Nei
giorni che seguirono io e Durza ci impegnammo per rendere la storia
della mia prigionia il più credibile possibile agli occhi
dei nuovi
arrivati. Le guardie erano arrivate in città in pompa magna
e il
loro capitano aveva subito chiesto di essere ricevuto da Durza
affinché potessero accordarsi per inserire una decina dei
suoi
uomini nei turni di guardia sulle mura, in modo da poter svolgere il
compito per il quale il re li aveva spediti a Gil'ead.
Cinque di
loro presero posto fisso davanti alla mia cella, sostituendo gli
uomini dello Spettro e aprendo lo spioncino per sbirciare all'interno
molto più spesso di quanto fossi abituata. Sgattaiolare via
con
Durza si fece ogni notte più difficile, e altrettanto
difficile era
sostituirmi alla mia immagine ogni mattino perché non era
raro che
il capitano si affacciasse curioso alla porta e seguisse la
processione fino alla stanza delle torture con i suoi uomini.
Le
torture. Durza cominciò con l'accarezzarmi lo sterno con un
ferro
arroventato, nel punto dove aveva fatto sparire le mie cicatrici
affinché non risultassero evidenti dallo scollo dell'abito,
quando
eravamo a Dras-Leona. Il dolore era sopportabile e lo Spettro si
premurava di guarirmele ogni sera, almeno in parte.
Ma sapevo che
prima o poi avrebbe dovuto cominciare a procurarmi vere ferite,
sanguinanti e d'impatto, che potessero risultare soddisfacenti agli
occhi di Galbatorix, se e quando avesse deciso di vedere fino a che
punto si erano spinte le torture del suo secondo.
Tre giorni dopo
ci rendemmo conto che indossavo ancora l'anello di ametiste e che
forse era il caso di togliermelo, dato che ufficialmente era una
droga a sopprimere i miei poteri, che in realtà erano
liberi. Lo
consegnai a Durza e lui se lo mise al collo insieme al ciondolo del
sole.
«I miei spiriti vorrebbero farti ancora del male»
aveva
ammesso lo Spettro il giorno prima, con un'espressione di vergogna
così penosa in volto, che mi ero sentita il dovere di
consolarlo,
nonostante fossi io la possibile vittima della rabbia di quelle
creature.
«Questo olio ricorda vagamente l'odore della tua
pelle»
disse lui in quel momento, riportandomi al presente.
Lasciai
scivolare le dita tra i suoi capelli fradici e gli massaggiai
delicatamente la testa. Eravamo entrambi immersi nel piacevole calore
della sua vasca, la sua schiena contro il mio petto, e ci stavamo
godendo qualche istante rilassante prima di coricarci. Fuori era
notte fonda e solo una fioca candela illuminava la sala da bagno.
Al
tocco delle mie mani, lo Spettro chiuse gli occhi e reclinò
il capo
all'indietro, tirando un respiro appena più profondo dei
precedenti.
«Aghi di pino?» mi informai incuriosita, annusando
l'essenza che aveva appena versato nell'acqua.
«Qualcosa del
genere» mugugnò.
E per qualche minuto restammo in silenzio.
«Hai
appeso i manifesti con le immagini del cavaliere?» domandai,
cambiando discorso.
Anche quelli erano stati una sorpresa: li
avevano portati i soldati mandati dal re, ammucchiati in grandi
casse, con l'ordine di distribuirli per Gil'ead e villaggi limitrofi.
Le pergamene raffiguravano, con dettagli piuttosto precisi, il viso
di un giovane dall'aria seria e composta e dovevano essere state
realizzate seguendo le descrizioni fatte dai Ra'zac, che avevano
affrontato personalmente il cavaliere a Dras-Leona. A chi lo avesse
catturato o avesse fornito informazioni utili alla cattura erano
promessi mille pezzi d'oro, a detta di Durza una fortuna. Tuttavia
non era citato un drago o la vera natura del giovane, lo si
denunciava solo per “crimini contro la corona e il regno
intero”.
Durza me ne aveva portato uno affinché potessi vederlo
e io avevo constatato che si trattava dello stesso volto che vedevo
talvolta in quelle visioni così realistiche che mi
strappavano
bruscamente alla realtà. Ma di lui sapevo solo che si
chiamava
Eragon, che aveva i capelli castani e che l'ultima volta che l'avevo
visto stava soffrendo immensamente. Il perché di quella
strana
connessione che sembravo avere con lui restava inspiegato, anche se
sospettavo dipendesse in qualche modo dal legame che mio malgrado
avevo creato con il drago di zaffiro, che a lungo avevo portato con
me, attraversando Alagaësia.
«Ci hanno pensato i soldati del re»
mi rispose lo Spettro, con voce impastata. «Li hanno appesi
ad ogni
incrocio e ad ogni locanda, ma si sono anche presi l'impegno di fare
annunci orali al popolo, dato che buona parte di loro non sa leggere.
In ogni caso non vedo perché il cavaliere dovrebbe passare
di qui.
Se ha avuto un pizzico di buon senso ormai sarà
già nel Surda o tra
i Varden».
«Su questo le tue spie non sono state molto utili»
osservai.
Effettivamente aveva ricevuto informazioni da Dras-Leona
solo pochi giorni dopo lo scambio avuto con Galbatorix e dagli
informatori aveva saputo che due individui avevano lasciato la
città
a cavallo, con tutte le guardie cittadine alle calcagna. Ma a quanto
pareva erano riusciti a cavarsela e a lasciare la città,
peccato che
nessuno sapesse dire che direzione avessero preso.
«Non
prendertela con le mie spie, Elfa» borbottò, le
palpebre ancora
chiuse.
Continuai a massaggiargli le tempie. «E gli Urgali?»
«Li
ho richiamati e credo che già da domattina farò
partire un primo
drappello in direzione del deserto di Hadarac, con l'ordine di
catturare il cavaliere. Tuttavia dirò loro di non correre
troppo,
così non gli saranno di ostacolo nemmeno per
sbaglio».
«Ottimo»
decretai, baciandogli la nuca e stringendo le braccia intorno al suo
collo.
Durza mi scoccò uno sguardo malizioso da sopra la spalla
sinistra e si voltò totalmente nella mia direzione.
Scostai le
sue mani quando le strinse sui miei seni. «Mi da
fastidio»
ammisi.
Non ribatté e si limitò a spostarle altrove.
Per
quella notte non ci pensai più, ma il giorno seguente, dopo
che lo
Spettro mi ebbe lasciata nella mia cella, mi sedetti sul pagliericcio
e mi misi a fare un paio di calcoli.
Era da diversi giorni che
sentivo il seno gonfio e cominciai a chiedermi se per caso non stesse
per venirmi il ciclo. L'ultima volta risaliva a un bel po' di tempo
prima, forse un paio d'anni, mentre ero ad Ellesméra. Ero
abituata a
simili salti: a causa dei numerosi e pesanti sforzi fisici a cui
sottoponevo il mio corpo, il mio sangue mensile non era mai stato
regolare e probabilmente non lo sarebbe mai stato fino a che non mi
fossi decisa a condurre una vita più tranquilla, vita che
effettivamente avevo condotto negli ultimi mesi, nei quali avevo
drasticamente ridotto i miei allenamenti per ovvi motivi.
Avrei
dovuto usare un paio di incantesimi o chiedere a Durza degli
stracci.
Nel pomeriggio, cominciarono le vere e
proprie torture,
con lame ed uncini. Io e il mio alleato litigammo per ore
sull'argomento: Durza voleva applicarmi un incantesimo che mi avrebbe
privata delle sensazioni fisiche e quindi anche del dolore, io non
volevo perché sapevo che la pratica rientrava nella sfera
della
magia nera e io ne ero terribilmente spaventata, anche se non lo
avrei mai ammesso.
Alla fine l'ebbi vinta io e nei giorni che
seguirono mi spogliai del farsetto e dei pantaloni, così che
le
ferite potessero prendere piede in tutto il mio corpo.
Lo Spettro
non riprese le torture più estreme come le frustate
perché il
nostro vero e unico scopo era creare il più alto numero di
segni
possibili su di me, in modo che il re non capisse subito che c'era
qualcosa che non andava e lasciasse a Durza il tempo di fare
ciò che
doveva fare. E che io ancora non potevo sapere.
Riprendemmo, a
ritmi ovviamente più leggeri, i tempi che aveva adottato
quando io
ero ancora l'uccellino da fare cantare. E nonostante il dolore fosse
palesemente meno intenso, più calcolato e di breve durata,
ricominciai ad essere terrorizzata da quella stanza e dai suoi
strumenti. Non chiesi mai allo Spettro di fermarsi nel bel mezzo
dell'opera, ma mi lasciai spesso sfuggire gemiti di dolore e piccole
grida.
Smettemmo anche di giacere insieme, come
avremmo potuto
fare altrimenti? Io ero dolorante in numerose parti del corpo e non
era raro che rabbrividissi alla sola vista delle sue mani sulla mia
pelle, nonostante sapessi benissimo che non lo stava facendo
volentieri -o almeno non la parte di lui che mi piaceva tanto,
perché
ero certa che gli spiriti dentro di lui stessero esultando. Durza,
dal canto suo, faticava a torturarmi di giorno e prendere in
considerazione l'idea di amarmi la notte, così non lo fece e
io non
cercai di persuaderlo altrimenti.
Continuammo però a perdere il
respiro in lunghi baci, a dormire insieme e ad affrontare i miei
incubi.
Sopportai con tutta la forza d'animo che era rimasta
dentro di me, dicendomi che un giorno avrei trovato il coraggio di
guardarmi indietro e valutare con serenità quei brutti
momenti.
Così
come prima o poi avrei trovato il coraggio di dire a Durza che
portavo in grembo suo figlio.
Impiegai parecchi giorni prima di
riuscire ad ammettere a me stessa la verità, ma ad un certo
punto
divenne talmente ineluttabile che mi ritrovai a farci i conti per
forza. Il mio seno era fastidiosamente gonfio, ma il sangue non
veniva; e certamente non era immaginazione il flebile battito che
sentii provenire dal mio ventre il giorno che mi decisi a fare un
incantesimo per ampliare i suoni alle mie orecchie. Il battito lento,
incerto e caparbio di un cuoricino.
Incredibile.
Certo, le
occasioni in cui sarebbe potuta avvenire una cosa del genere erano
state molteplici nelle ultime, intense, settimane della mia vita, ma
in una sola occasione non avevo preso provvedimenti affinché
la vita
non potesse germogliare nel mio ventre, ed era la notte a Dras-Leona,
al Covo Segreto, quando non potevo ancora usare la magia. Tuttavia io
ero poco fertile, visti i miei natali, e non ero nemmeno certa che
Durza potesse avere figli, visti i mutamenti che gli spiriti avevano
operato sul suo corpo.
Quante probabilità c'erano che succedesse
una cosa del genere?
Eppure era successo e io non sapevo come
fosse meglio comportarmi. Se guardavo sia ai canoni degli uomini, sia
a quelli degli elfi, l'unica soluzione possibile pareva quella di
procurarsi le erbe giuste, bere un decotto e liberarmi del problema
ancora prima che divenisse tale. Io stessa ero stata educata a
considerare i figli come la più grande delle
rarità e come tale un
dono preziosissimo di cui prendersi cura con il massimo impegno e
dedizione, il frutto di un'unione stabile, serena e presumibilmente
duratura.
E nel rapporto tra me e Durza non vi era nulla di
simile: la nostra era una passione sbocciata con la rapidità
di una
stagione e al momento le nostre possibilità per il futuro
non erano
esattamente rosee. Non avrei messo al mondo una creatura solo per
vederla soffrire, tuttavia qualcosa mi diceva che non avrei mai e poi
mai trovato la forza di liberarmene.
Così lasciai passare altri
minuti, altre ore, altri giorni. E arrivai alla conclusione che
semplicemente non potevo prendere decisioni in quel momento. Sapevo
che se volevo mettere fine alla questione avrei dovuto farlo entro i
primi tre mesi dal concepimento e, se tutto andava come doveva, in
poche settimane tutto si sarebbe risolto: io e Durza saremmo stati
liberi o morti. E allora -se si fosse verificata la prima opzione,
ovviamente- ne avrei parlato con lui e avremmo preso una decisione.
Fino a quel momento avrei lasciato che il bambino crescesse dentro di
me, e vissuto la mia vita come se nulla fosse successo. Del resto una
buona percentuale di gravidanze finiva entro le prime dodici
settimane a causa di aborti spontanei e non era certo che lo stesso
non sarebbe capitato anche a me.
Mentre il mio corpo tornava
ad essere una selva di tagli ed escoriazioni e il mio compagno mi
faceva notare che avevo gli occhi più luminosi del solito, i
giorni
si tradussero in una settimana. E si avvicinò
ineluttabilmente il
giorno in cui avremmo dovuto lasciare Gil'ead per incamminarci vero
Uru'baen.
Ma ovviamente nulla poteva andare come avevamo previsto,
e una mattino -subito prima dell'alba- Durza si presentò al
mio
cospetto con gli occhi felini spalancati e un lieve tremore diffuso
in tutto il corpo.
«Il figlio di Morzan è qui»
gracchiò.
«Chi!?» esclamai, scattando in piedi
così
rapidamente che rischiai di alzarmi da terra.
«Shht» mi zittì,
posandomi una mano sulla bocca. Poi mi portò nella stanza
delle
torture e la sigillò con la magia. «La mia catena
di spie funziona
molto peggio da quando non c'è più il suo
capitano»
sospirò.
«Chi?»
Alzò un sopracciglio. «Alba,
Principessa».
«Ovvio, scusami» borbottai, spalmandomi una mano
sul volto.
«Sei stanca? Vuoi che ti guarisca qualche ferita?»
si
informò con premura, passando una mano gentile tra i miei
capelli.
Stirai un sorriso. «No, ma dimmi del figlio di Morzan,
ti prego».
Mi baciò fugacemente, poi riprese il discorso.
«Era
qui qualche ora fa, ma la notizia mi è giunta un po' tardi
purtroppo. A quanto pare era solo, ma non escludo che il cavaliere e
Brom lo stiano aspettando fuori Gil'ead».
«Mi sembra improbabile
che lo abbiano preso con loro. E in ogni caso cosa ci farebbero
qui?»
imprecai a denti stretti.
«Speravo me lo dicessi tu a dire il
vero».
«Mi spiace deluderti, ma non ne ho la più pallida
idea».
«Forse dovresti andare a parlare con loro» disse
esitante, socchiudendo gli occhi.
«Io?»
Rise amaramente. «Io
no di certo».
«Il massimo che potrei fare a questo punto è
mandarli nella Du Weldenvarden, sperando che prima o poi una
pattuglia di elfi li trovi, il tutto prima che incontrino pericoli
che non saprebbero affrontare».
«Credo che sarebbe comunque
meglio che proporre loro di seguirci ad Uru'baen. Se il nostro piano
fallisse Galbatorix ci guadagnerebbe un cavaliere e allora sarebbe un
problema ancora più serio».
«Sei diventato altruista» osservai
stringendogli affettuosamente la mano.
«Si chiama odio sconfinato
per il re, piccola elfa» ribatté con un ghigno.
«E da qui
all'altruismo c'è una bella voragine. Comunque se sei
d'accordo
stanotte..»
Si bloccò al suono di passi affrettati che si
avvicinavano.
«Mio signore!» gridò Hillr, battendo con
forza i
pugni sulla porta. «Mio signore si tratta di una questione
urgente!»
Durza mi spinse dietro di sé e sciolse l'incantesimo
che bloccava la porta, permettendo al siniscalco di entrare
precipitosamente nella stanza.
L'uomo aveva le guance arrossate
come per una grande eccitazione e gli occhi sgranati, come a seguito
di un grande spavento.
«Mio signore un drappello di Urgali chiede
di vederti. Loro hanno.. lo hanno preso».
«Preso chi?»
Ma il
rumore di altri passi impedì ad Hillr di rispondergli.
Un uomo
dalla corta barba curata si precipitò nella stanza e, dopo
uno
sbrigativo inchino nella direzione di Durza, chiese: «Sono
vere le
voci?»
«Non so di cosa tu stia parlando capitano», rispose
lo
Spettro con studiata indifferenza, «ma se lascerai al mio
secondo il
tempo di mettermene al corrente forse potrò
risponderti».
L'uomo
chinò il capo e fece un rispettoso passo indietro, ma era
palesemente inquieto e impaziente. Ne approfittai per sedermi sul
tavolo di pietra e assumere un'aria imbambolata, tipica di qualcuno
sotto effetto di droghe o al limite delle proprie forze fisiche.
Anche se non credevo che qualcuno dei presenti avesse anche solo un
minimo interesse per me, erano tutti concentrati su altro.
Hillr
si portò una mano al petto ed estrasse un pezzo di
pergamena.
«L'hanno consegnata gli Urgali ad una delle guardie delle
porte
esterne e hanno aggiunto che il ragazzo ricercato è stato
preso, ma
non i suoi compagni».
Il mio cuore prese a battere più forte
mentre registravo le parole di Hillr e guardavo le dita bianche del
mio amato svolgere con lentezza la pergamena e decifrare con
altrettanta calma la lingua aspra che vi era vergata.
«Allora?»
fece il capitano, dondolandosi su i talloni.
«Hai sentito Hillr,
capitano. I miei Urgali hanno preso il cavaliere, ma non il suo
drago. Qui c'è scritto che aspettano sulle sponde del lago
che
qualcuno vada a prelevare il prigioniero. A quanto pare lo hanno
tramortito».
«Andremo io e i miei uomini!» esclamò
egli. «Il
re ci ha mandati qui per questo ed è nostro compito
suppongo».
Durza
non poté fare altro che annuire. «Portatelo qui,
dovrà essere
drogato prima di affrontare qualunque viaggio alla capitale. E in
ogni caso tra qualche giorno metà del vostro drappello
dovrà
seguirmi con la prigioniera». E fece un gesto spazientito
nella mia
direzione.
Il capitano fece un'altra rapida riverenza. «Dopo
dovrò parlarti anche di questo. Ora col tuo permesso vado a
prendere
il cavaliere».
E senza aspettare una risposta corse via, con la
velocità che gli permetteva una cotta di maglia,
ovviamente.
«Hillr», fece lo Spettro in un sussurro,
«assicurati
che il prigioniero venga effettivamente portato qui, nelle segrete. E
poi al suo ritorno riferisci al capitano che sarò lieto di
conferire
con lui nel mio studio, domattina dopo il sorgere del sole».
Hillr
deglutì, si inchinò e uscì chiudendo
la porta dietro di
sé.
«Dannazione» sibilò Durza, sbattendo
violentemente i pugni
chiusi accanto a me, sul tavolo di pietra.
«Hanno preso il
cavaliere» sentenziai.
«Quelli erano i loro ultimi ordini, solo
che non mi aspettavo di trovarmelo alle porte di casa mia, quello
sciocco!»
Che diavolo aveva in mente Brom? Avrebbe dovuto portare
Eragon al sicuro tra i Varden o tra gli Elfi, non dritto nella
città
più militarizzata dell'impero. E al momento circondata da
pattuglie
di Urgali.
«Ma il drago è libero» sussurrai.
«Non per
molto» fu la cupa risposta. «Basterà
minacciare di morte il suo
cavaliere e lui volerà al castello di Galbatorix di sua
spontanea
volontà».
Ovviamente. Nulla era andato secondo i nostri piani. E
se da un lato avevamo ancora una buona possibilità di
uccidere il
re, dall'altra il rischio di rinforzarlo di un nuovo alleato si era
fatto incombente.
Con la sensazione di panico che andava
aumentando esponenzialmente dentro di me, gettai le braccia al collo
niveo di Durza e cercai la sua bocca.
«N-non è che possiamo
andare nella tua stanza?» balbettai, con la voce che tremava
vergognosamente.
E una volta lì chiusi le tende, spensi le
candele e ricominciai a baciarlo, a cercare la sua pelle e l'oblio,
ignorando il bruciore delle ferite che si aprivano e sporcavano di
sangue le lenzuola di seta del suo letto.
Giacemmo svegli per
lunghe ore, stretti l'uno all'altra senza osare sciogliere la presa
nemmeno per un istante.
«Mio..» sussurrò lui. Poi interruppe il
discorso e lo riprese parecchi minuti dopo. «Mio padre si
chiamava
Urien ed era nato nel Surda. I suoi genitori erano mercanti ed erano
ormai sull'orlo della disgrazia quando lui divenne uomo, quindi
decise di dare una nuova spinta all'attività di famiglia
aprendo un
commercio con le tribù del deserto di Hadarc.
Passò parecchie
settimane nella tenda del mercante con cui avrebbe dovuto chiudere
l'affare e si innamorò della figlia, Damali. L'uomo gli
concesse la
sua mano solo perché Damali era già incinta e
l'onta rischiava di
abbattersi anche sul resto della sua famiglia se la figlia avesse
dato alla luce un bastardo. Così Urien e Damali si
costruirono una
capanna tutta loro e qualche mese dopo nacqui io. Mi chiamarono
Carsaib. Mio padre riuscì a dare il via ad un commercio e
mandò del
denaro nel Surda per sostenere i genitori, che tuttavia non rivide
mai più. Il mio primo fratello nacque morto, ma i veri guai
cominciarono diversi anni dopo la nascita di Rahi, mia sorella: il
padre di Damali morì e il fratello prese il suo posto negli
affari,
rifiutando però di avere a che fare con Urien, che reputava
uno
straniero e disprezzava. Così fu la mia famiglia a cadere in
disgrazia. Mio padre si indebitò fino al collo e quando i
suoi
creditori vennero a pretendere il loro pagamento, egli dovette
ammettere di non aver mai posseduto il denaro per poterli ripagare.
Lo chiamarono spergiuro e la mia intera famiglia venne bandita dalla
tribù. Non ci uccisero, ma da un certo punto di vista
ciò che
fecero fu anche peggio: un piccolo gruppo, solo nel deserto, non
può
che soccombere sotto le forze dei briganti che vi si aggirano. Ed in
effetti fu così. Una notte mi allontanai dal nostro piccolo
campo e
tornai solo quando sentii delle grida. Mio padre era a terra e il suo
sangue macchiava la sabbia, mia madre stava urlando, ma smise presto
e mia sorella venne violentata e poi portata via in fin di vita. Io
credo.. spero che fosse già morta».
Non lo interruppi mai e
continuai imperterrita ad accarezzargli i capelli, anche quando smise
di parlare e tacque per un tempo tanto lungo che credetti non volesse
più ricominciare. Eppure lo fece.
«Non intervenni perché avevo
paura e non volevo morire, ma sarei morto comunque se un uomo
speciale non avesse incrociato la mia strada. Si chiamava Haeg e ai
miei occhi era un mago potentissimo. Egli era venuto nel deserto per
stare solo in meditazione e migliorare le proprie capacità,
ma si
imbatté in un ragazzo cencioso ed ebbe pietà di
me. Mi portò con
sé e dopo qualche anno cominciò ad educarmi
all'uso della magia. Mi
piaceva, mi affascinava e avevo un dono naturale, tuttavia il mio
maestro mi continuava a ripetere di non essere avventato con essa
perché avrebbe potuto trasformarmi in un mostro. Il dolore
per la
perdita dei miei familiari scemò lentamente e
passò così un altro
pugno di anni. In quel lasso di tempo Haeg divenne come un padre per
me e io fui come un figlio per lui. Mi chiamava il ratto del
deserto».
«Ecco perché il Ratto» osservai
delicatamente. «Mi
hai detto che ti si adattava come soprannome, a Dras-Leona».
«Già,
mai soprannome fu più adeguato di quello. Mi chiamava
così perché
correvo veloce sulle dune e mi orientavo d'istinto in quelle lande,
cosa che lui riusciva a fare solo con la magia. Eravamo una bella
squadra, ma poi tutto è finito. Ci hanno attaccato dei
briganti e io
sono certo che fossero gli stessi uomini che avevano già
ucciso la
mia famiglia, non è facile dimenticare i volti di qualcuno
che ti ha
fatto così male. Haeg li ricacciò e protesse
entrambi con la magia,
ma consumò molta energia, troppa. Quando provai a
passargliene un
po' della mia il suo cuore aveva già smesso di battere e non
riuscii.. a svegliarlo. La notte dopo ero accecato dal dolore, non
avrei potuto sopportarlo un istante di più, così
evocai gli
spiriti, inseguii i banditi e li uccisi. Tutti loro. Ma prima di
morire, uno mi disse che la sua discendenza era viva, nascosta in una
delle tribù del deserto. Così mi ripromisi che
sarei andato a
cercare i suoi figli e avrei ucciso anche loro..»
«Il resto lo
conosco» lo interruppi, depositandogli un bacio sulla testa.
«Scusa.
Volevo che ci fosse qualcun altro a conoscere la verità
prima..
prima di tutto» fece flebilmente.
Lo abbracciai e in quel momento
fui certa che nessun gesto e nessuna parola sarebbe mai riuscito a
trasmettergli anche solo un minimo di ciò che provavo per
lui.
Toccai la sua mente e, ottenutone l'accesso, vi riversai il mio
affetto, le mie insicurezze, la mia pena, la gratitudine per essersi
infine aperto in quel modo con me.
In risposta tornò a baciarmi e
ricambiò la mia stretta.
Un pensiero balenò fugacemente nella
mia mente: forse avrei dovuto dirgli della creatura che custodivo
dentro di me. Una parte di me mi diceva che l'idea di un figlio lo
avrebbe reso felice, ma sapevo che l'idea di un figlio in quello
specifico momento lo avrebbe terrorizzato a morte, almeno un
millesimo di quanto terrorizzava me.
Così tacqui e sprecai
probabilmente l'ultima occasione ideale per comunicargli la
notizia.
«Che cosa significa il tuo nome, Durza?»
«Nulla. Lo
scelsero i miei spiriti per me e io decisi di mantenerlo,
perché
racchiudeva al suo interno i motivi che mi hanno spinto ad evocarli
con tanta avventatezza».
«Cioé?»
«Sono le iniziali dei
miei cari, Arya. La “D” per Damali, mia madre; la
“U” per
Urien, mio padre; la “R” per Rahi, mia sorella; la
“Z” per
Ziya, il mio fratellino nato morto; La “A” sta per
Haeg, anche se
si scrive con la “H”. immagino che gli spiriti non
lo sapessero»
concluse con una risatina.
Restammo svegli ancora un poco, poi
cedemmo al sonno e ci risvegliammo all'alba del giorno
seguente.
Durza mi guardò con un sorriso sornione a scoprire i
denti aguzzi. «Non hai avuto gli incubi».
«No» risposi con
leggerezza.
Poi lo Spettro mi lasciò riposare nel suo letto e si
rivestì per andare a parlare con il capitano delle guardie
mandate
da Galbatorix.
Ritornò da me con l'umore decisamente
peggiorato.
«Il re ha dato ordine di partire tra due giorni. E ha
ordinato di trovare un modo per fare sì che tu non possa
essere
salvata da nessuno, così i suoi uomini hanno portato del
Skilna
Bragh con loro e dovrà esserti somministrato ogni giorno. Se
qualcuno provasse ad intercettarti ti ucciderebbe se non
avrà con sé
il giusto antidoto».
Mi massaggiai le tempie. «Non conosco
questo veleno, che genere di antidoto devo prendere?»
«Nettare
di Thuvion, si ricava dalla Fricai Andlat».
«Credevo non
crescesse nelle terre degli uomini» osservai.
«Sì, ma l'ultima
persona che te ne ha procurato una boccetta ne coltivava una buona
partita e il re lo sa, talvolta se ne fa anche pervenire un po' per
le sue spie; so che lo assumono se ritengono opportuno mettere fine
alla loro vita pur di non finire in mani nemiche».
Di nuovo Alba.
Quell'elfa sembrava destinata a rimanere nella mia vita in un modo o
nell'altro.
«Quando devo cominciare?» domandai.
Lo Spettro
sollevò una mano e notai solo in quel momento che stringeva
una
fialetta tra le dita.
«In teoria da oggi, ma puoi aspettare anche
il giorno della partenza, basterà che tu finga di fronte ai
soldati
del re».
Gliela strappai di mano e la bevvi d'un sorso. «Vediamo
di non fallire a causa di stupidi dettagli traditori».
Solo dopo
qualche istante mi ritrovai a chiedermi se per caso il veleno non
avrebbe finito per nuocere al bambino.
Un sorriso orgoglioso
comparve sul suo volto. «Non sono sicuro di volerti lasciare
andare
dal re».
«Nemmeno io sono sicura di volerti lasciare andare ad
affrontare la fonte del suo potere».
«Mancano pochi giorni
ormai. Se vuoi tirarti indietro sei ancora in tempo per
farlo».
Scossi la testa. «Sai che non lo farò».
E non lo
feci.
Più tardi, quando entrai
nella mia cella insieme allo
Spettro, dovetti affrettarmi a riprendere la mia corporeità
e lui a
fare sparire la mia copia perché il capitano delle guardie
si
affacciò subito dopo.
«Capitano..» lo salutò Durza con
malcelato sarcasmo, afferrandomi un braccio e tirandomi nuovamente
nel corridoio.
Il cavaliere era stato sistemato in una cella
vicina alla stanza delle torture, sul lato opposto alla mia,
così
che le sue sbarre si affacciavano sulle strade di Gil'ead e non sul
cortile interno. Gettai una rapida occhiata allo spioncino quando vi
passai davanti, ma non riuscii a vederlo. Avrei voluto entrare e
scrutarlo dal vivo, dopo tutte quelle sfocate visioni che avevo avuto
di lui. Senza contare che avevo trasportato per anni il drago che lo
aveva reso cavaliere e nei suoi confronti mi sentivo curiosa come
solo una madre doveva essere.
Durza si chiuse la porta alle spalle
prima che chiunque potesse anche solo pensare di entrare e per un
paio di ore mi procurò nuove ferite, ferite che tuttavia si
premurò
di non lasciare sanguinanti.
Stava per aprire la porta e condurmi
nuovamente nella mia cella, quando ebbi un capogiro.
«Durza non
mi..»
Ma non riuscii a concludere la frase perché gli occhi mi
si chiusero e il cervello mi si annebbiò.
Mi risvegliai nella mia
cella, distesa sul pagliericcio. La testa mi doleva come se avessi
appena ricevuto una bastonata sulla nuca e non appena aprii gli occhi
fui costretta ad alzarmi a sedere, a vomitare sul pavimento.
Qualcuno
mi scostò i capelli dal volto. «Arya?»
Sentii il profumo di
menta e capii in un istante chi fosse il mio interlocutore.
«Sono
svenuta» dissi in tono di scuse.
«Mi dispiace, è stata colpa
del veleno. Ti ho fatto bere l'antidoto, ma il capitano ha insistito
affinché te ne venisse somministrata una nuova dose mentre
eri
ancora incosciente».
«Io sto bene» lo rassicurai. «Dimmi di
tutto il resto».
«Quegli idioti credevano di averti ucciso, con
il loro veleno. Mi hanno suggerito di non torturarti più
fino al per
i prossimi due giorni e credo che darò ascolto al loro
consiglio».
Mi guardò con attenzione. «Dopodomani dobbiamo
partire,
Principessa».
Sorrisi lievemente. «Ti bacerei, ma non mi pare il
caso» dissi, accennando al contenuto del mio stomaco, che
giaceva
dalla parte opposta del pagliericcio dove era inginocchiato lo
Spettro.
Gli strappai un sorriso. «Vuoi bere?»
E mi porse
dell'acqua ancora prima di sentire la mia risposta. Bevvi con
piacere, ripulendomi la bocca e inumidendo la gola, che sentivo
riarsa.
«Ho un piano» mi informò poi.
Gli feci spazio sul
pagliericcio e Durza sedette vicino a me.
«Voglio parlare con il
cavaliere. Non posso spiegargli nulla di tutto il nostro piano,
è
troppo rischioso, ma forse potrei riuscire a cavargli di bocca
qualche informazione utile per ottenere segretamente la sua
fedeltà
contro Galbatorix».
«I soldati di Galbatorix avranno ricevuto
ordini specifici, e in ogni caso non so se valga la pena rischiare.
Ormai non puoi risparmiare al ragazzo un bel viaggio ad Uru'baen, ma
coinvolgerlo direttamente.. Mi stai proponendo di mandarlo al
macello».
«Il re è nella capitale e qui comando io. Il
capitano
non mi rifiuterà un colloquio con il giovane se
saprò insistere in
modo convincente». Fece una smorfia crudele. «E per
quanto riguarda
la salute del ragazzo, credevo che fosse il piano dei Varden quello
di mandarlo al macello contro Galbatorix».
Feci un cenno vago.
«Prima si pensava di educarlo».
«Non sarebbe bastato. Lasciami
fare, ormai ci stiamo giocando il tutto per tutto ed è
meglio un
cavaliere morto che uno schierato con Galbatorix».
Sospirai. «Hai
ragione».
«Ora devo andare. E temo di doverti lasciare qui
stanotte».
«D'accordo» mormorai quietamente, ma probabilmente
non riuscii a nascondere la mia delusione e il mio dispiacere
perché
lo Spettro si chinò a baciarmi lo zigomo e poi a morsicarmi
la punta
dell'orecchio destro.
«Le guardie sono inquiete» si
giustificò.
«E spero che quello di stanotte fosse solo il primo di una
lunga
serie di riposi sereni».
«Sicuramente sì. Vai pure, buona
notte».
«Torno domani sera» mi assicurò.
«Non sparire».
Gli
scompigliai i capelli rossi. «Mi trovi qui».
Ed effettivamente i
miei incubi non tornarono nemmeno quella notte, così ne
approfittai
per prolungare il mio riposo fino alle più tarde ore del
mattino
seguente.
Il pomeriggio stesso udii Durza
bisticciare con il
capitano, ma probabilmente ebbe la meglio perché una porta
si aprì
cigolando. Non sentii la conversazione che teneva con il cavaliere,
anzi non sentii proprio nulla; probabilmente aveva insonorizzato la
stanza.
Ma tornò, come mi aveva promesso, la sera stessa,
seguendo il vassoio di cibo contenente la mia cena, che non riuscii a
mangiare. L'odore della cipolla mi dava seriamente la nausea.
Lo
Spettro -come spesso succedeva nelle ultime settimane- mi parve
allarmato e turbato.
Mi raccontò del breve scambio avuto con il
cavaliere e si soffermò con particolare attenzione sul suo
presunto
vero nome: Du Sùndavar Freohr. Morte delle ombre.
«Ti ha
mentito» decretai con sicurezza. «Un vero nome
è molto più lungo
di così, descrivere l'intera essenza di un individuo non si
può
fare in meno di sei o sette parole».
Durza camminò inquieto
davanti a me. «Mi sembrava sincero. E le ombre sono i miei
spiriti.
È quella.. era quella la loro forma quando li ho evocati. E
se il
suo destino è uccidere le ombre, allora significa che
ucciderà
anche me».
Mi alzai in piedi. «Nessuno ti ucciderà, tanto
meno
un giovane cavaliere inesperto. Non ci sono riuscita io e, fidati,
non ci riuscirà nemmeno lui. In ogni caso sono quasi sicura
che ti
abbia detto una menzogna: droghe o no nessuno rivelerebbe
un'informazione di un tale calibro con così tanta
leggerezza,
nemmeno il più stolto degli uomini».
«Mi hai convinto»
sussurrò afferrando le mie mani e baciandole.
«Tutto a posto?»
gridò una voce dall'esterno, che riconobbi come quella del
capitano.
Il mio compagno alzò gli occhi al cielo in un gesto
esasperato. «Sì! Mi accerto che il veleno non le
stia nuocendo e
arrivo, capitano, non è necessario che tu ti preoccupi del
mio
benessere».
Soffocai una risata nel palmo della mano e restai ad
ascoltare i passi dell'uomo, che si allontanavano su per le
scale.
«Sarà meglio che vada»
borbottò. «Pensi di cavartela
con i tuoi incubi?»
«Non li ho avuti nemmeno la scorsa notte»
lo informai con ottimismo.
«Allora ci vediamo domani, quando
verrò a prenderti per partire».
Mi sollevò il mento e mi baciò
sulle labbra.
Una profonda inquietudine mi investì, facendomi
tremare le gambe e accelerare il battito del cuore.
«Ci vediamo
domani» ripetei, quasi a cercare di convincermi da sola.
E lo
baciai una seconda volta.
Durza scoprì i denti aguzzi in un
sorriso, una luce quasi tenera negli occhi di sangue.
Se solo
avessi avuto una minima idea di quello che sarebbe successo da
lì a
poche ore lo avrei supplicato di restare, avrei baciato altre mille
volte le sue labbra crudeli, scompigliato un'ultima volta i suoi
capelli e confessato senza esitazioni il piccolo segreto che celavo
nel mio ventre.
Ma non lo sapevo, come avrei potuto? Così lo
lasciai andare e presi a mia volta a camminare avanti e indietro
davanti alla porta della mia cella, troppo agitata per pensare di
dormire o coricarmi.
Il primo rumore fu quello dei soldati in
corsa. Il secondo il rumore di passi vicino alle scale e il sibilo di
un arco, poi voci concitate e passi frettolosi nella direzione della
mia cella.
Cominciò a girarmi la testa e un forte bruciore mi
assalì il cervello.
Il veleno! Non di nuovo.
Con fatica
immane, cercai la coscienza di Durza.
«Aiutami!»
Poi
vidi il volto di Eragon davanti a me, lo riconobbi all'istante e fui
certa che non si trattasse di una visione. Lui mi guardò con
una
strana consapevolezza negli occhi castani, come se fossi un amico
ritrovato dopo tanto tempo e ormai irriconoscibile.
E poi tutto
divenne nero.
Ripresi una vaga coscienza di me quando sentii
un calore rassicurante accarezzarmi diversi punti del corpo. Capii
che qualcuno mi stava guarendo dalle ferite delle ultime settimane,
ma mi isolai rapidamente dalle voci.
Non sapevo esattamente cosa
stesse succedendo, ma una cosa era certa: non ero più a
Gil'ead e
sicuramente non ero sotto la custodia di Durza. E avevo del Skilna
Bragh in corpo.
Dando per scontato che le voci intorno a me
appartenessero al cavaliere e al figlio di Morzan e che i due non
avessero intenzione di farmi del male, mi rifugiai nei meandri della
mia mente, riducendo al minimo le mie attività vitali,
consapevole
che un respiro troppo profondo avrebbe potuto rubarmi minuti di vita,
sotto l'effetto del veleno.
Era difficile non pensare a nulla
quando tante cose facevano a pugni nella mia testa, ma con fatica
disumana riuscii a staccarmene. Durza sarebbe venuto a prendermi, ne
ero certa, nel frattempo dovevo solo sopravvivere.
L'intrusione
di una mente sconosciuta nella mia mi costrinse a reagire. Attaccai
lo sconosciuto con ferocia fino a che non mi resi conto che si
trattava di Eragon stesso, che si dichiarò mio amico
nell'antica
lingua.
Un poco sorpresa, gli lasciai lo spazio necessario per
riprendersi e toccai con circospezione la sua mente. Una vita breve,
grandi dolori e un futuro ancora incerto. Questo colsi di lui in quei
pochi secondi.
Poi mi resi conto di sapere troppo, di tutto.
Probabilmente il giovane credeva di avermi appena salvato la vita e
di avermi strappata dalle grinfie di uno Spettro crudele -e entrambe
le cose erano in parte vere- e io non volevo contraddirlo. Non avevo
tempo di chiedergli nulla, né di cosa fosse successo,
né di cosa mi
aspettasse, potevo solo condurlo dai Varden e farmi salvare la vita.
Spiegare un'alleanza con Durza lo Spettro avrebbe richiesto ore, se
non giorni.
Così feci l'ingenua e mi affrettai a mettergli tra le
mani tutte le informazioni necessarie per raggiungere Tronjiheim,
sperando che il giovane non avesse teso tranelli nel pronunciare il
suo giuramento. Tuttavia la sua conoscenza dell'antica lingua mi
pareva così scarna da far perdere spessore a quest'ultima
ipotesi.
Ma che ne era stato di Durza?
Di ciò che successe
i giorni dopo io ricevetti solo racconti postumi.
Mi risvegliai in
una stanza soffocante, circondata da un pugno di persone che si
affaccendavano intorno a me, pronunciando incantesimi per purificare
il mio sangue.
Avrei potuto guarirmi da sola, ma non riuscivo a
trovare la forza per sollevare la testa dal giaciglio e le mie labbra
erano gonfie, la mia gola secca e la mia lingua impastata.
Poi
arrivò qualcuno e capii che la sua presenza non doveva
essere
gradita perché cercarono di ricacciarlo.
«Fate come volete, ma
se volete che gli Elfi tornino a darvi il loro appoggio dovrete
restituire loro la loro ambasciatrice, possibilmente viva».
La
voce era decisamente femminile, squillante, vagamente ironica e
giungeva familiare alle mie orecchie, tuttavia sul momento non
riuscii a stabilire chi ne fosse la proprietaria.
Altre mani
leggere sfiorarono il mio corpo, altre parole nell'antica lingua
danzarono lievissime nell'aria. Chiunque fosse l'intrusa sapeva
quello che stava facendo e lo stava facendo bene. Tuttavia, quando le
sue dita indugiarono sul mio ventre le sentii tremare.
Non ero
pronta all'ansia divorante che si impossessò di me non
appena
realizzai che la maga stava sfiorando il punto in cui cresceva il mio
bambino. Recuperate un poco di forze, mi affrettai a scacciarla,
balbettando qualche sconnessa parola dettata dal panico,
probabilmente chiedendo se la mia creatura stesse bene o fosse
rimasta vittima del veleno. Schiusi gli occhi appiccicati e intravidi
vagamente il profilo di una donna con una spropositata massa di
riccioli ad incorniciarle il volto.
«Slytha» rantolò,
allarmata.
E fui nuovamente fuori gioco.
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Ciaaaao :D
Prima che mi uccidiate lasciate che vi dia le mie giustificazioni: Immagino che la scelta di far rimanere Arya incinta sarà accolta con controversie. Forse è scontato e banale, effettivamente, ma non ho resistito alla tentazione di analizzare una possibile gravidanza di un elfo e di porre la questione del sangue misto elfa/spettro che avrà la creatura, se nascerà. Dico SE perché in realtà non ho ancora deciso del suo destino, quindi potrebbe benissimo finire -come ha già detto Arya- in un aborto spontaneo o in un bambino/a dai capelli rigorosamente rossi ;)
Vedremo..
Per quanto riguarda il resto del capitolo: Eragon è arrivato e si è portato via l'elfa dalla prigione, come previsto dalla trama. Avevo già premesso che nella mia narrazione avrei seguito gli elementi del Ciclo dell'Eredità con semi-coerenza e quindi eccoci qua! Spero non vi dispiacciano le descrizioni frettolose che troverete d'ora in poi per quanto riguarda gli eventi già ampiamente descritti da Paolini: non voglio ricreare una copia dei suoi libri, ma intessere trame sotterranee. Quindi troverete d'ora in poi interi capitoli riassunti in poche frasi, magari alcuni salti.. Insomma troverete scene "inedite" e alcuni pezzi ripresi frettolosamente dal punto di vista di Arya, ma non una ridescrizione accurata o diventerei decisamente noiosa e anche una plagiatrice. Spero di essermi fatta capire :')
Un'ultima e ahimé infelice informazione: sarò costretta ad aggiornare i capitoli ogni due settimane per il prossimo periodo. Non so dirvi esattamente fino a quando, ma almeno fino a metà febbraio; perdonatemi ma iniziano le sessioni di esami, e che esami! Non posso purtroppo caplestare i miei studi per questa fanfiction (perché per scrivere un solo capitolo impiego una media di dodici ore, sappiatelo), quindi vi chiedo un po' di pazienza, anche perché, per essere più precisa, dovrò riprendere un attimo in mano "Eldest", poi "Brisingr" e poi "Inheritance" ^_^
Un enorme bacio a tutti e ci vediamo (sigh) tra due settimane!
Lalli