Non
E’ Mai Troppo Tardi
5
Jennifer Flalagan aveva leticato da piccola con la
chimica: una di quelle leticate che ti segnano per tutta la vita.
Michael era alle sue spalle, tranquillamente
sdraiato sul suo letto, completamente concentrato a studiare un libro
illustrato.
«Jennie?» la chiamò all’improvviso con vocina
insicura.
Dio quanto le era mancato il suo nome detto da
lui.
«Dimmi.»
«So che ho promesso a mamma di non disturbarti, ma
posso chiederti una cosa?»
Spalancò le braccia e il suo fratellino non si
fece ripetere due volte l’invito. Si trovò ad abbracciare anche il libro
illustrato.
Respirò profondamente il profumo dei suoi capelli,
ancora le sembrava un sogno che fosse di nuovo lì con lei.
Anche quella notte si era alzata un'infinità di
volte per andare a controllare che Michael dormisse. Suo fratello doveva avere
ancora gli incubi perché lo aveva visto rigirarsi e sentito gemere nel sonno,
ma non si era mai mosso dal suo lettino.
Le era sembrato d’impazzire senza di lui.
«Cosa c’è?» chiese.
Michael sistemò il libro in perfetto bilico fra di
loro, «Che animale è questo qui?»
«Un camaleonte.»
«E che cosa fa? Non riesco a capire. Cambia
colore?»
«Esatto. Cambia colore a seconda della superficie
con la quale entra in contatto… è il suo modo di difendersi, capisci? Si chiama
mimetizzazione.»
Il bambino tornò a guardare la foto, poi sorrise
«Certo che è proprio buffo, vero? Hai visto che occhi grossi che ha?»
«Anche quelli servono a difendersi. Tu riesci a
guardare solo davanti o dietro di te, lui invece ha sempre una visuale a
trecentosessanta gradi.»
«Mi stai dicendo che guarda sempre sia davanti che dietro?» chiese sgranando gli occhi per la
sorpresa.
«Esatto.»
I suoi occhi tornarono sulla foto, «Beh, in
effetti sembra un po’ strabico, vero?»
Rise divertita, «Beh, un po’ è vero!» ammise.
Michael lasciò andare il libro che scivolò in
terra e la abbracciò forte. «Mi sei mancata tanto…» mormorò.
Gli occhi le si riempirono subito di lacrime.
Rispose all’abbraccio stringendolo forte, «Anche tu pulcino. Mi è sembrato
d’impazzire senza di te… ma adesso sei al sicuro, non ti prenderanno più.»
Lo sentì annuire contro il suo collo. «Devo
ritrovare quei guerrieri, l’ho detto anche a papà. Con loro staremo al sicuro.»
Chiuse gli occhi.
Come poteva spiegare ad un bambino di quattro anni
che quelli che lui credeva guerrieri invincibili che sarebbero accorsi in suo
aiuto tutte le volte che ce ne sarebbe stato bisogno, erano in realtà dei
killers professionisti, agenti dell’F.B.I., che non avrebbe più rivisto?
Il capo delle indagini che era venuto a parlare
con i suoi la mattina dopo la riapparizione di Michael era stato chiaro: erano
intoccabili, praticamente non erano neanche al mondo.
Sapeva che a spingere suo padre a volerli
conoscere era stata soprattutto la richiesta di Michael. Li nominava in
continuazione, era rimasto profondamente colpito dall’apparente facilità con
cui lo avevano tirato fuori da quell’inferno.
Si udì un lieve bussare, seguito dall’entrata di
Sarah Flalagan.
Era una donna sulla cinquantina, ancora molto
bella ed elegante… e in quel momento anche piuttosto agitata.
«Ciao mamma!» salutò allegro Michael.
«Ciao amore, sempre a controllare che Jennifer non
possa studiare eh?» chiese con un vago cenno di rimprovero nella voce.
Michael le sorrise raggiante, «Devo recuperare un
bel po’ di tempo. Dov’è papà?»
«Nel suo studio.»
«Mamma, cosa c’è?»
«Avremo visite dopo cena, me lo ha appena detto
papà.»
«E… c’è qualcosa che non va?»
«Verrà Patrick… e suo nipote.»
«Qual è il problema?» provò a chiedere più direttamente.
«Il terzultimo… forse non ti ricordi di lui, avevi
nove anni quando lo hai visto l’ultima volta. Si chiama Junayd.»
Il respiro le si bloccò nei polmoni. «Juna?» le
uscì di bocca in un soffio prima che potesse impedirselo.
«Che nome strano» commentò Michael. «Non lo
conosco.»
Sua madre lanciò un’occhiata al figlio minore,
«Mmmh, Michael, che ne diresti di andare in cucina a farti dare da Susan un
paio di quei biscotti al cioccolato che ti piacciono tanto?»
«Davvero posso?!» si lanciò in terra e uscì dalla
stanza.
Sua madre chiuse la porta dietro di lui, poi si
sedé sul letto di fronte a lei. «Non mi fraintendere Jennie» riprese, «ho avuto
la possibilità di vederlo e parlarci anche ultimamente ed è gentilissimo e
molto spiritoso, sua madre poi è una donna squisita…»
«Ma?»
«Ma c’è qualcosa nel suo sguardo… di… non so…
inquietante. E poi è un genio: il suo quoziente d’intelligenza ha
dell’incredibile. Le mie amiche non fanno che parlare di lui, è vice presidente
della compagnia di Patrick, ha già due lauree… e solo tre anni in più di te.»
«Mamma, hai deciso di farmi innervosire?»
«Verrà qui per darci notizie sulle persone che
hanno riportato Michael a casa.»
Sua madre rifiutava di definirli per quello che
erano: killers.
«Cosa ne sa lui?» Sua madre fece spallucce «Ti
serve aiuto?»
«No no, Susan è sufficiente, prepareremo dei
pasticcini e del tea.» Rimase un attimo in silenzio, «Non ti ricordi di lui?»
A sua madre era sfuggito il suo bisbiglio, per
fortuna. Veramente pensava che fosse possibile scordarsi di lui?
«Così su due piedi, no» mentì spudoratamente
sperando che sua madre non se ne accorgesse come al solito.
Ma Juna l’aveva proprio sconvolta.
«Avevamo anche delle foto, di quando siamo andati
in vacanza insieme sei o sette anni fa, ma non so più dove sono finite.» Si
alzò, «Beh, non ha importanza, tanto lo vedrai stasera. Non arriveranno prima
delle dieci.»
Detto questo uscì.
Rimase a fissare la porta, poi si alzò e
lentamente andò alla libreria. Dovette scorrere un paio di piani prima di
trovare ciò che la interessava, ma alla fine sfilò l’album di fotografie: Hawaii, agosto 2001, la informò la
copertina di pelle blu.
Lo aprì facendo scorrere le pagine e si fermò su
di una foto di gruppo. Ritraeva una quindicina di persone: la sua famiglia e
quella McGregory. Gli adulti erano in piedi, i ragazzini accucciati in terra
davanti a loro.
Jennie lo riconobbe all’istante e sua madre aveva
ragione: se quegli occhi non erano cambiati, definirli inquietanti era poco.
Se lo ricordava, e come.
Era bastato il nome a farle tornare in mente la
persona alla quale apparteneva, perché mai nome era stato più azzeccato: a
dodici anni aveva tenuto testa all’intera famiglia con una forza e una
determinazione che l’avevano profondamente colpita, anche perché in quasi sedici
anni di vita non aveva incontrato nessun altro con una forza interiore
paragonabile a quella.
Tutte le persone che aveva visto difendere le
proprie idee finivano inevitabilmente con il perdere la pazienza e alzare la
voce, cercando più o meno inconsciamente di imporsi sugli altri… un paio di
volte era successo anche a suo padre.
Come una diga lasciata a sé stessa e tenuta per
troppo tempo chiusa, aperto uno spiraglio crollò tutto.
Ricordò improvvisamente tutta una serie di episodi
che avevano caratterizzato il mese passato insieme alla famiglia McGregory.
Juna, il cui nome significava Giovane Guerriero, a
soli dodici anni, aveva avuto ragione di suo nonno e suo zio con una
glacialità, una freddezza… che l’avevano scossa profondamente.
Erano stati Patrick e il figlio ad uscire fuori
dai gangheri in quel confronto.
Juna bisbigliava in un mondo che urlava e riusciva
non solo a farsi ascoltare, ma a convincere chi aveva davanti.
Ripensandoci, all’epoca era già da un anno aveva
preso il posto di vice presidente della compagnia, bastava sentirlo parlare con
persone molto più grandi di lui per rendersi conto che era proprio ad un altro
livello… e suo padre l’aveva adorato da subito.
Corrugò un attimo la fronte mentre un pensiero
sconcertante la colpì come uno schiaffo.
Si morse un labbro e chiuse l’album di foto.
Un lato del suo carattere di cui suo padre era
sempre andato fiero, era la sua capacità di ragionare senza mai perdere la
pazienza.
Si alzò e rimise l’album a posto.
Ad appena dieci anni forse era un pensiero
impossibile da avere… ma a quasi sedici si riteneva una ragazza con la testa
sulle spalle e se le era passato per la testa una cosa del genere…
Juna era stato un buon esempio per forgiare quel
lato del suo carattere.
Ricordava bene Juna… nessuno l’aveva mai più
terrorizzata a quella maniera.
Juna attraversò la soglia di casa che erano quasi
le otto e mezzo e incontrò sua zia Lennie, «Alla buon’ora!» lo apostrofò con un
sorriso «Tuo nonno dice che avete un appuntamento alle dieci e che massimo per
le nove e un quarto dovete andare via.»
«Ho fatto tardi perché mi sono fermato a fare la
doccia in palestra» si giustificò. «Vado su a posare la roba e a cambiarmi,
cominciate senza di me.»
«Avverto gli altri.»
Salì di corsa in camera e si cambiò in tempo
record scegliendo il suo accostamento preferito: jeans neri e maglione bianco.
Tornando giù si scontrò con il padre, «Alla
buon’ora!» lo apostrofò meno sorridente della cognata.
«Ho fatto tardi in palestra papà, mi dispiace.»
Suo nonno apparve dietro il figlio, quasi lo fece
sussultare: non lo aveva visto.
«Non preoccuparti Juna, stasera siamo in ritardo
tutti quanti.»
Entrarono nella sala, «Cos’è successo?» chiese
perplesso.
La cena era un rito che si ripeteva con una
puntualità svizzera.
Mancavano solo loro all’appello.
«Avevo perso Molly» spiegò Georgie riferendosi
alla gattina persiana che adorava. «Non sapevo più dove cercarla, ho cominciato
seriamente a temere che una di quelle belve la fuori l’avesse presa!»
«Mh, improbabile» disse Juna prendendo posto come
al solito accanto alla madre. «Quei due non entrano mai in casa e quella gatta
ha un istinto di conservazione troppo spiccato per avventurarsi oltre la
porta.»
«E infatti si era rintanata sotto il tuo letto
cugino!» esclamò Justin «Abbiamo dovuto mandare Melissa a recuperarla! Era
l’unica abbastanza stretta per passarci!»
«Melissa, hai fatto scuola…» disse Manaar
dolcemente. «Anche Molly ha imparato la via che porta alla camera di mio
figlio.»
«Non sono gelosa di una gatta» disse la bambina.
«Molly poi era sotto il letto, non
sopra.»
«E il giorno che finalmente Juna si fidanzerà?»
chiese Madeline tirando in ballo il suo argomento preferito «La sua fidanzata
non potrà certo dormire sotto il letto, ti pare?»
Passò un lampo negli occhi della piccola, «Se
questa ragazza piace a lui, piacerà anche a me… spero.» Sorrise speranzosa,
«Comunque io sono piccolina, prendo poco spazio!»
Elisabeth guardava affranta il marito, che a sua
volta osservava la figlioletta, «Melissa, pensi davvero di poter continuare
così?» chiese sconcertato.
Era ora di intervenire, «Nonno, non abbiamo un
appuntamento stasera?» disse «Forse è il caso di mangiare.»
Melissa scattò come un serpente, «Vai via? Dove?»
«Da un amico del nonno, tu non lo conosci.»
«Quando torni?»
Non le poteva fregare di meno di chi fosse questo
amico…
«Non penso di fare tardi. Non ti azzardare a fare
avanti e indietro dalla tua stanza per controllare però, intesi?»
Melissa sgranò gli occhi, ovviamente era stato il
primo pensiero che aveva avuto. «Ma come faccio a sapere se sei tornato?»
«Se ti addormenti e non avrai incubi sarà molto
meglio. Domani mattina mi troverai nella mia stanza se vuoi venire a
svegliarmi.»
Sorrise più tranquilla, «E’ vero. Ok.»
Per la prima volta vide negli occhi di Justin
autentica preoccupazione per la cugina più piccola… e gli venne improvvisamente
in mente che forse quella preoccupazione gli era sempre sfuggita fino ad
allora.
Alla crisi di Melissa, Justin era crollato… non lo
aveva mai visto così sconvolto.
Il ragazzo si voltò verso la sorella e Georgie
scosse le spalle, poi guardò la madre che rispose al gesto con un cenno
affermativo della testa.
«Lissa, mi stavo chiedendo…» cominciò allora la
ragazza, «vuoi venire a fare una passeggiata con me e la zia Lennie domani
pomeriggio?»
Per poco a suo zio sfuggì la forchetta di mano, sua
zia invece aveva l’aria di una che aspettava da una vita quel momento.
Dovevano averne parlato in precedenza, le sue zie,
i rispettivi mariti invece sembravano appena atterrati sulla Terra dopo decenni
di assenza.
«Dove?» chiese Melissa.
«Avevamo pensato di fare un salto al centro
commerciale» rispose Lennie, «ovviamente può venire anche la mamma, vero?
Potrebbe esserci qualcosa che ti piace.»
«E’ un’ottima idea Lissa» disse sua zia Elisabeth.
«Ti va di andare?»
Come un radar gli occhi della bambina cercarono
lui, «Tu vieni con noi Juna?»
«Ho già un impegno con Justin, vero cugino?»
Justin sorrise, «Sì, è un impegno che rimandiamo
da una vita.»
Melissa sembrò farsi più piccola, mentre fra Paul
e Connor saettò un’occhiata a dir poco incredula.
Come al solito sua madre era l’unica a non essersi
persa per la strada.
«Io non so se…» cominciò la bambina.
«Melissa, da quanto è che non usciamo con la zia
Lennie e Georgie?» chiese sua zia Elisabeth con una anche troppo chiara tensione
nella voce. «Sarebbe carino…»
«Non siamo mai uscite con loro» fu la lapidaria
risposta della bambina. «Sono uscita con la zia Manaar, mai con la zia Lennie.»
Entrambe le sue zie cercarono sua madre che
sorrise, «E’ un aperto invito alla sottoscritta Lissa?»
Melissa si trovò chiaramente presa in contro
piede, poi fu anche troppo chiaro il ragionamento che le passò per la testa: se
non poteva avere il figlio, si sarebbe presa la madre. «Verresti?»
Aveva l’impressione che la situazione stesse
peggiorando a vista d’occhio.
«Fantastico!» esclamò salottiero Justin.
«Un’uscita di sole donne! Farete la gioia del
centro commerciale!» continuò suo zio Ryan.
«Madeline, vuole venire con noi?» chiese sua madre.
«Partiamo verso le quattro» propose zia Lennie.
«Ci sono problemi?»
Nessuno ebbe da ridire.
«Juna, tu che fai domani?» tornò all’attacco
Melissa.
«Justin verrà in ufficio…» improvvisò.
«… dopo di che Justin, affrontato eroicamente un
giro turistico della McGregor Investments, con un po’ di fortuna riuscirà a
portarlo fuori di lì in tempi ragionevoli» continuò Justin come se stesse
ancora parlando lui.
«Credo riuscirò a concederti una fortuna del
genere, abbiamo diverse cose di cui parlare.»
L’occhiata piena di gratitudine di zia Elisabeth
gli disse che aveva capito e perfettamente assecondato le intenzioni delle sue
zie: Melissa doveva capire che lui l’indomani sarebbe stato esclusiva proprietà
di Justin.
Melissa doveva averlo capito alla perfezione, a
giudicare dallo sguardo angosciato che aveva in quel momento. «Terrai il
cellulare acceso?» chiese come ultimo appiglio.
Zia Elisabeth chiuse gli occhi.
«Certamente» rispose dopo qualche secondo.
La bambina annuì visibilmente più rincuorata.
«Ehm… Juna, fra meno di un quarto d’ora dobbiamo
andare» disse suo nonno.
«Sì nonno. Justin, ce la fai per le quattro ad
essere in ufficio?»
«Nessun problema cugino.»
Jennifer aveva deciso di aspettare l’arrivo degli
ospiti nella tranquillità della sua stanza, ma più passava il tempo, più
sentiva il nervosismo crescere.
Quando bussarono alla porta, praticamente saltò in
piedi.
«Jennie? Sono arrivati» l’avvisò sua madre senza
entrare.
Segno che toccava proprio a lei scendere.
Respirò profondamente, «Arrivo mamma.»
Michael era già stato messo a letto, in modo che
non partecipasse a quella che si delineava come una vera e propria riunione.
Durante la cena Michael aveva fatto diverse
domande su Juna, specie quando a suo padre era sfuggito il significato del suo
nome arabo, e aveva colto un certo nervosismo anche in suo padre… la cosa
l’aveva quasi spaventata.
Senza contare che ancora non riusciva ad
immaginare quale collegamento potesse esserci fra Juna e chi si era occupato
del rapimento di Michael.
Come poteva quel ragazzo sapere qualcosa che
neanche suo padre era riuscito a scoprire?
Non aveva mai sbandierato il fatto di essere la
figlia del governatore Flalagan, ma era cosciente che suo padre fosse un
uomo influente… e anche estremamente determinato.
Uscì dalla stanza e seguì la madre al pian
terreno.
«Non me lo ricordavo così affascinante» le confidò
in un sussurro la donna che l’aveva messa al mondo.
Non fece commenti.
Arrivarono in salotto e al loro ingresso intravide
tre persone alzarsi.
La stanza non le era mai sembrata così piccola.
«Ecco Jennie!» esclamò suo padre… con una nota di
nervosismo nella voce che le fece contrarre lo stomaco. «Bambina, ti ricordi
Patrick, vero?»
«Certo.» Si sforzò di mantenere la voce ferma e
puntò lo sguardo sul migliore amico del padre, «E’ un piacere rivederti
Patrick. Come sta Madeline?»
Suo padre la guardava compiaciuto. Si rendeva
conto dello sforzo che stava facendo? Le mancava il respiro e neanche sapeva il
perché.
«Maddie sta bene, grazie, anzi, ti manda i suoi
saluti. Ha apprezzato molto il tuo biglietto d’auguri per il suo compleanno.» Ci
furono cinque secondi di silenzio assoluto, poi… «Ti ricordi di mio nipote Junayd?»
«Non… non molto per la verità» mentì.
«Io mi ricordo di lei.»
Quella voce la fece sussultare, sarebbe potuta
appartenere ad un uomo di trenta o anche trentacinque anni per com’era bassa e
ben modulata… e quel ragazzo non ne aveva diciannove, stando a quanto le aveva
detto la madre e se la matematica non era un’opinione!
Juna continuava a bisbigliare e ad essere
ascoltato.
«Vado a prendere il tea e i biscotti» disse la sua
voce perfettamente tranquilla. «Qualcuno preferisce un caffè?»
«Sì, io. Grazie Jennifer.»
La sua fu una vera e propria fuga.
A metà strada incontrò Susan con il vassoio che
era stata la sua momentanea salvezza. «Dai pure a me Sue, lo porto io di là.
C’è anche il caffè?» Al cenno affermativo di Susan sospirò, «Bene.»
«Hai visto quel ragazzo? E’ bello come il
peccato.»
La guardò sorpresa, «Cosa?»
«Ho aperto io la porta… e sono rimasta inchiodata
al suolo… eh, avessi quarant’anni di meno…!»
Era una congiura o cosa?
«Non… non l’ho guardato.»
Susan tornò verso le scale che portavano alla
cucina con un’occhiata al soffitto piena di rassegnazione, «Ma dove li ha gli
occhi, questa generazione?»
Tornò in salotto e servì il tea, facendo bene
attenzione a non guardarlo in faccia.
Quando gli passò la tazza di caffè quelle dita
lunghe e nervose la sfiorarono… e per poco non rovesciò il liquido bollente
addosso ad entrambi.
D’istinto alzò lo sguardo e si perse nella
profondità di due oceani neri come la notte che la trapassarono.
Fu un lampo che li illuminò a farla riscuotere, si
guardò intorno e nessuno sembrò essersi accorto che le era momentaneamente
crollato il mondo addosso.
«Grazie Jennie.»
«Pensa Jennie, Juna ha capito chi sei perché si è
ricordato di quando ti punse quella vespa» disse Patrick.
«Ah, se lo ricorda anche lei: adesso scappa tutte
le volte che ne vede una!» fu il commento di suo padre.
Tutti risero, solo Juna sorrise appena guardando
suo padre.
Ne approfittò per prendere la propria tazza.
«Jennie, siediti qui» disse sua madre.
Le ubbidì d’istinto, solo quando rialzò lo sguardo
si rese conto di essere di fronte a Juna.
Bello come il
peccato,
aveva detto Susan.
Rendeva perfettamente l’idea.
A prescindere dagli occhi, Juna aveva un viso
incredibilmente espressivo… e da quello che aveva intravisto, anche il resto
non…
Bloccò i suoi pensieri e li deragliò verso binari
più sicuri.
Sembrava incredibile che Patrick e quel ragazzo
fossero patenti stretti… fisicamente erano agli antipodi.
Juna aveva la pelle di un colorito ambrato-dorato
che quasi abbagliava accanto alla pelle color latte di Patrick.
Se non ricordava male i tre figli avevano ripreso
i colori del padre, quindi Juna doveva per forza assomigliare alla madre.
Improvvisamente le tornò in mente Manaar Alifahaar
McGregory… e sì, Juna era la fotocopia al maschile di sua madre.
«Juna…» cominciò all’improvviso suo padre, «non
vorrei sembrarti impaziente, ma…»
«Non c’è problema Jeremy, sono qui per questo.»
Per poco non si strozzò.
La voce era quella di un altro, il ragazzo
sembrava un altro.
Ogni accenno di sorriso era sparito, la bella
bocca era rigida, gli occhi si erano fatti, se possibile, più scuri e
l’espressione seria non prometteva nulla di buono.
Ecco cosa si era scordata o forse aveva
semplicemente rimosso di lui: non aveva bisogno di alzare la voce per farsi
sentire, bastava che ti piantasse quegli occhi in faccia per farti scordare il
resto del mondo.
Sperò ardentemente di trovarsi all’altro capo del
mondo quando Juna avesse perso la pazienza.
«Patrick mi ha accennato a delle cose poco
piacevoli…»
«Jeremy, dovrò essere estremamente chiaro e
diretto. Mio nonno deve aver cercato di indorarti la pillola, perché poco piacevoli è un termine piuttosto
blando per la situazione che ho presente io. Ti dico subito che tutto quello
che ti dirò stasera non verrà mai confermato ufficialmente e soprattutto, dopo
che io sarò uscito da questa casa, io e il generale Lewing non ci saremo mai né
sentiti né tanto meno visti. Intesi?» Al cenno affermativo di suo padre continuò,
«Mi ha detto quello che sto per dirti per una sola ragione: cercavano già il
modo di farti arrivare all’orecchio che ti stai cacciando in un qualcosa molto
più grande di te, quando hanno saputo che sono il nipote del tuo migliore
amico… beh, mi hanno richiamato subito. E’ una cosa che ha stupito anche mio
nonno, pensa te. Sei una persona molto in vista Jeremy e hai amici molto
potenti, ti hanno aiutato finora, ma nulla potrebbe salvarti se non ti tiri
fuori da questa storia, adesso.»
Sua madre ebbe una specie di singulto, suo padre
resse lo sguardo di Juna, «Continua.»
«Il punto è questo: stai cercando di avere notizie
di un caso che non esiste e informazioni su delle persone che non sono mai
nate. Gli agenti che hanno riportato a casa Michael lavorano in nero per
l’F.B.I., sono… definiamoli liberi
professionisti…»
«Killers.»
Rimase sorpresa dal suono della sua stessa voce.
«Mi fa piacere sapere che non hai paura di
chiamare le persone con i loro nomi, Jennie» disse Juna dopo qualche secondo di
silenzio lanciandole un’occhiata che non avrebbe mai voluto vedere. «Sono
esattamente killers», riprese tornando a concentrare la sua attenzione su suo
padre, «e non erano neanche lì per tuo figlio. Non sono scesi in particolari,
ovviamente, ma da quello che ho capito, Lewing è stato il terzo a cadere dalle
nuvole quando ha saputo che il figlioletto del governatore era con Carlos
Estrada. I primi due sono stati quelli che lo hanno trovato.»
«Carlos
Estrada?!» esplose Patrick «Il trafficante ucciso la notte fra sabato e
domenica!»
Sua madre posò velocemente la tazza sul tavolo, le
mani le tremavano troppo per sperare di reggerla.
Aveva ascoltato alla televisione la notizia
dell’uccisione di quell’uomo solo perché ci si trovava vicino, presa com’era
dalla ricomparsa di Michael, ma ricordava di essersi sentita sollevata non
sapendolo più in giro per il mondo: gli avevano attribuito qualcosa come
cinquanta omicidi, era il mandante di chissà quanti altri delitti e per di più
vendeva droga che faceva lavorare a ragazzini più piccoli di lei.
E suo fratello era stato nelle mani di gente del
genere?
Suo padre chiuse gli occhi, «Quei figli di
puttana… Estrada, dannazione. Come ho fatto a non arrivarci subito? Non ho
minimamente collegato il suo assassinio con il ritrovamento di Michy. Era così
logico.»
«Il ritrovamento di tuo figlio li ha presi così in
contropiede che lo hanno portato subito a casa. Per motivi che non sapremo mai
non potevano portarsi dietro il bambino e piuttosto che lasciarlo per la strada
sotto shock, lo hanno riconsegnato subito alla famiglia.» Respirò
profondamente, «Jeremy, hai pensato che stai mettendo in pericolo la vita di
chi ha salvato tuo figlio?»
«Cosa?» chiese suo padre con voce strozzata.
«Il centro di tutta la storia è questo: tu adesso
stai dando in un certo senso la caccia a questi due killers, sei un governatore
e hai conoscenze e agganci. Le motivazioni che ti spingono sono molto
onorevoli, siamo d’accordo, ma hai idea di quanti delinquenti sarebbero in fila
dietro di te ad aspettare che tu li trovi? Gente come Estrada, che venderebbe
la mamma per mettergli le mani addosso. Lewing non lo ha detto a chiare
lettere, è ovvio, ma da quello che ho capito non è in grado di controllarli più
di tanto, se questi due si sentissero in qualche modo minacciati da te…» Juna
si interruppe.
Nella stanza non volava una mosca e il viso di suo
padre era una maschera… dove stava cercando di arrivare quel ragazzo?
«Stai cercando di dirmi che potrebbero uccidermi, Juna?»
Sua madre non resistette oltre, «Cosa?!» urlò.
Patrick guardava il nipote come se lo vedesse per
la prima volta… lei lo guardava perché semplicemente non poteva farne a meno.
L’espressione di Juna era indecifrabile… reggeva
lo sguardo di suo padre senza muovere un muscolo.
Dio santissimo, aveva un controllo di se stesso
che aveva del sovrumano: stava dicendo ad una persona che conosceva da quando
era nato che stava rischiando di essere uccisa e niente nel suo atteggiamento o
nel suo sguardo tradiva la minima emozione.
«Il nocciolo della situazione è tutto qui Jeremy»
continuò infatti calmo. «Non sempre lavorano dalla parte della legge. Ti
ripeto: non me lo hanno detto a chiare lettere, è stato un incontro all’insegna
del surreale perché ogni discorso iniziava con un poniamo il caso che o diciamo
che potrebbe essere. Una cosa però temo di averla capita bene: sono dei
cani sciolti. Lewing ricorre a loro quando vuole essere certo che le cose
vadano come devono andare e non è in grado di controllarli: ucciderne uno in
più o uno in meno, se ne va della loro vita poi, non li spaventerà di sicuro.»
Una tazza si frantumò in terra, abbassò lo sguardo
per avere la conferma che fosse la propria, poi i suoi occhi cercarono ancora Juna,
come la calamita è attratta dal ferro. «Uno in più o uno in…?» mormorò.
Quegli occhioni verde-acquamarina, sgranati e
terrorizzati, gli ricordarono quelli del fratellino e dovette fare uno sforzo
enorme per non dirle qualcosa che cancellasse l’accusa, il terrore che vi
leggeva.
Si costrinse a stare fermo e sostenne quello
sguardo.
«Juna, stai parlando di mio padre…» riprese. «Uno
in più o uno in meno?» ripeté «Ma sei fatto di carne o di ghiaccio?»
Fece appello a tutta la sua calma e razionalità…
non occorreva essere un genio per capire che quella ragazza lo stava
considerando un mostro.
«Sono sempre stato dell’idea che il medico pietoso
fa più danni che risolverne Jennie. Quando affronto un problema o parlo chiaro
o non comincio neanche. Se sono qui è proprio perché è tuo padre. Pensi
che sia un divertimento per me informare una persona che conosco da sempre che
sta rischiando di farsi ammazzare? Posso capire che sei sotto shock ragazza
mia, ma è tutto meno che un complimento quello che mi hai appena fatto… e per
la cronaca, ho un concetto di divertimento molto diverso.»
«Non avevo assolutamente capito a cosa ti riferivi
quando mi hai detto che la situazione era seria» disse suo nonno. «Quindi è
stata l’F.B.I. a decidere l’assassinio di Estrada.»
«Per quello che ne so sarebbero anche potuti
essere sulle tracce di Michael e, dopo averlo ritrovato, aver deciso di non
lasciare nessuno vivo. Unire l’utile al dilettevole, per così dire. Non sono
andato a prendere un tea con il generale nonno, non abbiamo parlato
amichevolmente di come si è svolto il suo fine settimana» rispose senza
staccare gli occhi da quelli della ragazza. «Il discorso è stato messo insieme
all’insegna del condizionale, ma l’unico trafficante di droga ucciso in città
la notte di sabato è stato Estrada e tu stesso mi hai parlato dei due guerrieri
che Michael va santificando. Ho fatto due più due e la cosa torna.»
Jennifer distolse lo sguardo dal suo e lo abbassò
sulla tazza che si era frantumata in terra.
Si rivolse di nuovo a Jeremy, «Avete fatto domande
a Michael?» chiese sperando di capire a che punto fosse il bambino.
Jeremy scosse le spalle impotente, «Non parla
altro che di loro Juna, ne parla come di due creature soprannaturali… è
arrivato a dire che si è divertito un mondo a scalare il muro con il
guerriero che non ha ucciso Estrada perché ha dovuto portare lui in salvo alla
macchina!»
Sentì quasi il rumore degli argini dell’auto
controllo di quell’uomo che crollavano, Jeremy aveva bisogno di parlare…
sembrava quasi che si fosse scordato che nella stanza ci fossero anche sua
moglie e sua figlia.
«Lewing non è riuscito a tirargli fuori altro se
non cosa hanno fatto i due guerrieri e di come lo hanno tirato fuori da
quell’incubo. Adesso che mi ci fai pensare ha parlato di un uomo cattivo ma ha
nominato un certo Diego, non Carlos… ma Lewing sembrava capire tutto quello che
diceva. Appena Micky ha intuito che Lewing poteva conoscerli lo ha fatto
letteralmente scappare via a furia di fargli domande. Non riconosco più mio
figlio… mentre pregavo che tornasse a casa vivo, sapevo che non sarebbe
mai tornato il bambino che è stato rapito… Dio mio, l’ho sempre saputo ok? Ma
Michael è… è come una centrale elettrica a pieno regime adesso.»
«Sta probabilmente dando libero sfogo allo shock
Jeremy» disse suo nonno. «Ne abbiamo parlato… dovrebbe tranquillizzarti adesso…
non si sta tenendo tutto dentro.»
«Ah no? Mi rivolge la parola per sapere se so
qualcosa di nuovo sui suoi guerrieri Patrick!» esplose quasi alzando la voce… e
sua moglie sobbalzò chiaramente accanto a lui.
Jennifer.
La cercò con lo sguardo e la vide immobile, seduta
davanti a lui, che osservava il vuoto.
«Ok Juna» disse Jeremy come se avesse cambiato
discorso all’improvviso… e si rese conto che aveva smesso di ascoltarlo.
«Immagino che Lewing aspetti di sapere come sono andate le cose. Puoi dirgli
che mi impegno a non fare più domande, a non chiedere più nulla riguardo questa
storia. In qualche modo convincerò Michael che non è possibile ritrovarli come
vorrebbe lui… ha più bisogno di un padre che di figure mitologiche, vi pare?»
Stava cercando di convincere se stesso, era così
evidente che sentì quasi tenerezza per quell’uomo.
Dunque era chiaro che fosse Michael a fare
pressioni in quel senso.
La situazione si stava rivelando esattamente come
temeva.
«Jeremy, ti è passato per la testa che Michael
voglia ritrovarli anche per voi?»
Questa aveva trovato direttamente la via della
bocca.
«Che vuoi dire?» chiese Sarah visto che il marito
lo stava guardando a bocca aperta.
«Non sono uno psicologo, non riesco ad immaginare
cosa possa passare per la testa di un bambino di quattro anni che è stato
rapito ok? Ma se Michael pensasse una cosa del genere…» aprì in aria delle
virtuali virgolette con le dita, «“ok, mi hanno rapito, hanno cercato di far
del male al mio papà, non ci sono riusciti completamente grazie a questi due,
se li trovo staremo tutti al sicuro: non solo io, ma anche mamma, papà e la mia
sorellina”.»
«Non… non ti sembra un discorso un po’ articolato
per un bambino di quattro anni?» chiese incerto suo nonno dopo un silenzio di
tomba «Juna, tu a quell’età potevi arrivare ad un ragionamento del genere, ma…»
«Oh Cristo…» La voce di Jennifer era appena al di
sopra del sussurrò, ma la udì senza problemi. «Papà, Micky… Micky mi ha fatto
un discorso del genere giusto oggi, mentre era in camera con me. Ha detto,
testualmente, che tu li devi ritrovare perché con loro staremo al
sicuro.»
Suo nonno assunse un’espressione sbigottita, «Che
mi venisse…»
Jeremy e Sarah si guardarono.
Gli tornarono improvvisamente in mente i discorsi
che aveva sentito fare a Estrada e ai suoi riguardo Jennifer.
«E la parte peggiore della situazione è che
Michael potrebbe aver visto giusto» riprese. «Quando firmerai quella legge?»
chiese rivolto a Jeremy.
Jeremy lo fissò senza capire. Il suo cervello si
rifiutava di afferrare il significato della sua ultima frase. «Fra due mesi.»
«Lewing mi ha fatto capire che sarebbe meglio
tenere d’occhio il bambino fino ad allora. E anche Jennie.» L’occhiata smarrita
di Sarah gli disse che aveva già capito. «Sì Sarah, potrebbero riprovarci, e
visto che Michael ha già vissuto l’esperienza e potrebbe essere più difficile
riavvicinarlo, potrebbero decidere di rapire Jennie.»
La donna guardò la figlia, che adesso stava
raccogliendo i cocci della tazza, poi il marito che aveva cambiato colore e
cominciò a tremare, «No. Dovranno passare sul mio cadavere prima di prendere
ancora una delle mie creature» disse.
Juna guardò di nuovo Jennifer, i capelli le
scendevano a coprire il lato del viso dalla sua parte, non capiva cosa stesse
pensando, ma sentiva che stava per cedere.
Quella ragazza era un fascio di nervi.
Suo nonno aveva detto che era caduta in
depressione, lui vedeva una ragazza sull’orlo di un collasso nervoso.
Sedici anni scarsi erano veramente troppo pochi
per sopportare quello che le era successo.
«L’F.B.I. non ci può proteggere?» chiese Jeremy
con un filo di voce.
«Jeremy, è chiaro che l’F.B.I. penserà a voi, ma è
il minimo che quei delinquenti si aspettano» disse suo nonno. «Sono sicuro che
sanno bene chi devono ringraziare per la morte del loro capo. Dico bene Juna?»
«Sì nonno, temo tu abbia ragione.»
Non riusciva a staccare gli occhi dalla ragazza.
Le sue esili spalle sussultarono due, tre, quattro
volte. La fece alzare e l’abbracciò… fu come aprire un rubinetto e i singhiozzi
si fecero rumorosi e vicini.
Si aggrappò al suo maglione mentre i presenti
scattarono in piedi come molle.
I loro sguardi gli dissero che era stato il solo
ad intuire quello che stava per succedere.
«Da quanto non piangi?» le chiese.
Jennifer scosse la testa contro il suo torace,
incapace di spiccicare parola.
«Oh mio Dio, Jennie…» cominciò Sarah.
«Sarah, che ne dici di una camomilla?» chiese alla
donna.
«N… no, non…» farfugliò Jennifer.
«Sì invece», la rimbeccò meno severo di quello che
sarebbe dovuto essere «o stanotte non chiuderai occhio e da quello che ho
capito, di sonno ne hai già perso anche troppo.»
«Che succede qui?» chiese all’improvviso una
vocina insonnolita.
Tutti gli sguardi si puntarono sulla soglia.
Michael.
«Oh no…» mormorò Sarah.
«Ho sentito degli strani rumori e Jennie non è in
camera sua e…» fu allora che vide la sorella in lacrime e si svegliò tutto d’un
botto. «Jennie! Jennie, stai male?» Fece un passo verso di loro… e alzò lo
sguardo su di lui.
Sgranò gli occhi in un’espressione di assoluto
stupore, spalancò la bocca e la richiuse subito. La sua mascella schioccò per
la violenza con cui la chiuse, ma il piccolo sembrò non registrarlo.
Lo aveva riconosciuto, questo era poco ma era
sicuro.
«La… la stai proteggendo?» chiese come se stesse
valutando l’ipotesi di unirsi all’abbraccio.
Inconsciamente strinse fra le braccia il peluche
che aveva in mano.
«Stai tranquillo piccolo» disse come la prima
volta che si erano incontrati. «E’ tutto a posto» aggiunse, «torna a letto che
è tardi.»
Il sorriso del bambino illuminò a giorno la
stanza, ogni dubbio era stato cancellato: adesso Michael sapeva che lo aveva
ritrovato.
Jeremy non avrebbe avuto problemi.
«Come ti chiami?»
Chissà quante volte se l’era chiesto.
«Juna.»
Gli occhioni si aggrottarono appena, ma rimasero
ben fissi su di lui «Tu sei Juna?» chiese.
«E’ il nipote di Patrick tesoro» disse Sarah con
il tono di una che sta attraversando una polveriera con in mano un candelotto
di dinamite acceso. «Ti ricordi di Patrick? E’ tornato a trovarci.»
Michael lanciò un’occhiata a suo nonno e sorrise
di nuovo, «Sì… ciao Patrick.»
«Ciao piccino» rispose suo nonno. «Come stai?»
Michael tornò a guardare lui, incantato.
Il bambino non riusciva a credere ai suoi stessi
occhi, ascoltava appena cosa gli veniva detto. «Bene» sussurrò.
Guardò la sorella che non si era mossa e riguardò
lui.
«Penso io a lei, tua sorella ha passato un brutto
periodo con la tua scomparsa, si sta sfogando un po’.»
«Il mio papà mi ha detto che il tuo nome significa
Giovane Guerriero.»
Rimase un attimo sorpreso dal cambio di discorso…
poi gli venne da ridere: Michael lo aveva definito un guerriero.
«E’ vero.»
Lo vide annuire, «Ti si addice molto. Tornerai
qui, vero? Posso venire a trovarti?»
«Certo Michael, ci vedremo presto. Torna a letto
adesso.»
Sorrise di nuovo, si guardò intorno, «Buonanotte
allora.»
La sua uscita fu seguita dal silenzio.
«Non… non posso crederci» disse Sarah
assolutamente allibita. «Non si è mai comportato così con qualcuno che non
aveva mai visto.»
«Con Juna è normale» disse suo nonno senza sapere
di aiutarlo, «i bambini lo adorano Sarah, sembrano irresistibilmente attratti
da lui.»
Perfetto, anche perché suo nonno aveva validi
motivi per crederlo.
Tornò a concentrare la sua attenzione sulla
ragazza rannicchiata fra le sue braccia.
Sembrava essersi calmata, non tremava più come
prima, ma era ancora saldamente aggrappata al suo maglione.
«Sarah?» chiamò usando il suo tono di voce più
dolce.
Ebbe effetto. La donna lo guardò e asserì, «La
camomilla.»
Uscì dalla stanza.
Riuscì a pilotare Jennifer sul divano e a farla
sedere accanto a sé, senza che la ragazza allentasse la presa.
«Jennie, piccola mia…» cominciò Jeremy quasi
calando di nuovo a sedere «cosa è successo? Vuoi dirmelo?»
«Temo sia colpa mia Jeremy» rispose Juna al posto
suo. «Tua figlia ha passato un brutto periodo e il mio discorso di prima deve
essere stata proprio la goccia che ha fatto traboccare il vaso.»
Jennifer stava ascoltando in silenzio, il ragazzo
aveva capito tutto.
Era piacevole starsene così, si sentiva al sicuro
circondata dalle braccia del ragazzo, dal suo profumo.
«Juna?» mormorò.
La stretta alle sue spalle si serrò appena,
«Cosa?»
«Dicevi… parlavi sul serio prima?»
«Non mi sembrano cose su cui scherzare Jennifer.»
«Se rapissero di nuovo Michy non lo sopporterei…»
Un silenzio innaturale calò sulla stanza, il
respiro di Juna le sfiorava i capelli ed era un suono che le rimbombava dentro.
«Ho un’idea!» esclamò all’improvviso Patrick
«Jeremy, puoi trasferirti a casa nostra con la tua famiglia.»
«Cosa? No Patrick, siamo amici da tanto tempo, ma
questo è…»
«Ragiona Jeremy. Tutti sanno che abiti qui e poi è
un luogo aperto, esposto. Villa McGregory è protetta, anche per l’F.B.I sarebbe
facile tenerla sotto controllo e poi c’è sempre qualcuno in casa, Sarah e i
ragazzi non resterebbero mai soli.»
«Patrick, non lo so» la voce di suo padre aveva
già perso gran parte della convinzione che aveva prima.
«Michael potrebbe andare all’asilo con Melissa per
gli ultimi mesi, non ci vuole nulla a fare il trasferimento, Warren avrà
sicuramente un socio che si occupa di queste cose, e Jennifer andrebbe a scuola
accompagnata da Connor e Juna… e non dimenticare che Sarah non resterebbe sola
in casa tutte le mattine come adesso, in casa c’è sempre qualcuno e le mie
nuore le farebbero compagnia.»
«Jeremy, sarebbe una sistemazione momentanea»
prese la parola Juna, «la villa è abbastanza grande per tutti e non pensare di
mettere in pericolo noi, da sempre Villa McGregory ha un sistema d’allarme di
tali proporzioni che le prime volte ha messo in difficoltà anche noi.»
«Juna ha ragione» continuò Patrick, «è la
soluzione ideale, non so come ho fatto a non pensarci prima!»
«Io… io devo prima parlarne con la mia famiglia
Patrick, ma già da ora ti ringrazio per la tua offerta e grazie anche a te Juna,
ho apprezzato immensamente quello che hai fatto.»
Tornò sua madre e questa volta c’era anche Susan
che si fermò perplessa sulla soglia a guardarla.
Jennifer si ricordò di essere ancora rannicchiata
fra le braccia di Juna e senza riuscire a nascondere una certa riluttanza, si
scostò.
«Va meglio?» le chiese il ragazzo.
«Sì, grazie.»
«Non ringraziarmi, probabilmente dovrei essere io
a chiederti scusa.»
Si ricominciava, non aveva più il coraggio di
alzare lo sguardo.
«Direi che siamo pari… scusami per prima… mi
dispiace molto, io non avevo capito… ho frainteso il tuo atteggiamento calmo
e…»
«Non preoccuparti Jennifer, non mi conosci, non
puoi sapere che questo è semplicemente il mio modo di essere. E comunque hai
delle attenuanti. Non è successo niente.»
«Jennie, bevi questo» disse sua madre porgendole
una tazza.
La prese ma le tremavano ancora le mani e la voce
di Juna suonò vagamente preoccupata, «Ce la fai?»
«S… sì, credo di sì.» Si costrinse ad alzare lo
sguardo «Forse hai ragione, ho accumulato troppa tensione, prima o poi dovevo
cedere.»
Il ragazzo sorrise e le accarezzò una guancia con
il dorso di una mano… aveva una pelle morbida e calda.
Uno strano silenzio aleggiava intorno a loro,
Jennifer lanciò un’occhiata in giro e incontrò quattro paia di occhi sgranati…
le venne il sospetto che non si fossero persi una virgola di cosa fosse
successo.
Juna si alzò senza staccarle gli occhi di dosso,
«Nonno, direi di andare adesso.»
Patrick lo seguì, «Hai ragione, si sta facendo
tardi.» Si rivolse a suo padre, «Ci sentiamo domani Jeremy?»
«Ti chiamo io Pat» rispose suo padre ancora
visibilmente scosso.
Al sicuro nella sua stanza, sotto le coperte,
Jennifer ripercorse gli eventi della serata.
I suoi non avevano fatto domande, neanche Susan,
ma i loro sguardi erano perforanti.
Juna la metteva quanto meno in crisi, ma fra le
sue braccia si era sentita al sicuro come mai prima in vita sua.
Era un controsenso?
Ancora i suoi non erano andati a dormire, era
ragionevole pensare che suo padre stesse parlando a sua madre dell’idea di
Patrick e c’erano buone possibilità che sua madre accettasse di buon grado la
cosa: dal rapimento di Michael vivevano guardandosi le spalle e da quando era
riapparso la situazione era anche peggiorata… ed era un inferno per persone
miti e gentili come sua madre. E anche per lei, inutile far finta di nulla.
Poteva solo sperare che non le chiedessero cosa ne
pensasse perché… beh, proprio non avrebbe saputo cosa raccontare.
Certo, la sicurezza del suo fratellino veniva
prima di tutto, era più importante di qualsiasi suo dubbio o paura personale,
ma…
Guarda che sei in
pericolo anche tu!, le ricordò una vocina interna, Juna è stato chiaro stasera!
Fece una smorfia e il secondo pensiero assurdo
della giornata le attraversò la mente: cosa sarebbe stato più pericoloso per
lei? Essere rapita o una convivenza con quel ragazzo?
Quale delle due cose le avrebbe dato maggiori
probabilità di uscirne viva?
Juna si buttò sul letto, dopo la solita doccia che
completava la giornata, esausto.
Aveva l’impressione che un treno si fosse affilato
le ruote su di lui… e non era una sensazione molto piacevole.
Aveva telefonato subito a Richard per metterlo al
corrente delle ultime novità e il generale era stato più che felice di
apprendere che almeno un problema era stato risolto, avrebbe avvisato lui
Matthew e i grandi capi.
La stanchezza gli era piombata addosso tutta
insieme.
Si sentiva spezzato, ed era una sensazione
nuova per uno da sempre definito tutto d’un pezzo.
Fece una smorfia e si passò una mano sul viso.
Quello non era l’unico problema, ovviamente.
Se sua madre fosse venuta in qualche modo a
conoscenza del suo comportamento di quella sera, si sarebbe ritrovato fidanzato
nel giro di due settimane!
A volte era proprio imbattibile nel complicarsi
oltremodo la vita.
Come se non bastasse, quello che gli aveva detto
Jennifer aveva… come fatto vibrare qualcosa in lui.
Sei fatto di carne o di ghiaccio.
Era la domanda dell’anno.
Guardò la sveglia sul comodino, erano quasi le due
e forse era il caso di cominciare a dormire.
Allungò la mano per spegnere la luce e sentì il
suono del suo cellulare.
Balzò in piedi e rispose al terzo squillo.
«Juna, allora?» chiese Drake senza preamboli.
Aprì bocca per rispondere ma qualcosa lo mise
improvvisamente in allarme.
Si piegò appena sulle gambe, assumendo
istintivamente la posizione di difesa, e si guardò intorno cercando la causa di
quella sensazione… poi inquadrò la porta… c’era qualcuno in corridoio.
«Juna??»
«Mi vieni a trovare in ufficio Drake? Così
parliamo tranquillamente.»
«Non sei solo?» chiese meravigliato.
Quel ragazzo arrivava a delle conclusioni
veramente fantascientifiche a volte…
«Mh, sì e no.»
Lo sentì farfugliare qualcosa che in presenza di
un qualsiasi altro essere vivente si sarebbe limitato a pensare, «Melissa è
nascosta in camera tua.»
Drake era imbattibile nel fare affermazioni che
rispondevano alle domande che non perdeva tempo a fargli.
«Non esattamente, ma ci sei andato vicino. Ci
vediamo in ufficio allora? Tardo pomeriggio, così Alison non c'è.»
«Rispondi solo sì o no: ti ha riconosciuto?»
«Sì.»
«Ecco fatto, adesso posso dormire tranquillo. Arrivo dopo le cinque.»
Riattaccò e spense il cellulare, poi tornò a letto
e spense finalmente la luce.
Chiuse gli occhi cercando di svuotare la mente.
La porta della sua camera si aprì.
Non aprì gli occhi e dette al suo respiro una
cadenza lenta e regolare, non stava entrando un pericolo.
I pericoli non erano così rumorosi quando si
avvicinavano.
Sapeva perfettamente chi stava per fare la sua
spettacolare entrata.
Aprì piano gli occhi, aveva la fortuna di averli
così neri che non si notavano nel buio.
La figuretta era ancora sulla soglia e si stava
guardando intorno con una circospezione veramente notevole per una bambina di
cinque anni.
Si decise ad entrare e chiuse la porta. Si
avvicinò a tentoni al letto e ci si arrampicò ad una velocità impressionante.
Un anno di pratica aveva dato i suoi frutti, aveva
conosciuto donne che avrebbero avuto da imparare in fatto di grazia e agilità.
Gattonò fino a lui, si infilò sotto le coperte
battendo i denti per il freddo e gli si sdraiò accanto abbracciandolo.
Era gelata.
Incastrò la testolina contro il suo collo e una
manina affondò fra i suoi capelli, la sentì rilassarsi con un sospiro di
felicità. «So che non stai ancora dormendo Juna… non ce la facevo più a stare
lì. Menomale sei tornato. Non mandarmi via, ti prego» bisbigliò strusciando il
nasino contro il suo collo.
Passò un braccio sotto quel corpicino e si voltò
verso di lei cercando di riscaldarla, sembrava di abbracciare un cubetto di
ghiaccio, dannazione.
Appoggiò una mano fra i suoi capelli, «Non dovevi
farlo, e lo sai. Che ti ho detto a cena?»
«Avevo paura.»
«Di cosa? Affogare nel tuo letto?»
«Che ti succedesse qualcosa… cosa faccio io se ti
succedesse qualcosa eh?»
«Ero con il nonno, cosa mi sarebbe dovuto
succedere?»
«Qualsiasi cosa.»
Si arrese. Melissa doveva riposare.
«Dormi adesso Lissa, è tardissimo.»
Altro sospiro, poi il suo respiro si fece lento e
regolare e la sentì scivolare nel sonno.
Guardò il vuoto davanti a lui.
Quelle lezioni di nuoto dovevano cominciare il
prima possibile, non era proprio possibile andare avanti così.
Era un stress troppo forte per una bambina di
cinque anni.
A questo punto era certo che, gelata com’era, era
stata a guardia fino a quando non lo aveva sentito rientrare con il nonno e poi
era rimasta dietro la sua porta aspettando che la luce si spengesse.
Era rimasta sveglia fino ad allora.
La situazione stava precipitando.
Era la prima volta che Melissa si preoccupava per
lui, non del fatto che lui non fosse con lei.
Molteplici aspetti della sua vita gli stavano
sfuggendo di mano tutti insieme.
Finalmente chiuse gli occhi e scivolò in un sonno
profondo e senza sogni.