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Autore: Black Swan    24/11/2008    1 recensioni
Junayd Kamil Alifahaar McGregory ha tutto.
E’ l’unico punto di contatto fra due delle più potenti famiglie del paese, ha ricchezza, bellezza, intelligenza, una posizione di prestigio.
Junayd Kamil Alifahaar McGregory ha le idee chiare.
Sa cosa deve o non deve fare, ha imparato molto presto come far girare il mondo nel verso che gli fa più comodo, ha preso la decisione di condurre una doppia vita a soli quindici anni e custodisce segreti che i suoi genitori neanche immaginano lui possa conoscere.
Junayd Kamil Alifahaar McGregory è convinto di avere già tutto quello di cui ha bisogno: i pilastri della sua vita sono già stati piantati, i confini già marcati. Si renderà conto che anche lui può sbagliare.
Junayd Kamil Alifahaar McGregory non ha mai fatto i conti con il suo cuore. Si accorgerà quanto prima dell’errore commesso.
Junayd Kamil Alifahaar McGregory non ha mai realmente ascoltato il suo cuore. Scoprirà che non è mai troppo tardi per cominciare…
Genere: Avventura, Azione, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Non E’ Mai Troppo Tardi - Capitolo 5

Non E’ Mai Troppo Tardi

5

 

 

 

 

 

 

 

 

Jennifer Flalagan aveva leticato da piccola con la chimica: una di quelle leticate che ti segnano per tutta la vita.

Michael era alle sue spalle, tranquillamente sdraiato sul suo letto, completamente concentrato a studiare un libro illustrato.

«Jennie?» la chiamò all’improvviso con vocina insicura.

Dio quanto le era mancato il suo nome detto da lui.

«Dimmi.»

«So che ho promesso a mamma di non disturbarti, ma posso chiederti una cosa?»

Spalancò le braccia e il suo fratellino non si fece ripetere due volte l’invito. Si trovò ad abbracciare anche il libro illustrato.

Respirò profondamente il profumo dei suoi capelli, ancora le sembrava un sogno che fosse di nuovo lì con lei.

Anche quella notte si era alzata un'infinità di volte per andare a controllare che Michael dormisse. Suo fratello doveva avere ancora gli incubi perché lo aveva visto rigirarsi e sentito gemere nel sonno, ma non si era mai mosso dal suo lettino.

Le era sembrato d’impazzire senza di lui.

«Cosa c’è?» chiese.

Michael sistemò il libro in perfetto bilico fra di loro, «Che animale è questo qui?»

«Un camaleonte.»

«E che cosa fa? Non riesco a capire. Cambia colore?»

«Esatto. Cambia colore a seconda della superficie con la quale entra in contatto… è il suo modo di difendersi, capisci? Si chiama mimetizzazione

Il bambino tornò a guardare la foto, poi sorrise «Certo che è proprio buffo, vero? Hai visto che occhi grossi che ha?»

«Anche quelli servono a difendersi. Tu riesci a guardare solo davanti o dietro di te, lui invece ha sempre una visuale a trecentosessanta gradi.»

«Mi stai dicendo che guarda sempre sia davanti che dietro?» chiese sgranando gli occhi per la sorpresa.

«Esatto.»

I suoi occhi tornarono sulla foto, «Beh, in effetti sembra un po’ strabico, vero?»

Rise divertita, «Beh, un po’ è vero!» ammise.

Michael lasciò andare il libro che scivolò in terra e la abbracciò forte. «Mi sei mancata tanto…» mormorò.

Gli occhi le si riempirono subito di lacrime. Rispose all’abbraccio stringendolo forte, «Anche tu pulcino. Mi è sembrato d’impazzire senza di te… ma adesso sei al sicuro, non ti prenderanno più.»

Lo sentì annuire contro il suo collo. «Devo ritrovare quei guerrieri, l’ho detto anche a papà. Con loro staremo al sicuro.»

Chiuse gli occhi.

Come poteva spiegare ad un bambino di quattro anni che quelli che lui credeva guerrieri invincibili che sarebbero accorsi in suo aiuto tutte le volte che ce ne sarebbe stato bisogno, erano in realtà dei killers professionisti, agenti dell’F.B.I., che non avrebbe più rivisto?

Il capo delle indagini che era venuto a parlare con i suoi la mattina dopo la riapparizione di Michael era stato chiaro: erano intoccabili, praticamente non erano neanche al mondo.

Sapeva che a spingere suo padre a volerli conoscere era stata soprattutto la richiesta di Michael. Li nominava in continuazione, era rimasto profondamente colpito dall’apparente facilità con cui lo avevano tirato fuori da quell’inferno.

Si udì un lieve bussare, seguito dall’entrata di Sarah Flalagan.

Era una donna sulla cinquantina, ancora molto bella ed elegante… e in quel momento anche piuttosto agitata.

«Ciao mamma!» salutò allegro Michael.

«Ciao amore, sempre a controllare che Jennifer non possa studiare eh?» chiese con un vago cenno di rimprovero nella voce.

Michael le sorrise raggiante, «Devo recuperare un bel po’ di tempo. Dov’è papà?»

«Nel suo studio.»

«Mamma, cosa c’è?»

«Avremo visite dopo cena, me lo ha appena detto papà.»

«E… c’è qualcosa che non va?»

«Verrà Patrick… e suo nipote.»

«Qual è il problema?» provò a chiedere più direttamente.

«Il terzultimo… forse non ti ricordi di lui, avevi nove anni quando lo hai visto l’ultima volta. Si chiama Junayd.»

Il respiro le si bloccò nei polmoni. «Juna?» le uscì di bocca in un soffio prima che potesse impedirselo.

«Che nome strano» commentò Michael. «Non lo conosco.»

Sua madre lanciò un’occhiata al figlio minore, «Mmmh, Michael, che ne diresti di andare in cucina a farti dare da Susan un paio di quei biscotti al cioccolato che ti piacciono tanto?»

«Davvero posso?!» si lanciò in terra e uscì dalla stanza.

Sua madre chiuse la porta dietro di lui, poi si sedé sul letto di fronte a lei. «Non mi fraintendere Jennie» riprese, «ho avuto la possibilità di vederlo e parlarci anche ultimamente ed è gentilissimo e molto spiritoso, sua madre poi è una donna squisita…»

«Ma?»

«Ma c’è qualcosa nel suo sguardo… di… non so… inquietante. E poi è un genio: il suo quoziente d’intelligenza ha dell’incredibile. Le mie amiche non fanno che parlare di lui, è vice presidente della compagnia di Patrick, ha già due lauree… e solo tre anni in più di te.»

«Mamma, hai deciso di farmi innervosire?»

«Verrà qui per darci notizie sulle persone che hanno riportato Michael a casa.»

Sua madre rifiutava di definirli per quello che erano: killers.

«Cosa ne sa lui?» Sua madre fece spallucce «Ti serve aiuto?»

«No no, Susan è sufficiente, prepareremo dei pasticcini e del tea.» Rimase un attimo in silenzio, «Non ti ricordi di lui?»

A sua madre era sfuggito il suo bisbiglio, per fortuna. Veramente pensava che fosse possibile scordarsi di lui?

«Così su due piedi, no» mentì spudoratamente sperando che sua madre non se ne accorgesse come al solito.

Ma Juna l’aveva proprio sconvolta.

«Avevamo anche delle foto, di quando siamo andati in vacanza insieme sei o sette anni fa, ma non so più dove sono finite.» Si alzò, «Beh, non ha importanza, tanto lo vedrai stasera. Non arriveranno prima delle dieci.»

Detto questo uscì.

Rimase a fissare la porta, poi si alzò e lentamente andò alla libreria. Dovette scorrere un paio di piani prima di trovare ciò che la interessava, ma alla fine sfilò l’album di fotografie: Hawaii, agosto 2001, la informò la copertina di pelle blu.

Lo aprì facendo scorrere le pagine e si fermò su di una foto di gruppo. Ritraeva una quindicina di persone: la sua famiglia e quella McGregory. Gli adulti erano in piedi, i ragazzini accucciati in terra davanti a loro.

Jennie lo riconobbe all’istante e sua madre aveva ragione: se quegli occhi non erano cambiati, definirli inquietanti era poco.

Se lo ricordava, e come.

Era bastato il nome a farle tornare in mente la persona alla quale apparteneva, perché mai nome era stato più azzeccato: a dodici anni aveva tenuto testa all’intera famiglia con una forza e una determinazione che l’avevano profondamente colpita, anche perché in quasi sedici anni di vita non aveva incontrato nessun altro con una forza interiore paragonabile a quella.

Tutte le persone che aveva visto difendere le proprie idee finivano inevitabilmente con il perdere la pazienza e alzare la voce, cercando più o meno inconsciamente di imporsi sugli altri… un paio di volte era successo anche a suo padre.

Come una diga lasciata a sé stessa e tenuta per troppo tempo chiusa, aperto uno spiraglio crollò tutto.

Ricordò improvvisamente tutta una serie di episodi che avevano caratterizzato il mese passato insieme alla famiglia McGregory.

Juna, il cui nome significava Giovane Guerriero, a soli dodici anni, aveva avuto ragione di suo nonno e suo zio con una glacialità, una freddezza… che l’avevano scossa profondamente.

Erano stati Patrick e il figlio ad uscire fuori dai gangheri in quel confronto.

Juna bisbigliava in un mondo che urlava e riusciva non solo a farsi ascoltare, ma a convincere chi aveva davanti.

Ripensandoci, all’epoca era già da un anno aveva preso il posto di vice presidente della compagnia, bastava sentirlo parlare con persone molto più grandi di lui per rendersi conto che era proprio ad un altro livello… e suo padre l’aveva adorato da subito.

Corrugò un attimo la fronte mentre un pensiero sconcertante la colpì come uno schiaffo.

Si morse un labbro e chiuse l’album di foto.

Un lato del suo carattere di cui suo padre era sempre andato fiero, era la sua capacità di ragionare senza mai perdere la pazienza.

Si alzò e rimise l’album a posto.

Ad appena dieci anni forse era un pensiero impossibile da avere… ma a quasi sedici si riteneva una ragazza con la testa sulle spalle e se le era passato per la testa una cosa del genere…

Juna era stato un buon esempio per forgiare quel lato del suo carattere.

Ricordava bene Juna… nessuno l’aveva mai più terrorizzata a quella maniera.

 

Juna attraversò la soglia di casa che erano quasi le otto e mezzo e incontrò sua zia Lennie, «Alla buon’ora!» lo apostrofò con un sorriso «Tuo nonno dice che avete un appuntamento alle dieci e che massimo per le nove e un quarto dovete andare via.»

«Ho fatto tardi perché mi sono fermato a fare la doccia in palestra» si giustificò. «Vado su a posare la roba e a cambiarmi, cominciate senza di me.»

«Avverto gli altri.»

Salì di corsa in camera e si cambiò in tempo record scegliendo il suo accostamento preferito: jeans neri e maglione bianco.

Tornando giù si scontrò con il padre, «Alla buon’ora!» lo apostrofò meno sorridente della cognata.

«Ho fatto tardi in palestra papà, mi dispiace.»

Suo nonno apparve dietro il figlio, quasi lo fece sussultare: non lo aveva visto.

«Non preoccuparti Juna, stasera siamo in ritardo tutti quanti.»

Entrarono nella sala, «Cos’è successo?» chiese perplesso.

La cena era un rito che si ripeteva con una puntualità svizzera.

Mancavano solo loro all’appello.

«Avevo perso Molly» spiegò Georgie riferendosi alla gattina persiana che adorava. «Non sapevo più dove cercarla, ho cominciato seriamente a temere che una di quelle belve la fuori l’avesse presa!»

«Mh, improbabile» disse Juna prendendo posto come al solito accanto alla madre. «Quei due non entrano mai in casa e quella gatta ha un istinto di conservazione troppo spiccato per avventurarsi oltre la porta.»

«E infatti si era rintanata sotto il tuo letto cugino!» esclamò Justin «Abbiamo dovuto mandare Melissa a recuperarla! Era l’unica abbastanza stretta per passarci!»

«Melissa, hai fatto scuola…» disse Manaar dolcemente. «Anche Molly ha imparato la via che porta alla camera di mio figlio.»

«Non sono gelosa di una gatta» disse la bambina. «Molly poi era sotto il letto, non sopra.»

«E il giorno che finalmente Juna si fidanzerà?» chiese Madeline tirando in ballo il suo argomento preferito «La sua fidanzata non potrà certo dormire sotto il letto, ti pare?»

Passò un lampo negli occhi della piccola, «Se questa ragazza piace a lui, piacerà anche a me… spero.» Sorrise speranzosa, «Comunque io sono piccolina, prendo poco spazio!»

Elisabeth guardava affranta il marito, che a sua volta osservava la figlioletta, «Melissa, pensi davvero di poter continuare così?» chiese sconcertato.

Era ora di intervenire, «Nonno, non abbiamo un appuntamento stasera?» disse «Forse è il caso di mangiare.»

Melissa scattò come un serpente, «Vai via? Dove?»

«Da un amico del nonno, tu non lo conosci.»

«Quando torni?»

Non le poteva fregare di meno di chi fosse questo amico…

«Non penso di fare tardi. Non ti azzardare a fare avanti e indietro dalla tua stanza per controllare però, intesi?»

Melissa sgranò gli occhi, ovviamente era stato il primo pensiero che aveva avuto. «Ma come faccio a sapere se sei tornato?»

«Se ti addormenti e non avrai incubi sarà molto meglio. Domani mattina mi troverai nella mia stanza se vuoi venire a svegliarmi.»

Sorrise più tranquilla, «E’ vero. Ok.»

Per la prima volta vide negli occhi di Justin autentica preoccupazione per la cugina più piccola… e gli venne improvvisamente in mente che forse quella preoccupazione gli era sempre sfuggita fino ad allora.

Alla crisi di Melissa, Justin era crollato… non lo aveva mai visto così sconvolto.

Il ragazzo si voltò verso la sorella e Georgie scosse le spalle, poi guardò la madre che rispose al gesto con un cenno affermativo della testa.

«Lissa, mi stavo chiedendo…» cominciò allora la ragazza, «vuoi venire a fare una passeggiata con me e la zia Lennie domani pomeriggio?»

Per poco a suo zio sfuggì la forchetta di mano, sua zia invece aveva l’aria di una che aspettava da una vita quel momento.

Dovevano averne parlato in precedenza, le sue zie, i rispettivi mariti invece sembravano appena atterrati sulla Terra dopo decenni di assenza.

«Dove?» chiese Melissa.

«Avevamo pensato di fare un salto al centro commerciale» rispose Lennie, «ovviamente può venire anche la mamma, vero? Potrebbe esserci qualcosa che ti piace.»

«E’ un’ottima idea Lissa» disse sua zia Elisabeth. «Ti va di andare?»

Come un radar gli occhi della bambina cercarono lui, «Tu vieni con noi Juna?»

«Ho già un impegno con Justin, vero cugino?»

Justin sorrise, «Sì, è un impegno che rimandiamo da una vita.»

Melissa sembrò farsi più piccola, mentre fra Paul e Connor saettò un’occhiata a dir poco incredula.

Come al solito sua madre era l’unica a non essersi persa per la strada.

«Io non so se…» cominciò la bambina.

«Melissa, da quanto è che non usciamo con la zia Lennie e Georgie?» chiese sua zia Elisabeth con una anche troppo chiara tensione nella voce. «Sarebbe carino…»

«Non siamo mai uscite con loro» fu la lapidaria risposta della bambina. «Sono uscita con la zia Manaar, mai con la zia Lennie.»

Entrambe le sue zie cercarono sua madre che sorrise, «E’ un aperto invito alla sottoscritta Lissa?»

Melissa si trovò chiaramente presa in contro piede, poi fu anche troppo chiaro il ragionamento che le passò per la testa: se non poteva avere il figlio, si sarebbe presa la madre. «Verresti?»

Aveva l’impressione che la situazione stesse peggiorando a vista d’occhio.

«Fantastico!» esclamò salottiero Justin.

«Un’uscita di sole donne! Farete la gioia del centro commerciale!» continuò suo zio Ryan.

«Madeline, vuole venire con noi?» chiese sua madre.

«Partiamo verso le quattro» propose zia Lennie. «Ci sono problemi?»

Nessuno ebbe da ridire.

«Juna, tu che fai domani?» tornò all’attacco Melissa.

«Justin verrà in ufficio…» improvvisò.

«… dopo di che Justin, affrontato eroicamente un giro turistico della McGregor Investments, con un po’ di fortuna riuscirà a portarlo fuori di lì in tempi ragionevoli» continuò Justin come se stesse ancora parlando lui.

«Credo riuscirò a concederti una fortuna del genere, abbiamo diverse cose di cui parlare.»

L’occhiata piena di gratitudine di zia Elisabeth gli disse che aveva capito e perfettamente assecondato le intenzioni delle sue zie: Melissa doveva capire che lui l’indomani sarebbe stato esclusiva proprietà di Justin.

Melissa doveva averlo capito alla perfezione, a giudicare dallo sguardo angosciato che aveva in quel momento. «Terrai il cellulare acceso?» chiese come ultimo appiglio.

Zia Elisabeth chiuse gli occhi.

«Certamente» rispose dopo qualche secondo.

La bambina annuì visibilmente più rincuorata.

«Ehm… Juna, fra meno di un quarto d’ora dobbiamo andare» disse suo nonno.

«Sì nonno. Justin, ce la fai per le quattro ad essere in ufficio?»

«Nessun problema cugino.»

 

Jennifer aveva deciso di aspettare l’arrivo degli ospiti nella tranquillità della sua stanza, ma più passava il tempo, più sentiva il nervosismo crescere.

Quando bussarono alla porta, praticamente saltò in piedi.

«Jennie? Sono arrivati» l’avvisò sua madre senza entrare.

Segno che toccava proprio a lei scendere.

Respirò profondamente, «Arrivo mamma.»

Michael era già stato messo a letto, in modo che non partecipasse a quella che si delineava come una vera e propria riunione.

Durante la cena Michael aveva fatto diverse domande su Juna, specie quando a suo padre era sfuggito il significato del suo nome arabo, e aveva colto un certo nervosismo anche in suo padre… la cosa l’aveva quasi spaventata.

Senza contare che ancora non riusciva ad immaginare quale collegamento potesse esserci fra Juna e chi si era occupato del rapimento di Michael.

Come poteva quel ragazzo sapere qualcosa che neanche suo padre era riuscito a scoprire?

Non aveva mai sbandierato il fatto di essere la figlia del governatore Flalagan, ma era cosciente che suo padre fosse un uomo influente… e anche estremamente determinato.

Uscì dalla stanza e seguì la madre al pian terreno.

«Non me lo ricordavo così affascinante» le confidò in un sussurro la donna che l’aveva messa al mondo.

Non fece commenti.

Arrivarono in salotto e al loro ingresso intravide tre persone alzarsi.

La stanza non le era mai sembrata così piccola.

«Ecco Jennie!» esclamò suo padre… con una nota di nervosismo nella voce che le fece contrarre lo stomaco. «Bambina, ti ricordi Patrick, vero?»

«Certo.» Si sforzò di mantenere la voce ferma e puntò lo sguardo sul migliore amico del padre, «E’ un piacere rivederti Patrick. Come sta Madeline?»

Suo padre la guardava compiaciuto. Si rendeva conto dello sforzo che stava facendo? Le mancava il respiro e neanche sapeva il perché.

«Maddie sta bene, grazie, anzi, ti manda i suoi saluti. Ha apprezzato molto il tuo biglietto d’auguri per il suo compleanno.» Ci furono cinque secondi di silenzio assoluto, poi… «Ti ricordi di mio nipote Junayd?»

«Non… non molto per la verità» mentì.

«Io mi ricordo di lei.»

Quella voce la fece sussultare, sarebbe potuta appartenere ad un uomo di trenta o anche trentacinque anni per com’era bassa e ben modulata… e quel ragazzo non ne aveva diciannove, stando a quanto le aveva detto la madre e se la matematica non era un’opinione!

Juna continuava a bisbigliare e ad essere ascoltato.

«Vado a prendere il tea e i biscotti» disse la sua voce perfettamente tranquilla. «Qualcuno preferisce un caffè?»

«Sì, io. Grazie Jennifer.»

La sua fu una vera e propria fuga.

A metà strada incontrò Susan con il vassoio che era stata la sua momentanea salvezza. «Dai pure a me Sue, lo porto io di là. C’è anche il caffè?» Al cenno affermativo di Susan sospirò, «Bene.»

«Hai visto quel ragazzo? E’ bello come il peccato.»

La guardò sorpresa, «Cosa?»

«Ho aperto io la porta… e sono rimasta inchiodata al suolo… eh, avessi quarant’anni di meno…!»

Era una congiura o cosa?

«Non… non l’ho guardato.»

Susan tornò verso le scale che portavano alla cucina con un’occhiata al soffitto piena di rassegnazione, «Ma dove li ha gli occhi, questa generazione?»

Tornò in salotto e servì il tea, facendo bene attenzione a non guardarlo in faccia.

Quando gli passò la tazza di caffè quelle dita lunghe e nervose la sfiorarono… e per poco non rovesciò il liquido bollente addosso ad entrambi.

D’istinto alzò lo sguardo e si perse nella profondità di due oceani neri come la notte che la trapassarono.

Fu un lampo che li illuminò a farla riscuotere, si guardò intorno e nessuno sembrò essersi accorto che le era momentaneamente crollato il mondo addosso.

«Grazie Jennie.»

«Pensa Jennie, Juna ha capito chi sei perché si è ricordato di quando ti punse quella vespa» disse Patrick.

«Ah, se lo ricorda anche lei: adesso scappa tutte le volte che ne vede una!» fu il commento di suo padre.

Tutti risero, solo Juna sorrise appena guardando suo padre.

Ne approfittò per prendere la propria tazza.

«Jennie, siediti qui» disse sua madre.

Le ubbidì d’istinto, solo quando rialzò lo sguardo si rese conto di essere di fronte a Juna.

Bello come il peccato, aveva detto Susan.

Rendeva perfettamente l’idea.

A prescindere dagli occhi, Juna aveva un viso incredibilmente espressivo… e da quello che aveva intravisto, anche il resto non…

Bloccò i suoi pensieri e li deragliò verso binari più sicuri.

Sembrava incredibile che Patrick e quel ragazzo fossero patenti stretti… fisicamente erano agli antipodi.

Juna aveva la pelle di un colorito ambrato-dorato che quasi abbagliava accanto alla pelle color latte di Patrick.

Se non ricordava male i tre figli avevano ripreso i colori del padre, quindi Juna doveva per forza assomigliare alla madre.

Improvvisamente le tornò in mente Manaar Alifahaar McGregory… e sì, Juna era la fotocopia al maschile di sua madre.

«Juna…» cominciò all’improvviso suo padre, «non vorrei sembrarti impaziente, ma…»

«Non c’è problema Jeremy, sono qui per questo.»

Per poco non si strozzò.

La voce era quella di un altro, il ragazzo sembrava un altro.

Ogni accenno di sorriso era sparito, la bella bocca era rigida, gli occhi si erano fatti, se possibile, più scuri e l’espressione seria non prometteva nulla di buono.

Ecco cosa si era scordata o forse aveva semplicemente rimosso di lui: non aveva bisogno di alzare la voce per farsi sentire, bastava che ti piantasse quegli occhi in faccia per farti scordare il resto del mondo.

Sperò ardentemente di trovarsi all’altro capo del mondo quando Juna avesse perso la pazienza.

«Patrick mi ha accennato a delle cose poco piacevoli…»

«Jeremy, dovrò essere estremamente chiaro e diretto. Mio nonno deve aver cercato di indorarti la pillola, perché poco piacevoli è un termine piuttosto blando per la situazione che ho presente io. Ti dico subito che tutto quello che ti dirò stasera non verrà mai confermato ufficialmente e soprattutto, dopo che io sarò uscito da questa casa, io e il generale Lewing non ci saremo mai né sentiti né tanto meno visti. Intesi?» Al cenno affermativo di suo padre continuò, «Mi ha detto quello che sto per dirti per una sola ragione: cercavano già il modo di farti arrivare all’orecchio che ti stai cacciando in un qualcosa molto più grande di te, quando hanno saputo che sono il nipote del tuo migliore amico… beh, mi hanno richiamato subito. E’ una cosa che ha stupito anche mio nonno, pensa te. Sei una persona molto in vista Jeremy e hai amici molto potenti, ti hanno aiutato finora, ma nulla potrebbe salvarti se non ti tiri fuori da questa storia, adesso.»

Sua madre ebbe una specie di singulto, suo padre resse lo sguardo di Juna, «Continua.»

«Il punto è questo: stai cercando di avere notizie di un caso che non esiste e informazioni su delle persone che non sono mai nate. Gli agenti che hanno riportato a casa Michael lavorano in nero per l’F.B.I., sono… definiamoli liberi professionisti…»

«Killers.»

Rimase sorpresa dal suono della sua stessa voce.

«Mi fa piacere sapere che non hai paura di chiamare le persone con i loro nomi, Jennie» disse Juna dopo qualche secondo di silenzio lanciandole un’occhiata che non avrebbe mai voluto vedere. «Sono esattamente killers», riprese tornando a concentrare la sua attenzione su suo padre, «e non erano neanche lì per tuo figlio. Non sono scesi in particolari, ovviamente, ma da quello che ho capito, Lewing è stato il terzo a cadere dalle nuvole quando ha saputo che il figlioletto del governatore era con Carlos Estrada. I primi due sono stati quelli che lo hanno trovato.»

«Carlos Estrada?!» esplose Patrick «Il trafficante ucciso la notte fra sabato e domenica!»

Sua madre posò velocemente la tazza sul tavolo, le mani le tremavano troppo per sperare di reggerla.

Aveva ascoltato alla televisione la notizia dell’uccisione di quell’uomo solo perché ci si trovava vicino, presa com’era dalla ricomparsa di Michael, ma ricordava di essersi sentita sollevata non sapendolo più in giro per il mondo: gli avevano attribuito qualcosa come cinquanta omicidi, era il mandante di chissà quanti altri delitti e per di più vendeva droga che faceva lavorare a ragazzini più piccoli di lei.

E suo fratello era stato nelle mani di gente del genere?

Suo padre chiuse gli occhi, «Quei figli di puttana… Estrada, dannazione. Come ho fatto a non arrivarci subito? Non ho minimamente collegato il suo assassinio con il ritrovamento di Michy. Era così logico.»

«Il ritrovamento di tuo figlio li ha presi così in contropiede che lo hanno portato subito a casa. Per motivi che non sapremo mai non potevano portarsi dietro il bambino e piuttosto che lasciarlo per la strada sotto shock, lo hanno riconsegnato subito alla famiglia.» Respirò profondamente, «Jeremy, hai pensato che stai mettendo in pericolo la vita di chi ha salvato tuo figlio?»

«Cosa?» chiese suo padre con voce strozzata.

«Il centro di tutta la storia è questo: tu adesso stai dando in un certo senso la caccia a questi due killers, sei un governatore e hai conoscenze e agganci. Le motivazioni che ti spingono sono molto onorevoli, siamo d’accordo, ma hai idea di quanti delinquenti sarebbero in fila dietro di te ad aspettare che tu li trovi? Gente come Estrada, che venderebbe la mamma per mettergli le mani addosso. Lewing non lo ha detto a chiare lettere, è ovvio, ma da quello che ho capito non è in grado di controllarli più di tanto, se questi due si sentissero in qualche modo minacciati da te…» Juna si interruppe.

Nella stanza non volava una mosca e il viso di suo padre era una maschera… dove stava cercando di arrivare quel ragazzo?

«Stai cercando di dirmi che potrebbero uccidermi, Juna?»

Sua madre non resistette oltre, «Cosa?!» urlò.

Patrick guardava il nipote come se lo vedesse per la prima volta… lei lo guardava perché semplicemente non poteva farne a meno.

L’espressione di Juna era indecifrabile… reggeva lo sguardo di suo padre senza muovere un muscolo.

Dio santissimo, aveva un controllo di se stesso che aveva del sovrumano: stava dicendo ad una persona che conosceva da quando era nato che stava rischiando di essere uccisa e niente nel suo atteggiamento o nel suo sguardo tradiva la minima emozione.

«Il nocciolo della situazione è tutto qui Jeremy» continuò infatti calmo. «Non sempre lavorano dalla parte della legge. Ti ripeto: non me lo hanno detto a chiare lettere, è stato un incontro all’insegna del surreale perché ogni discorso iniziava con un poniamo il caso che o diciamo che potrebbe essere. Una cosa però temo di averla capita bene: sono dei cani sciolti. Lewing ricorre a loro quando vuole essere certo che le cose vadano come devono andare e non è in grado di controllarli: ucciderne uno in più o uno in meno, se ne va della loro vita poi, non li spaventerà di sicuro.»

Una tazza si frantumò in terra, abbassò lo sguardo per avere la conferma che fosse la propria, poi i suoi occhi cercarono ancora Juna, come la calamita è attratta dal ferro. «Uno in più o uno in…?» mormorò.

 

Quegli occhioni verde-acquamarina, sgranati e terrorizzati, gli ricordarono quelli del fratellino e dovette fare uno sforzo enorme per non dirle qualcosa che cancellasse l’accusa, il terrore che vi leggeva.

Si costrinse a stare fermo e sostenne quello sguardo.

«Juna, stai parlando di mio padre…» riprese. «Uno in più o uno in meno?» ripeté «Ma sei fatto di carne o di ghiaccio?»

Fece appello a tutta la sua calma e razionalità… non occorreva essere un genio per capire che quella ragazza lo stava considerando un mostro.

«Sono sempre stato dell’idea che il medico pietoso fa più danni che risolverne Jennie. Quando affronto un problema o parlo chiaro o non comincio neanche. Se sono qui è proprio perché è tuo padre. Pensi che sia un divertimento per me informare una persona che conosco da sempre che sta rischiando di farsi ammazzare? Posso capire che sei sotto shock ragazza mia, ma è tutto meno che un complimento quello che mi hai appena fatto… e per la cronaca, ho un concetto di divertimento molto diverso.»

«Non avevo assolutamente capito a cosa ti riferivi quando mi hai detto che la situazione era seria» disse suo nonno. «Quindi è stata l’F.B.I. a decidere l’assassinio di Estrada.»

«Per quello che ne so sarebbero anche potuti essere sulle tracce di Michael e, dopo averlo ritrovato, aver deciso di non lasciare nessuno vivo. Unire l’utile al dilettevole, per così dire. Non sono andato a prendere un tea con il generale nonno, non abbiamo parlato amichevolmente di come si è svolto il suo fine settimana» rispose senza staccare gli occhi da quelli della ragazza. «Il discorso è stato messo insieme all’insegna del condizionale, ma l’unico trafficante di droga ucciso in città la notte di sabato è stato Estrada e tu stesso mi hai parlato dei due guerrieri che Michael va santificando. Ho fatto due più due e la cosa torna.»

Jennifer distolse lo sguardo dal suo e lo abbassò sulla tazza che si era frantumata in terra.

Si rivolse di nuovo a Jeremy, «Avete fatto domande a Michael?» chiese sperando di capire a che punto fosse il bambino.

Jeremy scosse le spalle impotente, «Non parla altro che di loro Juna, ne parla come di due creature soprannaturali… è arrivato a dire che si è divertito un mondo a scalare il muro con il guerriero che non ha ucciso Estrada perché ha dovuto portare lui in salvo alla macchina!»

Sentì quasi il rumore degli argini dell’auto controllo di quell’uomo che crollavano, Jeremy aveva bisogno di parlare… sembrava quasi che si fosse scordato che nella stanza ci fossero anche sua moglie e sua figlia.

«Lewing non è riuscito a tirargli fuori altro se non cosa hanno fatto i due guerrieri e di come lo hanno tirato fuori da quell’incubo. Adesso che mi ci fai pensare ha parlato di un uomo cattivo ma ha nominato un certo Diego, non Carlos… ma Lewing sembrava capire tutto quello che diceva. Appena Micky ha intuito che Lewing poteva conoscerli lo ha fatto letteralmente scappare via a furia di fargli domande. Non riconosco più mio figlio… mentre pregavo che tornasse a casa vivo, sapevo che non sarebbe mai tornato il bambino che è stato rapito… Dio mio, l’ho sempre saputo ok? Ma Michael è… è come una centrale elettrica a pieno regime adesso.»

«Sta probabilmente dando libero sfogo allo shock Jeremy» disse suo nonno. «Ne abbiamo parlato… dovrebbe tranquillizzarti adesso… non si sta tenendo tutto dentro.»

«Ah no? Mi rivolge la parola per sapere se so qualcosa di nuovo sui suoi guerrieri Patrick!» esplose quasi alzando la voce… e sua moglie sobbalzò chiaramente accanto a lui.

Jennifer.

La cercò con lo sguardo e la vide immobile, seduta davanti a lui, che osservava il vuoto.

«Ok Juna» disse Jeremy come se avesse cambiato discorso all’improvviso… e si rese conto che aveva smesso di ascoltarlo. «Immagino che Lewing aspetti di sapere come sono andate le cose. Puoi dirgli che mi impegno a non fare più domande, a non chiedere più nulla riguardo questa storia. In qualche modo convincerò Michael che non è possibile ritrovarli come vorrebbe lui… ha più bisogno di un padre che di figure mitologiche, vi pare?»

Stava cercando di convincere se stesso, era così evidente che sentì quasi tenerezza per quell’uomo.

Dunque era chiaro che fosse Michael a fare pressioni in quel senso.

La situazione si stava rivelando esattamente come temeva.

«Jeremy, ti è passato per la testa che Michael voglia ritrovarli anche per voi?»

Questa aveva trovato direttamente la via della bocca.

«Che vuoi dire?» chiese Sarah visto che il marito lo stava guardando a bocca aperta.

«Non sono uno psicologo, non riesco ad immaginare cosa possa passare per la testa di un bambino di quattro anni che è stato rapito ok? Ma se Michael pensasse una cosa del genere…» aprì in aria delle virtuali virgolette con le dita, «“ok, mi hanno rapito, hanno cercato di far del male al mio papà, non ci sono riusciti completamente grazie a questi due, se li trovo staremo tutti al sicuro: non solo io, ma anche mamma, papà e la mia sorellina”

«Non… non ti sembra un discorso un po’ articolato per un bambino di quattro anni?» chiese incerto suo nonno dopo un silenzio di tomba «Juna, tu a quell’età potevi arrivare ad un ragionamento del genere, ma…»

«Oh Cristo…» La voce di Jennifer era appena al di sopra del sussurrò, ma la udì senza problemi. «Papà, Micky… Micky mi ha fatto un discorso del genere giusto oggi, mentre era in camera con me. Ha detto, testualmente, che tu li devi ritrovare perché con loro staremo al sicuro.»

Suo nonno assunse un’espressione sbigottita, «Che mi venisse…»

Jeremy e Sarah si guardarono.

Gli tornarono improvvisamente in mente i discorsi che aveva sentito fare a Estrada e ai suoi riguardo Jennifer.

«E la parte peggiore della situazione è che Michael potrebbe aver visto giusto» riprese. «Quando firmerai quella legge?» chiese rivolto a Jeremy.

Jeremy lo fissò senza capire. Il suo cervello si rifiutava di afferrare il significato della sua ultima frase. «Fra due mesi.»

«Lewing mi ha fatto capire che sarebbe meglio tenere d’occhio il bambino fino ad allora. E anche Jennie.» L’occhiata smarrita di Sarah gli disse che aveva già capito. «Sì Sarah, potrebbero riprovarci, e visto che Michael ha già vissuto l’esperienza e potrebbe essere più difficile riavvicinarlo, potrebbero decidere di rapire Jennie.»

La donna guardò la figlia, che adesso stava raccogliendo i cocci della tazza, poi il marito che aveva cambiato colore e cominciò a tremare, «No. Dovranno passare sul mio cadavere prima di prendere ancora una delle mie creature» disse.

Juna guardò di nuovo Jennifer, i capelli le scendevano a coprire il lato del viso dalla sua parte, non capiva cosa stesse pensando, ma sentiva che stava per cedere.

Quella ragazza era un fascio di nervi.

Suo nonno aveva detto che era caduta in depressione, lui vedeva una ragazza sull’orlo di un collasso nervoso.

Sedici anni scarsi erano veramente troppo pochi per sopportare quello che le era successo.

«L’F.B.I. non ci può proteggere?» chiese Jeremy con un filo di voce.

«Jeremy, è chiaro che l’F.B.I. penserà a voi, ma è il minimo che quei delinquenti si aspettano» disse suo nonno. «Sono sicuro che sanno bene chi devono ringraziare per la morte del loro capo. Dico bene Juna?»

«Sì nonno, temo tu abbia ragione.»

Non riusciva a staccare gli occhi dalla ragazza.

Le sue esili spalle sussultarono due, tre, quattro volte. La fece alzare e l’abbracciò… fu come aprire un rubinetto e i singhiozzi si fecero rumorosi e vicini.

Si aggrappò al suo maglione mentre i presenti scattarono in piedi come molle.

I loro sguardi gli dissero che era stato il solo ad intuire quello che stava per succedere.

«Da quanto non piangi?» le chiese.

Jennifer scosse la testa contro il suo torace, incapace di spiccicare parola.

«Oh mio Dio, Jennie…» cominciò Sarah.

«Sarah, che ne dici di una camomilla?» chiese alla donna.

«N… no, non…» farfugliò Jennifer.

«Sì invece», la rimbeccò meno severo di quello che sarebbe dovuto essere «o stanotte non chiuderai occhio e da quello che ho capito, di sonno ne hai già perso anche troppo.»

«Che succede qui?» chiese all’improvviso una vocina insonnolita.

Tutti gli sguardi si puntarono sulla soglia.

Michael.

«Oh no…» mormorò Sarah.

«Ho sentito degli strani rumori e Jennie non è in camera sua e…» fu allora che vide la sorella in lacrime e si svegliò tutto d’un botto. «Jennie! Jennie, stai male?» Fece un passo verso di loro… e alzò lo sguardo su di lui.

Sgranò gli occhi in un’espressione di assoluto stupore, spalancò la bocca e la richiuse subito. La sua mascella schioccò per la violenza con cui la chiuse, ma il piccolo sembrò non registrarlo.

Lo aveva riconosciuto, questo era poco ma era sicuro.

«La… la stai proteggendo?» chiese come se stesse valutando l’ipotesi di unirsi all’abbraccio.

Inconsciamente strinse fra le braccia il peluche che aveva in mano.

«Stai tranquillo piccolo» disse come la prima volta che si erano incontrati. «E’ tutto a posto» aggiunse, «torna a letto che è tardi.»

Il sorriso del bambino illuminò a giorno la stanza, ogni dubbio era stato cancellato: adesso Michael sapeva che lo aveva ritrovato.

Jeremy non avrebbe avuto problemi.

«Come ti chiami?»

Chissà quante volte se l’era chiesto.

«Juna.»

Gli occhioni si aggrottarono appena, ma rimasero ben fissi su di lui «Tu sei Juna?» chiese.

«E’ il nipote di Patrick tesoro» disse Sarah con il tono di una che sta attraversando una polveriera con in mano un candelotto di dinamite acceso. «Ti ricordi di Patrick? E’ tornato a trovarci.»

Michael lanciò un’occhiata a suo nonno e sorrise di nuovo, «Sì… ciao Patrick.»

«Ciao piccino» rispose suo nonno. «Come stai?»

Michael tornò a guardare lui, incantato.

Il bambino non riusciva a credere ai suoi stessi occhi, ascoltava appena cosa gli veniva detto. «Bene» sussurrò.

Guardò la sorella che non si era mossa e riguardò lui.

«Penso io a lei, tua sorella ha passato un brutto periodo con la tua scomparsa, si sta sfogando un po’.»

«Il mio papà mi ha detto che il tuo nome significa Giovane Guerriero.»

Rimase un attimo sorpreso dal cambio di discorso… poi gli venne da ridere: Michael lo aveva definito un guerriero.

«E’ vero.»

Lo vide annuire, «Ti si addice molto. Tornerai qui, vero? Posso venire a trovarti?»

«Certo Michael, ci vedremo presto. Torna a letto adesso.»

Sorrise di nuovo, si guardò intorno, «Buonanotte allora.»

La sua uscita fu seguita dal silenzio.

«Non… non posso crederci» disse Sarah assolutamente allibita. «Non si è mai comportato così con qualcuno che non aveva mai visto.»

«Con Juna è normale» disse suo nonno senza sapere di aiutarlo, «i bambini lo adorano Sarah, sembrano irresistibilmente attratti da lui.»

Perfetto, anche perché suo nonno aveva validi motivi per crederlo.

Tornò a concentrare la sua attenzione sulla ragazza rannicchiata fra le sue braccia.

Sembrava essersi calmata, non tremava più come prima, ma era ancora saldamente aggrappata al suo maglione.

«Sarah?» chiamò usando il suo tono di voce più dolce.

Ebbe effetto. La donna lo guardò e asserì, «La camomilla.»

Uscì dalla stanza.

Riuscì a pilotare Jennifer sul divano e a farla sedere accanto a sé, senza che la ragazza allentasse la presa.

«Jennie, piccola mia…» cominciò Jeremy quasi calando di nuovo a sedere «cosa è successo? Vuoi dirmelo?»

«Temo sia colpa mia Jeremy» rispose Juna al posto suo. «Tua figlia ha passato un brutto periodo e il mio discorso di prima deve essere stata proprio la goccia che ha fatto traboccare il vaso.»

 

Jennifer stava ascoltando in silenzio, il ragazzo aveva capito tutto.

Era piacevole starsene così, si sentiva al sicuro circondata dalle braccia del ragazzo, dal suo profumo.

«Juna?» mormorò.

La stretta alle sue spalle si serrò appena, «Cosa?»

«Dicevi… parlavi sul serio prima?»

«Non mi sembrano cose su cui scherzare Jennifer.»

«Se rapissero di nuovo Michy non lo sopporterei…»

Un silenzio innaturale calò sulla stanza, il respiro di Juna le sfiorava i capelli ed era un suono che le rimbombava dentro.

«Ho un’idea!» esclamò all’improvviso Patrick «Jeremy, puoi trasferirti a casa nostra con la tua famiglia.»

«Cosa? No Patrick, siamo amici da tanto tempo, ma questo è…»

«Ragiona Jeremy. Tutti sanno che abiti qui e poi è un luogo aperto, esposto. Villa McGregory è protetta, anche per l’F.B.I sarebbe facile tenerla sotto controllo e poi c’è sempre qualcuno in casa, Sarah e i ragazzi non resterebbero mai soli.»

«Patrick, non lo so» la voce di suo padre aveva già perso gran parte della convinzione che aveva prima.

«Michael potrebbe andare all’asilo con Melissa per gli ultimi mesi, non ci vuole nulla a fare il trasferimento, Warren avrà sicuramente un socio che si occupa di queste cose, e Jennifer andrebbe a scuola accompagnata da Connor e Juna… e non dimenticare che Sarah non resterebbe sola in casa tutte le mattine come adesso, in casa c’è sempre qualcuno e le mie nuore le farebbero compagnia.»

«Jeremy, sarebbe una sistemazione momentanea» prese la parola Juna, «la villa è abbastanza grande per tutti e non pensare di mettere in pericolo noi, da sempre Villa McGregory ha un sistema d’allarme di tali proporzioni che le prime volte ha messo in difficoltà anche noi.»

«Juna ha ragione» continuò Patrick, «è la soluzione ideale, non so come ho fatto a non pensarci prima!»

«Io… io devo prima parlarne con la mia famiglia Patrick, ma già da ora ti ringrazio per la tua offerta e grazie anche a te Juna, ho apprezzato immensamente quello che hai fatto.»

Tornò sua madre e questa volta c’era anche Susan che si fermò perplessa sulla soglia a guardarla.

Jennifer si ricordò di essere ancora rannicchiata fra le braccia di Juna e senza riuscire a nascondere una certa riluttanza, si scostò.

«Va meglio?» le chiese il ragazzo.

«Sì, grazie.»

«Non ringraziarmi, probabilmente dovrei essere io a chiederti scusa.»

Si ricominciava, non aveva più il coraggio di alzare lo sguardo.

«Direi che siamo pari… scusami per prima… mi dispiace molto, io non avevo capito… ho frainteso il tuo atteggiamento calmo e…»

«Non preoccuparti Jennifer, non mi conosci, non puoi sapere che questo è semplicemente il mio modo di essere. E comunque hai delle attenuanti. Non è successo niente.»

«Jennie, bevi questo» disse sua madre porgendole una tazza.

La prese ma le tremavano ancora le mani e la voce di Juna suonò vagamente preoccupata, «Ce la fai?»

«S… sì, credo di sì.» Si costrinse ad alzare lo sguardo «Forse hai ragione, ho accumulato troppa tensione, prima o poi dovevo cedere.»

Il ragazzo sorrise e le accarezzò una guancia con il dorso di una mano… aveva una pelle morbida e calda.

Uno strano silenzio aleggiava intorno a loro, Jennifer lanciò un’occhiata in giro e incontrò quattro paia di occhi sgranati… le venne il sospetto che non si fossero persi una virgola di cosa fosse successo.

Juna si alzò senza staccarle gli occhi di dosso, «Nonno, direi di andare adesso.»

Patrick lo seguì, «Hai ragione, si sta facendo tardi.» Si rivolse a suo padre, «Ci sentiamo domani Jeremy?»

«Ti chiamo io Pat» rispose suo padre ancora visibilmente scosso.

 

Al sicuro nella sua stanza, sotto le coperte, Jennifer ripercorse gli eventi della serata.

I suoi non avevano fatto domande, neanche Susan, ma i loro sguardi erano perforanti.

Juna la metteva quanto meno in crisi, ma fra le sue braccia si era sentita al sicuro come mai prima in vita sua.

Era un controsenso?

Ancora i suoi non erano andati a dormire, era ragionevole pensare che suo padre stesse parlando a sua madre dell’idea di Patrick e c’erano buone possibilità che sua madre accettasse di buon grado la cosa: dal rapimento di Michael vivevano guardandosi le spalle e da quando era riapparso la situazione era anche peggiorata… ed era un inferno per persone miti e gentili come sua madre. E anche per lei, inutile far finta di nulla.

Poteva solo sperare che non le chiedessero cosa ne pensasse perché… beh, proprio non avrebbe saputo cosa raccontare.

Certo, la sicurezza del suo fratellino veniva prima di tutto, era più importante di qualsiasi suo dubbio o paura personale, ma…

Guarda che sei in pericolo anche tu!, le ricordò una vocina interna, Juna è stato chiaro stasera!

Fece una smorfia e il secondo pensiero assurdo della giornata le attraversò la mente: cosa sarebbe stato più pericoloso per lei? Essere rapita o una convivenza con quel ragazzo?

Quale delle due cose le avrebbe dato maggiori probabilità di uscirne viva?

 

Juna si buttò sul letto, dopo la solita doccia che completava la giornata, esausto.

Aveva l’impressione che un treno si fosse affilato le ruote su di lui… e non era una sensazione molto piacevole.

Aveva telefonato subito a Richard per metterlo al corrente delle ultime novità e il generale era stato più che felice di apprendere che almeno un problema era stato risolto, avrebbe avvisato lui Matthew e i grandi capi.

La stanchezza gli era piombata addosso tutta insieme.

Si sentiva spezzato, ed era una sensazione nuova per uno da sempre definito tutto d’un pezzo.

Fece una smorfia e si passò una mano sul viso.

Quello non era l’unico problema, ovviamente.

Se sua madre fosse venuta in qualche modo a conoscenza del suo comportamento di quella sera, si sarebbe ritrovato fidanzato nel giro di due settimane!

A volte era proprio imbattibile nel complicarsi oltremodo la vita.

Come se non bastasse, quello che gli aveva detto Jennifer aveva… come fatto vibrare qualcosa in lui.

Sei fatto di carne o di ghiaccio.

Era la domanda dell’anno.

Guardò la sveglia sul comodino, erano quasi le due e forse era il caso di cominciare a dormire.

Allungò la mano per spegnere la luce e sentì il suono del suo cellulare.

Balzò in piedi e rispose al terzo squillo.

«Juna, allora?» chiese Drake senza preamboli.

Aprì bocca per rispondere ma qualcosa lo mise improvvisamente in allarme.

Si piegò appena sulle gambe, assumendo istintivamente la posizione di difesa, e si guardò intorno cercando la causa di quella sensazione… poi inquadrò la porta… c’era qualcuno in corridoio.

«Juna??»

«Mi vieni a trovare in ufficio Drake? Così parliamo tranquillamente.»

«Non sei solo?» chiese meravigliato.

Quel ragazzo arrivava a delle conclusioni veramente fantascientifiche a volte…

«Mh, sì e no.»

Lo sentì farfugliare qualcosa che in presenza di un qualsiasi altro essere vivente si sarebbe limitato a pensare, «Melissa è nascosta in camera tua.»

Drake era imbattibile nel fare affermazioni che rispondevano alle domande che non perdeva tempo a fargli.

«Non esattamente, ma ci sei andato vicino. Ci vediamo in ufficio allora? Tardo pomeriggio, così Alison non c'è.»

«Rispondi solo sì o no: ti ha riconosciuto?»

«Sì.»

«Ecco fatto, adesso posso dormire tranquillo. Arrivo dopo le cinque.»

Riattaccò e spense il cellulare, poi tornò a letto e spense finalmente la luce.

Chiuse gli occhi cercando di svuotare la mente.

La porta della sua camera si aprì.

Non aprì gli occhi e dette al suo respiro una cadenza lenta e regolare, non stava entrando un pericolo.

I pericoli non erano così rumorosi quando si avvicinavano.

Sapeva perfettamente chi stava per fare la sua spettacolare entrata.

Aprì piano gli occhi, aveva la fortuna di averli così neri che non si notavano nel buio.

La figuretta era ancora sulla soglia e si stava guardando intorno con una circospezione veramente notevole per una bambina di cinque anni.

Si decise ad entrare e chiuse la porta. Si avvicinò a tentoni al letto e ci si arrampicò ad una velocità impressionante.

Un anno di pratica aveva dato i suoi frutti, aveva conosciuto donne che avrebbero avuto da imparare in fatto di grazia e agilità.

Gattonò fino a lui, si infilò sotto le coperte battendo i denti per il freddo e gli si sdraiò accanto abbracciandolo.

Era gelata.

Incastrò la testolina contro il suo collo e una manina affondò fra i suoi capelli, la sentì rilassarsi con un sospiro di felicità. «So che non stai ancora dormendo Juna… non ce la facevo più a stare lì. Menomale sei tornato. Non mandarmi via, ti prego» bisbigliò strusciando il nasino contro il suo collo.

Passò un braccio sotto quel corpicino e si voltò verso di lei cercando di riscaldarla, sembrava di abbracciare un cubetto di ghiaccio, dannazione.

Appoggiò una mano fra i suoi capelli, «Non dovevi farlo, e lo sai. Che ti ho detto a cena?»

«Avevo paura.»

«Di cosa? Affogare nel tuo letto?»

«Che ti succedesse qualcosa… cosa faccio io se ti succedesse qualcosa eh?»

«Ero con il nonno, cosa mi sarebbe dovuto succedere?»

«Qualsiasi cosa.»

Si arrese. Melissa doveva riposare.

«Dormi adesso Lissa, è tardissimo.»

Altro sospiro, poi il suo respiro si fece lento e regolare e la sentì scivolare nel sonno.

Guardò il vuoto davanti a lui.

Quelle lezioni di nuoto dovevano cominciare il prima possibile, non era proprio possibile andare avanti così.

Era un stress troppo forte per una bambina di cinque anni.

A questo punto era certo che, gelata com’era, era stata a guardia fino a quando non lo aveva sentito rientrare con il nonno e poi era rimasta dietro la sua porta aspettando che la luce si spengesse.

Era rimasta sveglia fino ad allora.

La situazione stava precipitando.

Era la prima volta che Melissa si preoccupava per lui, non del fatto che lui non fosse con lei.

Molteplici aspetti della sua vita gli stavano sfuggendo di mano tutti insieme.

Finalmente chiuse gli occhi e scivolò in un sonno profondo e senza sogni.

   
 
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