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Autore: Dew_Drop    18/01/2015    2 recensioni
"Custodisci i miei arnesi, gli ami, gli uncini, e utilizzali su di me. Strappami a questo vecchio corpo, cucimi su un altro. Tutti questi tatuaggi, questi tradimenti, li rivoglio indietro su un corpo giovane, forte, bello, vivo. Il corpo dell’ultimo traditore. Sul corpo dell’ultimo traditore costruirò un altro impero."
[ I Classificata al Contest a pacchetti "Darkness", indetto da Selis e Nelith ]
Genere: Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Fisher e Figli




_FISHER E FIGLI

 

“Ogni famiglia ha un segreto, e il segreto è che non è come le altre famiglie.”

[Alan Bennett]




 

* * *

 

 

«Lo ha trovato nel parcheggio in fondo all’isolato», gli stava spiegando Patrick. «Deve aver deciso di portarlo a casa per pareggiare i numeri.»

Misha continuò a scrutare l’interno del salotto. Lì in corridoio, appostato con Pat ai piedi dello scalone che portava al primo piano, riusciva a osservare con il giusto distacco quel che stava avvenendo nella stanza di fronte; suo padre e sua madre chini su un passeggino decorato da ridicoli pizzi azzurri, i suoi fratelli e le sue sorelle riuniti attorno come api su un favo colmo di miele. Sui volti di ognuno dominava un entusiasmo quasi inumano, morboso ed esagerato quanto il trucco di un amabile clown. Sistemate su un tavolino in mogano, troneggiavano una bottiglia di spumante e un’intera stirpe di bicchieri a flauto, che splendevano alla luce del grande lampadario in rame. Attendevano il brindisi. Eloise, sei anni appena, si aprì un varco tra Mamma e Papà e si affacciò sul bimbo che sgambettava felice sotto gli occhi di tanta gente. Felice e ignaro. Al solo pensiero, Misha si sentì rizzare i capelli dietro la nuca.

«Papà vuole che sia il socio di Eloise. Glielo ha già detto», riprese Patrick, nel tono pratico di chi sa di essersi guadagnato tutta l’attenzione desiderata. Se ne stava sul terzo gradino dello scalone, le braccia incrociate sul corrimano e gli occhi che fuggivano ogni tanto al salotto. La sua cravatta penzolava comicamente sino a sfiorare la spalla di Misha, fermo lì sotto. «Dice che non gl’importa se è molto più piccolo di lei.»

«Anche tu e Emmett non siete esattamente coscritti.»

«Solo tre anni e mezzo di differenza.» Il sorriso che allungò fu a suo modo un tentativo di giustificazione.

Misha alzò gli occhi lungo lo scalone, gettando una sbirciata all’orologio a pendolo che dominava il corridoio. Aspettare non era uno dei suoi passatempi preferiti; non vedeva l’ora di poter fare quel brindisi, bere giusto un sorso per cortesia e tornarsene quindi in camera sua. Per il giorno seguente aveva organizzato un incontro con i proprietari del ristorante sulla Istedgade. Dubitava che avrebbero apprezzato se si fosse presentato più stanco che disposto a fare i conti degli ultimi guadagni.

Uno scalpitio di passi lo strappò ai pensieri. Spostando di nuovo gli occhi sulle scale, vide scendere al piccolo trotto colui che stavano aspettando da quasi tre quarti d’ora.

«Cristo, Allen, dove ti eri cacciato?», lo accolse Patrick in tono esagitato. Allen lo scostò contro il corrimano e filò oltre di lui saltando gli ultimi due gradini. «Ancora due minuti e Papà sarebbe stato in grado di dare di matto!»

«Non farmi la predica, Pat. Avevo una telefonata da fare.» Mentre parlava, le sue dita annodavano freneticamente la cravatta rossa attorno al colletto. Quasi per certo si era vestito strada facendo. Spiò oltre l’arco, nel salotto. «A che punto sono?»

«Manchi solo tu. Persino Kenny è già arrivata», gli rispose Misha. «Comunque sarà il socio di El-».

«Di Eloise. Sì, lo so.» Allen assicurò il nodo e si mosse verso il salotto, seguito a ruota dai due fratelli.

Kenny, la maggiore fra tutti, li vide entrare per prima. Alzò le mani inguantate, le batté sonoramente e schizzò verso di loro a braccia aperte: «Finalmente!»

A effetto domino si alzarono su di loro anche tutte le altre paia d’occhi, di ogni colore e di ogni forma. Il bimbo che si dimenava nel passeggino passò per qualche istante in secondo piano.

«Kenny», salutò Allen. Raccolse il suo abbraccio con una certa goffaggine, lasciandosi poi tirare una guancia. Il sorriso che le rivolse fu di una sincerità abbastanza convincente. Non c’era in realtà nulla che gli piacesse di sua sorella, una donna di quasi cinquant’anni che aveva il coraggio di indossare abitini leopardati e tacchi rossi di gusto prettamente adolescenziale. Viveva in un’altra città, lontano da casa, e si occupava di affari che suo padre aveva spesso descritto come “piuttosto delicati”. Il “piuttosto” faceva in effetti la sua bella figura. Doveva trattarsi di prostituzione, se non di qualcosa di ancora più grosso. Allen non faceva mai domande. Abitava in famiglia da quasi ventisette anni, da quando il suo fratello adottivo Emmett, allora di otto, lo aveva trovato a gattonare nei vicoli della zona residenziale cinese.

Non esistevano legami di sangue in casa Webster. I membri non vivevano nemmeno tutti assieme. Jackson e Paula avevano cominciato a raccattare gli orfanelli sotto il loro tetto quando avevano scoperto che lei non poteva avere bambini. Era un vizio malato che durava da quando avevano portato a casa Kenny, allora appena in fasce. Da allora avevano “avuto” ventuno figli, più il ventiduesimo appena adottato dalle strade. Papà e Mamma avevano ora quasi ottant’anni, ma vivevano serenamente indirizzando i loro figli nei diversi rami del loro impero firmato dall’illegalità. La regola era arrangiare un’identità ai nuovi arrivati, cognome compreso – e non era difficile, considerato che Papà Jackson aveva le mani su mezza città -, oltre a cercare di mantenere sempre un numero pari. Questo per sistemare i figli a due a due, per fare in modo che ognuno avesse sempre un compagno su cui contare. Un socio in affari. Un primo fratello, per l’appunto, segnato con un tatuaggio distintivo, uno per ogni coppia.

Allen e Misha avevano un elaborato dragone tatuato in mezzo alle scapole. Si occupavano di piccole cose se paragonate a quelle che gli altri fratelli e le altre sorelle avevano per le mani. Mamma aveva però garantito loro un futuro d’oro se si fossero mostrati abbastanza competenti. Non poteva lamentarsi, soprattutto alla luce del fatto che molto probabilmente sarebbe morto prima dei due anni se quel giorno d’inverno non fosse stato portato a casa da Emmett. Lo avevano subito affiancato a Misha, un dispari più piccolo di lui, e così la famiglia si era di nuovo sistemata su una conta alla pari. Funzionava sempre così; chi trovava un dispari era apprezzato per aver aggiunto un membro, ma chi portava a casa un pari era persino festeggiato.

Ebbene, a trovare il ragnetto che sgambettava nel passeggino era stato proprio Allen. E non fu un caso se dopo l’abbraccio di Kenny si ritrovò attorniato dal resto della famiglia, sopraffatto da pacche sulla schiena, complimenti, baci sulle guance e mani che correvano a spettinargli cameratescamente i capelli. Eloise gli si incollò alla vita e lo strinse forte.

Patrick si affrettò a versare da bere. A dargli una mano accorse Misha, che gli passò i bicchieri una alla volta, lasciando che li riempisse. Alle loro spalle, al centro del grande salotto, quasi tutti erano tornati a sbirciare il bimbo sistemato con tanta premura tra le coperte del passeggino. Nell’atmosfera, tra tante parole e qualche risata, salivano i suoi piccoli e acuti gemiti. Solo Cedric, fedele all’insubordinazione tipica della pubertà, aveva osato stravaccarsi sul divano con una rivista in mano; a tirarlo in piedi fu Tiffany, la sua prima sorella, che lo afferrò bruscamente per un braccio e lo riportò dagli altri.

«Pat, ci sono notizie di lui?», domandò Misha a bassa voce.

«Di Fisher?»

Misha annuì. Pronunciare quel nome non faceva esattamente parte delle cose che gli procuravano piacere.

«Non so. Forse arriva venerdì.»

«Non voglio assistere alla segnatura.»

«Non farlo. Papà dice che è obbligatorio, Mamma no. Tu dai retta a mamma.» Patrick gli riservò un sorrisetto mentre posava lo spumante, poi si girò verso il resto della famiglia, un braccio alzato: «I bicchieri sono pronti!»

Gridolini di gioia da parte dei più. Una ventina di persone si riversò sul tavolino per arraffare i bicchieri più colmi. Ne avevano versato anche per la piccola Eloise. Allen, consapevole della scarsa agilità del suo socio, ne acciuffò uno anche per Misha e glielo porse. Misha si sforzò di sorridere.

«A un pari!», esclamò trionfante Papà Jackson una volta che tutti ebbero il loro flûte in mano. «E a vostro fratello Allen che ce lo ha portato!»

 

Qualcuno ripeté la prima formula del capofamiglia, qualcun altro rise. Kenny ridacchiò dando di gomito a Donald, suo fratello minore e socio, forse in risposta ad una battuta. I bicchieri si alzarono sotto la calda luce che pioveva quasi a schegge.

 

 

* * *

 

 

La notte l’uomo è solito riflettere. Non esistono le incombenze della giornata appena trascorsa. È come se la fretta smettesse di correre e decidesse di stendersi al tuo fianco. Il tempo ritorna ad essere calcolabile, il cuore batte con più convinzione, giocando il ruolo dell’unico suono oltre al tuo respiro. E non appena sopra si posano le stelle, ti rendi lentamente conto che ciò che alla luce del sole hai etichettato come stupido diventa invece il più saggio e illuminante dei pensieri.

Misha lo aveva realizzato da tempo. Il filo di malattia che scovava negli sguardi della sua famiglia diventava un baratro ogni volta che a brillare in cielo era la luna; il sentore di morbosità affettiva, la vaga e fastidiosa idea di quei legami fasulli e costruiti ad arte gli schiacciava il petto durante la notte, nonostante di giorno fossero solo sensazioni sfuggenti come nebbia novembrina. Venticinque anni lì dentro e solo in quel momento stava prendendo consapevolezza di tutto il circo che gli era attorno. La donna che si faceva chiamare Mamma aveva un sorriso piccolo e aggraziato, mani grinzose ma raffinate; ebbene, nel buio il suo volto si deformava, accartocciandosi come pergamena, strizzando sangue dalle labbra come schiuma da una spugna, e gli occhi, quei piccoli, lucidi occhi azzurri, si facevano grandi, avvolgenti. Abissali. Misha se la immaginava, di notte, a scivolare fra le altre ombre; e ogni volta che un suono lo coglieva di sorpresa, riusciva persino a vederla, lì sulla parete di fronte, una delle sue mani tramutata in artigli di corvo che passavano sull’intonaco e lo grattavano via, pian piano, godendo come se a staccarsi fosse pelle umana. I suoi passi leggeri, sovrannaturali. Il risucchio del suo respiro umido, così liquido, così assetato.

Così.

«Misha».

Misha si riscosse, quasi sussultò. Si era lasciato vincere dell’immaginazione, con il braccio destro disteso fuori dal letto, il polso appoggiato sul bordo del comodino e le dita protese sul portacenere. La sigaretta in fragile equilibrio fra indice e medio. A parlare era stato Allen, sdraiato al suo fianco. Quando Misha girò la testa, lo trovò sveglio, gli occhi scuri a fissarlo. Prese un respiro, liberò la piccola brace dalla cenere.

«Credevo dormissi.»

«Infatti, poi mi sono svegliato. A chi pensavi?»

«A niente in particolare.»

Una frase con cui gli corresse il “chi” con un “cosa”, nel tentativo di sviarlo. Inutile. Allen si mosse sotto le coperte, si tirò a sedere contro lo schienale.

«Senti, so che non ti piace stare qui. Vuoi che non me ne sia reso conto? Siamo soci. Fratelli.»

«Non c’è niente di sano in questa storia», si arrese Misha, portandosi la sigaretta alle labbra. Posò poi il polso sul bordo del letto, tenendo la fiammella lontana dalle coperte. «Qui dentro c’è qualcosa di terribilmente sbagliato. Non ti sei mai chiesto chi sono i tuoi genitori? Quelli veri, Allen. A Paula e Jackson sono riconoscente, che allevino una mandria di trovatelli è persino un bel gesto, ma non venirmi a dire che è altrettanto giusto adottare bambini dietro le quinte, senza una legalizzazione da parte delle istituzioni, e inserirli poi in questo loro sporco, fottuto giro criminale. È possibile che nessun altro la pensi come me? Pat, Emmett... Cedric, Tiffany, Rose, Phil, Susan, Donald...»

«È possibile», lo interruppe Allen, in tono quasi brusco. «è possibile, Misha. Se siamo qui è perché i nostri genitori, quelli veri, come ti piace dire, non ci hanno voluto. Ci hanno abbandonato nel primo posto buono, in un vicolo, in un cassonetto, in un parcheggio, magari sperando che morissimo. Mamma e Papà ci hanno dato la possibilità di riscattarci e di farci una vita. Di crearci una nostra famiglia, una società intera. Di conoscerci.» Fece una pausa. Il suo petto nudo si alzava e abbassava ritmicamente, sollecitato da tutte quelle parole pronunciate senza nemmeno una pausa. Poi, in un sospiro: «Io sono il tuo socio. Sono il tuo compagno e primo fratello, ma nemmeno io la penso come te.»

Qualcosa vibrò nelle iridi chiare di Misha. Frustrazione, forse. In quel silenzio, Allen accarezzò per la prima volta la sua sottile e dolce paura.

«So che lo hanno chiamato Shawn», disse ad un tratto Misha, dopo aver assaggiato di nuovo la sigaretta. Per qualche attimo si rigirò il fumo in bocca, a mo’ di insano colluttorio mentale. «Lo hanno tatuato dietro la spalla, proprio come Eloise. Perdonami se non sono venuto alla segnatura; è un bambino così piccolo, e farlo tatuare...»

«Stai tranquillo, mancavano altri oltre a te. So che non sei venuto per via di Fisher. Qualche giorno fa ti ho sentito parlare durante il brindisi, sai, con Pat.» Allen gli lasciò uno sguardo prima di tornarsene sotto le coperte e girarsi su un fianco, dandogli le spalle. Misha ne approfittò per sbirciare l’elaborato e slanciato dragone che spiccava tra le sue scapole. «Però, Misha, Papà non l’ha presa bene. Niente da dire riguardo Mamma, era prevedibile che chiudesse un occhio.»

Misha si strinse nelle spalle. Si accorse che la brace era ancora in bilico, per cui se ne liberò nel portacenere; poi, fermandosi ad osservare la sigaretta, decise anche che poteva bastare così. La spense con noncuranza, lasciandola fra gli altri mozziconi.

Non sapeva da dove gli arrivasse quel sentore di sbagliato. Era una sensazione strisciante, viscida e indesiderata coma la bava del diavolo in persona. Col tempo aveva persino maturato l’idea che da qualche parte in quella casa ci fosse qualcosa di demoniaco. Era tutto troppo costruito, troppo ragionato. Là dentro lo avevano sempre trattato bene, non gli avevano mai fatto mancare nulla. Gli avevano trovato un’identità, quella che i suoi veri genitori non gli avevano invece dato, eppure non poteva fare a meno di pensare a quale fosse il suo vero nome. A quale fosse la sua vera causa, il suo vero perché, la sua vera forma. Tra quelle pareti e per Paula e Jackson era Misha, ma fuori? Fuori da quella casa, in un’altra dimensione, in un’altra giostra di eventi, come si sarebbe chiamato? Gli piaceva Jens, come nome. Jens suonava bene.

Sorrise fra sé e sé e si sistemò tra le coperte, voltandosi verso la schiena di Allen. Si domandò se il suo socio si fosse mai fatto quelle domande, se da qualche parte dietro la sua fronte si fossero mai sbizzarriti gli stessi cavalli che minacciavano il suo sonno. Non voleva credersi l’unico a partorire quei pensieri e quelle visioni, né voleva guadagnarsi l’etichetta di paranoico. Ad Allen sembrava bastare che andasse tutto bene nella pratica; la teoria, le regole che forse stavano dietro a quel gioco di identità e legami famigliari, non erano la sua preoccupazione. D’improvviso si sentì stanco. Stanco e stupido e insensato.

«Allen», mormorò, nel buio. «Scusa. Tu vorresti solo dormire.»

Gli sembrò di sentirlo sorridere. In un modo o nell’altro, fu come se un dito gli tracciasse una mezzaluna sulla pelle. Lo capiva, quando le sue labbra si distendevano. Era tangibile.

«Sì, Sha. Dovresti farlo anche tu.»

Allen si mosse. Scivolò sotto le coperte, verso di lui, con una grazia quasi insospettabile per un ragazzo di ventisette anni che non sapeva muovere nemmeno un passo di danza o leggere Baudelaire senza ridere. Misha avvertì la sua mano posarsi sulla spalla, poi scendere. Il suo flebile bacio stamparsi sul braccio. Chiuse gli occhi e inspirò.

A quel punto, voleva aspettare ancora un po’ prima di dormire.

 

 

* * *

 

       

La Daimler Sovereign di Allen aveva un’aria quasi pittoresca. L’ammaccatura su un lato del cofano spiccava quanto un neo sul volto di uomo. Jackson aveva più volte detto al figlio di farla riparare, che non era mai bello che un uomo d’affari come lui se ne andasse in giro su una vettura imperfetta, ma Allen lasciava correre la questione con leggerezza, senza preoccuparsi delle occhiate di chi guardava alla carrozzeria rovinata come ad un’offesa rivolta alla grande eleganza di tutto il resto.

Misha faceva parte di quest’ultima categoria. Non si capacitava del motivo per cui il suo socio non desiderasse far sistemare il cofano, soprattutto alla luce del fatto che non gli sarebbe costato nemmeno troppo. Quella Daimler era una macchina così ricercata, così signorile, partorita all’inizio degli anni Settanta da una delle case automobilistiche più rispettate della Germania. E poco importava che da allora fossero passati ormai quindici anni e che non si trovassero là, in quel Paese uscito così vergognosamente dalla Seconda Guerra Mondiale; erano in Danimarca, dove la birra era buona il giusto e la gente attendeva già il nuovo decennio benché mancassero cinque anni, ma la Daimler restava di lusso, cazzo.

Dal sedile del passeggero l’ammaccatura sul cofano era più che vistosa. Un peccato davvero. Misha ci lasciò giusto uno sguardo prima di tornare a guardare fuori, oltre il finestrino, per inquadrare il pub in cui Allen era entrato giusto tre o quattro minuti prima. Era ormai passata una settimana dalla segnatura del piccolo Shawn ed era scoccato anche il giorno dei pagamenti. Donald, che in guerra aveva combattuto da qualche parte, lo chiamava “D-Day”. Non che quel giorno avesse imbracciato le armi; allora era già finito in congedo, giovanissimo, per colpa di una scheggia che gli aveva tolto l’occhio destro. Era confortante il pensiero che poi, giusto per rifarsi, era tornato a casa e si era messo a giocare al malavitoso con Mamma Paula e Papà Jackson.    

Girare i locali della zona e raschiare i dovuti pagamenti non era mai troppo divertente, ma Misha aveva la fortuna che a guidare per tutto il giorno fosse Allen. Era una routine che portavano avanti da qualche anno, da quando Papà aveva lasciato loro quel compito spostando Patrick e Emmett un gradino più in alto. C’era però da ammettere che era una soddisfazione tornarsene poi a casa con la valigia piena di soldi. Non per loro, e andava bene, ma soldi buoni restavano.

Fu mentre aspettava e teneva d’occhio i dintorni che ebbe la grande idea di accomodare i piedi sul cruscotto. Ci fu un rapido click quando lo fece, e quel suono bastò a ghiacciarlo sul posto. Sotto al tallone era scattato qualcosa, come un piccolo sportello che non era stato chiuso bene. Tolse il piede, si rizzò a sedere e si avvicinò al cruscotto, osservando con attenzione le righe orizzontali che lo tagliavano. Fino a quel momento aveva creduto che si trattassero di semplici scanalature, tracce decorative che ispiravano eleganza e velocità, ma non riusciva a crogiolarsi nella stessa certezza ora che aveva fisicamente avvertito qualcosa abbassarsi e scattare sotto il piede. Così, convinto più da una sensazione che da un vero e proprio sospetto, lasciò correre il dito lungo la linea più bassa, che scavava appena la base incurvata del cruscotto.

Tombola. Con l’unghia trovò una leva minuscola, un meccanismo di apertura praticamente invisibile ad occhio nudo se non si sapeva dove cercare. Si fermò, diede uno sguardo al pub, non trovò Allen. Il traffico non era intenso, sui marciapiedi non vi era nessuno. Non sapeva se poteva permettersi di dubitare del suo primo fratello e socio, ma la curiosità restava troppa. Fece pressione quel che bastava per azionare il meccanismo, che scattò con il suo dolce e rapido click d’intesa, confidenziale come l’occhiolino di un jolly, come la grande e bianca dentatura di un politico illuminante e loquace. Ti prometto il mondo, diceva. Misha saettò un altro sguardo verso il pub prima di sollevare lo sportello incurvato nel cruscotto.

Dentro vi erano un sacco di carte, fascicoli arrotolati l’uno nell’altro per risparmiare il già scarso spazio a disposizione. Il ragazzo si mosse, frugò senza esitazioni, trasse disordinatamente qualche cartella. Sfogliandole, si rese conto che si trattava in parte di moduli degli ospedali locali, in parte di documenti della polizia. Su alcuni vi erano nomi, accuse e fotografie dei loro fratelli e delle loro sorelle; altri recavano solo qualche scritta fitta, a penna o a matita, come di note stese in gran segreto nel bel mezzo della notte. Misha avvertì un brivido, una piccola, ardente puntura nel fianco. A spiegare il necessario bastava anche solo quello sportello segreto, eppure si sforzò di non capire. Allen era suo fratello. Allen non avrebbe mai fatto qualcosa contro tutta la famiglia, perché, Dio, rispettava Paula e Jackson, li aveva sempre rispettati, e viveva con loro da quasi trent’anni. Soprattutto, non voleva credere che potesse fare qualcosa contro di lui, contro il suo socio e compagno, incastrandolo a quel modo, collaborando con chissà quale federale, sputando fango sul legame che li univa, sul tatuaggio che aveva sempre unito almeno loro due.

Poi, preceduto da un altro scatto meccanico, quel brivido lo sentì sul serio. Il cane di una pistola che viene tirato all’indietro, il suo click raggelante.

«Rimetti tutto a posto.»

Una richiesta un po’ troppo ferma. Allen. Tornato dal pub, in piedi sul marciapiede, il revolver oltre il finestrino, spinato contro la sua testa. La bocca della canna solleticava Misha all’altezza della tempia. Lui si immobilizzò.

«Nel cruscotto», ripeté Allen, senza scomporsi.

Misha obbedì. Con un filo di cautela, senza muoversi troppo, sistemò i fascicoli e li mise dove li aveva trovati, abbassando poi lo sportello fino a far scattare il meccanismo di chiusura. Non parlò.

L’altro si ritenne soddisfatto. Sollevò il cane dell’arma, se la rimise nella cintura, lì sotto il risvolto della giacca, e infilò la valigetta nel finestrino posandola in grembo al socio. Quando si mosse lo fece passando davanti al cofano, per non perderlo di vista. Aprì la portiera e si sistemò sul sedile, dando uno sguardo alla signora che si era un momento fermata sul marciapiede opposto; aveva assistito alla scena, doveva aver riconosciuto il baluginio dell’arma, ma decise che non erano in ogni caso affari suoi. Riprese infatti la sua strada, tirando dietro di sé il barboncino che voleva invece approfittarne per battezzare il lampione più vicino. Saggia scelta.

«Io ti amo», disse a quel punto Allen. Chiuse la portiera e il suono improvviso, così violento e immediato, fece quasi sussultare il fratello, che guardava solo avanti con le mani sulla valigia. «Sei il mio primo fratello, il mio amato, primo fratello. Tu odi questa vita. Fidati di me, Misha. Tra qualche settimana sarà tutto finito.»

Girò la chiave e il motore partì. Allen non controllò la strada prima di accelerare con moderazione e infilarsi sulla corsia.

La Daimler rossa con l’ammaccatura sul cofano svoltò al primo incrocio e scomparve.

 

 

* * *

 

 

«Non lo dirai a nessuno», disse Allen. Era un’affermazione.

Aveva appena spento il motore. La Daimler era scivolata con eleganza indolente nel vialetto, annunciata dallo scricchiolio della ghiaia, prima di arrestarsi del tutto a poca distanza dal garage. Sopra, casa Webster la squadrava quasi con sospetto.

Misha ebbe la sgradevole sensazione che in qualche modo le finestre si tendessero verso di loro, sbirciando nell’abitacolo della vettura. Gli pareva di essere sotto gli occhietti neri e irrequieti di uno stormo di corvi.

«Già», rispose dopo un momento, senza muoversi dal sedile. «Proprio a nessuno.»

Allen annusò il suo palato asciutto, il filo di inquietudine e disagio che gli formicolava sulle ossa. «Dammi ancora tempo. Dammelo. Tu devi fidarti di te.»

Questa volta nel suo tono si lesse una nota di paziente tenerezza. Misha sollevò gli occhi nei suoi, occhi verdi e tondi dritti nel taglio d’ebano e a mandorla del suo primo fratello. «Credevo ti piacesse vivere con Mamma e Papà. Mi hai sempre detto che mi preoccupavo per niente, che dovevo smettere di detestare questa vita, e questo mentre proprio tu hai a che fare con i federali. Quante notizie hai passato? Quando ne avranno a sufficienza ci metteranno tutti in prigione, Allen, e non risparmieranno nemmeno te. Credi che ti daranno i domiciliari e ti metteranno sotto scorta solo perché sei un pentito e un informatore? Credi che loro ti vedano come un santo? Perché lo hai fatto?»

«Io non sono un semplice informatore.»

«No? E cosa sei? Un imbucato?»

«Misha...»

«Un poliziotto? Non me ne stupirei. Hai un distintivo, da qualche parte?»

«No, non ce l’ho. Io non voglio odiarti. Credevo fossimo soci, compagni. Credevo fossimo fratelli.»

«Lo credevo anche io.»

Il silenzio scattò fra di loro all’improvviso, quasi qualcuno avesse teso di colpo un filo di ferro. Misha cercò la maniglia, fece per uscire portandosi dietro la valigetta, ma Allen lo afferrò per il gomito prima che potesse sgusciare fuori. La sua presa era salda, arrogante, l’urgenza di quel gesto una prepotente ed egoistica supplica. Lo tirò indietro con uno strattone in cui la dolcezza era il sapore di un frutto amaro alla vista. Misha reagì voltandosi e si trovò a pochi centimetri dal suo volto, dai suoi zigomi orientali, dal suo naso piccolo e così inadatto su un viso adulto e agitato, frenetico come la corsa di pesci d’argento sotto immobile ghiaccio.

«Io voglio che tu stia bene», pronunciò Allen.

Misha rimase ad osservarlo, a rincorrere il gioco di luci e ombre che rifiniva la sua pelle. Tramontava il sole. «Ma così non mi fai stare bene. Non avresti dovuto. Non dovevi buttarti in questa stronzata.»

«Non dire parolacce. Non ti donano.»

«Fisher ti ammazzerà. Se lo venisse a sapere, Fisher ci ammazzerà entrambi; tu per quello che hai fatto, io perché sono il tuo socio.»

Non esisteva frase più giusta. Approfittò del momento per liberarsi dall

a presa di Allen e finalmente poté aprire la portiera e uscire e allontanarsi verso la porta e non voltarsi. Niente nel suo atteggiamento suggeriva la volontà di rivedere il suo primo fratello, almeno non quella sera e nemmeno il giorno dopo, e così fu.

Forse avrebbe dovuto.

 

 

* * *

 

 

Si era rigirato nel letto e lo aveva trovato lì accanto a lui.

«Allen», lo avevo chiamato.

Allen era sveglio. I suoi occhi scuri brillavano nella semioscurità, un barbaglio d’intesa nelle iridi. Teneva la guancia accomodata nel gomito. «Poi andrai in prigione», gli aveva risposto. Steso com’era sul fianco, con in volto quell’espressione agrodolce, pareva sul punto di fare le fusa. «Andremo tutti lì.»

E si era quindi mosso e era scivolato su di lui e aveva continuato a guardarlo e gli aveva sorriso e poi si era chinato per baciarlo. Misha giurava di non aver mai desiderato troppo da lui, solo qualche bacio, qualche parola, qualche favore. Sulle sue labbra c’era stavolta un sapore particolare, qualcosa che odorava di legna bruciata, desiderio folle e farfalle di cenere nella notte.

«Il mio primo fratello», l’aveva sentito sussurrare. «Il mio oh Dio, Sha. Il mio in prigione. Siamo là. Grazie, mamma.»

Il resto gli era giunto scoordinato e frammentario, ma non gli aveva chiesto di ripetere, non lo aveva fatto e così Allen aveva cominciato e le sue mani si erano fatte più urgenti e il suo corpo aveva aderito al suo. La sua bocca si era fatta calda.

Misha reagì, le braccia ora tese a circondargli il collo. Non voleva lasciarlo andare e sapeva che fuori c’era qualcosa, c’era la prigione, c’erano uncini, c’era freddo e c’era umido, e c’era – oh cielo, c’era il mondo. Così lo stava baciando con eguale trasporto, ignorando che il corpo aveva cominciato a tremargli, bocciando lo stupido pensiero che tra fratelli fosse sbagliato, perché fratelli non lo erano più, non lo erano mai stati, e perché il sangue suo era completamente, disgustosamente straniero a quello dell’altro. Erano solo due orfani in un mondo orfano di civiltà.

Lo trasse a sé in una preghiera e cercò la sua lingua, le mani scivolate dietro le sue spalle spigolose. Cazzo, pensò, lo voglio. Lo voglio, per Dio, lovogliolovogliolovoglio. E gli giunse in risposta un presentimento, o forse erano parole, gli giunse un

«Anche io. Entriamo. Anche io in prigione.»

Allen. Allen che gli aveva mormorato nell’orecchio, Allen che era giù nudo – come? Come? -, Allen che: «Entro con te», e poi che: «Però sei stanco», e che, un gemito sulla guancia: «Non ti piace, questa vita. Mio Dio, scusa.»

Misha si era irrigidito. Non funzionava. C’era dello sbagliato. Le mani di lui gli stringevano il volto, eppure qualcosa si muoveva sotto. Lo accarezzava bisbigliando nel malato alfabeto del corpo. Dita gelide, lisce e solide e taglienti come ghiaccio. Il piacere era frastornante, lo soffocava. Mosse le mani, quasi a scatti, passandole dalle scapole di Allen fino alle sue spalle.

«No. Aspetta, Allen. Non...»

Ci fu uno strappo, il crepitio di un cerotto staccato con troppa violenza. E la pelle di Allen gli rimase impigliata fra le dita. Misha la avvertì ancor prima di vederla; la sensazione era stata così convincente, così brutale che, quando sollevò le mani, visse un perverso momento di soddisfazione per essere riuscito ad indovinarlo. L’aveva scorticato. Gli aveva strappato due strisce di carne e pelle dalle scapole. Poi l’orrore, umido e caldo e pulsante come il sangue, lo investì piantandogli denti di bestia nell’anima.

«Cristo», mormorò. Nel semibuio, la pelle di Allen riluceva come carta velina macchiata di rosso. «Allen. Oh Dio.»

Lo guardò. Cercò il suo sguardo su un volto che non trovò. I suoi occhi si erano incavati, spremuti come due acini d’uva, e piangevano scarlatto, e la sua carne era carne viva, grinzosa, grassa, bagnata. Il sorriso che allungò era un’ulcera degna del Diavolo.

«Io ti amo. Il mio primo fratello. Per amor del cielo», disse.

Misha gridò.

 

 

«Per amor del cielo, Sha!»

Misha aprì gli occhi così di scatto che dovette coprirseli con un braccio per sfuggire alla luce del sole. Era a letto, arrotolato fra le coperte, e addosso si sentiva un vestito di sudore freddo. Il cuore galoppava. A esclamare era stato Patrick, chino su di lui, con una mano sulla sua spalla. La sua era l’espressione tipica di chi ha appena visto la morte in faccia ed è riuscito a sopravvivere.

«Gesù, grazie», buttò lì in un secondo momento, vedendolo sveglio. «Ti ho sentito gridare fino in camera mia.»

Lo osservava con gli occhi strabuzzati. Sarebbe stato comico in un’altra occasione, forse, ma non in quella. Le sue guance erano cineree. Misha si domandò, con insensata ironia, se il suo grido facesse tanto schifo.

«Io stavo sognando. Credo», disse. Si rendeva perfettamente conto di quanto automatica fosse quella risposta, ma la voce arrochita non gli concesse la grazia di articolare qualcosa di meglio. «Mi dispiace.»

«E di cosa? A me spiace per te, qualsiasi cosa stessi sognando.» Patrick si allontanò dal letto e andò ad accostare un poco le tende, consapevole che la violenta luce del sole doveva essere costata al fratello qualcosa come un doppio infarto. Nel mentre, lo sbirciò da sopra la spalla. «Già che sei sveglio, Allen ti ha accennato a qualche impegno particolare? Non si è presentato a pranzo.»

«Pranzo?»

«Non è mattina, esatto. Divertente, eh?»

«No, non intendevo questo», riprovò Misha. Si tirò a sedere, scrollandosi di dosso le immagini dell’incubo. «Non mi ha detto nulla. Nemmeno ieri l’ho visto.»

«Appunto. Ci chiedevamo se sapessi qualcosa.»

Chiedevamo. Non c’era mai nulla di buono nel momento in cui il membro di una famiglia malavitosa, benché di basso rango, parlava al plurale. Si ricordò della discussione avuta con Allen due giorni prima, quando l’aveva lasciato da solo in macchina sul vialetto. Era vero, non si erano più visti dopo quell’episodio. Consapevole che il troppo silenzio non era la miglior soluzione, si strinse nelle spalle.

«Non so niente», disse. Lasciando da parte il fatto che vuole spedirci tutti in prigione, omise.

Patrick lo osservò per un momento, poi sembrò buttarsi la questione alle spalle. «Be’, vedi di trovarlo. Al telefono di casa sua non risponde. Puoi fare un salto al suo appartamento?»

«Tu non puoi?»

«Io? Misha, non ho le chiavi. Nessuno vuole sfondargli la porta di casa. Sono cose che andavano di moda a New York negli anni Trenta. Forse anche verso i Quaranta.»

Misha impiegò un’altra manciata di secondi per realizzare che sì, una copia delle chiavi c’era, e l’aveva lui. Ovviamente. Scosse il capo e scese dal letto. «Va bene, passerò. Dammi il tempo di svegliarmi.»

«Benvenuto nel 1985», lo ribeccò Patrick con un sorriso, quindi uscì. Il calendario sulla parete lì accanto ondeggiò, sconvolto dal colpo d’aria della porta che si chiudeva.

 

 

* * *

 

 

Aveva visto Fisher una sola volta, ma non per questo desiderava vederlo una seconda. Nemmeno conosceva il suo nome e dubitava che Fisher lo fosse. Era uno di quei personaggi che i più tendono a evitare, uno di quelli che incroci per strada e ti convincono con un solo sguardo a prendere una piccola deviazione sul marciapiede. Uno di quelli che, prestatemi l’espressione, leggono la diffidenza sui volti altrui e se ne gratificano pure.

Non rientrava per giuste ragioni nei favori di Misha. Papà parlava spesso di Fisher, il necessario per tratteggiarlo come benefattore di tutti gli affari di famiglia, e nessuno faceva domande. Sapevano che era lui ad occuparsi della segnatura sui nuovi membri e che dovevano quindi alle sue mani i tatuaggi che li distinguevano in coppie. I più erano stati segnati da neonati, per cui non serbavano alcun ricordo di quell’uomo alto, dalle spalle larghe, avvolto dal lungo e verde impermeabile da pescatore che gli era valso il nome con cui tutti lo chiamavano. Il cappello calato sulla fronte, al pari di tutto il resto, sembrava un elemento che lì doveva stare, senza possibilità di stare quindi altrove. In effetti, con il tempo, Misha si era fatto di lui un’immagine indelebile e precisa, immutata come quella di un’icona sull’altare di una chiesa: non riusciva a figurarselo senza quel lungo giaccone dall’aspetto translucido, senza quei grossi stivali grigi, senza quei vecchi guanti di cuoio. L’idea che dietro i lembi dell’impermeabile ci fossero più tasche zeppe di attrezzi che carne umana gli si era infilata nella mente da parecchio, quasi uno stupido spauracchio per bambini. Peccato che molti dei suoi fratelli e delle sue sorelle la pensassero alla stessa maniera.

Stava pensando a lui quando entrò nell’appartamento di Allen. Distava quasi venti minuti a piedi dalla casa di Mamma e Papà, ma non era questa la stranezza. Molti altri della famiglia, almeno quelli adulti il necessario, si prendevano altri posti in cui stare. La differenza era che il rifugio del suo socio era molto più modesto degli altri, anzi assolutamente privo di qualsiasi indizio di ricchezza. Ogni volta che entrava, Misha si sentiva catapultato nell’esistenza di un giovane uomo qualsiasi, lavoro d’ufficio, cena cinese a domicilio, caffè al bar dietro l’angolo. Era a suo modo spiazzante, rifletteva, pensare che in realtà lì dentro viveva il membro di una famiglia malavitosa. Di sicuro nessuno nella palazzina dubitava che fosse un brava ragazzo.

Si chiuse la porta alle spalle, girando la chiave nella toppa – così, si disse, per precauzione -, e cominciò a guardarsi attorno. Di Allen, lo annusò nell’aria, non c’era traccia. Sbirciò nel soggiorno, superò il corridoio e diede un’occhiata in cucina. In camera, il letto era completamente in ordine. Niente di strano, considerata la sua buona abitudine di sistemare le coperte di prima mattina. Il pensiero che potesse essergli accaduto qualcosa gli strisciò in coscienza. Eppure era improbabile, era una spiegazione affrettata. Non era nuovo a comportamenti dal genere, era già successo che si assentasse per un’intera giornata o due. Probabilmente si sarebbe fatto vivo in serata.

Era ancora affacciato alla camera quando, dal soggiorno, gli giunse il trillo indispettito del telefono. Si voltò, osservando un punto non ben definito del corridoio. Sulle prime non si mosse, convinto dall’hollywoodiana idea di essere il classico infiltrato che non dovrebbe stare in casa senza il permesso del padrone; poi, al terzo squillo, scacciò dalla mente quel pensiero assolutamente privo di senso e si diresse al piccolo trotto verso l’apparecchio, pescando la cornetta e portandosela all’orecchio.

«Pronto?»

Nulla di allarmante se era lui a rispondere. In fondo era il socio di Allen, il suo primo fratello. Aggrottò la fronte quando non gli giunse una risposta, così si umettò le labbra e riprovò, il tono stavolta più convinto:

«Pronto? Sono Misha. Se cercate Allen...»

«Ah. Sei qui. Ti ho trovato.»

Avrebbe riconosciuto quella voce anche nel frastuono di un elicottero in partenza.

«Allen? Allen, grazie al cielo. Ti stavo cercando», disse, la voce ora più viva di una nota. In quel momento si rese conto, forse a causa del sollievo che lo investì, di quanto fosse stato in ansia. «Pat mi ha detto che ieri non ti ha visto nessuno e che oggi non sei venuto a pranzo. Dove sei? Sai che a Mamma e Papà non va giù il fatto di perdere così di colpo i contatti con uno di noi.»

«Prendi la chiave che tengo in cucina, quella della scrivania. È dentro la saliera.»

«Cosa? La scrivania? Ti ho chiesto dove sei.»

«Apri il cassetto.»

«Il cassetto? Mi spieghi di cosa stai parlando?»

«Gesù, Misha. Per una buona volta, ascoltami.»

La sua voce aveva un che di sofferente. Gli giungeva spazientita, stanca, dichiaratamente indisposta. Questa volta Misha contò fino a tre prima di riprendere parola.

«Prima dimmi cosa succede», pronunciò.

«Prendi le cose che sono nel cassetto e vai. Quando puoi, passa da quella donna. È per lei che l’ho fatto. Misha, mi dispiace così tanto.»

«Dove sei?»

«Sono da lui. Sapeva già tutto. Deve avere un pessimo senso del tempismo per aver deciso di confessarmelo dopo che tu l’hai scoperto. Dice che l’ho deluso. Penso che anche Papà lo sappia; credo sia stato lui a dire a Fisher di prendermi.»

«Tu sei... sei con Fisher?»

«Da ieri. A me dispiace, Sha. Avrei voluto accompagnarti da lei quando sarebbe tutto finito. Adesso è finito, ma non ci sono.»

«Non dirlo.» Il respiro gli si era fatto irregolare, gli occhi grandi e gonfi e leggeri. «Cristo, Allen, dimmi cosa sta succedendo!»

Si accorse d’aver alzato la voce solo per via dall’eco che rimbalzò sulle pareti a mo’ di tante schegge di vetro. A spaventarlo più di tutto il resto era la sua voce, così monotona, solo un poco strascicata, quasi avesse previsto quel dialogo da tempo e stesse semplicemente leggendo un copione.

«Devi leggere quelle note», continuò l’altro, ignorandolo. «Devi leggerle e andartene. Non voglio che mandi i miei sforzi all’aria. Non te lo perdonerei, ma tu perdonami tutto quanto.»

E attaccò. Di punto in bianco, senza alcun preavviso, senza alcuna pietà. Misha rimase qualche istante con il ricevitore in mano, il respiro lento e regolare, prima di lasciarlo di colpo e precipitarsi nel sottoscala. La porticina sbatacchiò con violenza, ma lui non se ne curò. Nella luce tremolante dello sgabuzzino indovinò una pistola; se la infilò nella cintura, sotto la camicia. Con le dita che tremavano, si infilò in tasca due pugni di cartucce e infine uscì, diretto alla porta.

Poi si ricordò della scrivania e si arrestò di botto, quasi slittando sulle mattonelle dell’ingresso. Allen ci teneva. Glielo aveva letto nella voce, tra le righe e non. Si pugnalò in coscienza per quel tentennamento, ma alla fine tornò indietro, dalla chiave nella saliera. La pescò quasi per fortuna, rischiando di mandare il barattolo di ceramica per terra, quindi schizzò in camera, dove il cassetto lo attendeva nella sua meschina immobilità. Se c’era qualcosa che doveva sapere, voleva saperla prima di rischiare di morire in un suicida tentativo di salvataggio.

Oh, cazzo, pensò. Se non ne vale la pena... Se non ne varrà la pena e se sopravvivremo a Fisher, Allen, giuro che ti ammazzerò con le mie stesse mani.

E aprì.

 

* * *

 

 

Allen non gli aveva dato un indirizzo. Poco cambiava, dato che gli aveva detto di trovarsi da Fisher. C’era stato un tempo in cui Misha era solito origliare più di quanto avesse dovuto, ed era stato proprio grazie a questo vizio che aveva scoperto dove il benefattore di Papà risiedeva il più delle volte. Il più delle volte, giusto. Aveva tutti i motivi del mondo per credere che un uomo come lui, decisamente ricco quanto bastava per stare dietro ad un uomo, Jackson, altrettanto ricco, non poteva abitare in un vecchio magazzino di fronte al mare. Probabilmente da lì gestiva solo i suoi affari.

Si trattava di un vecchio deposito di imbarcazioni da pesca. A suo tempo doveva essere stato piuttosto imponente, verniciato ad arte, qualcosa di piuttosto notevole per essere stato messo in piedi attorno agli anni Venti. Misha non ci era mai entrato, ma sapeva, sentiva che Allen si trovava là. D’altronde quello era il centro operativo, la grande mente dietro il malato progetto di quella famiglia costruita sulle fondamenta dell’illegalità. Non aveva ripensamenti quando si soffermava sull’idea che da quel magazzino, in un modo o nell’altro, avesse avuto inizio tutto quanto.

Così aveva pescato uno zainetto dal guardaroba del socio, vi aveva sistemato alla rinfusa le carte che aveva trovato nel cassetto e si era gettato fuori, deciso a farsi di corsa i quasi trenta minuti che lo dividevano dalla baia. Non c’era nessuno che potesse chiamare se davvero era stato Papà ad ordinare a quell’uomo di prendere Allen. Quasi se lo immaginava, in visita da lui in quel deposito umido e grigio, a dirgli:

“Mi serve un favore. Uno dei miei figli ha fatto un errore. Dovresti correggerlo. Strappaglielo, non lo voglio più.”

E poi, nella sua mente, vedeva Fisher muoversi, recuperare un coltello da pesca, chinarsi sul suo primo fratello immobilizzato su un rudimentale tavolo da lavoro, la schiena nuda rivolta alle sue malate intenzioni. La punta di ferro si infilava lì vicino al tatuaggio e si girava appena, con saporita leggerezza, cavando dalla gola di Allen un grido acuto e dalla sua carne una riga vermiglia. Tracciato il contorno, la pelle si sarebbe poi staccata come un vecchio cerotto intriso di carne. Alle orecchie di Fisher, immaginava Misha, le grida del cliente sarebbero valse come complimenti. In fondo era talento quel che serviva per strappare il necessario senza rovinare nulla, un po’ come bisogna averne per togliere un dipinto dalla sua tela. Una tecnica così raffinata. Egregia.   

Il pensiero lo fece rabbrividire mentre correva senza scorte per strada attraversando incroci trafficati, beccandosi insulti da parte di pedoni ed automobilisti, con il peso dello zainetto a sbatacchiargli disordinatamente sulla schiena. Sapeva qual era la pena per chi tradiva la famiglia. Sapeva cosa Fisher faceva, cosa gli piaceva fare, cosa adorava combinare con gli ami e i coltelli arrugginiti di quel magazzino. E quello che stava scritto sulle carte di Allen... Quello che Allen gli aveva lasciato, quello che aveva scoperto per farlo stare bene. Quella donna.

Il prepotente clacson di un’auto e una violenta frenata lo strapparono a quei pensieri. Ebbe la prontezza di tendere le mani e poggiarle sul cofano della vettura che l’avrebbe preso in pieno se il conducente non avesse calato senza pietà il piede sul freno. Misha fece un saltello, indietreggiò barcollando dalla macchina ora ferma, le gambe quasi instabili e gli occhi verdi sgranati. D’istinto si era portato la mano al fianco, dove sotto la camicia aveva nascosto la pistola. La gente che passava in quel momento rallentò o si fermò, sgomenta.

«Razza di coglione!», lo insultò l’uomo alla guida, buttandosi praticamente fuori dal finestrino abbassato. «Prima di attraversare, si guarda!»

Era destinato a non ricevere alcuna risposta. Ripresosi dallo shock, il ragazzo si era già girato e aveva ripreso a correre, neanche fosse un delinquente con i poliziotti alle spalle. Scansò una signora, che vacillò in modo quasi comico, e schizzò oltre l’altro incrocio.

Arrivò a destinazione in ritardo di dieci minuti sulla tabella di marcia. Il vecchio deposito era sistemato in fondo, vicino alla scogliera, in un angolo di Danimarca animato solo dallo sciabordio adamantino delle onde. Misha si appoggiò sul parapetto di legno della strada, guardando in basso e accasciandosi un poco per prendere qualche respiro. Gli doleva la milza e i polsi gli pulsavano ancora per il contraccolpo contro il cofano della macchina. Per quella strada le macchine passavano solo raramente, per di più camper di allegre famiglie che giravano allegre per la costa allegra. Rallegrandosi. Ad investirlo fu un senso di irrealtà che gli diede quasi la nausea; si sentiva così fuori, così storto al pensiero che di allegro in quel momento non ci fosse proprio niente. Fisher poteva già aver fatto il suo sporco lavoro e lui aver corso per niente. Prese un ultimo respiro e imboccò al piccolo trotto la discesa di ghiaia che scivolava giù, verso il deposito.

Aveva estratto la pistola a metà strada e ne stringeva saldamente il calcio quando giunse di fronte al magazzino. Al molo, inutilizzato e vecchio, erano ancorate due piccole imbarcazioni fatiscenti. L’aria di mare era lì più arrogante e gli arruffava i capelli sulla fronte. Alla luce di quanto c’era scritto sugli appunti di Allen, dubitava che le cose potessero sistemarsi e tornare come sempre erano state. Sapere per quale motivo aveva deciso di diventare un informatore gli aveva graffiato il cuore non solo in superficie, ma anche e soprattutto in profondità. Da quel deposito voleva tornare indietro con lui. E poi sarebbero andati insieme. In prigione.

Il magazzino era alto, enorme. I pannelli, un tempo verniciati di rosso e bianco, erano scrostati in più punti. Contro il cielo grigio frammentato d’avorio, quelle quattro pareti sembravano la carcassa del sogno di un pescatore. Scostò l’ingresso con la punta del piede, lasciando cigolare i cardini, e scivolò all’interno, la mani strette sull’arma. Dentro dominava la polverosa e acidula luce di una cantina. Allora sì, qualcuno c’era. Il penetrante odore di pesce gli scavò le narici come un raspino, tanto da costringerlo a storcere il naso.

Era probabile che Fisher sapesse del suo arrivo. Forse Allen aveva preso delle precauzioni quando lo aveva chiamato per telefono, ma con un uomo come quello, pensava Misha, le precauzioni non erano mai abbastanza. Si mosse con diffidenza girando gli occhi attorno, sbirciando le ombre, gli angoli, gli scaffali colmi di barattoli, le pareti zeppe di vecchie canne da pesca. In un punto erano gettate alla rinfusa reti strappate e malridotte; giacevano nel semibuio in una strana forma, neanche tra i loro fitti motivi nascondessero una catasta di cadaveri. Misha scacciò quell’orrenda supposizione e si fece avanti, aggirando un mobile rovesciato e affacciandosi ad un’altra stanza. Lì rimase, appoggiato allo stipite, immobile.

Lì la luce era un po’ più vivida. L’interno di quell’ala del magazzino era più contenuto, ma non per questo meno interessante. Sul tavolo al centro, circondato da scaffali e scaffali di cianfrusaglie, erano disposti vari attrezzi. Uncini, vecchi ami, coltelli da pesca. C’era qualcosa in coscienza che gli diceva che quella che li sporcava non era ruggine. Era troppo rossa. A confermare la sua ipotesi, macchie più scure per terra, vicino alle gambe di legno. Deglutì il vuoto, un principio di nausea, e voltò gli occhi di scatto quando indovinò un movimento in un angolo più buio, dietro una vecchia coperta calata a mo’ di separé. L’istinto gli ordinò di spianare la pistola verso l’ignoto, il cuore che gli fece il giro della morte nella gabbia toracica. Caricò il cane. Sotto la camicia e la giacchetta di pelle, il petto gli si alzava e abbassava precipitosamente.

«Esci», ordinò, a nessuno in particolare. «Esci, o giuro su Dio che sparo. Ti sparo.»

«Il tuo socio non è qui. L’ultimo traditore è già andato via.»

Misha ebbe un sussulto. Le sue dita si mossero indispettite sul calcio dell’arma. Fisher, non Allen. Fisher. «Tu menti. Io so che è qui.»

«Sono sincero. Nemmeno si chiama più Allen, non è più tuo socio. Sei un mezzato.»

Non era una parola che esisteva, eppure conosceva bene il suo significato. Era stato Fisher stesso a coniarla. Era già capitato che ci fossero dei mezzati, in famiglia, con il problema che Papà Jackson se ne sbarazzava in fretta. Perché erano ormai privi della loro controparte, del loro primo fratello o della loro prima sorella.

Sulle prime il ragazzo rimase senza parole. Quasi stava rischiando di perdere la presa sulla pistola. «Allora lo hai fatto.» Quattro parole. Bruciavano. «Allora lo hai già fatto.»

«Io ho già fatto tutto. Faccio sempre tutto in largo anticipo.»

Poi uscì da dietro la coperta calata e Misha reagì brandendo l’arma con rinnovata convinzione... prima di perdere quasi la sensibilità alle mani.

Aveva ricordi piuttosto vaghi di Fisher. In quel momento non indossava l’impermeabile, il cappello, i guanti, gli stivali. A dire il vero, non indossava proprio nulla. Era completamente nudo, disegnato nella luce tremula della stanza. Una mano d’ombra gli copriva a tratti il petto villoso, senza preoccuparsi di nascondere alla vista quanto restava, compreso il pene che ciondolava piccolo e slanciato come un perverso giocattolo da fissare sopra alla culla, tra api di peluche e giostre di plastica azzurra. A occhio e croce, benché fosse alto, dalle spalle larghe e dal volto duro, dimostrava oltre la settantina. Ma non fu nessuno di questi particolari a far torcere lo stomaco a Misha, giacché la bile cominciò a salirgli in gola quando si accorse di cosa c’era sul suo corpo.

Era pelle, ma non sua. Facile capirlo, con tutte quelle cuciture, quei tatuaggi fissati addosso a mo’ di pregiato lavoro di tappezzeria. In alcuni punti i contorni erano raggrinziti, secchi e asciutti per via del tempo; in altri erano invece più vivi, morbidi anche solo alla vista, indice che appartenevano a lavori più recenti. E sulla sua anca destra, applicato tra un giglio e un tribale accartocciato, c’era il dragone.

Il suo. Il suo e quello di Allen.

Era stato cucito con maestria. I bordi di quel lembo di pelle erano macchiati di sangue rappreso. Lì sopra ci aveva passato le mani così tante volte. Lì sopra aveva lasciato baci e carezze, lì sopra aveva mormorato battute, stupidaggini, aveva sussurrato pugni e speranze. L’idea che gli fosse stato strappato e che ora quello stesso tatuaggio giacesse sul corpo di quell’uomo bastò a dirgli che doveva vomitare.

Lo fece, girando di colpo la testa e tenendosi allo stipite. Il conato fu violento, ma quasi vano. Avvertì in gola il sapore acido della bile. Aveva abbassato la pistola e portato il dorso della mano alla bocca. Quando rialzò gli occhi, vide che Fisher non si era mosso.

«Tutti quei tatuaggi...»

«Figli miei. Figli miei, come tu sei figlio mio. Figli della nostra società, figli che ci hanno tradito, figli che sono tornati a me.» Fisher sorrideva. Sotto il capo quasi calvo, i suoi occhi azzurri rilucevano. «Lui è tornato a me. La sua identità è mia.»

«Te lo ha detto Jackson. È stato lui a dirti di fare questo ad Allen.»

«Non è una domanda, ma ti dico di sì. So che ti ha detto di prendere tutti i suoi appunti, le sue soffiate. Ho già scelto come andrà a finire. Dovresti andartene.»

«Io non vado da nessuna parte», disse Allen, e lo agganciò di nuovo con la pistola, gliela spianò contro, gli rovesciò addosso l’occhio gagliardo e buio della canna. «Non vado da nessuna parte, porco. Lui è vivo.»

«È diverso, non è mai nato. Il vostro legame è tornato a me, e lui non è qui.»

«Tu gli hai strappato la pelle! Gli hai strappatolapelle, Dio! Oh, Gesù... »

«Mi aveva detto che sei un pessimo spettacolo quando piangi, figlio mio.»

Nella sua voce c’era commiserazione. Misha era consapevole che gli occhi gli pungevano per un motivo. Non se ne curò quando, sentendo quelle parole, quelle due ultime parole, il suo cuore fece una capovolta.

«Io non sono tuo figlio!», gridò.

E premette il grilletto. L’esplosione fu bianca e Fisher si prese il colpo in pieno petto; rotolò indietro, contro il muro, sgraziato come una vecchia marionetta, scivolando per terra, la scomposta bambola di un vecchio informe, e Dio, buon Dio, Misha gridò di nuovo e vinse l’impulso di crollare a terra e urlare ancora.

 

 

* * *

 

 

(Tre giorni dopo, in un dato luogo, nelle mani di una data persona)

 

A Kenny.

Figlia mia. La mia prima, unica figlia. Se stai leggendo questa lettera che ti consegnai anni fa, vuol dire che la società è ormai chiusa. Sono stato ucciso o sono morto in pace. Di questo mi sarò già dimenticato. Ti prego di recuperare me e i miei figli, a te li affido. Mi rifarò altrove. Vorrei provare la politica. Vivrò sul corpo di qualcun altro. Questa vita così crudele... questa vita di sangue, pallottole e inganni, questa vita di crimini è stata divertente. Custodisci i miei arnesi, gli ami, gli uncini, e utilizzali su di me. Strappami a questo vecchio corpo, cucimi su un altro. Tutti questi tatuaggi, questi tradimenti, li rivoglio indietro su un corpo giovane, forte, bello, vivo. Il corpo dell’ultimo traditore. Sul corpo dell’ultimo traditore costruirò un altro impero. Così è sempre stato e così sarà. Così il mondo va avanti per sapendo delle ceneri dei padri.

Oh, Kenny. Prima figlia, mia donna. Quanto ti devo. Brucia questa lettera. Ti ringrazio di questo enorme favore, tu che mi riporterai in vita. Grazie, mamma.

J. Fisher.

 

 

 

 

* * *

 

 

Due mesi dopo quel colpo di pistola, la famiglia Webster aveva definitivamente smesso di esistere. Gli adulti, chi prima e chi dopo, vennero sistemati uno alla volta sotto processo; una mera scocciatura burocratica, giacché i giudici e le autorità avevano già deciso, in tacito accordo, che gli imputati erano destinati alla prigione. I minorenni, sei in tutto, furono indirizzati a diversi centri di recupero. Shawn, ancora troppo piccolo e, perché no, incorrotto, venne affidato ad una famiglia adottiva. La polizia aveva messo le mani nella rete criminale di Paula e Jackson e probabilmente ci sarebbero voluti anni per stanare tutti i complici, tutti gli affiliati, tutte le mosche cadute in quella ragnatela.

Risparmiarono in parte solo Misha. Sulle carte del loro informatore, a quel nome era affiancata la nomea di alleato delle istituzioni. Nessuno dubitava di Allen e della sua parola. Ad accompagnare i suoi ultimi appunti, quelli recuperati dalla scrivania, vi era qualche riga piuttosto convincente, che delineava il suo socio alla stregua di un complice. “Misha sa”, aveva scritto. “Lo sa da anni, e mai mi ha tradito. Alcune di queste informazioni sono frutto del suo lavoro. Anche a lui dovete la buona riuscita del tutto.”

Misha aveva digerito quelle frasi bugiarde con un solo cenno del capo quando gli avevano chiesto se fosse vero, per poi darsi dello stupido e codardo. Eppure sapeva che era così che Allen voleva far andare le cose, sapeva che era uno dei molti dettagli che doveva perdonargli, come gli aveva detto al telefono prima di uscire dalla sua vita.

Il suo corpo non venne trovato. Alcuni si misero persino a cercarlo, certi che fosse ancora vivo, e altri si convinsero invece del contrario. Misha raccontò alla polizia le regole della famiglia, mostrò il dragone tatuato, disse che era un modo per ripartire gli affari, non solo le persone. Raccontò anche di Fisher e disse di avergli sparato, confidò quello che aveva scoperto su suo conto e sul luogo in cui squartava con ami e uncini, ma per le autorità rimase solo un nome a cui non riuscirono ad affiancare un cadavere. Qualcuno, supposero, doveva essersene sbarazzato. Trovarono però gli attrezzi, quelli sì. Per evitare il panico e l’orrore da parte del Paese, passarono la loro esistenza sotto silenzio.

L’ultima ad essere trovata e arrestata fu Kenny. Aveva riparato in America, un tentativo destinato al fallimento. Misha l’aveva vista una sola volta, seduto nella centrale di Copenhagen. Lo sguardo che gli aveva lasciato addosso sapeva di rabbia viscida e di disgusto. Se ne rallegrò. D’altronde, lei non gli era mai piaciuta.

Anche lui, sapeva, sarebbe finito in prigione. Aveva vissuto quella vita e per quella vita doveva pagare. Il fatto che collaborasse e vestisse i panni del pentito non sarebbe certo bastato a salvarlo dalle sbarre, ma lo consolava il pensiero che la pena, almeno in confronto a quella di altri, si prometteva leggera. Pazienza; chiudere per sempre con quella famiglia costruita ad arte, artificiale e sgradevole come il puzzo di plastica fusa, equivaleva già ad una liberazione.

Poi c’era quel che Allen gli aveva lasciato negli appunti. Aveva avuto tutto il tempo di sfogliarli prima che le autorità glieli sfilassero di mano con stizza, con l’atteggiamento del genitore che evita al figlio letture insane, e aveva visto con i suoi occhi il motivo per cui il suo primo fratello aveva fatto quanto aveva fatto. Saperlo gli era valso prima un brivido nel cuore e poi un mezzo sorriso. Per ripagarlo delle informazioni che passava alla polizia, i federali, in accordo con loro, gli facevano avere notizie circa i presunti genitori di ognuno. Si era così scoperto che non tutti erano orfani, che alcune madri e alcuni padri erano semplicemente scomparsi o scontavano pesanti condanne. Cedric aveva un nonno in Germania, che aveva già avanzato un tripudio di richieste di affidamento; il fratello naturale di Emmett viveva in Francia e si era imbarcato su un aereo quando aveva saputo del suo ritrovamento, lui che lo credeva morto; Patrick aveva un cugino in Italia. Qualcuno c’era, e c’era anche qualcuno per Misha. Era la persona che Allen aveva scoperto e per cui forse aveva dato la vita.

La donna si chiamava Birgit Lene Dahl. Nomi e cognome dichiaratamente danesi, ergastolo per l’assassinio del marito. Profonde turbe psichiche. A dar retta ai pareri dei medici, aveva partorito pochi mesi prima di essere arrestata, ma non avevano trovato nessun neonato in casa. Pensavano l’avesse ucciso. I parenti più stretti l’avevano buttata in prigione senza rimorsi.

Misha entrò nel carcere femminile i primi di marzo, scortato da una pattuglia di agenti. Era ancora un informatore in libertà vigilata, nonché il potenziale bersaglio dei nostalgici della società firmata Webster. Tra le scapole, il tatuaggio che l’aveva legato ad Allen gli sembrava quasi vivo. Aveva programmato la visita alla Dahl quasi tre settimane prima. Il velo di gelido sudore che gli imperlava la fronte era giustificato, e pensava a lui, al suo primo fratello, pensava a quanto avrebbe voluto che fosse lì, pensava a quanto fosse ingiusto, a quanto a volte il mondo sembrasse esistere solo per venir preso a pugni o per prenderti a pugni, a seconda dei momenti.

Lei sedeva nella stanza spoglia con i polsi ammanettati, lo sguardo corrucciato, i capelli ingrigiti dalla solitudine e arruffati dalla follia. Le rughe le segnavano gli occhi, che guardavano avanti, un poco abbassati, palesemente ostili. Tutto in lei era sgraziato, dalla postura al taglio netto e sottile delle labbra. Mantenne la stessa espressione anche quando Misha entrò e si lasciò sedere di fronte a lei, le mani corse a sfiorare il bordo del tavolo di ferro a mo’ di solida e reale consolazione. Il colletto della camicia si era fatto chissà come troppo stretto, inadatto, così come la cravatta, più simile ad un cappio che ad un elegante dettaglio nel suo abbigliamento sobrio. La vide. Aprì la bocca e il mondo lo prese a pugni e lui prese a pugni il mondo.

«Signora Dahl», disse. «Io sono suo figlio, e sono qui grazie a mio fratello.»

 

 

* * *

 

 Questa storia ha partecipato con ottimi risultati al Contest a pacchetti "Darkness".Ringrazio enormemente i Giudici. <3

Esistono due cose che stanno alla base di questo racconto: la prima è "Assassin", classe 1988, romanzo di Shaun Hutson. L'autore è considerato un maestro del genere splatter. Consiglio vivamente la lettura agli amanti del genere [io di norma sono più per l'horror psicologico, ma questo libro merita davvero e credo abbia influenzato involontariamente il mio operato]. La seconda è una canzone di Hozier, "Take Me To Church". Personalmente la adoro, motivo per cui suggerisco anche un'occhiata - o un orecchio? - su Youtube.

E nulla, tenevo solo a mettere per iscritto ciò che mi ha ispirato, giusto per definire i contorni della storia. Mi rendo conto che è un po' lunga per una OS, per cui ringrazio chi riuscirà ad arrivare fino in fondo o lascerà un commento!

Dew_


   
 
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