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Autore: pierre    18/01/2015    0 recensioni
Che discorsi inutili, sospirò tra se il comandante Antonino Carbo, la vita era semplicemente un gioco tra i tanti con cui gli dei decidevano di trastullarsi, divertendosi a far soffrire gli uomini, ingannandoli, distruggendoli attraverso il dolore o la vecchiaia.
Mentre il cavallo lo conduceva placido tra sassi e cadaveri, si accorse di desiderare ardentemente di non invecchiare mai “meglio morire subito, adesso…” e sconsideratamente chiuse gli occhi quasi sperando che qualcuno gli staccasse la testa dal corpo con una daga: finalmente la fine.
Non si andava nel regno di Ade dopo la morte, non c’era nessuna vita dopo la vita ma solo il buio e l’oblio.
Una risata gli fece tirare le redini scoordinando il cavallo che nitrì.
La daga la sfoderò lui, il corpo già pronto alla difesa.
“Chi ride, chi sei?”
Il sole si trovava già sulla linea dell’orizzonte, un sole freddo tipico della terra dei Bagaudi gli sciocchi ribelli appena sconfitti.
“Assurdo” pensò tra se, la metà era morta in battaglia e lui ci stava camminando sopra mentre le donne e i bambini erano già diventati schiavi.
“Chi sei?” La sua voce tuonò in mezzo alla campagna gelida, mossa da bave di vento.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
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Nancianum 285dC.
 
 
Il cavallo percorreva la sua strada tra i morti, migliaia di morti sacrificati sull’altare di Roma.
Sciocchi Bacaudae, cenciosa accozzaglia disperata!
Avevano voluto mantenere la loro cultura celtica a dispetto della romanizzazione lasciando immutate gran parte delle zone rurali e montane: rivendicavano la loro differenza sul piano etnico e un miglioramento delle loro condizioni sociali, allorché si era verificato un peggioramento climatico che aveva portato ad una minore resa agricola.
I Bagaudi avevano deciso di morire sul campo di battaglia piuttosto che spegnersi per colpa della fame.
Ed erano stati accontentati!
Antonino Carbo, comandante della Legione Minerva non poteva che ritenersi soddisfatto: tutto questo gli sarebbe valso il plauso dell’Augusto Massimiano Flavio.
Avrebbe ricevuto potere, gloria e sicuramente pecunia, tanti aurei necessari per terminare al meglio la costruzione di una villa degna di lui, una casa tutta sua sorta sulle dolci rive del lago di Garda con abbondante terra intorno!
Era così stanco di vivere in tenda…
Riceveva puntualmente notizie dal liberto, Zeffirino, suo arcarius e procurator, il quale lo ricambiava dell’affrancazione da schiavo con una fedeltà commovente che si traduceva nella gestione oculata e onesta dei suoi beni. Il caro Zeffirino che insieme alla moglie Lucina e ai numerosi figli lo serviva dandogli la bella sensazione di avere una famiglia.
Era stato quattro lunghi anni lontano dalla sua famiglia.
Il campo di battaglia grondava sangue, il puzzo della putrefazione cominciava a farsi insopportabile e i corvi banchettavano litigandosi le interiora dei caduti.
L’urlo della morte ancora risuonava nelle sue orecchie, il cuore aveva cessato di battere dolorosamente ma l’adrenalina accumulata ancora lo faceva sudare: quella notte non avrebbe dormito, già lo sapeva e si sarebbe trascinato ubriaco tra i suoi uomini, avrebbe cantato, riso e ruttato con loro… avrebbe cercato tra i più giovani un corpo con cui concedersi un’ora di oblio.
Tutto era andato per il meglio e allora perché non si sentiva felice?
Non provava alcun senso di colpa, era stato un autentico macellaio dimostrando l’eccellente preparazione militare con cui era stato forgiato in venticinque anni di valoroso servizio.
Aveva oramai quarant’anni Antonino Carbo, il fisico asciutto e allenato lo teneva ancora lontano dalla vecchiaia ma il volto pieno di cicatrici e il cranio rasato dichiaravano in parte che probabilmente era ora di ritirarsi.
Per questo motivo si sentiva triste allora? Non triste… incompiuto! Si diede dello stupido: perché mai questa idea bizzarra, lui osannato come un eroe, ricco e potente.
Sicuramente erano stati i discorsi del suo migliore amico il comandante Rufus Tiberio Albia, a confondergli le idee.
“Rufus, Rufus, Rufus…” sghignazzò tra se, pensando al nobile romano, un eccellente combattente ma con un carattere notevolmente sensibile, troppo colto, troppo riflessivo.
Non aveva alcun motivo di combattere, non doveva dimostrare nulla, sarebbe diventato senatore per diritto di nascita! 
E invece Rufus si era mescolato tra soldati, assassini e puttane.
I discorsi tra i due spaziavano dai campi di battaglia alla bellezza dei luoghi che loro avevano conquistato, dalle punizioni esemplari da infliggere ai soldati pavidi alle letture classiche… dall’odio all’amore.
La nobile famiglia Albia di cui Rufus era l’unico discendente e un precettore greco di fede cristiana lo avevano abituato a cercare un perché, un significato in ogni sua scelta.
Comunque sia il suo caro e fraterno amico, il compagno di battaglie che più volte gli aveva coperto le spalle presto si sarebbe dovuto allontanare dall’esercito: Roma lo attendeva!
Rufus Tiberio Albia avrebbe intrapreso una veloce carriera politica.
Se avesse avuto persone fidate intorno, chissà dove sarebbe potuto arrivare! Antonino per un attimo si sentì mancare e non per colpa della disidratazione: quelli erano tempi in cui si diventava facilmente Imperatore, soprattutto se si avevano buoni agganci militari.
E chi meglio lui, il suo devoto amico, avrebbe potuto proteggerlo comandando contro Roma le loro stesse legioni? I soldati avrebbero seguito loro due e non un misconosciuto senatore che mai aveva combattuto e mai avrebbe rischiato la vita sui campi di battaglia.
 Stava correndo troppo: l’amico Rufus doveva prima farsi conoscere, costruire una solida carriera e soprattutto farsi amare dal popolo.
Si sarebbe dovuto sposare con una donna degna di lui, una nobile di sangue romano, una fattrice con cui fare figli forti e intelligenti.
Placida, la madre, già tramava alle sue spalle, indecisa tra una certa Albia Antonina, donna saggia, potente e di notevole cultura e una più semplice Livia Arenula, bellissima e ammaestrata da un padre rigoroso e intransigente molto vicino a Diocleziano l’Augustus Maximus.
L’amore era un particolare da non prendere per nulla in considerazione…
Quando Rufus sfogava il proprio disappunto con il fraterno amico, Antonino rideva “ma quale amore” esclamava “le donne devono eseguire solo un compito, quello di allargare le gambe!”
“Parli bene tu” replicava divertito Rufus strizzando l’occhio “a te piace solo l’amor greco, ti delizi con i ragazzi che vedi bene di scegliere tra i soldati di prima leva, gli schiavi adolescenti e i prigionieri… ma se un domani diventerai senatore, ti toccherà sposare una donna e la dovrai scegliere bene se vorrai diventare politicamente forte.”
Antonino alzava le spalle infastidito, lui non si sarebbe mai sposato, odiava le donne così limitate, petulanti; detestava le loro voci squillanti, le loro pretese ridicole di attenzioni e gioielli, il loro complottare silenzioso.
Molte erano diventate cristiane, aiutate dal fatto che la moglie di Diocleziano e le figlie del suo Cesare Flavio Costanzo praticavano quel culto celato, una moda scellerata che costringeva un intransigente senza scrupoli come lui a fare i conti con la tolleranza: questo si può fare quest’altro no… ama il prossimo tuo come te stesso… stupidaggini!
Se il suo prossimo fosse stato come lui, l’Impero non avrebbe avuto più abitanti: Antonino Carbo era inimitabile per cattiveria, arroganza e cinismo.
L’amore!
Che inutile spreco di energie, un giovane maschio si sarebbe piegato muto alla sua voglia e umiliarlo sarebbe stato un godimento senza eguali. Lo faceva spesso con i prigionieri di guerra, un ottimo sistema per fiaccarli nello spirito.
Era però consapevole che le sue preferenze, una volta finita la guerra, dovevano essere consumate nella più totale discrezione: i Romani non si creavano problemi con gli adolescenti e gli schiavi ma guai a rendere pubblica e costante una tale predilezione.
“Eppure dovresti provare qualche volta” spesso Antonino provocava Rufus “dovresti toccare i loro muscoli tesi e sudati, farti travolgere dai loro abbracci forti… i giochi tra maschi spesso sono una via di mezzo tra un allenamento di lotta e un guardarsi allo specchio.”
“Mai” replicava l’amico “la semplice idea mi disgusta!”
“Non sputare per aria Rufus… nella tua prossima vita potresti innamorarti di chi meno te lo aspetti!”
Che discorsi inutili, sospirò tra se il comandante Antonino Carbo, la vita era semplicemente un gioco tra i tanti con cui gli dei decidevano di trastullarsi, divertendosi a far soffrire gli uomini, ingannandoli, distruggendoli attraverso il dolore o la vecchiaia.
Mentre il cavallo lo conduceva placido tra sassi e cadaveri, si accorse di desiderare ardentemente di non invecchiare mai “meglio morire subito, adesso…” e sconsideratamente chiuse gli occhi quasi sperando che qualcuno gli staccasse la testa dal corpo con una daga: finalmente la fine.
Non si andava nel regno di Ade dopo la morte, non c’era nessuna vita dopo la vita ma solo il buio e l’oblio.
Una risata gli fece tirare le redini scoordinando il cavallo che nitrì.
La daga la sfoderò lui, il corpo già pronto alla difesa.
“Chi ride, chi sei?”
Il sole si trovava già sulla linea dell’orizzonte, un sole freddo tipico della terra dei Bagaudi gli sciocchi ribelli appena sconfitti.
“Assurdo” pensò tra se, la metà era morta in battaglia e lui ci stava camminando sopra mentre le donne e i bambini erano già diventati schiavi.
“Chi sei?” La sua voce tuonò in mezzo alla campagna gelida, mossa da bave di vento.
“Io sono Belial”
 
 
 
   
 
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