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Autore: VaVa_95    20/01/2015    2 recensioni
Le persone sono complicate. E tutti, ad un certo punto della loro vita, riescono a creare dei demoni che non riescono a domare, neanche per sbaglio.
Questo Matt lo sa bene.
E lo sa bene anche Liz.
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"- Sai, si dice che le storie portino demoni. -
Non aveva ben capito perché aveva detto proprio quella parola. Lui in fondo non la usava. Pensava che essi fossero semplicemente dei brutti pensieri, che prendevano forma solo quando la propria mente lo permetteva. Come diceva sempre a Matt, ogni persona aveva i propri demoni con cui fare i conti".
Genere: Generale, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Matthew Shadows, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota: i fatti riportati a seguire sono completamente immaginari. Scrivo per semplice diletto personale, e i personaggi di cui parlo non mi appartengono.

 

CAP. 1



 
“Do you ever cry for the ghost of days gone by?”
Alter Bridge – Ghost Of Days Gone By

 
“I wish that I could be in some other time and place
With someone else’s soul, someone else’s face”
Bon Jovi – Someday I’ll Be Saturday Night
 
 



Settembre 1999
Huntington Beach, California
 

 
Quella mattina si era posta una sola domanda: è possibile pensare a cose strane quando ci si lava i denti?
A lei succedeva spesso, fin troppo. Ma in fondo Liz lo sapeva che era sempre stata strana, era la prima ad ammetterlo e sicuramente non sarebbe stata l'ultima.
Davanti allo specchio del bagno, con la bocca piena di schiuma di dentifricio, lasciava che la sua mente viaggiasse senza alcun tipo di restrizione. Il punto era che quello che all'inizio era un pensiero normale diventava sempre qualcosa di macabro.
Guardò la sua figura allo specchio, mentre passava lo spazzolino sui denti. Era strano come il tempo passasse così in fretta, come tutto scorresse e non tornasse indietro. Nemmeno quel momento sarebbe tornato. Un momento così scontato che, però, se si scavava un po' più a fondo, non era in realtà scontato per niente, considerando il fatto che non si sarebbe più ripetuto. Come qualcosa che si dava per scontato ma che, inevitabilmente, un giorno c'era e il giorno dopo invece non c'era più.
E lei pensava che in quel modo potessero sparire solo gli oggetti.
Invece lo facevano anche le persone. E si era resa conto solo in quel momento, lì, davanti allo specchio, con i capelli scompigliati, senza trucco e con un pigiama più grande di tre taglie, di come in realtà fosse facile dimenticare.
La settimana prima era morta l'anziana signora sua vicina di casa. Viveva nell’appartamento al piano di sotto da sempre e ogni venerdì Liz andava a trovarla per prendere un tè, per farle compagnia. In fondo suo figlio viveva in Inghilterra: troppo lontano per venire nei fine settimana... troppo lontano anche solo per far visita una volta al mese. Altri ragazzi del vicinato facevano lo stesso alla signora Wilson, cosa che la rendeva davvero felice e, diceva sempre lei, la faceva rimanere giovane. C'era chi lo faceva perché era adorabile (anche se sapeva essere dannatamente prolissa e a volte anche un po' noiosa), altri invece perché era raro vedere una donna così anziana vivere in quella zona della città. I quartieri popolari non erano il posto ideale per una signora di quell’età, in fondo.
Ma era morta. Se n'era andata. E il figlio era venuto quella volta, giusto per organizzare i funerali, ricevere qualche messaggio di condoglianze qua e là e mettere in vendita la casa. Tutto in una settimana.
Bastava davvero una settimana allora, per dimenticare tutto quello che una persona aveva fatto nella vita? Aveva cominciato a pensarci quella mattina, appena i suoi occhi verdi si erano scontrati con lo specchio. Perché si era resa conto che alla signora Wilson, l'amabile vecchina con la quale condivideva i suoi venerdì, lei non ci aveva pensato per niente, in quella settimana. In quel momento invece le stavano tornando in mente tutte le cose che avrebbe voluto fare, o che avrebbe voluto dirle. Qualsiasi cosa, insomma. Come quando le aveva chiesto di accompagnarla a fare la spesa al supermercato e lei, non volendoci andare, aveva inventato una scusa su due piedi. La donna aveva sorriso e le aveva detto, con la sua voce rauca ma sempre gentile "sarà per la prossima volta". E ora lei pensava che avrebbe voluto accompagnarla. Che avrebbe potuto.
“Strano”, si ritrovò a pensare, sputando la pasta di dentifricio nel lavandino e prendendo il bicchiere accanto ad esso in modo da riempirlo d'acqua, “quando la gente muore, vengono in mente così tante cose che la testa potrebbe benissimo esplodere”.
E mentre si sciacquava la bocca, la ragazza pensava che probabilmente quella sarebbe stata una delle rare volte a cui avrebbe pensato alla signora Wilson. Perché la vita andava avanti e le persone, per quanto fossero simpatiche, dolci, amabili, spesso si dimenticavano. Si dimenticavano quando erano importanti, come era possibile non farlo quando con il suddetto individuo si condivideva solo il venerdì pomeriggio?
- Liz! Sei in ritardo! – la voce della madre la chiamò da una stanza non definita della casa, forse la cucina, cosa che la autorizzò ad uscire dal bagno in fretta e furia.
Aveva ragione, pensò, dopo aver dato un’occhiata all’orologio situato in camera sua, dove era appena entrata per prendere dei vestiti. Erano le otto e dieci, lo scuolabus sarebbe stato lì a momenti e non doveva perderlo per niente, altrimenti sarebbe dovuta andare a piedi. Ma accidenti a lei che aveva deciso di non fare la patente.
Prese le prime cose che le capitavano a tiro, si vestì, diede una pettinata ai capelli e uscì, prendendo al volo il mascara dal bagno. Trasandata sì, ma senza trucco mai.
Non si era nemmeno degnata di salutare la madre. L’aveva vista di sfuggita seduta sul divano di casa, intenta ad accendersi una sigaretta. L’avrebbe trovata nello stesso identico modo in cui l’aveva lasciata, ne era quasi sicura.
Liz poteva dire di non volere tante, tantissime cose. Ma, prima di tutto, lei non voleva quella vita.
Non voleva vivere nel quartiere popolare di una cittadina della California che persino Dio o chiunque altro essere superiore ci fosse lassù o laggiù o in ogni dove aveva dimenticato (non era mai stata particolarmente religiosa, ma pensava anche che non aveva fatto niente per meritarsi quella vita, di conseguenza qualcuno ad averla messa in quella situazione c’era).
Non voleva che la madre si ubriacasse così spesso e spendesse la maggior parte dei suoi guadagni in sigarette.
Non voleva lavorare il pomeriggio nel negozio di dischi del centro in modo da portare a casa almeno un po’ di soldi in più, in modo da potersi permettere qualcosina. In fondo ciò che la madre guadagnava come parrucchiera in proprio (e la clientela era vasta, considerando che i prezzi erano bassi e nel quartiere non ci si poteva permettere tanto) e come barista nel locale trasandato situato vicino alla stazione serviva per la spesa e per pagare le bollette. Si faceva quel che si poteva, diceva sempre lei.
Non voleva spendere la mattina a scuola, anche se teneva alla sua media scolastica e voleva diplomarsi a pieni voti. Voleva andare al college e sapeva che, se avesse mantenuto la media alta per tutto l’anno, avrebbe ottenuto la borsa di studio che le serviva, in modo da poter andare via di lì.
Non voleva tante, tantissime cose.
Forse non voleva nemmeno essere sé stessa. Voleva essere un’altra persona, voleva essere la classica ragazza normale, con una vita normale, con genitori normali.
Non voleva niente di tutto quello che le era capitato.
Ma, le diceva sempre la vicina di casa quando la sera tardi andava a portare giù la spazzatura, la vita sarebbe stata sempre uno schifo e spettava a noi trarne fuori qualcosa di bello, per cui valesse la pena continuare a stringere i denti e ad andare avanti.
Lei non l’aveva ancora trovato. Di conseguenza, doveva continuare a cercare.
Salì sullo scuolabus e occupò un posto in prima fila, vicino ad una ragazzina che doveva essere del primo anno che era terrorizzata. In fondo, la scuola superiore faceva quell’effetto. Si guardò intorno, non potendo fare a meno di notare che, come tutte le mattine di tutti gli anni, i suoi compagni di viaggio erano principalmente ragazzini del primo e del secondo anno. Chi aveva paura, chi era spontaneo e chiacchierava con tutti, chi cercava guai e lanciava sempre qualcosa sui vetri, contro altre persone. Nessuno la disturbava però, mai. In fondo, lei era dell’ultimo anno, e nessuno si metteva contro i ragazzi dell’ultimo anno.
Tirò fuori dalla borsa il libro di storia, cominciando a ripassare la lezione del giorno prima. La scuola era iniziata da due settimane e già aveva tanto da studiare, fin troppo. Doveva resistere, in fondo si trattava di pochi mesi, poi sarebbe stata libera.
Qualcuno lanciò un panino alla marmellata nella sua direzione, probabilmente con l’intento di beccare la poverina seduta vicino a lei. Entrambe scansarono l’oggetto, poi Liz si voltò di scatto, incenerendo con lo sguardo il piantagrane del secondo anno che faceva sempre casini sullo scuolabus. Il ragazzo deglutì rumorosamente e tornò a sedersi al suo posto, composto.
La ragazza tornò alla sua lettura: essere una senior non sarebbe stato poi così male.



 
--



 
Eleanor uscì in giardino, con la borsa che le fungeva da zaino a tracolla, scavalcò la staccionata che la separava dalla casa del suo vicino e, dopo essersi sistemata la maglietta, salì i tre gradini che portavano al portico della casa e bussò alla porta una, due, tre volte.
- Jimmy! – chiamò, come se il ragazzo potesse sentirla – dobbiamo andare! C’è scuola! -
Non ottenne risposta.
Ma accidenti a lui. Probabilmente era rientrato tardi la notte scorsa e a quell’ora stava dormendo come un ghiro nel garage di casa sua. Guardò l’orologio che aveva al polso: le otto e mezza. Se avesse saputo che l’amico si sarebbe fermato a bere, si sarebbe svegliata prima. Aveva promesso di accompagnarla a scuola e non voleva fare tardi, assolutamente. Era all’ultimo anno, che cavolo. E lo era anche lui.
A quell’ora in casa Sullivan non c’era nessuno. La sorella maggiore era al college, la minore sicuramente si era già incamminata e i genitori di Jimmy erano già usciti per andare al lavoro. Probabilmente non avevano nemmeno provato a svegliarlo.
Le venne un lampo di genio: il garage. Era quasi sempre aperto, in quanto c’era sempre un via e vai continuo da quel posto.
Arrivò alla porta di metallo bianca che avrebbe dovuto aprirsi in modo automatico quando la macchina sarebbe dovuta uscire. Bussò energicamente contro di essa, sperando che il rimbombo avrebbe svegliato il giovane.
- Ma che cazz… - sentì qualcuno strillare dall’interno, per poi vedere la porta aprirsi.
Il garage dei suoi vicini di casa era tutto fuorché un effettivo garage, si ritrovò a constatare la giovane. Era stato trasformato in una specie di sala prove, o in uno studio di musica, dipendeva dai punti di vista. Il pavimento era ricoperto da grandi tappeti, sul lato destro si trovava un vecchio divano e dei cuscini messi lì apposta in modo che si potesse stare comodi. Sopra di essi, attaccate alle pareti, c’erano numerose mensole di legno di noce, sulle quali c’erano numerosi cd, vinili e audiocassette, così tanti che lei ogni volta si chiedeva come esse non avessero ancora ceduto. Sul lato destro c’erano invece degli strumenti musicali. In fondo una batteria, mentre a percorrere tutto il muro c’erano delle chitarre e dei bassi situati su supporti di metallo. Nel centro, una tastiera e un asta che sorreggeva un microfono.
Adorava quel posto, senza ombra di tutto.
- Che c’è?! – le urlò contro il ragazzo che si trovava davanti, facendola ridacchiare.
Eleanor uno, Jimmy zero.
James Owen Sullivan era il suo vicino di casa da sempre. Le loro famiglie erano molto amiche e si riunivano volentieri in uscite o si divertivano a chiacchierare per ore intere ai brunch che venivano organizzati in quartiere. Ciò che veramente colpiva della famiglia Sullivan era l’unicità del figlio mezzano, l’unico maschio. Jimmy era alto, altissimo, più di un metro e ottanta (e la ragazza era sicura che non aveva ancora smesso di crescere), aveva la carnagione pallida nonostante la sua famiglia vivesse in California da generazioni e due profondi occhi azzurri, che nemmeno le lenti degli occhiali che non abbandonavano mai il suo viso riuscivano a coprire. La prima parola che veniva in mente pensando a quel ragazzo era solo una: ribelle. Jimmy viveva a modo suo, seguendo regole sue. Non gli importava di ciò che la società imponeva, lui era semplicemente sé stesso. In fondo, diceva sempre, lo avrebbero giudicato comunque, tanto valeva esserlo per ciò che veramente si era.
Eleanor era sicura che nessuno fosse in grado di giudicare una persona come lui: era meravigliosa, speciale, unica. Jimmy si poteva solo amare, senza ombra di dubbio.
- Avevi promesso di accompagnarmi a scuola – gli ricordò, alzando gli occhi al cielo.
Il ragazzo strabuzzò gli occhi, per poi passarsi una mano fra i capelli biondicci sparati in aria, in tutte le direzioni.
Se ne era dimenticato, come al solito.
- Perché, oggi è un giorno di scuola?! – domandò, sconcertato, per poi precipitarsi a prendere le chiavi della macchina. I suoi vestiti erano a posto, non ci aveva vomitato sopra e non sembrava soffrisse particolarmente dei postumi della sbronza. Per Jimmy bere birra era come bere acqua, in fondo. Erano altri alcolici il problema.
- Su, andiamo, se oggi non vado a scuola mi arriva il richiamo a casa. -
Eleanor alzò gli occhi al cielo, ma non disse niente. Anche quella mattina aveva il passaggio a scuola.



 
--
 



La Huntington Beach High School non era diversa da qualsiasi altra scuola superiore. Stessa stratificazione sociale, stesse ingiustizie, stesso livello di stress riportato dagli studenti. Quindi no, non c’era niente che non fosse nella norma, anche se lei non capiva bene come fossero tutte quelle cose considerate normalità.
Persino la struttura era normale. Le pareti esterne erano ricoperte di intonaco bianco che, con il tempo, era diventato di un grigio opaco, con qualche spaccatura qua e là che mostrava i grossi mattoni color rosso scuro. Sopra il portone principale c’era un enorme orologio che segnava l’ora e una campanella, che non suonava mai (probabilmente era lì per bellezza). Le finestre scorrevoli, l’enorme cortile e campi di gioco ovunque la rendevano la classica scuola superiore.
Come in tutte le scuole, bastava guardare il giardino o la disposizione dei tavoli in mensa per capire chi, lì dentro, contava qualcosa e chi no.
Ai lati del cortile, in una posizione piuttosto scomoda, c’erano i ragazzini del primo anno. Vicino agli alberi, un po’ più al centro, c’erano i ragazzi del secondo anno che, nonostante fossero un po’ più esperti di quelli del primo, si tenevano alla larga dalle cheerleader e dai giocatori di football e, neanche a dirlo, dai ragazzi dell’ultimo anno. Sui muri laterali invece, in una posizione quasi privilegiata, vi erano quelli del terzo anno e tutto il resto del cortile era occupato, ovviamente, dai famigerati ragazzi del quarto e ultimo anno.
Erano temuti, fin troppo, e questo dava loro ancor più potere.
Liz sapeva che sarebbe stato facile, per lei. Era l’ultimo anno, nessuno avrebbe provato a sfiorarla con un dito. A parte, s’intende, i ragazzi della sua età se veniva loro fatto un torto. Ma lei era una ragazza tranquilla che non faceva niente di simile. Stava sulle sue, non cercava guai, niente di niente.
Il fatto che la giovane venisse dal quartiere popolare la bloccava la maggior parte delle volte. Per quello non aveva amici, lì dentro. Non aveva voluto farseli. I ragazzi della sua zona spesso abbandonavano la scuola per andare a lavorare, o appartenevano alle gang di ragazzetti che andavano sempre a cercarsela e finivano nei casini con la polizia. La scuola non sembrava posto per loro. Ci andavano in pochi, e quei pochi si nascondevano, non si facevano notare, si buttavano a capofitto nello studio per vincere la borsa di studio che ogni anno veniva messa in palio. Era per soli cinque studenti, di conseguenza, se non si era particolarmente bravi negli sport, ci si doveva rimboccare le maniche e sperare per il meglio. La ragazza non capiva come le persone che avevano tutto volessero quella borsa di studio. Potevano rifiutarla, in fondo potevano permettersi il college. Quella era una città piccola dove tutti erano a conoscenza della situazione. Non era come nelle grandi città dove quei quartieri venivano bellamente ignorati, cancellati dalla memoria delle persone, che facevano finta che non esistessero. Lì era diverso.
Ma, come le aveva detto una volta la ragazza che viveva sotto di lei, tornata dal college per le vacanze estive, era paranoica. Forse lo era, ma forse no. Forse le persone che non aveva difficoltà davvero non riuscivano a mettersi nei panni altrui e capire.
Stava camminando lungo il corridoio dell’ala est della scuola, al secondo piano. C’erano le aule di inglese, musica, il laboratorio di scienze e di informatica, corsi che venivano frequentati dalla maggioranza degli studenti. Per quel motivo, il secondo piano era il più affollato. Odiava quel posto, specialmente il lunedì mattina, quando tutti si lamentavano per il weekend concluso.
Era solo l’inizio della terza settimana di scuola ed era già stufa. Come avrebbe fatto a sopravvivere per il resto dell’anno scolastico lei non lo sapeva.
Stava cercando l’aula del corso avanzato di inglese. Quell’anno non sapeva bene che cosa le stesse passando per la testa, dato che aveva deciso di superare sé stessa e di partecipare a tre corsi avanzati, due dei quali erano di discipline obbligatorie. Ma a lei non importava: la borsa di studio era lì e aveva bisogno di prenderla. C’era una grande confusione e non sapeva più da che parte voltarsi.
In quale modo, senza capire né come né perché, andò a sbattere contro qualcosa e perse l’equilibrio, cadendo a terra. Perfetto. La giornata cominciava bene. E la settimana nel migliore dei modi, come no.
- Jimmy, che hai combinato?! – una voce femminile piuttosto gentile le arrivò alle orecchie, notando poi la figura di una ragazza che si inginocchiava accanto a lei e le metteva una mano sulla spalla – stai bene? -
- Non l’avevo vista… ehi, tutto bene? Scusami, sul serio, sono fin troppo sbadato – si scusò l’altra persona, un ragazzo questa volta.
Quella voce la conosceva. Tutti la conoscevano, in realtà. Era stata travolta e buttata a terra da nientemeno che Jimmy Sullivan, un ripetente dell’ultimo anno che aveva già avuto occasione di ritrovarsi in qualche corso. All’inizio dell’anno aveva pensato che si fosse diplomato, sia lui che la sua combriccola, ma evidentemente non era così. E quel ragazzo aveva già avuto modo di disturbare più e più volte la quiete che regnava nelle classi. Avrebbe dovuto informarsi per il trimestre successivo: non avrebbe potuto reggere il comportamento del giovane per tre mesi (o addirittura sei, dato che c’era la possibilità di trovarselo anche nel terzo semestre), era fuori discussione.
La ragazza alzò lo sguardo su di lui, studiando il suo aspetto fisico. Era più alto di come se lo ricordava. Aveva una figura slanciata e una delle sue braccia lunghe e muscolose era tesa verso di lei, come ad offrirle aiuto per alzarsi. Aveva un viso ovale, leggermente allungato, la carnagione chiara e gli occhi azzurri, che gli conferivano un’espressione quasi angelica, insieme ai capelli biondi che però gli conferivano anche un aspetto disordinato. Era un bel ragazzo, dovette constatare.
La giovane che invece si era inginocchiata accanto a lei, come a controllare l’entità dei danni, doveva avere la sua età. Le era capitato di vederla in giro, in fondo una ragazza così era difficile da non notarsi. Eleanor Rigby, ecco come si chiamava. Già il nome le aveva conferito il soprannome di “Beatle girl”, anche se lei non riusciva a capire come dei genitori volessero così male alla propria figlia per darle come nome il titolo di una canzone che l’avrebbe accompagnata a vita. Certo, si trattava dei Beatles, ma…
In tutti quegli anni, la ragazza l’aveva sempre incuriosita. Forse per il suo carattere riservato. Stava spesso per conto proprio, non cercava mai guai, non si immischiava nelle faccende altrui. Sapeva che era dotata di un alto livello di realismo, cinismo e anche una punta di scetticismo, l’aveva notato in classe quando aveva un dibattito con uno o più professori. Le due avevano praticamente tutti i corsi in comune e la ragazza aveva una media altissima. Nel corso del tempo, l’aveva identificata come il nemico, in quanto se c’era qualcuno in quella scuola che poteva portarle via la tanto desiderata borsa di studio, quella era proprio lei. In più, Eleanor non era solo intelligente, era anche bella, una bellezza pura che Liz le invidiava tantissimo. Il corpo snello e atletico, il viso ovale, la pelle chiarissima, la bocca delicata che sembrava un petalo di rosa, gli enormi occhi da cerbiatta color nocciola e i lunghi e mossi capelli scuri che le che le arrivavano all’altezza del bacino… per i suoi standard, sfiorava la perfezione. Era anche vero che una persona come lei avrebbe considerato più attraente anche un sasso piuttosto che fare un commento positivo sulla sua figura, ma tant’è…
Eleanor la stava ancora fissando, come se stesse attendendo una risposta. Era preoccupata per lei, dato che l’impatto era stato piuttosto forte.
- Non… non importa, sto bene – disse, afferrando la mano che Jimmy le porgeva per tirarsi su.
- Sicura? Sei caduta come un birillo – esclamò il giovane, passandosi una mano fra i capelli e aggiustandosi gli occhiali da vista – posso farmi perdonare in qualche modo? -
- Non è necessario, davvero. È tutto okay. -
Liz doveva constatare che il ragazzo era stato davvero gentile. Era più che evidente che tutti gli aggettivi che usavano in giro per descriverlo non gli appartenevano.
- Sicura? Dai, fammi fare qualcosa. Qualsiasi cosa. -
Non capiva come mai insistesse così, in fondo non le aveva fatto nessun torto. Sembrava così dispiaciuto, però…
- Se ti invitassimo a pranzo? – domandò Eleanor, mentre gli occhi nocciola le si illuminavano – non sarebbe male, no? -
Jimmy si grattò il mento, pensieroso, poi sorrise.
- Giusto, il pranzo! Che ne dici? Sul serio, io e i miei amici non mangiamo nessuno, Ellie può testimoniare, altrimenti a quest’ora sarebbe già morta. -
L’amica alzò gli occhi al cielo, per poi bofonchiare un “non chiamarmi Ellie” e porgendo i libri che erano caduti nell’impatto a Liz, in attesa, di nuovo, di una risposta.
Era quasi sicura che i due sapessero che pranzava quasi sempre da sola. Altrimenti avrebbero invitato anche i suoi ipotetici amici al tavolo con loro. Oppure no.
“Paranoica”, disse la sua coscienza, e lo era per davvero.
Liz sembrò pensarci su: erano gentili, quei due, molto anche. Non conosceva i suoi amici, ma se quei due erano cordiali e disponibili, probabilmente lo sarebbero stati anche gli altri.
- Va bene – disse la giovane, sorridendo, mentre il suono della campanella si faceva strada nelle orecchie di tutti – beh, allora ci vediamo a pranzo? -
- Certo che sì, uhm… - il giovane fece un gesto allusivo con la mano.
Giusto. Lei conosceva loro per fama, ma loro non avevano la minima idea di chi fosse lei. In fondo era comprensibile, non era una che attirava troppo l’attenzione.
- Liz – si presentò, stringendo la mano ad entrambi.
- Lizzie! – disse prontamente Jimmy, mentre si allontanava – allora ci vediamo a pranzo. Ci conto! -
Lizzie. Odiava quel soprannome. Avrebbe fatto in modo di toglierglielo dalla testa, anche se la cosa sarebbe durata per tutto il pranzo.
 
 
Eleanor tirò fuori il libro di informatica dalla borsa. Era un corso facoltativo, ma le avevano detto che avrebbe dato crediti in più per il college, dato che non era una sportiva, non faceva parte di nessuna squadra femminile della scuola né era una cheerleader. Cose inutili, a detta sua, ma che davano crediti.
Crediti che lei non aveva. Di conseguenza aveva dovuto attrezzarsi.
- L’hai fatto apposta, vero? – domandò, appena Liz si fu allontanata.
Non aveva bisogno di conferma, lo sapeva che Jimmy le era andato addosso di sua spontanea volontà. Il corridoio era affollato e sì, lui era miope e senza occhiali non vedeva ad un palmo dal naso, ma era impossibile che non l’avesse vista passare.
No, l’aveva fatto apposta. Poco ma sicuro.
Lo conosceva da quando era nata, per lui era come un fratello maggiore. Meglio di lei, Jimmy lo conoscevano solo i suoi migliori amici.
- Chi? Io? Perché avrei dovuto? -
- Lo sai, il perché. -
Entrambi sapevano il perché. Quella ragazza faceva di tutto per non essere notata, e ci era riuscita per un determinato periodo di tempo, ma poi…
- E se anche fosse? – domandò Jimmy, mentre un sorriso sadico gli si dipingeva sul volto.
Eleanor alzò gli occhi al cielo.
- Ti caccerai nei guai. A Matt la cosa non piacerà. -
- No. Ma poi mi ringrazierà. I demoni si devono scacciare, non devono essere lasciati lì per farci marcire. -
Aveva ragione, senza dubbio, ma il ragazzo non ne sarebbe stato entusiasta. Anzi, tutto il contrario. Ed Eleanor era sicura che, per un po’, la presenza di Liz non l’avrebbe accettata.



 
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- Tu hai fatto cosa?! – domandò Matt, con voce strozzata, mentre gli amici cercavano in tutti i modi di non ridere.
Non avrebbero dovuto farlo, ne erano più che sicuri, ma quell’esclamazione al ragazzo era uscita con un tono tale che non avevano potuto fare a meno di ridacchiare, almeno un po’.
- L’ho travolta in corridoio, era il minimo che potessi fare! -
- L’ha fatto apposta. -
- Ellie, non è il momento di entrare nei dettagli. -
- L’hai fatto apposta? Tu l’hai… - il ragazzo cominciò a boccheggiare, cosa che fece ridere ancora di più gli amici – non ci posso credere. Jimmy, perché?! -
Le labbra del ragazzo si incresparono in un sorriso. Perché? avrebbe dovuto saperlo, il perché. Ma, dato che per la prima volta era stata posta quella domanda… fece scrocchiare le dita, come se si stesse preparando a torturarlo.
Si trovavano nella mensa dell’Huntington Beach High School. Eleanor aveva deciso di non seguire troppo la conversazione e di focalizzarsi di più sull’ingresso della mensa, dove da lì a poco sarebbe entrata Liz, che avrebbe pranzato con loro.
- Perché… -
- E non voglio nemmeno immaginare cosa farai dopo! Che vuoi, invitarla all’esibizione di sabato? O alle prove della band? -
- Ehi, questa è una buona idea! -
Eleanor alzò gli occhi al cielo. Matt non se ne era reso conto, ma aveva dato a Jimmy un’idea che lui avrebbe potuto definire splendida. E, poco ma sicuro, l’avrebbe attuata. Perché la band per lui, per loro, era tutto.
Già, la band. Gli Avenged Sevenfold. Il loro progetto che si stava per trasformare in qualcosa di concreto.
Matt e Jimmy, rispettivamente cantante e batterista della suddetta band, erano due persone completamente diverse, ma al contempo fin troppo simili. Era una contraddizione, era vero, ma chiunque non avrebbe fatto a meno di pensare a quello, dopo aver esaminato il loro carattere ed il loro rapporto.
Il cantante era una persona seria, concentrata, che si prefissava degli obiettivi e cercava sempre di raggiungerli. Faceva grandi progetti e, man mano che andava avanti, li modificava come meglio credeva. Spesso, ci si chiedeva come un ragazzo di neanche vent’anni si comportasse come se ne avesse già passati cinquanta, ma i suoi amici sapevano che aveva le sue buone ragioni per agire in quel modo. Non aveva una buona reputazione, anzi, per niente. Lo precedeva, tanto che prima di entrare alla scuola superiore lui era già noto in città come “il ragazzino che ha ucciso il preside”. Era una lunga storia, che comprendeva il campus della scuola intermedia, un incendio e un attacco di cuore venuto al preside della St. Marie, la scuola vicina, dal quale ovviamente al seguito degli avvenimenti era stato espulso. Aveva un animo indipendente e ribelle. Non gli piaceva seguire regole, ma recentemente stava imparando ad adeguarsi.
Jimmy era tutto il contrario. Il batterista era una persona allegra e spensierata, che sorrideva sempre e non si lamentava mai di nulla, non implicitamente perlomeno. Lasciava che fossero i testi che scriveva a dar voce ai suoi pensieri. In quel modo non solo si sfogava, ma creava una forma d’arte. Lui viveva alla giornata, era un sognatore dalle grandi vedute, tanto che spesso i suoi migliori amici dovevano tenerlo con i piedi per terra. Era una persona esuberante ed impulsiva. Come il suo compagno di vita, non era un amante delle regole, anzi, fosse stato per lui avrebbe cancellato quella parola dal vocabolario. Aveva sempre vissuto a modo suo, seguendo i suoi ideali, cercando di essere semplicemente sé stesso in ogni circostanza. Era dell’opinione che la gente lo avrebbe giudicato in ogni caso. Così riteneva giusto esserlo per ciò che veramente era e non per ciò che pretendeva di essere. La sua reputazione lo precedeva di chilometri. Nessuno, in città, pronunciava il cognome “Sullivan” senza un pizzico di timore nella voce. Nessuno.
- Jimmy, non ci prova… -
- Non roviniamoci la giornata per un invito a pranzo, per carità – esclamò Johnny, alzando gli occhi al cielo.
Lui era il bassista e anche il più piccolo dell’interno gruppo. Frequentava il terzo anno ma era sempre stato in una posizione privilegiata, in quanto era amico di persone più grandi e stava sempre con loro. Poteva anche essere il più piccolo, ma per molti versi era il più saggio… e l’unico che riusciva a sedare una rissa o un litigio sul nascere. Quando non era ubriaco, per lo meno. Era una persona allegra, gentile, ma soprattutto dolce. Sicuramente, se la band avesse avuto successo, il loro componente di punta sarebbe stato proprio lui, in quanto la sua spontaneità era importante per lo show business. Il ragazzo si limitava a dare una scrollata di spalle: voleva divertirsi con i suoi migliori amici, lui, tutto il resto era superfluo.
- Che poi, si tratta solo di un’ora passata a parlare principalmente di scuola. Non devi raccontarle la storia della tua vita. -
Brian, chitarra solista, era stato il più diretto e il più convincente di tutti, si ritrovò a constatare il cantante. In fondo, lui era così.
Il ragazzo era dannatamente realista ed il più esperto della compagnia. Era figlio d’arte (il padre era un chitarrista professionista), cosa che gli aveva permesso di avere delle buone basi su cui cominciare. Era sicuro che la band un giorno sarebbe arrivata in alto, anche se lì per lì dovevano ancora ottenere il contratto discografico e avere i fondi necessari per produrre un album. Possedeva una tecnica straordinaria e la sua bravura era già piuttosto nota in città.
Per quanto riguardava il carattere, però, tutti avrebbero potuto dire che il suo non era dei migliori: a parte il realismo, che in certi casi era un pregio, era una persona impulsiva, che spesso prima agiva e poi ragionava sulle conseguenze che avevano comportato le sue azioni. In più, aveva delle priorità ben precise: ciò che non era in grado di attirare il suo interesse era automaticamente considerato non importante. Senza dubbio, era un grande, grandissimo menefreghista. Questa sua particolarità sembrava renderlo una persona dannatamente superficiale, ma i suoi amici avrebbero giurato che non era assolutamente così. Al contrario, era una persona veramente profonda ed intelligente… quando voleva. E con chi voleva, soprattutto.
- Brian ha ragione. È solo per il pranzo. Che vuoi che sia? – domandò Zacky, dando manforte all’amico.
Il chitarrista ritmico era la persona più cinica e scettica che a quei ragazzi era mai capitato di incontrare, se ovviamente si escludeva Eleanor. Era una persona seria, con obiettivi ben precisi, un po’ come Matt. Era dotato di un realismo impressionante, diverso da quello dell’amico, che abbinato al suo alto livello di cinismo era in grado di sgretolare le convinzioni, le speranze e i sogni altrui. Se voleva, Zacky avrebbe potuto distruggere una persona con una parola. Ma era anche vero che era un vero e proprio bonaccione, che non si faceva mai troppi problemi. Lasciava che le cose gli scorressero addosso come acqua: let it be, dicevano i Beatles, ed era anche la sua filosofia. Certe cose dovevano semplicemente essere lasciate stare e si doveva attendere che facessero il loro corso.
Nel complesso, i cinque erano una bella combriccola. Il legame che li legava poi andava sotto la pelle, oltre il sangue. Era come se fossero legati da un invisibile filo che non si sarebbe mai spezzato. Sapevano che quel legame sarebbe durato per tutta la vita. Anzi, non l’avrebbe spezzato neanche la morte. Il loro rapporto era così spontaneo, così genuino, così…
- Oh, eccola lì – esclamò Eleanor, per poi salutare una ragazza che aveva fatto il suo ingresso in mensa.
- È lei? – domandò Phoebe, per poi dare una gomitata a Matt che si ritrovò ad alzare gli occhi al cielo.
Le sorelle Rigby erano una delle cose migliori e al contempo peggiori che erano capitate a quei cinque. Phoebe era al secondo anno, ma il forte legame con Eleanor l’aveva sempre portata a frequentare ragazzi più grandi. Come loro, per esempio. Le due si somigliavano molto, ma Phoebe era più impulsiva, più allegra, più spontanea. Non aveva peli sulla lingua, poi: quello che pensava, lo diceva, senza alcuna paura delle conseguenze. Anzi, si divertiva anche. Proprio per quel motivo, il cantante la stava pregando con lo sguardo di stare zitta.
Come la sorella, poteva essere tranquillamente scambiata per una bambola di porcellana, vista la delicatezza dei tratti facciali. Phoebe però aveva gli occhi azzurri come il padre, che venivano messi in risalto dai mossi capelli castani che le arrivavano alle spalle.
In generale, quelle due li tenevano tutti quanti con i piedi per terra, ma al contempo erano una preziosa fonte di consigli. La loro maturità era necessaria, altrimenti da soli non ce l’avrebbero fatta.
- Ehi – salutò la giovane, appena fu giunta al tavolo ed essersi seduta accanto ad Eleanor – scusate il ritardo, mi hanno trattenuta. Ho storia con la professoressa Stevenson. -
- Hai tutta la mia compassione – esclamò Phoebe, tendendole la mano e presentandosi.
- Ciao Lizzie! – strillò Jimmy, entusiasta, scompigliandole i capelli – sono contento che tu sia venuta. Colgo ancora l’occasione per scusarmi per questa mattina. Questi qui quasi non ci credevano. Possono testimoniarlo però, mi muovo come un elefante. E qui dentro sono un elefante in una cristalleria, quindi… -
La ragazza rise di gusto. Era inevitabile non farlo con una persona come Jimmy, così spontanea e solare.
- Loro sono i miei migliori amici, i miei fratelli. Brian, Johnny, Zacky e Matt. E Phoebe e Ellie hai già avuto occasione di conosc… -
- Chiamami Ellie ancora una volta e ti becchi un pugno sul naso – esclamò la diretta interessata, alzando gli occhi al cielo. -
- Ecco, già che ci siamo, evita di chiamarmi Lizzie. -
- Ma Liz è troppo impersonale – si lagnò il batterista.
- Ma è il mio nome. E va benissimo così. -
Jimmy mise il broncio, cosa che fece scoppiare a ridere gli amici, che nel mentre avevano avuto modo di osservare la ragazza.
Era bella, senza ombra di dubbio. Era alta poco meno di un metro e settanta, cosa che a Johnny aveva fatto dispiacere dato che era il più basso, aveva una corporatura esile ed elastica, ma era palese che non fosse per niente atletica. Sembrava avere tutte le forme e le curve al posto giusto, era perfettamente proporzionata. Aveva la carnagione leggermente ambrata, tipica del sud della California, i capelli invece, leggermente arruffati, erano tinti di rosso, un rosso scuro, che si avvicinava molto al tipico colore del vino. In un modo o nell’altro, essi mettevano ancora più in risalto i grandi occhi di un verde quasi magnetico, con sfaccettature dorate. Sembravano due fari, si potevano notare anche a metri di distanza. Sembravano gli occhi di un gatto e appena si posavano su qualcuno sembrava che entrassero dentro quel povero malcapitato in modo da scrutargli persino l’anima. Mettevano in soggezione, non poco.
Brian e Zacky si scambiarono uno sguardo d’intesa: ora capivano perché Matt avev…
- Vieni a prendere il pranzo con me? – domandò Eleanor, che a differenza degli altri aveva aspettato la ragazza per tutto il tempo – non voglio che arrivino i giocatori di football o quello che è e spazzolino via tutto. Dopo rimane solo quella pappetta terribile di avena. -
La ragazza annuì, per poi alzarsi insieme alla loro amica e avviarsi verso la caffetteria, dove due addette stavano servendo il pranzo.
Sembrava che si intendessero alla perfezione. Come se fossero sempre state destinate ad incontrarsi e a stringere amicizia.
E i componenti degli Avenged Sevefold non riuscivano a capire se fosse un bene o un male.
 


 
--



 
Liz aveva passato un’ora splendida, con quelle persone. Erano tutte gentili e disponibili, l’avevano accolta a braccia aperte nel loro gruppo e la stavano facendo sentire completamente a suo agio, anche se era più che palese che si conoscessero tutti quanti da una vita intera e che lei era come un pesce fuor d’acqua, lì in mezzo.
Si era fatta un’idea o due quasi su tutti, tranne che sul ragazzo che le era stato presentato come Matt, che aveva spiccicato sì e no due parole per tutto il pranzo ed era sempre rimasto sulle sue. Probabilmente era un tipo molto riservato.
- Allora, ci stai? -
Jimmy aveva cercato di invitarla all’esibizione della loro band per tutto il pranzo. Non voleva accettare un no come risposta, quello era sicuro.
Le aveva parlato della band, del genere che facevano, le aveva fatto i complimenti per la maglietta degli Iron Maiden che indossava, per poi spiegarle che cercavano uno stile come il loro anche se, per il momento, si stavano concentrando sul metalcore. Aveva indicato di nuovo gli amici e aveva detto che ruolo avevano nella band, per poi passare a parlare di canzoni, linee di basso, arrangiamenti vari. Lei non ci capiva molto di quelle cose, ma aveva ascoltato tutto con la massima attenzione, anche per non fare brutte figure.
- Dimmi una cosa: ho veramente una scelta? -
- Questa ragazza mi capisce! – strillò il batterista, entusiasta.
La giovane scoppiò a ridere.
- Va bene. Ci vengo. -
- Perfetto – esclamò Zacky, sorridendole e facendo muovere leggermente i due piercing che aveva ai lati del labbro inferiore – allora, dove abiti? Magari qualcuno di noi è lì vicino e può venire a prenderti. Il locale è a posto, ma non è poi così consigliabile andarci da soli. -
- Non credo. Vivo nella zona nord della città. -
- … zona nord? – ripeté Johnny, dopo un attimo di esitazione, come se non sapesse che cosa ci fosse lì.
- O il quartiere popolare, come lo volete chiamare. -
A Matt sembrò andare di traverso la bibita. Tossì rumorosamente mentre Brian, seduto vicino a lui, gli dava delle pacche sulla schiena, ridacchiando.
Phoebe lo fulminò con lo sguardo.
- È… diciamo che è il suo modo di dire che non sembra – provò a dire la ragazza, come a salvare la situazione.
Liz diede una scrollata di spalle, come a dire che non importava.
- Mi chiedo: se lui è il cantante, quando pensa di ritrovarla la lingua? -
Quella volta la bibita andò di traverso a Jimmy, che scoppiò a ridere. Sembrava non riuscisse più a smettere, tanto che dovettero dargli numerose pacche sulla spalla. Sembrava che stesse per soffocare.
- Lascialo stare, è fuori di testa, te ne renderai conto – esclamò Zacky, ridacchiando – comunque, posso venire io. Non vivo lontano da lì. -
La ragazza era leggermente sorpresa. Non l’aveva mai visto nella zona, e lì si conoscevano tutti. Non sembrava nemmeno una persona che vivesse in quel quartiere, a giudicare dai vestiti, dai modi di fare, dal carattere in generale. Ma poi si ritrovò a pensare che nemmeno lei dava l’impressione di vivere lì, quindi…
- Davvero? -
- Sì, in realtà vivo nel quartiere vicino, sai, le villette basse vicino al parco di periferia. Posso venire a prenderti io, non c’è nessun problema. -
Le sorrise, un sorriso sincero, cosa che le fece pensare che, almeno in quel gruppo, almeno quelle persone, non l’avrebbero mai giudicata basandosi sui pregiudizi che vigevano in quel luogo.
Ed era una fortuna.
Sorrise di rimando. Quelle persone le piacevano. E stava cominciando a sperare di stare intorno a loro ancora per un bel po’.








Note dell'autrice:
Strano ma vero, questa volta sono riuscita ad aggiornare presto.
O meglio: vista la strana curiosità che ha suscitato il prologo, e considerando che ho anche un attimo di respiro (la sessione invernale succhia via anche l'anima, davvero), ho deciso di pubblicare il primo capitolo di questa fanfiction che mi funge da piccolo esperimento per constatare quanto sono migliorata e quanto potrò migliorare ancora.
Quindi... che dire di questo capitolo? Sostanzialmente nulla, considerando che funge più da presentazione dei personaggi. La precisazione di inizio capitolo va tenuta presente sempre, quando leggete. Sul punto di vista degli Avenged Sevenfold nessuna novità: loro sono sempre loro, catapultati a scuola. Ovviamente avrete notato che ho inserito direttamente Johnny e Brian anche se siamo nel 1999. Questione di comodità, lo ammetto.
Tengo a precisare che negli Stati Uniti il liceo dura quattro anni, per questo ho affermato che loro sono ripetenti.
Poi... che altro dire? Ah sì: Eleanor Rigby... vi ricorda qualcuno? Già, il personaggio è stato ripreso da una mia long lasciata incompleta. Di fatto, questo personaggio aveva tanto da dare, e volevo usarlo ancora. Poi ci sono Phoebe e soprattutto Liz. La prima fungerà più da "mediatore", se vogliamo dirla in questo modo. Farà un po' smuovere le cose al momento opportuno (presto, molto presto, considerando che probabilmente verrà pubblicata solo la prima parte della storia, composta da dieci capitoli). Per quanto riguarda Liz...probabilmente avrete capito che è la protagonista e beh, questo dice un po' tutto. Il suo personaggio è stato plasmato grazie alla spendida Silvia, che ha deciso di aprire un po' la sua mente e di farmi conoscere il suo splendido alter-ego, che poi io mi sono divertita a "fare mio", in un certo senso.
Altra precisazione: la madre di Liz non è un'alcolista. Lo dico perché insomma, si sa mai, si può sempre fraintendere. Ma no, non lo è. 

Detto ciò, mi ritiro nel mio angolino buio.
Ringrazio di cuore tutti quelli che hanno recensito e hanno messo la storia fra le preferite. Siete dei tesori, davvero.
Se questo capitolo vi è piaciuto, o anche no (amo le critiche, lo dico sul serio), me lo fate sapere con un commentino? *occhi da cucciolo*
Okay, dopo questa ho davvero finito.

Al prossimo capitolo!
Kisses
Vava_95

P.S. se volete contattarmi anche fuori dal sito, su twitter sono @SayaEchelon95
  
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