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Autore: Rie_chan    24/11/2008    7 recensioni
presentazione remnants Kakashi Hatake odiava gli ospedali. Fin da bambino.
E persino adesso da uomo maturo e vissuto, non poteva ignorare il senso di disagio che inspiegabilmente gli attanagliava lo stomaco in una morsa quasi dolorosa.
Perchè una volta varcate quelle porte trasparenti, colpito dal candore disgustosamente esasperato di quel luogo, non riusciva a fare a meno di rammentare episodi lontani.
Sembrava che il passato, insensibile, riaffiorasse puntualmente materializzando con una perfezione maniacale, quasi sadica, tutte le tracce di quei giorni distanti.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kakashi Hatake, Naruto Uzumaki, Yondaime
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Remnants of distant days


 REMNANTS OF DISTANT DAYS




Passi affrettati, sempre più vicini. Uno sguardo ansioso. E poi una voce incerta, vinta dall'emozione.

"Kakashi-san...il Rokudaime è...il Rokudaime vuole..."

Lieve smarrimento, velato dubbio e infine comprensione.

"Arrivo subito."




Gli ci era voluto poco per immaginarsi il motivo per cui l'avessero mandato a chiamare.
Essendo lui stesso un tipo di poche parole, aveva sviluppato la strabiliante capacità di capire gli atteggiamenti e le richieste degli altri senza la necessità che fossero accompagnate da superflue conferme verbali. Quindi adesso camminava lentamente in quell'interminabile corridoio dalle pareti bianche, pressocchè sicuro delle informazioni recepite.
Non sembrava prestare attenzione ad alcun particolare, incurante delle occhiate ammirate degli ammalati o delle nuove tirocinanti al corrente della sua fama e delle sue innumerevoli gesta eroiche.
Indubbiamente trovarsi di fronte al copy ninja era un privilegio ed un onore, specie se non si aveva la sfortuna di averlo come avversario. In realtà, però, i presenti, soprattutto se esponenti del gentil sesso, rimanevano per lo più affascinati dalla sua figura che, nonostante gli anni, ancora riusciva a riscuotere un discreto successo. Ma, forse, neanche questo gli interessava.
Conforme alle regole, osservava un impenetrabile silenzio favorendo il clima rigoroso e fastidiosamente cupo di quegli ambienti.
L'unico accenno di vita si componeva dei rari bisbigli dei passanti e dal rumore dei suoi stivali che, incontrando le fredde mattonelle di marmo, rigorosamente bianche, producevano uno scalpiccio cadenzato che, a suo dire, risultava dannatamente assordante.
Reazione comprensibile considerato il suo umore che, in quel momento, gli avrebbe fatto odiare anche il suono del suo respiro. Insopportabilmente più veloce.
Infatti, a dispetto dell'andatura controllata, della sua espressione impassibile, del suo occhio perennemente annoiato dalla palpebra leggermente più abbassata rispetto al normale, il suo stato d'animo non era affatto rilassato. E, per coloro che sapevano andare oltre le apparenze e che conoscevano le sue abitudini, quel fatto era innegabile.
Teso, nervoso, animato da una pressante agitazione che gli aveva impedito di considerare la lettura dell'ultimo numero de "Le tattiche della pomiciata", girovagava assorto nei suoi pensieri, incapace di manifestare le proprie emozioni.
E non era una novità.
Ogni volta che, suo malgrado, si ritrovava in quell'edificio aveva l'impressione che qualsiasi volontà venisse risucchiata dai suoi toni impersonali e da quelle stanza asettiche, lasciandolo come una specie di guscio vuoto a muoversi in maniera meccanica ed artificiosa. Inutile dire che la cosa non gli era mai andata a genio.
Kakashi Hatake odiava gli ospedali. Fin da bambino.
E persino adesso da uomo maturo e vissuto, non poteva ignorare il senso di disagio che inspiegabilmente gli attanagliava lo stomaco in una morsa quasi dolorosa.
Costretto a vivere in un periodo di conflitti e lotte intestine, ci aveva trascorso una considerevole parte del suo tempo, protagonista e spettatore a seconda dei casi.
Perciò una volta varcate quelle porte trasparenti, colpito dal candore disgustosamente esasperato di quel luogo, in cui i suoni giungevano stranamente ovattati e le parole divenivano solo flebili sussurri, non riusciva a fare a meno di rammentare episodi passati.
Come se una sorta di bizzarro genjutsu lo catapultasse in un universo parallelo, in cui il tempo sembrava aver smesso di perpetuare la sua affannosa corsa, arrestandosi bruscamente a contempalare quei giorni che, con una crudele chiarezza, prendevano a scorrere nuovamente di fronte ai suoi occhi.
Come se ogni camera, ogni letto, ogni porta spalancata, gli raccontasse un piccolo pezzo della sua storia, spingendolo a rievocare ricordi che, il più delle volte, avrebbe preferito tenere sepolti nei meandri della sua coscienza. Perchè i ricordi legati a quel posto non erano mai stati eccessivamente piacevoli e lui non aveva mai avuto una grande dimestichezza nell'affrontare il proprio passato.
Però quello, insensibile, riaffiorava puntualmente materializzando con una perfezione maniacale, quasi sadica, tutte le tracce di quei giorni distanti.




Era mattina. Una mattina strana a ben riflettere.
Si era alzato insolitamente di buon umore e si era vestito alla svelta, indossando con orgoglio il giubbotto da chuunin forse ancora troppo largo per un bambino di soli otto anni.
Di fronte allo specchio aveva sorriso, rimirando compiaciuto i lineamenti del suo volto che molti, sempre più di frequente, paragonavano a quelli di suo padre.
Gli somigliava, senza dubbio, e lui non poteva che esserne estremamente fiero.
Con passo spedito aveva raggiunto la sala da pranzo, spalancando con foga la porta scorrevole verniciata di bianco.
All'interno l'avrebbero accolto una colazione un po' insipida ed uno sguardo autorevole che, da soli, rappresentavano tutte le sue certezze.
Le solide fondamenta sulle quali aveva scelto di costruire il suo intero mondo.
Ma il progetto gli era inesorabilmente crollato addosso, come un misero castello di carte.
Perchè quella volta, dentro quella stanza aveva scorto solo un'enorme chiazza di sangue ed un ciuffo di capelli argentati.
E adesso se ne stava lì immobile, imbambolato proprio al centro della grande sala d'attesa di quell'ospedale che sapeva di disinfettante.
Le persone continuavano a sfrecciargli davanti senza degnarlo di un briciolo di considerazione.
Si sentiva invisibile, o forse lo era davvero.
Troppo piccolo per avere importanza, troppo immaturo per capire cosa gli fosse successo, troppo impreparato per accettarlo.
Riusciva solo a fissare il vuoto, ricordandosi appena di respirare mentre la sua mente si rifiutava di elaborare un qualsiasi accenno di pensiero.
Sterile come quelle stanze intollerabilmente splendenti.
Solo come non lo era mai stato.
E poi d'un tratto una mano si era posata gentile sulla sua spalla, facendolo voltare d'istinto e facendogli incontrare due occhi azzurri da fare invidia al cielo.
"Kakashi, tutto bene?"
Non aveva mai risposto.
La vista gli si era improvvisamente offuscata ed i singhiozzi avevano iniziato a scuotere violentemente il suo corpo.
Come se la diga che teneva arginati i suoi sentimenti fosse stata spazzata via dal semplice suono di quelle tre parole.
Di quella attenzione sincera che nessuno ancora era stato capace di dimostrargli.
Si era lasciato circondare dalle sue braccia forti e rassicuranti, aggrappandosi con forza alla stoffa della maglia nel tentativo di sfogare il dolore troppo a lungo inespresso.
E nell'abbraccio confortante del suo sensei, aveva nascosto il suo volto, rigato dalle lacrime, deciso che da quel giorno in poi nessun altro l'avrebbe più visto.




Si toccò inconsciamente la maschera mentre, con decisione, oltrepassava la sala d'aspetto e svoltava a destra, ritrovandosi nell'ennesimo corridoio.
Pensandoci bene era stato da allora che aveva iniziato ad indossarla.
Gli era servita per celare la sofferenza, la delusione, il risentimento.
Per non vedere ancora quel volto che, crescendo, finiva con l'assomigliargli sempre di più. Per ricordarsi di non commettere il suo stesso errore. Per diventare un ninja diverso, migliore, che avrebbe seguito fedelmente ogni regola ed avrebbe completato con successo qualsiasi missione gli fosse stata assegnata. Indipendentemente dai suoi compagni.
Così nonostante il suo aspetto, nessuno avrebbe osato chiamarlo spazzatura. Ne paragonarlo ancora a lui.
Poi però le sue convinzioni erano cambiate. Ancora una volta.
Tutto a causa di un moccioso incapace, ritardatario e petulante che non riusciva neanche ad affrontare un nemico trattenendo le proprie emozioni.
La perfetta antitesi di tutto ciò che avrebbe mai voluto essere. E che, inaspettatamente, si era dimostrato l'eroe che in cuor suo aveva sempre sperato di diventare.
Obito gli aveva donato il suo Sharingan e, da semplice genin, era stato in grado di insegnargli più che semplici genjutsu.
Grazie a lui aveva trovato il suo vero nindo.
Ma questa scoperta, in cambio, aveva preteso la vita dell'amico più prezioso che avesse mai avuto. E aveva causato la sofferenza di molte altre persone.
Solo che lui, nell'egoismo tipico dell'adolescenza, non se n'era reso conto. Almeno fino a quel giorno.




Erano passate poche settimane dallo scontro al ponte Kannabi.
La guerra, spietata, continuava a protrarsi richiedendo il sacrificio di sempre più shinobi senza nome.
Ma così andavano le cose e tutti sembravano tragicamente essersi abituati.
Solo il cielo sembrava volersi distaccare da quella falsa indifferenza, sfogandosi con impeto sovrannaturale, piangendo disperato al posto loro.
Infatti pioveva. Ed era raro che piovesse a Konoha.
Perciò lui avrebbe tanto preferito restarsene a casa, aspettando nuovi ordini.
Però Rin aveva insistito affinchè si sottoponesse ad una visita di controllo. Per il nuovo occhio. E lui era stato costretto ad accettare.
Non avrebbe dovuto ritornare ancora in quel posto, nè origliare le conversazioni degli altri, lo sapeva bene.
Ma la porta socchiusa e le voci familiari provenienti da quella stanza pericolosamente bianca lo avevano tentato.
E alla fine la curiosità aveva sconfitto il raziocinio.
Le gocce picchiettavano insistenti sul vetro della finestra che l'uomo scrutava in maniera ostinata, ma senza il minimo interesse.
Dava le spalle alla kunoichi del paese del Vortice, quella dal carattere indomabile e quei brillanti capelli rossi.
"Non è stata colpa tua"

Si era voltato, stringendo i pugni, con gli occhi stranamente più scuri.
Il sorriso schietto e rassicurante aveva lasciato il posto ad una strana smorfia, del tutto inadeguata per un tipo come lui.
"Ti sbagli Kushina. Se solo avessi fatto in tempo...lui ora..."
"Hai salvato gli altri, non sei infallibile Minato."
Il tono era duro, lapidario ed inattaccabile. Eppure i suoi gesti la tradivano.
"Lo so."
Un grido strozzato.
"Lo...so..."
Un sussurro tra la pioggia, mentre si perdeva nel suo abbraccio.




Guardò distrattamente verso una delle finestre che illuminavano il suo percorso, stavolta accecato dai riflessi di un sole abbagliante.
Allora non era preparato ad una scena del genere.
Lui ricordava quella notte dopo la battaglia. Quando si era svegliato, fissando gli occhi nel cielo così punteggiato di stelle, convinto di essere morto anche lui era stata la voce tranquillizzante del suo sensei a riportarlo alla realtà. Pacato e professionale, si era scusato, senza soffermarsi granchè sulla questione e poi aveva stirato di poco le labbra, nella pallida imitazione di uno dei suoi gesti abituali che gli era sembrato molto triste, ma nulla di più.
Perchè loro erano ninja e la morte era una costante.
Potevano solo andare avanti, sopprimendo il grido straziante del proprio dolore, assistendo inermi alla perdita dei loro amici, dei loro parenti, dei loro amanti fino a che non fosse finalmente giunta anche la loro ora. Una immancabile sentenza che gravava sulle loro spalle dal momento in cui, ancora ingenui ed inesperti, si apprestavano a valicare, con passo malfermo, le porte dell'accademia. A cui ognuno doveva rassegnarsi.
Eppure non tutti riuscivano ad uniformarsi a quella condotta. E Minato-sensei faceva parte di quelle rare eccezioni.
Si impegnava strenuamente per confutare quel tragico verdetto, nel tentativo, talvolta vano, di ridurre al minimo i danni, dispensando promesse ambiziose e folli che avrebbe sempre mantenuto. Poco importava se queste avessero richiesto la sua vita.




Lo guardava accigliato mentre quello sfoggiava una delle sue solite espressioni allegre.
Neanche stesse partecipando ad una festa in maschera, bendato com'era dalla testa ai piedi, peggio di una mummia.
La verità era che aveva seriamente rischiato di morire in quell'attacco.
Combattere da solo contro un esercito di duecento ninja era pazzesco, proprio degno della sua incoscienza.
Ma il fatto più assurdo era che lui continuava a sorridere e a parlare d'altro, come se nulla fosse.
Avrebbe compreso solo più avanti, nelle reazioni inconsciamente simili di un altro ninja, quanto quel sorriso rappresentasse una maschera ben più efficace della sua.
Poi d'un tratto una shinobi aveva fatto il suo ingresso in quella stanza spoglia e l'indifferenza era svanita.
"Minato!"
Sconcerto e preoccupazione si erano mischiati nel suo richiamo, cui l'altro aveva risposto chinando il capo e artigliando la stoffa leggera del lenzuolo bianco.
Colpevole, aveva lasciato che il silenzio regnasse per qualche secondo e poi si era deciso a farfugliare qualcosa.
"Mi dispiace...Kushina...io...non..."
La frase era rimasta sospesa, oppressa dal suo senso di colpa.
E la presa sulla testata del lettino di ferro battuto si era fatta più salda prima che lei esplodesse.
"Perchè ti stai scusando adesso?"
Era arrabbiata ed era evidente.
Sapeva quello che era successo, il motivo che l'aveva spinto ad agire in quel modo ed anche il motivo delle sue scuse.
E soffriva. Perchè lui, al contrario, aveva di nuovo equivocato il motivo della sua collera.
"Kushina, io...io manterrò davvero la mia promessa! Ho detto che era la promessa della mia vita!"
Si, aveva giurato di liberare il suo villaggio dall'invasione di Iwa e avrebbe dato anche la sua vita per non rimangiarsi la parola.
E si era ripromesso di proteggerla sempre poichè avrebbe offerto persino la sua anima pur di renderla felice.
"Vedrai ci riuscirò sicuramente. Dal prossimo hokage non puoi aspettarti che il meglio"
La ragazza aveva annuito, contagiata dal suo ottimismo, certa che quel buffo sognatore sarebbe stato in grado di realizzare tutti i suoi propositi.
Perchè la prossima volta ci sarebbe stata anche lei al suo fianco.




Sorrise, increspando appena la stoffa scura che, ormai solo per abitudine, gli copriva ancora il viso.
La camera in cui aveva assistito a quella scena surreale gli era appena passata accanto ma, ovviamente, non ospitava più gli stessi attori. Non avrebbe potuto.
Però, sorprendentemente, quella scena si era ripetuta ancora, in circostanze diverse, ad opera di un altro ragazzo dagli occhi altrettanto limpidi e con indosso la sua stessa maschera.
Naruto aveva fallito, ma non si sarebbe arreso. Avrebbe riportato indietro il suo amico, ripristinando il suo primo preziosissimo legame perchè anche lui sarebbe stato Hokage un giorno e quindi non poteva infrangere la promessa della sua vita.
Ed era strano.
Perchè quella similitudine era fin troppo evidente per non notarla. Perchè lui non era assolutamente un fatalista, ma non aveva nemmeno mai creduto alle coincidenze.
Solare, determinato, imprevedibile quel piccolo genin imbranato dava il massimo in ogni impresa l'avesse coinvolto, incurante della fatica e delle ferite. E sorrideva in continuazione, a costo di apparire stupido ed irresponsabile, nascondendo i suoi tormenti dietro quella assidua ostentazione di sicurezza. Assorbito totalmente dal compito che si era prefisso, nella speranza di assicurare a chiunque il giusto angolo di pace, di soddisfare il loro desiderio di giustizia, di protezione, di salvezza, incrollabilmente fedele al suo giuramento, finiva col perdere di vista la propria felicità. E si accontentava di quella degli altri, convincendosi erroneamente che a lui sarebbe bastata anche solo quella luce riflessa.
Sembrava che il figlio, intrappolato in una specie di circolo vizioso, dovesse obbligatoriamente seguire le orme del padre.
Come se il sigillo impresso sul suo ventre, oltre a privarlo dell'affetto e dell'amore di una vera famiglia, oltre a costringerlo alla solitudine e all'isolamento, avesse maledetto persino il suo futuro, collegandolo inesorabilmente al passato, secondo un andamento ciclico che riproponeva costantemente i medesimi eventi.
Perciò ogni volta che lo guardava, non poteva fare a meno di scorgere l'ombra del suo maestro, preda di una terrificante inquietudine.
Sentimento più che giustificabile, considerato il precedente epilogo.




Credeva che nessuno avrebbe potuto minare la perfezione di quel momento.
Una madre che, affettuosa, culla il suo bambino ancora un po' stanca per il parto.
Ed un padre che, impacciato ed orgoglioso, li contempla raggiante, incurante delle battutine del suo sensei pervertito.
Un quadro perfetto, dalle tinte calde e brillanti che neanche l'erosione del tempo avrebbe potuto intaccare.
Ma, anche quella volta, le sue opinioni sarebbero state clamorosamente smentite.
Come se un qualcosa, che in molti chiamano divinità, altri destino, provasse un particolare gusto nel contraddirlo.
"Cosa sta succedendo?"
Uno scossone, più violento del primo, aveva risposto alla domanda della donna che, spaventata, stringeva più forte la creatura sul suo grembo.
E poi la porta si era spalancata, lasciando entrare uno scomodo messaggero.
"Yondaime-sama...Kyuubi è alle porte del villaggio."
Gli occhi si erano sgranati, sorpresi ed atterriti, per poi soffermarsi su di loro, rinnovando la sua promessa.
Avrebbe salvato Konoha e avrebbe protetto ad ogni costo tutti i suoi abitanti, perchè quello era il suo credo ninja.
I posteri l'avrebbero ricordato come l'eroe che era, riconoscendo i suoi grandi meriti.
Ma lei non l'avrebbe più rivisto.
E sembrava quasi esserne al corrente mentre il suo sguardo cristallino seguiva il mantello bianco, sempre più lontano.
"Kakashi-kun devi portare Naruto lontano da qui."
Parole gravi, pronunciate con fermezza una volta rimasti soli, cui non sapeva dare una giustificazione tantomeno un senso.
Avrebbe voluto rifiutare, correre verso la battaglia e lasciarla lì insieme a suo figlio, convinto che, a dispetto delle sue paure, sarebbero stati al sicuro.
"Te lo chiedo come ultimo favore. Fa che si salvi almeno lui."
Sciocchezze. Stava vaneggiando, come tutte le madri apprensive. Se proprio dovevano andarsene, l'avrebbe portata con lui.
"No, io sarei solo un peso. Non riesco neanche ad alzarmi dal letto. Ti prego Kakashi...vai"
Lacrime. Lui non le sopportava.
Così aveva preso quel fagotto urlante e l'aveva accontentata, con mille dubbi nel cuore.
E solo quando, raggiunta l'uscita, aveva visto crollare il tetto dell'ospedale era riuscito veramente a darle ragione.




Si arrestò bruscamente, accortosi di essere giunto a destinazione.
La porta bianca si stagliava beffarda di fronte a lui, quasi a volerlo sfidare. Non gli restava che impugnare la maniglia ed abbassarla un po' per superare quella debole barriera e vincere quell'immaginaria contesa, ma lui si limitava ad osservarla, come se fosse stato incapace di fare altro, improvvisamente sommerso da un'angoscia irrazionale. Ma si riscosse, abbandonando repentinamente tutti quegli assurdi pensieri mentre, con coraggio, entrava nella stanza finalmente colorata.
Il bianco era stato sconfitto.
Il tempo si susseguiva ininterrottamente, in un cammino lineare ed inarrestabile.
Le tracce sfumate dei suoi ricordi non avevano il potere di ripresentarsi ed influenzare quello scorrere perpetuo, nè l'avrebbero mai ottenuto. Non più.
Perchè il futuro sarebbe stato sicuramente diverso ed il presente ne era una prova.




Un letto, un mantello fiammeggiante ed un sorriso ampio.

"Ridammelo, gli fai male così."

E poi un hokage con in braccio suo figlio.

"Ma non è vero, 'ttebayo. Minato è forte come il suo otou-chan, vero Kakashi-sensei?"




 Fine   



Piccolo esperimento venuto fuori dalla rilettura del Kakashi Gaiden...e del capitolo 425...
In realtà avevo una voglia matta di scrivere qualcosa su Yondaime-sama*__* e Kakashi inizialmente doveva essere solo un narratore esterno poi però si è preso sempre più spazio - perchè lui se lo merita U__U - ed è venuto fuori questo.
Non è granchè. Però mi auguro davvero che a qualcuno possa piacere perchè non è stato facile scriverla e perchè, nonostante i difetti, ci tengo molto visto che è la mia prima one-shot.
Il titolo è tratto da un'ost composta da Nobuo Uematsu, in giapponese Tooi hibi no nagori, compresa nella raccolta "Final Fantasy: Love will grove" che è stata la mia principale fonte di ispirazione per la stesura della fic, molto bella e molto triste a mio parere. Potete provare ad ascoltarla se vi va^__^
Infine come
sempre ringrazio infinitamente chi leggerà ed adorerò chi vorrà regalarmi un commento. Bye bye.


P.S: colgo l'occasione per avvisare gli eventuali lettori di FH presenti che non sono sicura di riuscire ad aggiornare per domani e mi dispiace molto. Ma non posso postare il capitolo 6 senza le anticipazioni, visto che il 7 è ancora a metà, in più per completarlo definitivamente devo abbozzare anche l'8 dato che saranno collegati. Mi scuso, ma tra l'approssimarsi degli esami, impegni vari e il blocco dello scrittore (...ma si, concedetemi il parolone) non sono riuscita a scrivere molto, cercherò comunque di aggiornare entro la settimana (nei limiti del possibile) e spero che la shot vi possa consolare almeno un pochino :P

Rie_chan    


  
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