evocarli con tanta avventatezza».
«Cioé?»
«Sono le iniziali dei miei cari, Arya. La “D” per Damali, mia madre; la “U” per Urien, mio padre; la “R” per Rahi, mia sorella; la “Z” per Ziya, il mio fratellino nato morto; La “A” sta per Haeg, anche se si scrive con la “H”. immagino che gli spiriti non lo sapessero» concluse con una risatina.
Restammo svegli ancora un poco, poi cedemmo al sonno e ci risvegliammo all'alba del giorno seguente.
Durza mi guardò con un sorriso sornione a scoprire i denti aguzzi. «Non hai avuto gli incubi».
«No» risposi con leggerezza.
Poi lo Spettro mi lasciò riposare nel suo letto e si rivestì per andare a parlare con il capitano delle guardie mandate da Galbatorix.
Ritornò da me con l'umore decisamente peggiorato.
«Il re ha dato ordine di partire tra due giorni. E ha ordinato di trovare un modo per fare sì che tu non possa essere salvata da nessuno, così i suoi uomini hanno portato del Skilna Bragh con loro e dovrà esserti somministrato ogni giorno. Se qualcuno provasse ad intercettarti ti ucciderebbe se non avrà con sé il giusto antidoto».
Mi massaggiai le tempie. «Non conosco questo veleno, che genere di antidoto devo prendere?»
«Nettare di Thuvion, si ricava dalla Fricai Andlat».
«Credevo non crescesse nelle terre degli uomini» osservai.
«Sì, ma l'ultima persona che te ne ha procurato una boccetta ne coltivava una buona partita e il re lo sa, talvolta se ne fa anche pervenire un po' per le sue spie; so che lo assumono se ritengono opportuno mettere fine alla loro vita pur di non finire in mani nemiche».
Di nuovo Alba. Quell'elfa sembrava destinata a rimanere nella mia vita in un modo o nell'altro.
«Quando devo cominciare?» domandai.
Lo Spettro sollevò una mano e notai solo in quel momento che stringeva una fialetta tra le dita.
«In teoria da oggi, ma puoi aspettare anche il giorno della partenza, basterà che tu finga di fronte ai soldati del re».
Gliela strappai di mano e la bevvi d'un sorso. «Vediamo di non fallire a causa di stupidi dettagli traditori».
Solo dopo qualche istante mi ritrovai a chiedermi se per caso il veleno non avrebbe finito per nuocere al bambino.
Un sorriso orgoglioso comparve sul suo volto. «Non sono sicuro di volerti lasciare andare dal re».
«Nemmeno io sono sicura di volerti lasciare andare ad affrontare la fonte del suo potere».
«Mancano pochi giorni ormai. Se vuoi tirarti indietro sei ancora in tempo per farlo».
Scossi la testa. «Sai che non lo farò».
E non lo feci.
            Più tardi, quando entrai nella mia cella insieme allo Spettro, dovetti affrettarmi a riprendere la mia corporeità e lui a fare sparire la mia copia perché il capitano delle guardie si affacciò subito dopo.
«Capitano..» lo salutò Durza con malcelato sarcasmo, afferrandomi un braccio e tirandomi nuovamente nel corridoio.
Il cavaliere era stato sistemato in una cella vicina alla stanza delle torture, sul lato opposto alla mia, così che le sue sbarre si affacciavano sulle strade di Gil'ead e non sul cortile interno. Gettai una rapida occhiata allo spioncino quando vi passai davanti, ma non riuscii a vederlo. Avrei voluto entrare e scrutarlo dal vivo, dopo tutte quelle sfocate visioni che avevo avuto di lui. Senza contare che avevo trasportato per anni il drago che lo aveva reso cavaliere e nei suoi confronti mi sentivo curiosa come solo una madre doveva essere.
Durza si chiuse la porta alle spalle prima che chiunque potesse anche solo pensare di entrare e per un paio di ore mi procurò nuove ferite, ferite che tuttavia si premurò di non lasciare sanguinanti.
Stava per aprire la porta e condurmi nuovamente nella mia cella, quando ebbi un capogiro.
«Durza non mi..»
Ma non riuscii a concludere la frase perché gli occhi mi si chiusero e il cervello mi si annebbiò.
Mi risvegliai nella mia cella, distesa sul pagliericcio. La testa mi doleva come se avessi appena ricevuto una bastonata sulla nuca e non appena aprii gli occhi fui costretta ad alzarmi a sedere, a vomitare sul pavimento.
Qualcuno mi scostò i capelli dal volto. «Arya?»
Sentii il profumo di menta e capii in un istante chi fosse il mio interlocutore.
«Sono svenuta» dissi in tono di scuse.
«Mi dispiace, è stata colpa del veleno. Ti ho fatto bere l'antidoto, ma il capitano ha insistito affinché te ne venisse somministrata una nuova dose mentre eri ancora incosciente».
«Io sto bene» lo rassicurai. «Dimmi di tutto il resto».
«Quegli idioti credevano di averti ucciso, con il loro veleno. Mi hanno suggerito di non torturarti più fino al per i prossimi due giorni e credo che darò ascolto al loro consiglio». Mi guardò con attenzione. «Dopodomani dobbiamo partire, Principessa».
Sorrisi lievemente. «Ti bacerei, ma non mi pare il caso» dissi, accennando al contenuto del mio stomaco, che giaceva dalla parte opposta del pagliericcio dove era inginocchiato lo Spettro.
Gli strappai un sorriso. «Vuoi bere?»
E mi porse dell'acqua ancora prima di sentire la mia risposta. Bevvi con piacere, ripulendomi la bocca e inumidendo la gola, che sentivo riarsa.
«Ho un piano» mi informò poi.
Gli feci spazio sul pagliericcio e Durza sedette vicino a me.
«Voglio parlare con il cavaliere. Non posso spiegargli nulla di tutto il nostro piano, è troppo rischioso, ma forse potrei riuscire a cavargli di bocca qualche informazione utile per ottenere segretamente la sua fedeltà contro Galbatorix».
«I soldati di Galbatorix avranno ricevuto ordini specifici, e in ogni caso non so se valga la pena rischiare. Ormai non puoi risparmiare al ragazzo un bel viaggio ad Uru'baen, ma coinvolgerlo direttamente.. Mi stai proponendo di mandarlo al macello».
«Il re è nella capitale e qui comando io. Il capitano non mi rifiuterà un colloquio con il giovane se saprò insistere in modo convincente». Fece una smorfia crudele. «E per quanto riguarda la salute del ragazzo, credevo che fosse il piano dei Varden quello di mandarlo al macello contro Galbatorix».
Feci un cenno vago. «Prima si pensava di educarlo».
«Non sarebbe bastato. Lasciami fare, ormai ci stiamo giocando il tutto per tutto ed è meglio un cavaliere morto che uno schierato con Galbatorix».
Sospirai. «Hai ragione».
«Ora devo andare. E temo di doverti lasciare qui stanotte».
«D'accordo» mormorai quietamente, ma probabilmente non riuscii a nascondere la mia delusione e il mio dispiacere perché lo Spettro si chinò a baciarmi lo zigomo e poi a morsicarmi la punta dell'orecchio destro.
«Le guardie sono inquiete» si giustificò. «E spero che quello di stanotte fosse solo il primo di una lunga serie di riposi sereni».
«Sicuramente sì. Vai pure, buona notte».
«Torno domani sera» mi assicurò. «Non sparire».
Gli scompigliai i capelli rossi. «Mi trovi qui».
Ed effettivamente i miei incubi non tornarono nemmeno quella notte, così ne approfittai per prolungare il mio riposo fino alle più tarde ore del mattino seguente.
            Il pomeriggio stesso udii Durza bisticciare con il capitano, ma probabilmente ebbe la meglio perché una porta si aprì cigolando. Non sentii la conversazione che teneva con il cavaliere, anzi non sentii proprio nulla; probabilmente aveva insonorizzato la stanza.
Ma tornò, come mi aveva promesso, la sera stessa, seguendo il vassoio di cibo contenente la mia cena, che non riuscii a mangiare. L'odore della cipolla mi dava seriamente la nausea.
Lo Spettro -come spesso succedeva nelle ultime settimane- mi parve allarmato e turbato.
Mi raccontò del breve scambio avuto con il cavaliere e si soffermò con particolare attenzione sul suo presunto vero nome: Du Sùndavar Freohr. Morte delle ombre.
«Ti ha mentito» decretai con sicurezza. «Un vero nome è molto più lungo di così, descrivere l'intera essenza di un individuo non si può fare in meno di sei o sette parole».
Durza camminò inquieto davanti a me. «Mi sembrava sincero. E le ombre sono i miei spiriti. È quella.. era quella la loro forma quando li ho evocati. E se il suo destino è uccidere le ombre, allora significa che ucciderà anche me».
Mi alzai in piedi. «Nessuno ti ucciderà, tanto meno un giovane cavaliere inesperto. Non ci sono riuscita io e, fidati, non ci riuscirà nemmeno lui. In ogni caso sono quasi sicura che ti abbia detto una menzogna: droghe o no nessuno rivelerebbe un'informazione di un tale calibro con così tanta leggerezza, nemmeno il più stolto degli uomini».
«Mi hai convinto» sussurrò afferrando le mie mani e baciandole.
«Tutto a posto?» gridò una voce dall'esterno, che riconobbi come quella del capitano.
Il mio compagno alzò gli occhi al cielo in un gesto esasperato. «Sì! Mi accerto che il veleno non le stia nuocendo e arrivo, capitano, non è necessario che tu ti preoccupi del mio benessere».
Soffocai una risata nel palmo della mano e restai ad ascoltare i passi dell'uomo, che si allontanavano su per le scale.
«Sarà meglio che vada» borbottò. «Pensi di cavartela con i tuoi incubi?»
«Non li ho avuti nemmeno la scorsa notte» lo informai con ottimismo.
«Allora ci vediamo domani, quando verrò a prenderti per partire».
Mi sollevò il mento e mi baciò sulle labbra.
Una profonda inquietudine mi investì, facendomi tremare le gambe e accelerare il battito del cuore.
«Ci vediamo domani» ripetei, quasi a cercare di convincermi da sola.
E lo baciai una seconda volta.
Durza scoprì i denti aguzzi in un sorriso, una luce quasi tenera negli occhi di sangue.
Se solo avessi avuto una minima idea di quello che sarebbe successo da lì a poche ore lo avrei supplicato di restare, avrei baciato altre mille volte le sue labbra crudeli, scompigliato un'ultima volta i suoi capelli e confessato senza esitazioni il piccolo segreto che celavo nel mio ventre.
Ma non lo sapevo, come avrei potuto? Così lo lasciai andare e presi a mia volta a camminare avanti e indietro davanti alla porta della mia cella, troppo agitata per pensare di dormire o coricarmi.
            Il primo rumore fu quello dei soldati in corsa. Il secondo il rumore di passi vicino alle scale e il sibilo di un arco, poi voci concitate e passi frettolosi nella direzione della mia cella.
Cominciò a girarmi la testa e un forte bruciore mi assalì il cervello.
Il veleno! Non di nuovo.
Con fatica immane, cercai la coscienza di Durza.
«Aiutami!»
Poi vidi il volto di Eragon davanti a me, lo riconobbi all'istante e fui certa che non si trattasse di una visione. Lui mi guardò con una strana consapevolezza negli occhi castani, come se fossi un amico ritrovato dopo tanto tempo e ormai irriconoscibile.
E poi tutto divenne nero.

Ripresi una vaga coscienza di me quando sentii un calore rassicurante accarezzarmi diversi punti del corpo. Capii che qualcuno mi stava guarendo dalle ferite delle ultime settimane, ma mi isolai rapidamente dalle voci.
Non sapevo esattamente cosa stesse succedendo, ma una cosa era certa: non ero più a Gil'ead e sicuramente non ero sotto la custodia di Durza. E avevo del Skilna Bragh in corpo.
Dando per scontato che le voci intorno a me appartenessero al cavaliere e al figlio di Morzan e che i due non avessero intenzione di farmi del male, mi rifugiai nei meandri della mia mente, riducendo al minimo le mie attività vitali, consapevole che un respiro troppo profondo avrebbe potuto rubarmi minuti di vita, sotto l'effetto del veleno.
Era difficile non pensare a nulla quando tante cose facevano a pugni nella mia testa, ma con fatica disumana riuscii a staccarmene. Durza sarebbe venuto a prendermi, ne ero certa, nel frattempo dovevo solo sopravvivere.

L'intrusione di una mente sconosciuta nella mia mi costrinse a reagire. Attaccai lo sconosciuto con ferocia fino a che non mi resi conto che si trattava di Eragon stesso, che si dichiarò mio amico nell'antica lingua.
Un poco sorpresa, gli lasciai lo spazio necessario per riprendersi e toccai con circospezione la sua mente. Una vita breve, grandi dolori e un futuro ancora incerto. Questo colsi di lui in quei pochi secondi.
Poi mi resi conto di sapere troppo, di tutto. Probabilmente il giovane credeva di avermi appena salvato la vita e di avermi strappata dalle grinfie di uno Spettro crudele -e entrambe le cose erano in parte vere- e io non volevo contraddirlo. Non avevo tempo di chiedergli nulla, né di cosa fosse successo, né di cosa mi aspettasse, potevo solo condurlo dai Varden e farmi salvare la vita. Spiegare un'alleanza con Durza lo Spettro avrebbe richiesto ore, se non giorni.
Così feci l'ingenua e mi affrettai a mettergli tra le mani tutte le informazioni necessarie per raggiungere Tronjiheim, sperando che il giovane non avesse teso tranelli nel pronunciare il suo giuramento. Tuttavia la sua conoscenza dell'antica lingua mi pareva così scarna da far perdere spessore a quest'ultima ipotesi.
Ma che ne era stato di Durza?

Di ciò che successe i giorni dopo io ricevetti solo racconti postumi.
Mi risvegliai in una stanza soffocante, circondata da un pugno di persone che si affaccendavano intorno a me, pronunciando incantesimi per purificare il mio sangue.
Avrei potuto guarirmi da sola, ma non riuscivo a trovare la forza per sollevare la testa dal giaciglio e le mie labbra erano gonfie, la mia gola secca e la mia lingua impastata.
Poi arrivò qualcuno e capii che la sua presenza non doveva essere gradita perché cercarono di ricacciarlo.
«Fate come volete, ma se volete che gli Elfi tornino a darvi il loro appoggio dovrete restituire loro la loro ambasciatrice, possibilmente viva».
La voce era decisamente femminile, squillante, vagamente ironica e giungeva familiare alle mie orecchie, tuttavia sul momento non riuscii a stabilire chi ne fosse la proprietaria.
Altre mani leggere sfiorarono il mio corpo, altre parole nell'antica lingua danzarono lievissime nell'aria. Chiunque fosse l'intrusa sapeva quello che stava facendo e lo stava facendo bene. Tuttavia, quando le sue dita indugiarono sul mio ventre le sentii tremare.
Non ero pronta all'ansia divorante che si impossessò di me non appena realizzai che la maga stava sfiorando il punto in cui cresceva il mio bambino. Recuperate un poco di forze, mi affrettai a scacciarla, balbettando qualche sconnessa parola dettata dal panico, probabilmente chiedendo se la mia creatura stesse bene o fosse rimasta vittima del veleno. Schiusi gli occhi appiccicati e intravidi vagamente il profilo di una donna con una spropositata massa di riccioli ad incorniciarle il volto.
«Slytha» rantolò, allarmata.
E fui nuovamente fuori gioco.



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Ciaaaao :D
Prima che mi uccidiate lasciate che vi dia le mie giustificazioni: Immagino che la scelta di far rimanere Arya incinta sarà accolta con controversie. Forse è scontato e banale, effettivamente, ma non ho resistito alla tentazione di analizzare una possibile gravidanza di un elfo e di porre la questione del sangue misto elfa/spettro che avrà la creatura, se nascerà. Dico SE perché in realtà non ho ancora deciso del suo destino, quindi potrebbe benissimo finire -come ha già detto Arya- in un aborto spontaneo o in un bambino/a dai capelli rigorosamente rossi ;)
Vedremo..
Per quanto riguarda il resto del capitolo: Eragon è arrivato e si è portato via l'elfa dalla prigione, come previsto dalla trama. Avevo già premesso che nella mia narrazione avrei seguito gli elementi del Ciclo dell'Eredità con semi-coerenza e quindi eccoci qua! Spero non vi dispiacciano le descrizioni frettolose che troverete d'ora in poi per quanto riguarda gli eventi già ampiamente descritti da Paolini: non voglio ricreare una copia dei suoi libri, ma intessere trame sotterranee. Quindi troverete d'ora in poi interi capitoli riassunti in poche frasi, magari alcuni salti.. Insomma troverete scene "inedite" e alcuni pezzi ripresi frettolosamente dal punto di vista di Arya, ma non una ridescrizione accurata o diventerei decisamente noiosa e anche una plagiatrice. Spero di essermi fatta capire :')
Un'ultima e ahimé infelice informazione: sarò costretta ad aggiornare i capitoli ogni due settimane per il prossimo periodo. Non so dirvi esattamente fino a quando, ma almeno fino a metà febbraio; perdonatemi ma iniziano le sessioni di esami, e che esami! Non posso purtroppo caplestare i miei studi per questa fanfiction (perché per scrivere un solo capitolo impiego una media di dodici ore, sappiatelo), quindi vi chiedo un po' di pazienza, anche perché, per essere più precisa, dovrò riprendere un attimo in mano "Eldest", poi "Brisingr" e poi "Inheritance" ^_^
Un enorme bacio a tutti e ci vediamo (sigh) tra due settimane!
Lalli
  
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