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Autore: Holly Rosebane    19/01/2015    1 recensioni
Era così preso dal non sentire assolutamente niente, che si accorse del cambiamento soltanto quando il volume della musica passò dal rimbalzargli nella cassa toracica ad assordarlo con la propria assenza. Fu allora che spalancò gli occhi, lievemente infastidito, notando l’inconfondibile figura di Michael Clifford in piedi accanto allo stereo, le labbra rosate storte in una smorfia di disgusto. La penombra non rendeva giustizia al colore assurdo dei suoi capelli e forse era un bene. Ad Ashton non erano mai piaciuti i toni fluo.
«Porca merda, fratello, questo posto sembra una discarica» esordì, con la sua solita finezza da rimorchiatore di navi, lanciando un’occhiata circolare all’ambiente intorno a sé. «E basta con gli Enter Shikari. Questa robaccia ti fotte il cervello» seguitò, questa volta riferendosi al misto di urla e sintetizzatori psichedelici che gli avevano martellato direttamente sul cranio fino a pochi secondi prima.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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2nd Door



 
"Qualcuno dovrebbe prendere questa ragazza tra le braccia e stringerla forte, pensai. Non io, magari. Qualcuno che sia in grado di darle qualcosa."
H. MURAKAMI

 
 
 

 
«Daphne, apri. Lo so che sei lì dentro, apri questa maledetta porta prima che la sfondi a calci!» Urlò Luke Hemmings dall’altra parte dell’infisso, battendo le nocche così forte sul legno fino a renderle livide dal dolore. Non udiva alcuna risposta dall’interno ed era ciò che lo preoccupava maggiormente. Aveva saputo della sua rottura con Ashton e si era precipitato da lei non appena possibile. Ma la ragazza non apriva a nessuno, senza prendersi nemmeno la briga di rispondere.
«Daphne!» Esclamò il ragazzo un’ultima volta, prima di accasciarsi contro la fredda superfice in legno di quercia, poggiandovi contro la fronte e le mani, sentendosi meravigliosamente impotente dinanzi alle barriere architettoniche che gli umani tendevano a costruire per essere ancora più soli. Non aveva idea di come fare per riuscire ad entrare senza che lei gli aprisse.
Si sedette contro l’infisso, scervellandosi più che poté. I tre quarti delle opzioni da lui contemplate includevano la violenza fisica e sapeva che lei lo avrebbe volentieri preso a randellate, se gli avesse distrutto la porta di casa. Finché non ebbe la geniale idea di chiedere al portinaio di usufruire di una delle chiavi di scorta che lui custodiva gelosamente. Si finse suo fratello, dicendo che la ragazza era malata e lui aveva lasciato la sua chiave all’interno, molto sbadatamente. Con abbondanti occhiate di sospetto, riuscì ad avere libero accesso all’appartamento della giovane. Si gettò dentro quasi correndo, mentre il portinaio gli chiudeva la porta alle spalle, borbottando “giovani”.
«Daphne, sono Luke. Dove sei?» Chiese, a gran voce, senza ottenere risposta. Fu solo allora che il giovane si accorse dello stato pietoso in cui era ridotto l’ambiente circostante. Era tutto a soqquadro, bicchieri rotti, piatti infranti, cuscini del divano lanciati in posti improponibili, riviste strappate e lasciate aperte, sul martoriato tavolino basso.
Luke entrò in cucina, avvicinandosi al frigorifero. Notò che mancavano tutte le polaroids in cui Daphne era con Ashton. Giacevano in terra, ridotte a pezzi piccolissimi. Egli s’inginocchiò sul pavimento, raccogliendone i resti con aria grave. Erano freddi, distrutti, morti. Una bella differenza rispetto alle foto in cui loro due erano insieme, ancora affisse all’anta del surgelatore con un magnete. Vive, luminose, integre. Poteva quasi sentire le urla della sua amica, mentre le stracciava piangendo, buttando all’aria qualsiasi oggetto si trovasse sul suo cammino. Ammonticchiò sul tavolo ogni piccola parte di quelli che, una volta, erano ricordi fisici e indelebili, proseguendo il suo giro all’interno dell’appartamento. Non la trovò né in bagno, né nella cabina armadio.
In un ultimo tentativo disperato, s’accovacciò accanto al letto, per guardarvi sotto. Lo spazio fra la rete metallica e il pavimento era così ampio che avrebbe potuto benissimo nascondere una persona adulta. E infatti fu lì che la trovò. Raggomitolata su sé stessa, in atteggiamento di difesa nei confronti del mondo, che lanciava a Luke un’occhiata di dolore e impaurito smarrimento. Egli non poté far altro che stendersi a sua volta e tenderle una mano, sperando di raggiungerla e comunicarle la sua presenza. Ma ella si ritrasse ancor di più.
Ci volle un bel po’ di pazienza a convincerla ad uscire, e quando l’ebbe vicino, si accorse di quanto disastrata fosse la sua condizione. Aveva gli occhi perduti, con una luce opaca e smorta. Fissava un punto imprecisato del pavimento, senza articolar nemmeno una parola. I suoi capelli erano completamente in disordine, le ciocche di un chiaro color cioccolato le incorniciavano il volto pallido come un’intricata foresta di rami spinosi. Fu Luke a sistemargliele, passandovi dentro le sue dita, con calma e gentilezza, pulendole il viso dai segnacci scuri di mascara che ancora macchiavano la sua pelle, come le brutte linee di cancellatura di uno scrittore perennemente scontento del suo lavoro. La guidò attraverso la casa, facendola accomodare s’una sedia mentre le preparava il caffè.
Cercò in tutti i modi di farla parlare, ma le sue parole scivolavano nel pericoloso silenzio dell’assenza. Non ebbe reazione alcuna nemmeno quando le posò la tazza profumata e fumante dinanzi al volto, sfiorandole la spalla per cercare di farglielo notare. Sembrava una bambola di pezza priva d’imbottitura, un oggetto senza vita, che respirava impercettibilmente e il cui cuore batteva silenzioso. Mentre anche Luke si sedeva accanto a lei stringendo la propria tazzina con la bevanda bollente, cercando di trattenere le lacrime, Daphne parve rianimarsi.
«Lei era sicuramente più bella di me. Ecco perché se n’è andato. Io non ero abbastanza», disse, con voce incolore, le labbra animate da un guizzo di amara ironia, mentre solo un angolo si sollevava in un sorrisetto triste e alquanto lugubre. Luke non poté far altro che guardarla, socchiudendo le labbra per dire qualcosa di sensato, ma tacque. Si accorse che nulla, per lei, avrebbe più potuto essere tale.
 
 


Dall’altra parte della strada, Ashton guardava senza espressione la bianca parete dinanzi al suo volto, una bottiglia di birra nella mano sinistra e una bomboletta spray rossa nella destra. La stanza era gettata in penombra dal pomeriggio imminente, le uniche lastre di luce erano proiettate in obliquo dalla larga finestra a due ante alle sue spalle.
Non sentiva Daphne da tre lunghi giorni. Il tempo che gli era servito affinché la sua assenza si facesse presenza angosciante all’interno di quelle quattro sparute mura, sussurrandogli ricordi ad ogni azione che lui compisse, infestando anche le più piccole cose della sua vita quotidiana. Aveva cercato di scacciarla sparando lo stereo a tutto volume, inserendo la sua playlist di urla più cattiva che avesse mai prodotto, ma anche quegli strilli non giungevano nemmeno alla metà di quanto avrebbe voluto gridare lui.
Si alzò, mentre i bassi rutilanti e le chitarre martellanti continuavano a contribuire al suo silenzio interiore. Si avvicinò alla spoglia parete, agitando la bomboletta, udendo il tipico tintinnio metallico del liquido che sciaguattava al suo interno. Poi, premette sull’erogatore, lasciando che il suo braccio vergasse dei segni di un rosso così vivido almeno quanto il suo dolore. Appena la sua opera fu compiuta, tornò a sedersi ai piedi del divano, riacchiappando la bottiglia per il collo e mantenendo gli occhi fissi dritto dinanzi a sé. In bella vista, impossibile non notarlo, spiccava una scritta vermiglia che pareva urlare con la stessa intensità dei cantanti nello stereo di Ashton. Il quale, proprio nel bel mezzo di un acuto, poco prima di riportarsi la bottiglia alle labbra, le dedicò uno sguardo di disgusto. E decise di lanciarla contro il muro, spaccandola in mille luminosi cocci di vetro. Spettacolo pirotecnico del dolore e della sofferenza, mentre il suo mondo si oscurava nuovamente. Mentre perfino la parete pareva dirgli “This love will drive me insane”.
Era così preso dal non sentire assolutamente niente, che si accorse del cambiamento soltanto quando il volume della musica passò dal rimbalzargli nella cassa toracica ad assordarlo con la propria assenza. Fu allora che spalancò gli occhi, lievemente infastidito, notando l’inconfondibile figura di Michael Clifford in piedi accanto allo stereo, le labbra rosate storte in una smorfia di disgusto. La penombra non rendeva giustizia al colore assurdo dei suoi capelli e forse era un bene. Ad Ashton non erano mai piaciuti i toni fluo.
«Porca merda, fratello, questo posto sembra una discarica» esordì, con la sua solita finezza da rimorchiatore di navi, lanciando un’occhiata circolare all’ambiente intorno a sé. «E basta con gli Enter Shikari. Questa robaccia ti fotte il cervello» seguitò, questa volta riferendosi al misto di urla e sintetizzatori psichedelici che gli avevano martellato direttamente sul cranio fino a pochi secondi prima.
«Che cazzo vuoi, Michael» gli rispose Ashton, portandosi entrambe le mani al volto, nascondendo tutto, non volendo avere a che fare con niente. Anche se non poteva vederlo, il suo amico si strinse nelle spalle con molta casualità, per poi andarsi a sbracare sul divano, rimbalzando e cigolando insieme alle vecchie molle.
«Non lo so, vecchio mio, dimmelo tu» ribatté, piazzando una sonora manata d’affetto sulle spalle dell’amico. «Sono tre giorni che non rispondi a nessuno, stai tappato qui dentro e non vedi la luce del giorno manco a pagare».
«E quindi? Arriva al dunque».
«Sono preoccupato, brutto stronzo!» Esclamò, sollevandosi dalla posizione sgangherata a seduta. Appuntò il suo sguardo sulla parete, imbrattata di fresco, dove l’alone giallastro del liquido contenuto nella bottiglia esplosa campeggiava ancora in bella vista. «Carino», commentò.
«Non ne ho idea, va bene? Non capisco più nulla, sono tre giorni che mi sembra di galleggiare in un oceano di piombo liquido. Ho fatto una stronzata, Daphne se n’è andata, non so come rimediare! Contento?» Sentenziò, parlando attraverso lo schermo delle nodose mani, non volendo accennare a toglierle, sperando che forse il problema si sarebbe magicamente risolto da solo.
«In verità no, per niente» disse Michael, passandosi distrattamente le dita fra i corti capelli rosso fuoco d’artificio sparati in tutte le direzioni. «Dovresti reagire al posto di rimanere qui seduto a fare l’ameba del cazzo».
«Come hai fatto ad entrare?» Chiese invece Ashton, di punto in bianco, liberando finalmente il volto dalle proprie mani e rivolgendo all’amico un’occhiata di allarmata interrogazione. Lo vide contorcersi per qualche attimo, alla ricerca di un oggetto nelle tasche degli skinny stinti, estraendo poi un’esile chiave argentata, che brillava nella penombra.
«Con la copia della tua chiave, tonto. L’ho sempre avuta».
In quel momento, tre sonori colpi di nocche si udirono alla porta. E a giudicare dall’impeto, non promettevano alcunché di buono.
«Chi altro è, adesso?» Mugugnava Ashton, mentre Michael scattava in piedi ed andava ad aprire. Fu appena in tempo a sussurrare un “ohi, ohi” che anche Luke Hemmings si riversò nell’ingresso come una furia, piazzandosi davanti biondo e sollevandolo di peso per il collo della maglietta.
«Mi spieghi come accidenti è possibile? Eh?» Gli urlò dritto in volto, stringendogli così forte il tessuto dell’indumento che Ashton ebbe paura che si sarebbe presto strappato. «Hai idea di ciò che hai combinato, razza di coglione? Vorrei portarti a casa per farti vedere come sta lei!» Abbaiò nuovamente, proprio quando Michael li raggiungeva entrambi, separandoli con decisione.
«Ehi, ehi, ehi, signorine», ingiunse, mentre il riccio crollava di nuovo a sedere e l’altro ragazzo lo fissava, furente.
«È in uno stato pessimo ed è tutta colpa tua! Non parla, capisci, Ashton? Non parla! E quando capita, mormora parole senza senso sul fatto che tu te ne sia andato perché lei non era abbastanza! Piange e dorme tutto il giorno, non riesco a distrarla con niente!» Esclamò Luke, portandosi le mani fra i capelli e voltandosi verso il muro, per cercare di calmarsi, sconvolto dall’ira.
«Luke, non l’ho voluto io».
«Non l’hai voluto tu?» Ripeté l’altro, sconcertato. «Con quella ragazza non ci sono mica andato a letto io! Prenditi le tue responsabilità e fai l’uomo! Non stare qui tutto il giorno a piangerti addosso, Cristo!»
«Credi che non ci abbia pensato? Non so cosa fare!» Esclamò Ashton di rimando, sull’orlo di una crisi di nervi. Michael decise di correre ai ripari, prima che fosse troppo tardi.
«Ascolta, Luke» disse, prendendolo da parte. «Qui ci penso io. È tutto sotto controllo. Urlargli contro non aiuterà a risolvere la situazione. La peggiorerebbe. Torna da Daphne» spiegò, con un tono che non ammetteva repliche. Il giovane riconobbe che aveva ragione, malgrado la rabbia e non proferì parola. Si accontentò semplicemente di rivolgere un’ultima occhiata furente al biondo che giaceva sul divano con il volto nuovamente coperto dalle mani. Uscì dall’appartamento, sbattendo la porta con così tanta forza che risuonò in tutto il condominio. 

 
   
 
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