_FISHER E FIGLI
“Ogni famiglia ha un segreto, e il segreto è che non è come le altre famiglie.”
* * *
«Lo ha trovato
nel parcheggio in fondo all’isolato», gli
stava spiegando Patrick. «Deve
aver deciso di portarlo a casa per pareggiare i numeri.»
Misha
continuò a scrutare l’interno del salotto. Lì in corridoio, appostato con Pat
ai piedi dello scalone che portava al primo piano, riusciva a osservare con il
giusto distacco quel che stava avvenendo nella stanza di fronte; suo padre e
sua madre chini su un passeggino decorato da ridicoli pizzi azzurri, i suoi
fratelli e le sue sorelle riuniti attorno come api su un favo colmo di miele. Sui
volti di ognuno dominava un entusiasmo quasi inumano, morboso ed esagerato
quanto il trucco di un amabile clown. Sistemate su un tavolino in mogano,
troneggiavano una bottiglia di spumante e un’intera stirpe di bicchieri a
flauto, che splendevano alla luce del grande lampadario in rame. Attendevano il
brindisi. Eloise, sei anni appena, si aprì un varco tra Mamma e Papà e si affacciò
sul bimbo che sgambettava felice sotto gli occhi di tanta gente. Felice e
ignaro. Al solo pensiero, Misha si sentì rizzare i capelli dietro la nuca.
«Papà vuole che sia il socio di Eloise. Glielo
ha già detto», riprese Patrick, nel tono pratico di chi sa di essersi
guadagnato tutta l’attenzione desiderata. Se ne stava sul terzo gradino dello
scalone, le braccia incrociate sul corrimano e gli occhi che fuggivano ogni
tanto al salotto. La sua cravatta penzolava comicamente sino a sfiorare la
spalla di Misha, fermo lì sotto. «Dice che non gl’importa se è molto più
piccolo di lei.»
«Anche tu e Emmett non siete esattamente
coscritti.»
«Solo tre anni e mezzo di differenza.» Il
sorriso che allungò fu a suo modo un tentativo di giustificazione.
Misha
alzò gli occhi lungo lo scalone, gettando una sbirciata all’orologio a pendolo
che dominava il corridoio. Aspettare
non era uno dei suoi passatempi preferiti; non vedeva l’ora di poter fare quel
brindisi, bere giusto un sorso per cortesia e tornarsene quindi in camera sua.
Per il giorno seguente aveva organizzato un incontro con i proprietari del
ristorante sulla Istedgade. Dubitava
che avrebbero apprezzato se si fosse presentato più stanco che disposto a fare
i conti degli ultimi guadagni.
Uno
scalpitio di passi lo strappò ai pensieri. Spostando di nuovo gli occhi sulle
scale, vide scendere al piccolo trotto colui che stavano aspettando da quasi
tre quarti d’ora.
«Cristo, Allen, dove ti eri
cacciato?», lo
accolse Patrick in tono esagitato. Allen lo scostò contro il corrimano e filò
oltre di lui saltando gli ultimi due gradini. «Ancora due minuti e Papà sarebbe stato in grado di dare di
matto!»
«Non farmi la predica, Pat.
Avevo una telefonata da fare.» Mentre
parlava, le sue dita annodavano freneticamente la cravatta rossa attorno al
colletto. Quasi per certo si era vestito strada facendo. Spiò oltre l’arco, nel
salotto. «A che punto sono?»
«Manchi solo tu. Persino Kenny è già arrivata»,
gli rispose Misha. «Comunque sarà il socio di El-».
«Di Eloise. Sì, lo so.» Allen assicurò il nodo
e si mosse verso il salotto, seguito a ruota dai due fratelli.
Kenny, la maggiore fra tutti, li vide entrare
per prima. Alzò le mani inguantate, le batté sonoramente e schizzò verso di
loro a braccia aperte: «Finalmente!»
A effetto domino si alzarono su di loro anche
tutte le altre paia d’occhi, di ogni colore e di ogni forma. Il bimbo che si
dimenava nel passeggino passò per qualche istante in secondo piano.
«Kenny», salutò Allen. Raccolse il suo
abbraccio con una certa goffaggine, lasciandosi poi tirare una guancia. Il
sorriso che le rivolse fu di una sincerità abbastanza convincente. Non c’era in
realtà nulla che gli piacesse di sua sorella, una donna di quasi cinquant’anni
che aveva il coraggio di indossare abitini leopardati e tacchi rossi di gusto
prettamente adolescenziale. Viveva in un’altra città, lontano da casa, e si
occupava di affari che suo padre aveva spesso descritto come “piuttosto
delicati”. Il “piuttosto” faceva in
effetti la sua bella figura. Doveva trattarsi di prostituzione, se non di
qualcosa di ancora più grosso. Allen non faceva mai domande. Abitava in
famiglia da quasi ventisette anni, da quando il suo fratello adottivo Emmett,
allora di otto, lo aveva trovato a gattonare nei vicoli della zona residenziale
cinese.
Non esistevano legami di sangue in casa
Webster. I membri non vivevano nemmeno tutti assieme. Jackson e Paula avevano
cominciato a raccattare gli orfanelli sotto il loro tetto quando avevano
scoperto che lei non poteva avere bambini. Era un vizio malato che durava da
quando avevano portato a casa Kenny, allora appena in fasce. Da allora avevano
“avuto” ventuno figli, più il ventiduesimo appena adottato dalle strade. Papà e
Mamma avevano ora quasi ottant’anni, ma vivevano serenamente indirizzando i
loro figli nei diversi rami del loro impero firmato dall’illegalità. La regola
era arrangiare un’identità ai nuovi arrivati, cognome compreso – e non era
difficile, considerato che Papà Jackson aveva le mani su mezza città -, oltre a
cercare di mantenere sempre un numero pari. Questo per sistemare i figli a due
a due, per fare in modo che ognuno avesse sempre un compagno su cui contare. Un
socio in affari. Un primo fratello,
per l’appunto, segnato con un tatuaggio distintivo, uno per ogni coppia.
Allen e Misha avevano un elaborato dragone
tatuato in mezzo alle scapole. Si occupavano di piccole cose se paragonate a
quelle che gli altri fratelli e le altre sorelle avevano per le mani. Mamma
aveva però garantito loro un futuro d’oro se si fossero mostrati abbastanza
competenti. Non poteva lamentarsi, soprattutto alla luce del fatto che molto
probabilmente sarebbe morto prima dei due anni se quel giorno d’inverno non
fosse stato portato a casa da Emmett. Lo avevano subito affiancato a Misha, un
dispari più piccolo di lui, e così la famiglia si era di nuovo sistemata su una
conta alla pari. Funzionava sempre così; chi trovava un dispari era apprezzato
per aver aggiunto un membro, ma chi portava a casa un pari era persino
festeggiato.
Ebbene, a trovare il ragnetto che sgambettava
nel passeggino era stato proprio Allen. E non fu un caso se dopo l’abbraccio di
Kenny si ritrovò attorniato dal resto della famiglia, sopraffatto da pacche
sulla schiena, complimenti, baci sulle guance e mani che correvano a
spettinargli cameratescamente i capelli. Eloise gli si incollò alla vita e lo
strinse forte.
Patrick si affrettò a versare da bere. A
dargli una mano accorse Misha, che gli passò i bicchieri una alla volta,
lasciando che li riempisse. Alle loro spalle, al centro del grande salotto,
quasi tutti erano tornati a sbirciare il bimbo sistemato con tanta premura tra
le coperte del passeggino. Nell’atmosfera, tra tante parole e qualche risata,
salivano i suoi piccoli e acuti gemiti. Solo Cedric, fedele
all’insubordinazione tipica della pubertà, aveva osato stravaccarsi sul divano
con una rivista in mano; a tirarlo in piedi fu Tiffany, la sua prima sorella,
che lo afferrò bruscamente per un braccio e lo riportò dagli altri.
«Pat, ci sono notizie di lui?», domandò Misha
a bassa voce.
«Di Fisher?»
Misha annuì. Pronunciare quel nome non faceva
esattamente parte delle cose che gli procuravano piacere.
«Non so. Forse arriva venerdì.»
«Non voglio assistere alla segnatura.»
«Non farlo. Papà dice che è obbligatorio, Mamma
no. Tu dai retta a mamma.» Patrick gli riservò un sorrisetto mentre posava lo
spumante, poi si girò verso il resto della famiglia, un braccio alzato: «I
bicchieri sono pronti!»
Gridolini di gioia da parte dei più. Una
ventina di persone si riversò sul tavolino per arraffare i bicchieri più colmi.
Ne avevano versato anche per la piccola Eloise. Allen, consapevole della scarsa
agilità del suo socio, ne acciuffò uno anche per Misha e glielo porse. Misha si
sforzò di sorridere.
«A un pari!», esclamò trionfante
Papà Jackson una volta che tutti ebbero il loro flûte
in mano. «E a vostro fratello Allen che ce lo ha portato!»
Qualcuno ripeté la prima formula del capofamiglia,
qualcun altro rise. Kenny ridacchiò dando di gomito a Donald, suo fratello minore
e socio, forse in risposta ad una battuta. I bicchieri si alzarono sotto la
calda luce che pioveva quasi a schegge.
* * *
La notte l’uomo è solito riflettere. Non esistono
le incombenze della giornata appena trascorsa. È come se la fretta smettesse di
correre e decidesse di stendersi al tuo fianco. Il tempo ritorna ad essere
calcolabile, il cuore batte con più convinzione, giocando il ruolo dell’unico
suono oltre al tuo respiro. E non appena sopra si posano le stelle, ti rendi
lentamente conto che ciò che alla luce del sole hai etichettato come stupido diventa
invece il più saggio e illuminante dei pensieri.
Misha lo aveva realizzato da tempo. Il filo di
malattia che scovava negli sguardi della sua famiglia diventava un baratro ogni
volta che a brillare in cielo era la luna; il sentore di morbosità affettiva,
la vaga e fastidiosa idea di quei legami fasulli e costruiti ad arte gli
schiacciava il petto durante la notte, nonostante di giorno fossero solo
sensazioni sfuggenti come nebbia novembrina. Venticinque anni lì dentro e solo
in quel momento stava prendendo consapevolezza di tutto il circo che gli era
attorno. La donna che si faceva chiamare Mamma aveva un sorriso piccolo e
aggraziato, mani grinzose ma raffinate; ebbene, nel buio il suo volto si
deformava, accartocciandosi come pergamena, strizzando sangue dalle labbra come
schiuma da una spugna, e gli occhi, quei piccoli, lucidi occhi azzurri, si
facevano grandi, avvolgenti. Abissali. Misha se la immaginava, di notte, a
scivolare fra le altre ombre; e ogni volta che un suono lo coglieva di
sorpresa, riusciva persino a vederla, lì sulla parete di fronte, una delle sue
mani tramutata in artigli di corvo che passavano sull’intonaco e lo grattavano
via, pian piano, godendo come se a staccarsi fosse pelle umana. I suoi passi
leggeri, sovrannaturali. Il risucchio del suo respiro umido, così liquido, così
assetato.
Così.
«Misha».
Misha si riscosse, quasi sussultò. Si era
lasciato vincere dell’immaginazione, con il braccio destro disteso fuori dal
letto, il polso appoggiato sul bordo del comodino e le dita protese sul
portacenere. La sigaretta in fragile equilibrio fra indice e medio. A parlare
era stato Allen, sdraiato al suo fianco. Quando Misha girò la testa, lo trovò
sveglio, gli occhi scuri a fissarlo. Prese un respiro, liberò la piccola brace
dalla cenere.
«Credevo dormissi.»
«Infatti, poi mi sono svegliato. A chi
pensavi?»
«A niente in particolare.»
Una frase con cui gli corresse il “chi” con un
“cosa”, nel tentativo di sviarlo. Inutile. Allen si mosse sotto le coperte, si
tirò a sedere contro lo schienale.
«Senti, so che non ti piace stare qui. Vuoi
che non me ne sia reso conto? Siamo soci.
Fratelli.»
«Non c’è niente di sano in questa storia», si
arrese Misha, portandosi la sigaretta alle labbra. Posò poi il polso sul bordo
del letto, tenendo la fiammella lontana dalle coperte. «Qui dentro c’è qualcosa
di terribilmente sbagliato. Non ti sei mai chiesto chi sono i tuoi genitori?
Quelli veri, Allen. A Paula e Jackson sono riconoscente, che allevino una
mandria di trovatelli è persino un bel gesto, ma non venirmi a dire che è
altrettanto giusto adottare bambini dietro le quinte, senza una legalizzazione
da parte delle istituzioni, e inserirli poi in questo loro sporco, fottuto giro
criminale. È possibile che nessun altro la pensi come me? Pat, Emmett...
Cedric, Tiffany, Rose, Phil, Susan, Donald...»
«È possibile», lo interruppe Allen, in tono
quasi brusco. «è possibile,
Misha. Se siamo qui è perché i nostri genitori, quelli veri, come ti piace dire, non ci hanno voluto. Ci hanno abbandonato
nel primo posto buono, in un vicolo, in un cassonetto, in un parcheggio, magari
sperando che morissimo. Mamma e Papà ci hanno dato la possibilità di
riscattarci e di farci una vita. Di crearci una nostra famiglia, una società
intera. Di conoscerci.» Fece una pausa. Il suo petto nudo si alzava e abbassava
ritmicamente, sollecitato da tutte quelle parole pronunciate senza nemmeno una
pausa. Poi, in un sospiro: «Io sono il tuo socio. Sono il tuo compagno e primo
fratello, ma nemmeno io la penso come te.»
Qualcosa vibrò nelle iridi chiare di Misha.
Frustrazione, forse. In quel silenzio, Allen accarezzò per la prima volta la
sua sottile e dolce paura.
«So che lo hanno chiamato Shawn», disse ad un
tratto Misha, dopo aver assaggiato di nuovo la sigaretta. Per qualche attimo si
rigirò il fumo in bocca, a mo’ di insano colluttorio mentale. «Lo hanno tatuato
dietro la spalla, proprio come Eloise. Perdonami se non sono venuto alla
segnatura; è un bambino così piccolo, e farlo tatuare...»
«Stai tranquillo, mancavano altri oltre a te.
So che non sei venuto per via di Fisher. Qualche giorno fa ti ho sentito
parlare durante il brindisi, sai, con Pat.» Allen gli lasciò uno sguardo prima
di tornarsene sotto le coperte e girarsi su un fianco, dandogli le spalle.
Misha ne approfittò per sbirciare l’elaborato e slanciato dragone che spiccava
tra le sue scapole. «Però, Misha, Papà non l’ha presa bene. Niente da dire
riguardo Mamma, era prevedibile che chiudesse un occhio.»
Misha si strinse nelle spalle. Si accorse che
la brace era ancora in bilico, per cui se ne liberò nel portacenere; poi,
fermandosi ad osservare la sigaretta, decise anche che poteva bastare così. La spense
con noncuranza, lasciandola fra gli altri mozziconi.
Non sapeva da dove gli arrivasse quel sentore
di sbagliato. Era una sensazione strisciante, viscida e indesiderata coma la
bava del diavolo in persona. Col tempo aveva persino maturato l’idea che da
qualche parte in quella casa ci fosse qualcosa di demoniaco. Era tutto troppo
costruito, troppo ragionato. Là dentro lo avevano sempre trattato bene, non gli
avevano mai fatto mancare nulla. Gli avevano trovato un’identità, quella che i
suoi veri genitori non gli avevano invece dato, eppure non poteva fare a meno
di pensare a quale fosse il suo vero nome. A quale fosse la sua vera causa, il
suo vero perché, la sua vera forma. Tra
quelle pareti e per Paula e Jackson era Misha, ma fuori? Fuori da quella casa,
in un’altra dimensione, in un’altra giostra di eventi, come si sarebbe
chiamato? Gli piaceva Jens, come nome. Jens suonava bene.
Sorrise fra sé e sé e si sistemò tra le
coperte, voltandosi verso la schiena di Allen. Si domandò se il suo socio si fosse mai fatto quelle
domande, se da qualche parte dietro la sua fronte si fossero mai sbizzarriti gli
stessi cavalli che minacciavano il suo sonno. Non voleva credersi l’unico a
partorire quei pensieri e quelle visioni, né voleva guadagnarsi l’etichetta di
paranoico. Ad Allen sembrava bastare che andasse tutto bene nella pratica; la
teoria, le regole che forse stavano dietro a quel gioco di identità e legami
famigliari, non erano la sua preoccupazione. D’improvviso si sentì stanco.
Stanco e stupido e insensato.
«Allen», mormorò, nel buio. «Scusa. Tu
vorresti solo dormire.»
Gli sembrò di sentirlo sorridere. In un modo o
nell’altro, fu come se un dito gli tracciasse una mezzaluna sulla pelle. Lo
capiva, quando le sue labbra si distendevano. Era tangibile.
«Sì, Sha. Dovresti farlo anche tu.»
Allen si mosse. Scivolò sotto le coperte,
verso di lui, con una grazia quasi insospettabile per un ragazzo di ventisette
anni che non sapeva muovere nemmeno un passo di danza o leggere Baudelaire
senza ridere. Misha avvertì la sua mano posarsi sulla spalla, poi scendere. Il
suo flebile bacio stamparsi sul braccio. Chiuse gli occhi e inspirò.
A quel punto, voleva aspettare ancora un po’
prima di dormire.
* * *
La Daimler Sovereign di Allen aveva un’aria
quasi pittoresca. L’ammaccatura su un lato del cofano spiccava quanto un neo
sul volto di uomo. Jackson aveva più volte detto al figlio di farla riparare,
che non era mai bello che un uomo d’affari come lui se ne andasse in giro su
una vettura imperfetta, ma Allen lasciava correre la questione con leggerezza,
senza preoccuparsi delle occhiate di chi guardava alla carrozzeria rovinata come
ad un’offesa rivolta alla grande eleganza di tutto il resto.
Misha faceva parte di quest’ultima categoria.
Non si capacitava del motivo per cui il suo socio non desiderasse far sistemare
il cofano, soprattutto alla luce del fatto che non gli sarebbe costato nemmeno
troppo. Quella Daimler era una macchina così ricercata, così signorile,
partorita all’inizio degli anni Settanta da una delle case automobilistiche più
rispettate della Germania. E poco importava che da allora fossero passati ormai
quindici anni e che non si trovassero là, in quel Paese uscito così
vergognosamente dalla Seconda Guerra Mondiale; erano in Danimarca, dove la
birra era buona il giusto e la gente attendeva già il nuovo decennio benché
mancassero cinque anni, ma la Daimler restava di lusso, cazzo.
Dal sedile del passeggero l’ammaccatura sul
cofano era più che vistosa. Un peccato davvero. Misha ci lasciò giusto uno
sguardo prima di tornare a guardare fuori, oltre il finestrino, per inquadrare
il pub in cui Allen era entrato giusto tre o quattro minuti prima. Era ormai
passata una settimana dalla segnatura del piccolo Shawn ed era scoccato anche
il giorno dei pagamenti. Donald, che in guerra aveva combattuto da qualche
parte, lo chiamava “D-Day”. Non che quel giorno avesse imbracciato le armi;
allora era già finito in congedo, giovanissimo, per colpa di una scheggia che
gli aveva tolto l’occhio destro. Era confortante il pensiero che poi, giusto
per rifarsi, era tornato a casa e si era messo a giocare al malavitoso con
Mamma Paula e Papà Jackson.
Girare i locali della zona e raschiare i
dovuti pagamenti non era mai troppo divertente, ma Misha aveva la fortuna che a
guidare per tutto il giorno fosse Allen. Era una routine che portavano avanti
da qualche anno, da quando Papà aveva lasciato loro quel compito spostando
Patrick e Emmett un gradino più in alto. C’era però da ammettere che era una
soddisfazione tornarsene poi a casa con la valigia piena di soldi. Non per
loro, e andava bene, ma soldi buoni restavano.
Fu mentre aspettava e teneva d’occhio i
dintorni che ebbe la grande idea di accomodare i piedi sul cruscotto. Ci fu un
rapido click quando lo fece, e quel
suono bastò a ghiacciarlo sul posto. Sotto al tallone era scattato qualcosa,
come un piccolo sportello che non era stato chiuso bene. Tolse il piede, si
rizzò a sedere e si avvicinò al cruscotto, osservando con attenzione le righe
orizzontali che lo tagliavano. Fino a quel momento aveva creduto che si
trattassero di semplici scanalature, tracce decorative che ispiravano eleganza
e velocità, ma non riusciva a crogiolarsi nella stessa certezza ora che aveva fisicamente avvertito qualcosa
abbassarsi e scattare sotto il piede. Così, convinto più da una sensazione che
da un vero e proprio sospetto, lasciò correre il dito lungo la linea più bassa,
che scavava appena la base incurvata del cruscotto.
Tombola. Con l’unghia trovò una leva
minuscola, un meccanismo di apertura praticamente invisibile ad occhio nudo se
non si sapeva dove cercare. Si fermò, diede uno sguardo al pub, non trovò
Allen. Il traffico non era intenso, sui marciapiedi non vi era nessuno. Non
sapeva se poteva permettersi di dubitare del suo primo fratello e socio, ma la
curiosità restava troppa. Fece pressione quel che bastava per azionare il
meccanismo, che scattò con il suo dolce e rapido click d’intesa, confidenziale come l’occhiolino di un jolly, come
la grande e bianca dentatura di un politico illuminante e loquace. Ti prometto il mondo, diceva. Misha
saettò un altro sguardo verso il pub prima di sollevare lo sportello incurvato
nel cruscotto.
Dentro vi erano un sacco di carte, fascicoli
arrotolati l’uno nell’altro per risparmiare il già scarso spazio a disposizione.
Il ragazzo si mosse, frugò senza esitazioni, trasse disordinatamente qualche
cartella. Sfogliandole, si rese conto che si trattava in parte di moduli degli
ospedali locali, in parte di documenti della polizia. Su alcuni vi erano nomi,
accuse e fotografie dei loro fratelli e delle loro sorelle; altri recavano solo
qualche scritta fitta, a penna o a matita, come di note stese in gran segreto
nel bel mezzo della notte. Misha avvertì un brivido, una piccola, ardente
puntura nel fianco. A spiegare il necessario bastava anche solo quello
sportello segreto, eppure si sforzò di non capire. Allen era suo fratello.
Allen non avrebbe mai fatto qualcosa contro tutta la famiglia, perché, Dio,
rispettava Paula e Jackson, li aveva sempre rispettati, e viveva con loro da
quasi trent’anni. Soprattutto, non voleva credere che potesse fare qualcosa
contro di lui, contro il suo socio e
compagno, incastrandolo a quel modo, collaborando con chissà quale federale, sputando
fango sul legame che li univa, sul tatuaggio che aveva sempre unito almeno loro
due.
Poi, preceduto da un altro scatto meccanico,
quel brivido lo sentì sul serio. Il cane di una pistola che viene tirato
all’indietro, il suo click
raggelante.
«Rimetti tutto a posto.»
Una richiesta un po’ troppo ferma. Allen.
Tornato dal pub, in piedi sul marciapiede, il revolver oltre il finestrino, spinato
contro la sua testa. La bocca della canna solleticava Misha all’altezza della
tempia. Lui si immobilizzò.
«Nel cruscotto», ripeté Allen, senza
scomporsi.
Misha obbedì. Con un filo di cautela, senza
muoversi troppo, sistemò i fascicoli e li mise dove li aveva trovati, abbassando
poi lo sportello fino a far scattare il meccanismo di chiusura. Non parlò.
L’altro si ritenne soddisfatto. Sollevò il
cane dell’arma, se la rimise nella cintura, lì sotto il risvolto della giacca,
e infilò la valigetta nel finestrino posandola in grembo al socio. Quando si
mosse lo fece passando davanti al cofano, per non perderlo di vista. Aprì la
portiera e si sistemò sul sedile, dando uno sguardo alla signora che si era un
momento fermata sul marciapiede opposto; aveva assistito alla scena, doveva
aver riconosciuto il baluginio dell’arma, ma decise che non erano in ogni caso
affari suoi. Riprese infatti la sua strada, tirando dietro di sé il barboncino
che voleva invece approfittarne per battezzare il lampione più vicino. Saggia
scelta.
«Io ti amo», disse a quel punto Allen. Chiuse
la portiera e il suono improvviso, così violento e immediato, fece quasi
sussultare il fratello, che guardava solo avanti con le mani sulla valigia. «Sei
il mio primo fratello, il mio amato, primo fratello. Tu odi questa vita. Fidati
di me, Misha. Tra qualche settimana sarà tutto finito.»
Girò la chiave e il motore partì. Allen non
controllò la strada prima di accelerare con moderazione e infilarsi sulla
corsia.
La Daimler rossa con l’ammaccatura sul cofano
svoltò al primo incrocio e scomparve.
* * *
«Non lo dirai a nessuno», disse Allen. Era
un’affermazione.
Aveva appena spento il motore. La Daimler era
scivolata con eleganza indolente nel vialetto, annunciata dallo scricchiolio
della ghiaia, prima di arrestarsi del tutto a poca distanza dal garage. Sopra,
casa Webster la squadrava quasi con sospetto.
Misha ebbe la sgradevole sensazione che in
qualche modo le finestre si tendessero verso di loro, sbirciando nell’abitacolo
della vettura. Gli pareva di essere sotto gli occhietti neri e irrequieti di
uno stormo di corvi.
«Già», rispose dopo un momento, senza muoversi
dal sedile. «Proprio a nessuno.»
Allen annusò il suo palato asciutto, il filo
di inquietudine e disagio che gli formicolava sulle ossa. «Dammi ancora tempo.
Dammelo. Tu devi fidarti di te.»
Questa volta nel suo tono si lesse una nota di
paziente tenerezza. Misha sollevò gli occhi nei suoi, occhi verdi e tondi
dritti nel taglio d’ebano e a mandorla del suo primo fratello. «Credevo ti
piacesse vivere con Mamma e Papà. Mi hai sempre detto che mi preoccupavo per
niente, che dovevo smettere di detestare questa vita, e questo mentre proprio
tu hai a che fare con i federali. Quante notizie hai passato? Quando ne avranno
a sufficienza ci metteranno tutti in prigione, Allen, e non risparmieranno
nemmeno te. Credi che ti daranno i domiciliari e ti metteranno sotto scorta
solo perché sei un pentito e un informatore? Credi che loro ti vedano come un
santo? Perché lo hai fatto?»
«Io non
sono un semplice informatore.»
«No? E cosa sei? Un imbucato?»
«Misha...»
«Un poliziotto? Non me ne stupirei. Hai un
distintivo, da qualche parte?»
«No, non ce l’ho. Io non voglio odiarti.
Credevo fossimo soci, compagni. Credevo fossimo fratelli.»
«Lo credevo anche io.»
Il silenzio scattò fra di loro all’improvviso,
quasi qualcuno avesse teso di colpo un filo di ferro. Misha cercò la maniglia,
fece per uscire portandosi dietro la valigetta, ma Allen lo afferrò per il
gomito prima che potesse sgusciare fuori. La sua presa era salda, arrogante, l’urgenza
di quel gesto una prepotente ed egoistica supplica. Lo tirò indietro con uno
strattone in cui la dolcezza era il sapore di un frutto amaro alla vista. Misha
reagì voltandosi e si trovò a pochi centimetri dal suo volto, dai suoi zigomi
orientali, dal suo naso piccolo e così inadatto su un viso adulto e agitato, frenetico
come la corsa di pesci d’argento sotto immobile ghiaccio.
«Io voglio che tu stia bene», pronunciò Allen.
Misha rimase ad osservarlo, a rincorrere il
gioco di luci e ombre che rifiniva la sua pelle. Tramontava il sole. «Ma così
non mi fai stare bene. Non avresti dovuto. Non dovevi buttarti in questa
stronzata.»
«Non dire parolacce. Non ti donano.»
«Fisher ti ammazzerà. Se lo venisse a sapere,
Fisher ci ammazzerà entrambi; tu per quello che hai fatto, io perché sono il
tuo socio.»
Non esisteva frase più giusta. Approfittò del momento per liberarsi dall
a presa di Allen e finalmente poté aprire la portiera
e uscire e allontanarsi verso la porta e non voltarsi. Niente nel suo
atteggiamento suggeriva la volontà di rivedere il suo primo fratello, almeno
non quella sera e nemmeno il giorno dopo, e così fu.
Forse avrebbe dovuto.
* * *
Si era rigirato nel letto e lo aveva
trovato lì accanto a lui.
«Allen»,
lo avevo chiamato.
Allen era sveglio. I suoi occhi scuri
brillavano nella semioscurità, un barbaglio d’intesa nelle iridi. Teneva la
guancia accomodata nel gomito. «Poi
andrai in prigione»,
gli aveva risposto. Steso com’era sul fianco, con in volto quell’espressione
agrodolce, pareva sul punto di fare le fusa. «Andremo tutti lì.»
E si era quindi mosso e era scivolato su
di lui e aveva continuato a guardarlo e gli aveva sorriso e poi si era chinato
per baciarlo. Misha giurava di non aver mai desiderato troppo da lui, solo
qualche bacio, qualche parola, qualche favore. Sulle sue labbra c’era stavolta
un sapore particolare, qualcosa che odorava di legna bruciata, desiderio folle
e farfalle di cenere nella notte.
«Il mio primo fratello», l’aveva sentito sussurrare. «Il mio oh Dio, Sha. Il mio in prigione.
Siamo là. Grazie, mamma.»
Il resto gli era giunto scoordinato e
frammentario, ma non gli aveva chiesto di ripetere, non lo aveva fatto e così
Allen aveva cominciato e le sue mani si erano fatte più urgenti e il suo corpo
aveva aderito al suo. La sua bocca si era fatta calda.
Misha reagì, le braccia ora tese a
circondargli il collo. Non voleva lasciarlo andare e sapeva che fuori c’era
qualcosa, c’era la prigione, c’erano uncini, c’era freddo e c’era umido, e
c’era – oh cielo, c’era il mondo. Così lo stava baciando con eguale trasporto, ignorando
che il corpo aveva cominciato a tremargli, bocciando lo stupido pensiero che
tra fratelli fosse sbagliato, perché fratelli non lo erano più, non lo erano
mai stati, e perché il sangue suo era completamente, disgustosamente straniero
a quello dell’altro. Erano solo due orfani in un mondo orfano di civiltà.
Lo trasse a sé in una preghiera e cercò la
sua lingua, le mani scivolate dietro le sue spalle spigolose. Cazzo, pensò, lo voglio. Lo voglio, per Dio,
lovogliolovogliolovoglio. E gli giunse in
risposta un presentimento, o forse erano parole, gli giunse un
«Anche io. Entriamo. Anche io in prigione.»
Allen. Allen che gli aveva mormorato
nell’orecchio, Allen che era giù nudo – come? Come? -, Allen che: «Entro con te», e poi che: «Però sei stanco», e che, un gemito sulla guancia: «Non ti piace, questa vita. Mio Dio, scusa.»
Misha si era irrigidito. Non funzionava. C’era
dello sbagliato. Le mani di lui gli stringevano il volto, eppure qualcosa si
muoveva sotto. Lo accarezzava
bisbigliando nel malato alfabeto del corpo. Dita gelide, lisce e solide e
taglienti come ghiaccio. Il piacere era frastornante, lo soffocava. Mosse le
mani, quasi a scatti, passandole dalle scapole di Allen fino alle sue spalle.
«No. Aspetta, Allen. Non...»
Ci fu uno strappo, il crepitio di un
cerotto staccato con troppa violenza. E la pelle di Allen gli rimase impigliata
fra le dita. Misha la avvertì ancor prima di vederla; la sensazione era stata
così convincente, così brutale che, quando sollevò le mani, visse un perverso
momento di soddisfazione per essere riuscito ad indovinarlo. L’aveva
scorticato. Gli aveva strappato due strisce di carne e pelle dalle scapole. Poi
l’orrore, umido e caldo e pulsante come il sangue, lo investì piantandogli
denti di bestia nell’anima.
«Cristo»,
mormorò. Nel semibuio, la pelle di Allen riluceva come carta velina macchiata
di rosso. «Allen.
Oh Dio.»
Lo guardò. Cercò il suo sguardo su un
volto che non trovò. I suoi occhi si erano incavati, spremuti come due acini
d’uva, e piangevano scarlatto, e la sua carne era carne viva, grinzosa, grassa,
bagnata. Il sorriso che allungò era un’ulcera degna del Diavolo.
«Io ti amo. Il mio primo fratello. Per amor
del cielo»,
disse.
Misha gridò.
«Per amor del cielo, Sha!»
Misha
aprì gli occhi così di scatto che dovette coprirseli con un braccio per
sfuggire alla luce del sole. Era a letto, arrotolato fra le coperte, e addosso
si sentiva un vestito di sudore freddo. Il cuore galoppava. A esclamare era
stato Patrick, chino su di lui, con una mano sulla sua spalla. La sua era
l’espressione tipica di chi ha appena visto la morte in faccia ed è riuscito a
sopravvivere.
«Gesù, grazie», buttò lì in un secondo
momento, vedendolo sveglio. «Ti ho
sentito gridare fino in camera mia.»
Lo
osservava con gli occhi strabuzzati. Sarebbe stato comico in un’altra
occasione, forse, ma non in quella. Le sue guance erano cineree. Misha si
domandò, con insensata ironia, se il suo grido facesse tanto schifo.
«Io stavo sognando. Credo», disse. Si rendeva perfettamente conto di
quanto
automatica fosse quella risposta, ma la voce arrochita non gli concesse la
grazia di articolare qualcosa di meglio. «Mi
dispiace.»
«E di cosa? A me spiace per te,
qualsiasi cosa stessi sognando.»
Patrick si allontanò dal letto e andò ad accostare un poco le tende,
consapevole che la violenta luce del sole doveva essere costata al fratello
qualcosa come un doppio infarto. Nel mentre, lo sbirciò da sopra la spalla. «Già che sei sveglio, Allen ti ha accennato a
qualche impegno particolare? Non si è presentato a pranzo.»
«Pranzo?»
«Non è mattina, esatto. Divertente, eh?»
«No, non intendevo questo», riprovò Misha. Si
tirò a sedere, scrollandosi di dosso le immagini dell’incubo. «Non mi ha detto
nulla. Nemmeno ieri l’ho visto.»
«Appunto. Ci chiedevamo se sapessi qualcosa.»
Chiedevamo. Non c’era mai nulla di buono nel momento in
cui il membro di una famiglia malavitosa, benché di basso rango, parlava al
plurale. Si ricordò della discussione avuta con Allen due giorni prima, quando
l’aveva lasciato da solo in macchina sul vialetto. Era vero, non si erano più
visti dopo quell’episodio. Consapevole che il troppo silenzio non era la miglior
soluzione, si strinse nelle spalle.
«Non so niente», disse. Lasciando da parte il fatto che vuole spedirci tutti in prigione,
omise.
Patrick
lo osservò per un momento, poi sembrò buttarsi la questione alle spalle. «Be’, vedi di trovarlo. Al
telefono di casa sua non risponde. Puoi fare un salto al suo appartamento?»
«Tu non puoi?»
«Io? Misha, non ho le chiavi.
Nessuno vuole sfondargli la porta di casa. Sono cose che andavano di moda a New
York negli anni Trenta. Forse anche verso i Quaranta.»
Misha
impiegò un’altra manciata di secondi per realizzare che sì, una copia delle
chiavi c’era, e l’aveva lui. Ovviamente. Scosse il capo e scese dal letto. «Va bene, passerò. Dammi il
tempo di svegliarmi.»
«Benvenuto nel 1985», lo ribeccò Patrick con un
sorriso, quindi uscì. Il calendario sulla parete lì accanto ondeggiò, sconvolto
dal colpo d’aria della porta che si chiudeva.
* * *
Aveva visto Fisher una sola
volta, ma non per questo desiderava vederlo una seconda. Nemmeno conosceva il
suo nome e dubitava che Fisher lo fosse. Era uno di quei personaggi che i più
tendono a evitare, uno di quelli che incroci per strada e ti convincono con un
solo sguardo a prendere una piccola deviazione sul marciapiede. Uno di quelli
che, prestatemi l’espressione, leggono la diffidenza sui volti altrui e se ne
gratificano pure.
Non
rientrava per giuste ragioni nei favori di Misha. Papà parlava spesso di
Fisher, il necessario per tratteggiarlo come benefattore di tutti gli affari di
famiglia, e nessuno faceva domande. Sapevano che era lui ad occuparsi della
segnatura sui nuovi membri e che dovevano quindi alle sue mani i tatuaggi che
li distinguevano in coppie. I più erano stati segnati da neonati, per cui non
serbavano alcun ricordo di quell’uomo alto, dalle spalle larghe, avvolto dal
lungo e verde impermeabile da pescatore che gli era valso il nome con cui tutti
lo chiamavano. Il cappello calato sulla fronte, al pari di tutto il resto,
sembrava un elemento che lì doveva stare, senza possibilità di stare quindi
altrove. In effetti, con il tempo, Misha si era fatto di lui un’immagine
indelebile e precisa, immutata come quella di un’icona sull’altare di una
chiesa: non riusciva a figurarselo senza quel lungo giaccone dall’aspetto
translucido, senza quei grossi stivali grigi, senza quei vecchi guanti di
cuoio. L’idea che dietro i lembi dell’impermeabile ci fossero più tasche zeppe
di attrezzi che carne umana gli si era infilata nella mente da parecchio, quasi
uno stupido spauracchio per bambini. Peccato che molti dei suoi fratelli e
delle sue sorelle la pensassero alla stessa maniera.
Stava
pensando a lui quando entrò nell’appartamento di Allen. Distava quasi venti
minuti a piedi dalla casa di Mamma e Papà, ma non era questa la stranezza.
Molti altri della famiglia, almeno quelli adulti il necessario, si prendevano
altri posti in cui stare. La differenza era che il rifugio del suo socio era
molto più modesto degli altri, anzi assolutamente privo di qualsiasi indizio di
ricchezza. Ogni volta che entrava, Misha si sentiva catapultato nell’esistenza
di un giovane uomo qualsiasi, lavoro d’ufficio, cena cinese a domicilio, caffè
al bar dietro l’angolo. Era a suo modo spiazzante, rifletteva, pensare che in
realtà lì dentro viveva il membro di una famiglia malavitosa. Di sicuro nessuno
nella palazzina dubitava che fosse un brava ragazzo.
Si
chiuse la porta alle spalle, girando la chiave nella toppa – così, si disse,
per precauzione -, e cominciò a guardarsi attorno. Di Allen, lo annusò nell’aria,
non c’era traccia. Sbirciò nel soggiorno, superò il corridoio e diede
un’occhiata in cucina. In camera, il letto era completamente in ordine. Niente
di strano, considerata la sua buona abitudine di sistemare le coperte di prima
mattina. Il pensiero che potesse essergli accaduto qualcosa gli strisciò in
coscienza. Eppure era improbabile, era una spiegazione affrettata. Non era
nuovo a comportamenti dal genere, era già successo che si assentasse per
un’intera giornata o due. Probabilmente si sarebbe fatto vivo in serata.
Era
ancora affacciato alla camera quando, dal soggiorno, gli giunse il trillo
indispettito del telefono. Si voltò, osservando un punto non ben definito del
corridoio. Sulle prime non si mosse, convinto dall’hollywoodiana idea di essere
il classico infiltrato che non dovrebbe stare in casa senza il permesso del
padrone; poi, al terzo squillo, scacciò dalla mente quel pensiero assolutamente
privo di senso e si diresse al piccolo trotto verso l’apparecchio, pescando la
cornetta e portandosela all’orecchio.
«Pronto?»
Nulla
di allarmante se era lui a rispondere. In fondo era il socio di Allen, il suo
primo fratello. Aggrottò la fronte quando non gli giunse una risposta, così si
umettò le labbra e riprovò, il tono stavolta più convinto:
«Pronto? Sono Misha. Se cercate
Allen...»
«Ah. Sei qui. Ti ho trovato.»
Avrebbe
riconosciuto quella voce anche nel frastuono di un elicottero in partenza.
«Allen? Allen, grazie al cielo.
Ti stavo cercando»,
disse, la voce ora più viva di una nota. In quel momento si rese conto, forse a
causa del sollievo che lo investì, di quanto fosse stato in ansia. «Pat mi ha detto che ieri non
ti ha visto nessuno e che oggi non sei venuto a pranzo. Dove sei? Sai che a
Mamma e Papà non va giù il fatto di perdere così di colpo i contatti con uno di
noi.»
«Prendi la chiave che tengo in cucina, quella
della scrivania. È dentro la saliera.»
«Cosa? La scrivania? Ti ho chiesto dove sei.»
«Apri il cassetto.»
«Il cassetto? Mi spieghi di
cosa stai parlando?»
«Gesù, Misha. Per una buona volta, ascoltami.»
La sua
voce aveva un che di sofferente. Gli giungeva spazientita, stanca,
dichiaratamente indisposta. Questa volta Misha contò fino a tre prima di
riprendere parola.
«Prima dimmi cosa succede», pronunciò.
«Prendi le cose che sono nel
cassetto e vai. Quando puoi, passa da quella donna. È per lei che l’ho fatto.
Misha, mi dispiace così tanto.»
«Dove sei?»
«Sono da lui. Sapeva già tutto. Deve avere un
pessimo senso del tempismo per aver deciso di confessarmelo dopo che tu l’hai
scoperto. Dice che l’ho deluso. Penso che anche Papà lo sappia; credo sia stato
lui a dire a Fisher di prendermi.»
«Tu sei... sei con Fisher?»
«Da ieri. A me dispiace, Sha. Avrei
voluto accompagnarti da lei quando sarebbe tutto finito. Adesso è finito, ma
non ci sono.»
«Non dirlo.» Il respiro gli si era fatto
irregolare, gli occhi grandi e gonfi e leggeri. «Cristo, Allen, dimmi cosa sta
succedendo!»
Si
accorse d’aver alzato la voce solo per via dall’eco che rimbalzò sulle pareti a
mo’ di tante schegge di vetro. A spaventarlo più di tutto il resto era la sua
voce, così monotona, solo un poco strascicata, quasi avesse previsto quel
dialogo da tempo e stesse semplicemente leggendo un copione.
«Devi leggere quelle note», continuò l’altro,
ignorandolo. «Devi
leggerle e andartene. Non voglio che mandi i miei sforzi all’aria. Non te lo
perdonerei, ma tu perdonami tutto quanto.»
E
attaccò. Di punto in bianco, senza alcun preavviso, senza alcuna pietà. Misha
rimase qualche istante con il ricevitore in mano, il respiro lento e regolare,
prima di lasciarlo di colpo e precipitarsi nel sottoscala. La porticina
sbatacchiò con violenza, ma lui non se ne curò. Nella luce tremolante dello
sgabuzzino indovinò una pistola; se la infilò nella cintura, sotto la camicia.
Con le dita che tremavano, si infilò in tasca due pugni di cartucce e infine
uscì, diretto alla porta.
Poi si
ricordò della scrivania e si arrestò di botto, quasi slittando sulle mattonelle
dell’ingresso. Allen ci teneva. Glielo aveva letto nella voce, tra le righe e
non. Si pugnalò in coscienza per quel tentennamento, ma alla fine tornò
indietro, dalla chiave nella saliera. La pescò quasi per fortuna, rischiando di
mandare il barattolo di ceramica per terra, quindi schizzò in camera, dove il
cassetto lo attendeva nella sua meschina immobilità. Se c’era qualcosa che
doveva sapere, voleva saperla prima di rischiare di morire in un suicida
tentativo di salvataggio.
Oh, cazzo,
pensò. Se non ne vale la pena... Se non
ne varrà la pena e se sopravvivremo a Fisher, Allen, giuro che ti ammazzerò con
le mie stesse mani.
E
aprì.
* * *
Allen non gli aveva dato un
indirizzo. Poco cambiava, dato che gli aveva detto di trovarsi da Fisher. C’era
stato un tempo in cui Misha era solito origliare più di quanto avesse dovuto,
ed era stato proprio grazie a questo vizio che aveva scoperto dove il
benefattore di Papà risiedeva il più delle volte. Il più delle volte, giusto. Aveva tutti i motivi del mondo per
credere che un uomo come lui, decisamente ricco quanto bastava per stare dietro
ad un uomo, Jackson, altrettanto ricco, non poteva abitare in un vecchio
magazzino di fronte al mare. Probabilmente da lì gestiva solo i suoi affari.
Si
trattava di un vecchio deposito di imbarcazioni da pesca. A suo tempo doveva
essere stato piuttosto imponente, verniciato ad arte, qualcosa di piuttosto
notevole per essere stato messo in piedi attorno agli anni Venti. Misha non ci
era mai entrato, ma sapeva, sentiva che Allen si trovava là. D’altronde quello
era il centro operativo, la grande mente dietro il malato progetto di quella
famiglia costruita sulle fondamenta dell’illegalità. Non aveva ripensamenti
quando si soffermava sull’idea che da quel magazzino, in un modo o nell’altro, avesse
avuto inizio tutto quanto.
Così
aveva pescato uno zainetto dal guardaroba del socio, vi aveva sistemato alla
rinfusa le carte che aveva trovato nel cassetto e si era gettato fuori, deciso a
farsi di corsa i quasi trenta minuti che lo dividevano dalla baia. Non c’era
nessuno che potesse chiamare se davvero era stato Papà ad ordinare a quell’uomo
di prendere Allen. Quasi se lo immaginava, in visita da lui in quel deposito
umido e grigio, a dirgli:
“Mi serve un favore. Uno dei miei figli ha
fatto un errore. Dovresti correggerlo. Strappaglielo, non lo voglio più.”
E poi,
nella sua mente, vedeva Fisher muoversi, recuperare un coltello da pesca,
chinarsi sul suo primo fratello immobilizzato su un rudimentale tavolo da
lavoro, la schiena nuda rivolta alle sue malate intenzioni. La punta di ferro
si infilava lì vicino al tatuaggio e si girava appena, con saporita leggerezza,
cavando dalla gola di Allen un grido acuto e dalla sua carne una riga vermiglia.
Tracciato il contorno, la pelle si sarebbe poi staccata come un vecchio cerotto
intriso di carne. Alle orecchie di Fisher, immaginava Misha, le grida del
cliente sarebbero valse come complimenti. In fondo era talento quel che serviva
per strappare il necessario senza rovinare nulla, un po’ come bisogna averne
per togliere un dipinto dalla sua tela. Una tecnica così raffinata. Egregia.
Il
pensiero lo fece rabbrividire mentre correva senza scorte per strada
attraversando incroci trafficati, beccandosi insulti da parte di pedoni ed
automobilisti, con il peso dello zainetto a sbatacchiargli disordinatamente
sulla schiena. Sapeva qual era la pena per chi tradiva la famiglia. Sapeva cosa
Fisher faceva, cosa gli piaceva fare,
cosa adorava combinare con gli ami e i coltelli arrugginiti di quel magazzino.
E quello che stava scritto sulle carte di Allen... Quello che Allen gli aveva lasciato,
quello che aveva scoperto per farlo stare bene. Quella donna.
Il
prepotente clacson di un’auto e una violenta frenata lo strapparono a quei
pensieri. Ebbe la prontezza di tendere le mani e poggiarle sul cofano della
vettura che l’avrebbe preso in pieno se il conducente non avesse calato senza
pietà il piede sul freno. Misha fece un saltello, indietreggiò barcollando
dalla macchina ora ferma, le gambe quasi instabili e gli occhi verdi sgranati. D’istinto
si era portato la mano al fianco, dove sotto la camicia aveva nascosto la
pistola. La gente che passava in quel momento rallentò o si fermò, sgomenta.
«Razza di coglione!», lo insultò l’uomo alla
guida, buttandosi praticamente fuori dal finestrino abbassato. «Prima di attraversare, si guarda!»
Era
destinato a non ricevere alcuna risposta. Ripresosi dallo shock, il ragazzo si
era già girato e aveva ripreso a correre, neanche fosse un delinquente con i
poliziotti alle spalle. Scansò una signora, che vacillò in modo quasi comico, e
schizzò oltre l’altro incrocio.
Arrivò
a destinazione in ritardo di dieci minuti sulla tabella di marcia. Il vecchio
deposito era sistemato in fondo, vicino alla scogliera, in un angolo di
Danimarca animato solo dallo sciabordio adamantino delle onde. Misha si
appoggiò sul parapetto di legno della strada, guardando in basso e
accasciandosi un poco per prendere qualche respiro. Gli doleva la milza e i polsi
gli pulsavano ancora per il contraccolpo contro il cofano della macchina. Per
quella strada le macchine passavano solo raramente, per di più camper di
allegre famiglie che giravano allegre per la costa allegra. Rallegrandosi. Ad
investirlo fu un senso di irrealtà che gli diede quasi la nausea; si sentiva
così fuori, così storto al pensiero
che di allegro in quel momento non ci fosse proprio niente. Fisher poteva già
aver fatto il suo sporco lavoro e lui aver corso per niente. Prese un ultimo
respiro e imboccò al piccolo trotto la discesa di ghiaia che scivolava giù,
verso il deposito.
Aveva
estratto la pistola a metà strada e ne stringeva saldamente il calcio quando
giunse di fronte al magazzino. Al molo, inutilizzato e vecchio, erano ancorate
due piccole imbarcazioni fatiscenti. L’aria di mare era lì più arrogante e gli
arruffava i capelli sulla fronte. Alla luce di quanto c’era scritto sugli
appunti di Allen, dubitava che le cose potessero sistemarsi e tornare come
sempre erano state. Sapere per quale motivo aveva deciso di diventare un
informatore gli aveva graffiato il cuore non solo in superficie, ma anche e
soprattutto in profondità. Da quel deposito voleva tornare indietro con lui. E
poi sarebbero andati insieme. In prigione.
Il
magazzino era alto, enorme. I pannelli, un tempo verniciati di rosso e bianco,
erano scrostati in più punti. Contro il cielo grigio frammentato d’avorio,
quelle quattro pareti sembravano la carcassa del sogno di un pescatore. Scostò
l’ingresso con la punta del piede, lasciando cigolare i cardini, e scivolò
all’interno, la mani strette sull’arma. Dentro dominava la polverosa e acidula
luce di una cantina. Allora sì, qualcuno c’era. Il penetrante odore di pesce
gli scavò le narici come un raspino, tanto da costringerlo a storcere il naso.
Era
probabile che Fisher sapesse del suo arrivo. Forse Allen aveva preso delle
precauzioni quando lo aveva chiamato per telefono, ma con un uomo come quello,
pensava Misha, le precauzioni non erano mai abbastanza. Si mosse con diffidenza
girando gli occhi attorno, sbirciando le ombre, gli angoli, gli scaffali colmi
di barattoli, le pareti zeppe di vecchie canne da pesca. In un punto erano
gettate alla rinfusa reti strappate e malridotte; giacevano nel semibuio in una
strana forma, neanche tra i loro fitti motivi nascondessero una catasta di
cadaveri. Misha scacciò quell’orrenda supposizione e si fece avanti, aggirando
un mobile rovesciato e affacciandosi ad un’altra stanza. Lì rimase, appoggiato
allo stipite, immobile.
Lì la
luce era un po’ più vivida. L’interno di quell’ala del magazzino era più
contenuto, ma non per questo meno interessante. Sul tavolo al centro,
circondato da scaffali e scaffali di cianfrusaglie, erano disposti vari
attrezzi. Uncini, vecchi ami, coltelli da pesca. C’era qualcosa in coscienza
che gli diceva che quella che li sporcava non era ruggine. Era troppo rossa. A confermare la sua ipotesi,
macchie più scure per terra, vicino alle gambe di legno. Deglutì il vuoto, un
principio di nausea, e voltò gli occhi di scatto quando indovinò un movimento
in un angolo più buio, dietro una vecchia coperta calata a mo’ di separé.
L’istinto gli ordinò di spianare la pistola verso l’ignoto, il cuore che gli
fece il giro della morte nella gabbia toracica. Caricò il cane. Sotto la
camicia e la giacchetta di pelle, il petto gli si alzava e abbassava
precipitosamente.
«Esci», ordinò, a nessuno in particolare. «Esci,
o giuro su Dio che sparo. Ti sparo.»
«Il tuo socio non è qui.
L’ultimo traditore è già andato via.»
Misha
ebbe un sussulto. Le sue dita si mossero indispettite sul calcio dell’arma. Fisher,
non Allen. Fisher. «Tu menti. Io so che è qui.»
«Sono sincero. Nemmeno si chiama più Allen, non
è più tuo socio. Sei un mezzato.»
Non era una parola che esisteva, eppure
conosceva bene il suo significato. Era stato Fisher stesso a coniarla. Era già
capitato che ci fossero dei mezzati,
in famiglia, con il problema che Papà Jackson se ne sbarazzava in fretta.
Perché erano ormai privi della loro controparte, del loro primo fratello o
della loro prima sorella.
Sulle
prime il ragazzo rimase senza parole. Quasi stava rischiando di perdere la
presa sulla pistola. «Allora
lo hai fatto.»
Quattro parole. Bruciavano. «Allora
lo hai già fatto.»
«Io ho già fatto tutto. Faccio
sempre tutto in largo anticipo.»
Poi uscì
da dietro la coperta calata e Misha reagì brandendo l’arma con rinnovata
convinzione... prima di perdere quasi la sensibilità alle mani.
Aveva
ricordi piuttosto vaghi di Fisher. In quel momento non indossava
l’impermeabile, il cappello, i guanti, gli stivali. A dire il vero, non
indossava proprio nulla. Era completamente nudo, disegnato nella luce tremula
della stanza. Una mano d’ombra gli copriva a tratti il petto villoso, senza
preoccuparsi di nascondere alla vista quanto restava, compreso il pene che
ciondolava piccolo e slanciato come un perverso giocattolo da fissare sopra
alla culla, tra api di peluche e giostre di plastica azzurra. A occhio e croce,
benché fosse alto, dalle spalle larghe e dal volto duro, dimostrava oltre la
settantina. Ma non fu nessuno di questi particolari a far torcere lo stomaco a
Misha, giacché la bile cominciò a salirgli in gola quando si accorse di cosa
c’era sul suo corpo.
Era
pelle, ma non sua. Facile capirlo, con tutte quelle cuciture, quei tatuaggi
fissati addosso a mo’ di pregiato lavoro di tappezzeria. In alcuni punti i
contorni erano raggrinziti, secchi e asciutti per via del tempo; in altri erano
invece più vivi, morbidi anche solo alla vista, indice che appartenevano a
lavori più recenti. E sulla sua anca destra, applicato tra un giglio e un
tribale accartocciato, c’era il dragone.
Il
suo. Il suo e quello di Allen.
Era
stato cucito con maestria. I bordi di quel lembo di pelle erano macchiati di
sangue rappreso. Lì sopra ci aveva passato le mani così tante volte. Lì sopra
aveva lasciato baci e carezze, lì sopra aveva mormorato battute, stupidaggini,
aveva sussurrato pugni e speranze. L’idea che gli fosse stato strappato e che
ora quello stesso tatuaggio giacesse sul corpo di quell’uomo bastò a dirgli che
doveva vomitare.
Lo
fece, girando di colpo la testa e tenendosi allo stipite. Il conato fu
violento, ma quasi vano. Avvertì in gola il sapore acido della bile. Aveva
abbassato la pistola e portato il dorso della mano alla bocca. Quando rialzò
gli occhi, vide che Fisher non si era mosso.
«Tutti quei tatuaggi...»
«Figli miei. Figli miei, come tu sei figlio
mio. Figli della nostra società, figli che ci hanno tradito, figli che sono
tornati a me.» Fisher sorrideva. Sotto il capo quasi calvo, i suoi occhi
azzurri rilucevano. «Lui è tornato a me. La sua identità è mia.»
«Te lo ha detto Jackson. È stato lui a dirti
di fare questo ad Allen.»
«Non è una domanda, ma ti dico di sì. So che
ti ha detto di prendere tutti i suoi appunti, le sue soffiate. Ho già scelto
come andrà a finire. Dovresti andartene.»
«Io non vado da nessuna parte», disse Allen, e
lo agganciò di nuovo con la pistola, gliela spianò contro, gli rovesciò addosso
l’occhio gagliardo e buio della canna. «Non vado da nessuna parte, porco. Lui è
vivo.»
«È diverso, non è mai nato. Il vostro legame è
tornato a me, e lui non è qui.»
«Tu gli hai strappato la pelle! Gli hai strappatolapelle,
Dio! Oh, Gesù... »
«Mi aveva detto che sei un
pessimo spettacolo quando piangi, figlio mio.»
Nella sua voce c’era commiserazione. Misha era
consapevole che gli occhi gli pungevano per un motivo. Non se ne curò quando,
sentendo quelle parole, quelle due ultime parole, il suo cuore fece una
capovolta.
«Io non sono tuo figlio!», gridò.
E premette il grilletto. L’esplosione fu
bianca e Fisher si prese il colpo in pieno petto; rotolò indietro, contro il
muro, sgraziato come una vecchia marionetta, scivolando per terra, la scomposta
bambola di un vecchio informe, e Dio, buon Dio, Misha gridò di nuovo e vinse
l’impulso di crollare a terra e urlare ancora.
* * *
(Tre giorni dopo, in un dato luogo, nelle
mani di una data persona)
A Kenny.
Figlia mia. La mia prima, unica figlia.
Se stai leggendo questa lettera che ti consegnai anni fa, vuol dire che la
società è ormai chiusa. Sono stato ucciso o sono morto in pace. Di questo mi
sarò già dimenticato. Ti prego di recuperare me e i miei figli, a te li affido.
Mi rifarò altrove. Vorrei provare la politica. Vivrò sul corpo di qualcun
altro. Questa vita così crudele... questa vita di sangue, pallottole e inganni,
questa vita di crimini è stata divertente. Custodisci i miei arnesi, gli ami,
gli uncini, e utilizzali su di me. Strappami a questo vecchio corpo, cucimi su
un altro. Tutti questi tatuaggi, questi tradimenti, li rivoglio indietro su un
corpo giovane, forte, bello, vivo. Il corpo dell’ultimo traditore. Sul corpo
dell’ultimo traditore costruirò un altro impero. Così è sempre stato e così
sarà. Così il mondo va avanti per sapendo delle ceneri dei padri.
Oh, Kenny. Prima figlia, mia donna. Quanto
ti devo. Brucia questa lettera. Ti ringrazio di questo enorme favore, tu che mi
riporterai in vita. Grazie, mamma.
J. Fisher.
* * *
Due mesi dopo quel colpo di
pistola, la famiglia Webster aveva definitivamente smesso di esistere. Gli
adulti, chi prima e chi dopo, vennero sistemati uno alla volta sotto processo;
una mera scocciatura burocratica, giacché i giudici e le autorità avevano già
deciso, in tacito accordo, che gli imputati erano destinati alla prigione. I
minorenni, sei in tutto, furono indirizzati a diversi centri di recupero.
Shawn, ancora troppo piccolo e, perché no, incorrotto, venne affidato ad una
famiglia adottiva. La polizia aveva messo le mani nella rete criminale di Paula
e Jackson e probabilmente ci sarebbero voluti anni per stanare tutti i
complici, tutti gli affiliati, tutte le mosche cadute in quella ragnatela.
Risparmiarono
in parte solo Misha. Sulle carte del loro informatore, a quel nome era
affiancata la nomea di alleato delle istituzioni. Nessuno dubitava di Allen e
della sua parola. Ad accompagnare i suoi ultimi appunti, quelli recuperati
dalla scrivania, vi era qualche riga piuttosto convincente, che delineava il
suo socio alla stregua di un complice. “Misha
sa”,
aveva scritto. “Lo
sa da anni, e mai mi ha tradito. Alcune
di queste informazioni sono frutto del suo lavoro. Anche a lui dovete la buona
riuscita del tutto.”
Misha
aveva digerito quelle frasi bugiarde con un solo cenno del capo quando gli
avevano chiesto se fosse vero, per poi darsi dello stupido e codardo. Eppure
sapeva che era così che Allen voleva far andare le cose, sapeva che era uno dei
molti dettagli che doveva perdonargli, come gli aveva detto al telefono prima
di uscire dalla sua vita.
Il suo
corpo non venne trovato. Alcuni si misero persino a cercarlo, certi che fosse
ancora vivo, e altri si convinsero invece del contrario. Misha raccontò alla
polizia le regole della famiglia, mostrò il dragone tatuato, disse che era un
modo per ripartire gli affari, non solo le persone. Raccontò anche di Fisher e
disse di avergli sparato, confidò quello che aveva scoperto su suo conto e sul
luogo in cui squartava con ami e uncini, ma per le autorità rimase solo un nome
a cui non riuscirono ad affiancare un cadavere. Qualcuno, supposero, doveva
essersene sbarazzato. Trovarono però gli attrezzi, quelli sì. Per evitare il
panico e l’orrore da parte del Paese, passarono la loro esistenza sotto
silenzio.
L’ultima
ad essere trovata e arrestata fu Kenny. Aveva riparato in America, un tentativo
destinato al fallimento. Misha l’aveva vista una sola volta, seduto nella
centrale di Copenhagen. Lo sguardo che gli aveva lasciato addosso sapeva di
rabbia viscida e di disgusto. Se ne rallegrò. D’altronde, lei non gli era mai
piaciuta.
Anche
lui, sapeva, sarebbe finito in prigione. Aveva vissuto quella vita e per quella
vita doveva pagare. Il fatto che collaborasse e vestisse i panni del pentito
non sarebbe certo bastato a salvarlo dalle sbarre, ma lo consolava il pensiero
che la pena, almeno in confronto a quella di altri, si prometteva leggera. Pazienza;
chiudere per sempre con quella famiglia costruita ad arte, artificiale e
sgradevole come il puzzo di plastica fusa, equivaleva già ad una liberazione.
Poi
c’era quel che Allen gli aveva lasciato negli appunti. Aveva avuto tutto il
tempo di sfogliarli prima che le autorità glieli sfilassero di mano con stizza,
con l’atteggiamento del genitore che evita al figlio letture insane, e aveva
visto con i suoi occhi il motivo per cui il suo primo fratello aveva fatto
quanto aveva fatto. Saperlo gli era valso prima un brivido nel cuore e poi un
mezzo sorriso. Per ripagarlo delle informazioni che passava alla polizia, i
federali, in accordo con loro, gli facevano avere notizie circa i presunti
genitori di ognuno. Si era così scoperto che non tutti erano orfani, che alcune
madri e alcuni padri erano semplicemente scomparsi o scontavano pesanti
condanne. Cedric aveva un nonno in Germania, che aveva già avanzato un tripudio
di richieste di affidamento; il fratello naturale di Emmett viveva in Francia e
si era imbarcato su un aereo quando aveva saputo del suo ritrovamento, lui che
lo credeva morto; Patrick aveva un cugino in Italia. Qualcuno c’era, e c’era
anche qualcuno per Misha. Era la persona che Allen aveva scoperto e per cui forse aveva dato la vita.
La
donna si chiamava Birgit Lene Dahl. Nomi e cognome dichiaratamente danesi,
ergastolo per l’assassinio del marito. Profonde turbe psichiche. A dar retta ai
pareri dei medici, aveva partorito pochi mesi prima di essere arrestata, ma non
avevano trovato nessun neonato in casa. Pensavano l’avesse ucciso. I parenti
più stretti l’avevano buttata in prigione senza rimorsi.
Misha
entrò nel carcere femminile i primi di marzo, scortato da una pattuglia di
agenti. Era ancora un informatore in libertà vigilata, nonché il potenziale
bersaglio dei nostalgici della società firmata Webster. Tra le scapole, il
tatuaggio che l’aveva legato ad Allen gli sembrava quasi vivo. Aveva
programmato la visita alla Dahl quasi tre settimane prima. Il velo di gelido
sudore che gli imperlava la fronte era giustificato, e pensava a lui, al suo
primo fratello, pensava a quanto avrebbe voluto che fosse lì, pensava a quanto
fosse ingiusto, a quanto a volte il mondo sembrasse esistere solo per venir
preso a pugni o per prenderti a pugni, a seconda dei momenti.
Lei
sedeva nella stanza spoglia con i polsi ammanettati, lo sguardo corrucciato, i
capelli ingrigiti dalla solitudine e arruffati dalla follia. Le rughe le
segnavano gli occhi, che guardavano avanti, un poco abbassati, palesemente
ostili. Tutto in lei era sgraziato, dalla postura al taglio netto e sottile
delle labbra. Mantenne la stessa espressione anche quando Misha entrò e si
lasciò sedere di fronte a lei, le mani corse a sfiorare il bordo del tavolo di
ferro a mo’ di solida e reale consolazione. Il colletto della camicia si era
fatto chissà come troppo stretto, inadatto, così come la cravatta, più simile
ad un cappio che ad un elegante dettaglio nel suo abbigliamento sobrio. La
vide. Aprì la bocca e il mondo lo prese a pugni e lui prese a pugni il mondo.
«Signora Dahl», disse. «Io sono suo figlio, e sono qui grazie a mio fratello.»
* * *