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Autore: everlily    20/01/2015    19 recensioni
Damon ed Elena si conoscono quando sono solo adolescenti.
Non hanno niente in comune, se non i casini e la confusione che entrambi si portano dentro. E' un'amicizia improbabile la loro, in cui i confini si confondono, a volte sofferta, ma di cui nessuno dei due riesce a fare a meno.
Anni dopo, entrambi si sono costruiti una propria vita lontani l’uno dall’altra: ma l'inatteso ritorno di Damon a Mystic Falls può ancora mandare all’aria molti piani e finire per rimettere tutto in discussione.
Dalla storia. “Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no."
AU/AH
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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20.

The one that got away


- I never meant to get us in this deep
I never meant for this to mean a thing
Oh, I wish you were the one
Wish you were the one that got away -

(The One That Got Away, The Civil Wars)


Elena


Sono le 16:13 di un qualsiasi pomeriggio pigro, umido e pieno di sole della Virginia. A ricordarmelo è l'ora digitale sul cruscotto della mia auto, di un verde luminoso sbiadito dal riflesso del sole.

Sono passate esattamente otto ore e qualche minuto da quando ho lasciato San Francisco con il primo volo del mattino, circa diciassette invece dall'ultima volta che ho parlato con Damon.

La sua voce imbevuta di alcol, la mia di lacrime e rimorsi.

E la verità è che non c'era nessun volo imminente da prendere, ieri notte. Se solo lo avessi voluto, ci sarebbe stato tutto il tempo del mondo per tornare indietro e vedersi e chiarirsi. Ma non so a cosa sarebbe servito.

So però che se lo avessi fatto, se fossi tornata indietro anche solo per un momento, tutta la mia risoluzione si sarebbe vaporizzata nell'attimo stesso in cui avrei posato gli occhi su di lui. Avrei sentito prepotente come lo sento ancora adesso il bisogno di toccarlo, stringerlo, respirare il suo odore, e il fegato di andarmene non ce lo avrei avuto più, e saremmo solo finiti - oggi, domani, un altro giorno - a ferirci di nuovo.

E' quello che facciamo, sempre.

Lo so che non era giusto, viverla così, con il mio senso di colpa a rendere insopportabile stargli vicino - non importa quanto ancora più insopportabile sia l'idea di non farlo - e con il suo modo di sbattermelo in faccia.

Lo so che era la cosa più ragionevole da fare, chiuderla qui. Ed essere corretta nei confronti di Elijah, forse provare a sistemare le cose, come posso, per quanto posso - gli devo almeno questo.

Me lo sono ripetuto durante l'intera notte passata a non dormire sulle scomode sedie di metallo della lounge dell'aeroporto, una maglietta come cuscino e lacrime lente a bagnarmi le guance.

Me lo sono ripetuto durante le sette infinite ore di volo accanto ad una signora gentile e un po' impicciona pronta ad offrirmi kleenex e piccoli sorrisi compassionevoli. Nell'alternanza tra uno stato di esausta sonnolenza e il sopravvento feroce del pensiero di Damon ogni volta che ho chiuso gli occhi, di tutte quelle notti in cui era lento e intenso e nient'altro aveva importanza.

Me lo sono ripetuto davanti alla mia faccia pallida e sfinita sotto alla violenta luce bianca del bagno dell'aeroporto di Richmond, mentre ho gettato acqua fredda sugli occhi gonfi e arrossati e ho legato in alto i capelli, maledicendo un nuovo taglio sul quale inizio ad avere sentimenti contrastanti, perché mi sembra  adesso così disordinato ed impossibile da mettere a posto con la stessa facilità di quello vecchio.

Ho fatto la cosa giusta.

Ma qualcuno mi spieghi perché fare la cosa giusta debba fare così dannatamente male.

Così adesso sono ferma nella mia auto nello spazio 35B del parcheggio sotterraneo dell'aeroporto da più di venticinque minuti, incapace di costringermi a mettere in moto e tornare davvero a Mystic Falls, a mettere tutto a posto come mi sono prefissata di fare.

Mi strofino gli occhi, sempre umidi pure loro, e poi la mia mano colpisce con forza il bordo del volante, in uno scatto rabbioso e frustrato che non so neanche da dove sia uscito fuori. Poi un profondo respiro.

Quando alzo lo sguardo, è il cartello con le indicazioni stradali, Petersburg 25 miglia, a darmi l'idea.

Mezz'ora dopo, accosto l'auto al lato di una via residenziale costeggiata da verdi prati bassi e piccole case in mattoncini rossi tutte corredate da mini-portici nello stesso stile simil-coloniale. Quella di mio padre è dall'altro lato della strada, l'unica in legno bianco e vialetto di pietra.

Ma non lo trovo da solo. E' in compagnia della bella dottoressa della casa di fronte (quella in mattoni rossi, un giardino di rose, un piccolo cedro davanti al garage), intenti a chiacchierare all'ombra delle colonne del porticato, e non mi hanno visto, non ancora.

Accompagno la portiera facendo poco rumore. Rimango qualche istante a guardarli, incerta sul limitare del vialetto di ingresso. Quando entrambi ridono per qualcosa, sento un tale strattone dentro al petto, per ragioni che non saprei neanche spiegarmi, che quando il suo labrador Louis trotta scodinzolando nella mia direzione ed anche mio padre mi nota piacevolmente sorpreso, avverto di nuovo quella sensazione. Come se fossi sul punto di infrangermi in mille pezzi.

La sua espressione si fa più preoccupata, attraversa la distanza in pochi secondi, e io scuoto forte la testa mentre mi chiede se è successo qualcosa di grave, appena prima di farmi abbracciare e andare a seppellire la faccia nella sua spalla.

Mormoro solo, "Ho rovinato tutto."


Mio padre mi porge una tazza piena di acqua bollente che odora di erbe e effetti calmanti. La prendo con cautela e poi la tengo tra i palmi, perché anche se sono almeno 28 gradi, e lo spazio d'ombra del porticato è solo appena più fresco, ho le mani che ancora tremano un po' e questo mi aiuta a tenerle ferme.

Louis posa il muso sulla mia coscia, e il dondolo ondeggia leggermente.

"Da quando bevi tisane?" gli domando soffiandoci sopra.

Mio padre ride. "E' colpa di Jo, in realtà. Continua a insistere su quanto facciano bene, e ogni tanto non riesco a dirle di no."

Giusto, la bella dottoressa. Quello che sospetto essere l'ultimo pezzetto della vita che ha impiegato tutti gli ultimi tre anni per ricostruire - lontano dal Grill e lontano da Mystic Falls. Tra mesi di riabilitazione e un corso per diventare soccorritore medico, incontri settimanali dagli alcolisti anonimi, turni notturni, e un cane che porta il nome di un musicista. La sua decisione di cambiare città non è stata una che ho accettato fin da subito. Ma poi ho iniziato a vederlo. Il bisogno di ricominciare daccapo, di dedicarsi a qualcosa che potesse aiutare gli altri e aiutare lui a dare forse un po' di tregua ai suoi personalissimi sensi di colpa. E lo vedo adesso, più che mai.

"Dovresti chiederle di uscire. A Jo," dico. Lui alza un sopracciglio ed io mi sento sorridere. "Dico davvero. Ho visto come ti guarda."

Scuote la testa. "Lo sai che non è consigliabile iniziare qualsiasi relazione …"

" … durante i primi periodi da sobrio," finisco io per lui. "Lo so. Ma sono tre anni adesso, magari è tempo. Non hai davvero scuse. Chiedile di uscire."

Sembra pensarci. "E a te non dispiacerebbe?"

Scuoto la testa e provo a prendere un minuscolo sorso che però mi brucia subito la lingua.

"Va bene. Ti meriti di andare avanti. Ce lo meritiamo tutti." Lui rimane in silenzio, io torno a guardare dentro al vapore che sale dalla tazza, sento la gola ispessirsi appena. "Sai, una volta pensavo … che sarebbe diventato più facile, col tempo. Che avrebbe fatto meno male, che mi sarebbe mancata di meno. Ma mi sbagliavo." Mi esce fuori una breve risata, che di divertito non ha niente, e le parole escono fuori da sole, una dopo l'altra, prima che le lacrime che mi bruciano dal fondo del petto abbiano il tempo di soffocarle. "Beh, mi sbaglio sempre su così tante cose. A volte penso che non sbaglierei così tanto se lei fosse qui. Perché saprebbe dirmi cosa fare. Sapeva sempre cosa fare. Come ci riusciva, a saper fare tutto? Non ha mai neanche bruciato una torta in vita sua. Io non riesco neanche a fare un toast, finisco sempre per sbagliare anche quello. Io non so mai cosa fare."

La voce mi cede sul finire del mio sfogo che non so quanto abbia di sensato, e mio padre corruga appena la fronte. Anche Louis ha alzato il muso e mi guarda con interessati e simpatetici occhi marroni.

"Non era perfetta, lo sai vero?"

Sollevo titubante lo sguardo, mentre mio padre si siede accanto a me.

"Voglio dire, eccezionale, sì … Perfetta no. Si sbagliava un sacco di volte, anche se non voleva mai ammetterlo. Era piuttosto prepotente, se proprio vuoi saperlo. E davvero esasperante a volte, soprattutto quando si metteva in testa qualcosa," si fa sfuggire un piccolo sorriso, che però si trasforma rapidamente in qualcosa di più distante, più malinconico. Impiega qualche secondo, prima di continuare. "Avevamo litigato, quella mattina. Piuttosto male, per colpa … non lo ricordo neanche, qualche decisione sul locale. Le ho dato della stronza dispotica. Che è praticamente l'ultima cosa che le ho detto, prima che uscisse di casa. L'ultima cosa che le ho detto … e basta."

Una falciatrice ronza su un prato di qualche vicino, Louis viene distratto da una mosca, e il mio cuore riceve un colpo a cui decisamente non era preparato.

Non mi aveva mai detto cose del genere. Improvvisamente del tutto persa, non riesco a far altro che guardarlo smarrita, mentre sento cadere a pezzi anche quell'ultima, confortante, consapevolezza che c'era almeno stato un tempo in cui le cose erano semplici e belle, che erano possibili, e non solo un frutto della mia immaginazione.

"Io … pensavo che foste felici."

Mio padre mi restituisce uno sguardo altrettanto confuso, come se si stesse perdendo qualche collegamento fondamentale. Poi abbozza un sorriso.

"Lo eravamo," dice, in tono di fatto. "Molto. Pensi che essere felici sia qualche verità preconfezionata dove niente va mai male?"

Ingoio un'altra minaccia di lacrime. Scuoto appena la testa, giocherello con l'etichetta della bustina del the.

"Non … Non lo so," dico infine. Sospiro, con una nota amara. "Chiaramente, non lo so."

"Va tutto bene con Elijah?" mi domanda. "Hai detto che hai rovinato tutto."

"Io …" Mi fermo, mi schiarisco la voce. Non era ad Elijah che stavo pensando.

Penso di mentire, perché non saprei neanche da che parte iniziare per parlare con mio padre del gigantesco casino che è attualmente la mia vita, sentimentale e non. Ma non ce la faccio.

"No, non va bene. Ed è colpa mia. Vorrei solo fare ciò che è giusto, lo vorrei davvero, ma … non so cosa fare, non sono più sicura di niente." Faccio una pausa, sento che effetto fa avere le parole sulla lingua e nella testa, prima di dirle anche ad alta voce. "Neanche di sposarlo."

"Allora non farlo."

Alzo gli occhi su di lui, sorpresa dal fare calmo e pratico con cui lo ha detto. Lo fa sembrare così facile.

"Ma è tutto già programmato. Gli inviti sono stati mandati, e-"

"Al diavolo gli inviti."

Sento un minuscolo pezzetto di sorriso curvarmi le labbra verso l'alto, appena prima che un'altra fitta colpevole mi colpisca dritta in mezzo al petto. E il sorriso svanisce, davanti alla vera ragione che rende tutto questo così difficile.

"Lui mi ama, papà."

"Non è comunque abbastanza, se non è quello che vuoi."

Abbandono la testa all'indietro contro il legno del dondolo, che scricchiola appena nei secondi di silenzio che seguono. Mi sento lacerata. Esausta.

"Posso restare qui per stanotte?" gli chiedo, esitante. "Me ne vado domattina."

Si alza, posa una carezza e un bacio sulla mia testa. "Puoi restare quanto vuoi."


Non me ne vado al mattino dopo. O quello dopo ancora.

Restare da mio padre diventa una sorta di piccola e confortevole bolla cuscinetto nella quale non devo necessariamente gettarmi a capofitto in tutto ciò che mi rende tesa e non mi fa dormire la notte. Non devo tornare a Mystic Falls e inventare risposte su dove sono stata l'ultima settimana, non devo essere costantemente ricordata dei preparativi di un matrimonio del quale non so più cosa fare, non devo passare le mie giornate a prendere una serie continua di piccole decisioni per mandare avanti un locale affollato.

E' solo una deviazione, un modo per rimandare, lo so. Soprattutto nei momenti in cui tutto ciò che incombe dagli angoli della mia mente torna a far sentire la sua pressione.

Non è solo Elijah. La fitta agrodolce che mi lascia ognuno dei suoi "ti amo" alla fine di ogni messaggio, il modo in cui continuo a ricacciare indietro il pensiero di cosa farò o cosa proverò quando lo vedrò di nuovo, parole che non riesco a immaginare, e cosa è cambiato nel modo in cui una parte di me sa che ancora lo amo.

Non è solo Damon. Quanto facciano male tutti i pezzettini sparsi di tutto ciò che fino ad un paio di giorni fa mi aveva fatto sentire incredibilmente viva, e adesso invece in modo altrettanto spietato mi taglia dentro come tante piccole schegge di ciò che ne è rimasto; o quanto insonni siano diventate le notti senza il suo odore e il suo corpo vicino.

E' tutto ciò che giace irrequieto sul fondo del mio petto. E' l'indefinibile sensazione che forse in me c'è più di tutto questo - più di questa ragazza, più di due uomini e tutto ciò che sono per me, più di una piccola città di provincia che eppure amo in ogni suo piccolo angolo, più da vivere - qualsiasi cosa significhi.

Non so neanche quando è cominciata, o perché, ma è sempre lì. Mentre faccio lunghe passeggiate con Louis al Memorial Park, mi libero dei cibi preconfezionati nel frigo di mio padre, e per la prima volta nella mia vita mi metto in testa di affrontare la paura di non essere in grado di trasformare roba cruda in qualcosa di anche solo vagamente commestibile.

Non va sempre nel migliore dei modi, ma una mattina riesco addirittura a produrre un intero set di muffin che sono un pochino troppo bruniti sui bordi, ma che a parte quello hanno un sapore ottimo. Non riesco a trattenere un sorriso orgoglioso di me stessa, anche se poi nell'entusiasmo del momento mi dimentico il guanto da forno e mi brucio il palmo con il bordo della teglia.

"E quindi, fammi capire, ti sei stabilita da papà adesso?" chiede l'accenno di amaro sarcasmo nella voce di Jeremy dall'altro lato del telefono in bilico sulla mia spalla.

Soffio sopra il segno rosso e arrabbiato della bruciatura all'interno della mia mano destra.

"Perché non vieni anche tu?" dico. "Solo per un paio di giorni. Possiamo passare un po' di tempo insieme, solo noi tre."

Mi sembra quasi di vedere la smorfia sulla bocca di mio fratello. Non dovrebbe sorprendermi, dal momento che per Jeremy nostro padre è ancora un argomento sensibile. Sono anni che gli parla a malapena, intenzionato con tutta la rabbia dell'adolescenza a fargli pagare ogni colpa e mancanza passate. Io continuo a provarci lo stesso.

"Intendi come quando era troppo ubriaco anche solo per ricordarsi di noi?"

"Andiamo, Jer."

"Fammi sapere quando hai intenzione di tornare alla Città della Realtà."

Lascio uscire un sospiro e vorrei dirgli molto altro, ma vengo distratta dallo squillo del campanello. Louis dà un abbaio e corre verso la porta, e dato che mio padre è fuori per il suo turno di lavoro, saluto mio fratello e lo seguo nell'entrata.

Sto già per inventarmi le prime scuse che mi saltano alla mente per qualsiasi gruppo religioso stia girando per il quartiere, perciò sono completamente impreparata da ciò che mi trovo davanti quando apro la porta.

Potrò non essere ancora stata pronta a tornare alla Città della Realtà. Ma la cosa non ha fermato la Città della Realtà dal presentarsi alla mia porta.

I miei occhi si spalancano. Il mio cuore perde un battito. E tutto il resto di me rimane immobile, mentre il mio fidanzato compie un passo avanti e mi circonda il viso con le mani e sussurra sulle mie labbra, "Mi sei mancata così tanto."

***


"Jer, per favore. Stai fermo," dissi per la centesima volta, mentre mio fratello continuava a dimenarsi per sfuggire all'asciugamano bagnato con cui stavo cercando di pulirgli la faccia.

Lui serrò strette le labbra e si voltò verso la parete. Seduto sul tavolo della cucina, non smise né di dondolare le gambe nell'aria né tantomeno di ignorarmi, le guance ancora parzialmente ricoperte di fango e sangue.

Sospirai, poi gli intimai con voce più ferma. "Jeremy, mi sto arrabbiando."

"E allora? Non sei mamma."

Alle mie spalle, potevo sentire il disagio di Matt. Desiderai, almeno per un momento, che non fosse stato lì. Desiderai che non mi avesse accompagnato a prendere Jeremy ai suoi allenamenti, desiderai che non avesse dovuto assistere allo spettacolo di mio fratello che gridava e si dimenava nel terriccio polveroso insieme ad un altro ragazzo della squadra, entrambi intenti a cercare di prendere l'altro a pugni in faccia. Jeremy ci era riuscito, un colpo secco sopra il naso, appena prima che il coach e uno dei genitori arrivassero a separarli, mandandoli entrambi a casa con una sospensione di due settimane e il monito di ripresentarsi solo accompagnati da un adulto responsabile.

Ma Matt era lì quando tutto ciò era accaduto, ed era qui anche adesso che mio fratello non la smetteva di comportarsi da stronzetto insopportabile.

"Bene," concessi, posando il panno macchiato di quel poco di sangue e terra che ero riuscita a togliergli dalla faccia. "Vuoi dirmi allora cosa è successo con quel ragazzino?"

Scrollò con noncuranza le spalle. "L'ho spinto."

"Lo hai spinto?"

Con le unghie si mise a giocherellare con la cucitura laterale dei jeans, diede un'altra scrollata di spalle.

"Ha detto cose su papà. Mi sono incazzato."

Lo osservai in silenzio alcuni secondi. Non aveva ancora neanche undici anni, e faceva uno strano effetto sentirlo parlare così, con la voce che non era né più quella di un bambino, né ancora quella di un ragazzo.

"Jer, non puoi spingere le persone solo perché ti fanno arrabbiare."

Sollevò lo sguardo, si accigliò. "E perché no?"

"Perché è sbagliato," sentii Matt fare un passo avanti. Si abbassò appena posando le mani sulle ginocchia, quel tanto che bastava per essere alla stessa altezza di Jeremy. "Non è picchiando qualcuno che si risolvono i problemi."

Jeremy lo guardò inespressivo, si voltò verso di me. "Dov'è Damon?"

La domanda mi colse del tutto alla sprovvista. Così come il tono di accusa con cui lo chiese, così come la rapida e improvvisa stretta al petto che mi provocò.

"Cosa c'entra Dam-"

"Non mi avrebbe detto di comportarmi da fighetta. O trattato come un bambino," replicò asciutto, spingendomi fuori dai suoi piedi nello scendere dal tavolo. "Avrebbe capito."

Uscì dalla cucina in falcate veloci, lunghe e magre, lasciando solo l'eco della sua corsa su lungo le scale, che culminò con lo sbattere della porta della sua stanza.

Senza dire una parola, con le labbra premute strette, presi l'asciugamano che avevo lasciato sul tavolo ed iniziai a sciacquarlo sotto al getto dell'acqua, sentendo lo sguardo perplesso di Matt ancora fisso sulla mia schiena.

"Immagino di non piacergli," disse in tono leggero, cercando di scherzare.

"A Jeremy non piace nessuno," ribattei strizzando il tessuto.

"Gli piace Damon."

Non replicai. Anche Matt rimase in silenzio per alcuni secondi, lo scorrere dell'acqua tiepida sulle mie mani l'unico suono nella stanza. Poi lo sentii avvicinarsi, venirmi accanto.

"E a te …" Esitò un istante. "A te …  piace Damon?"

Mi immobilizzai. Sentii il cuore accelerare i battiti, e un calore che avrei voluto ignorare farsi velocemente strada su per il mio collo e le mie guance. Chiusi l'acqua, misi il panno ad asciugare. Non ce la feci a guardarlo in faccia.

"Sì, certo. E' mio amico," risposi, anche se suonò strano e imbarazzato alle mie stesse orecchie.

Lo era davvero? Lo era ancora? Ultimamente le cose tra noi erano state così diverse, così confuse. E volevo così disperatamente che potessero tornare a come erano prima, a quando dire "è mio amico" non si portava dietro nessun'altra domanda, a quando aveva un significato molto più definito rispetto ad adesso. Ma non avevo idea di come fare.

Ci avevo provato, qualche sera prima, in un momento in cui non ero riuscita a sopportare quella situazione un solo secondo di più, ma avevo finito solo per lasciare il negozio di Rose con la disorientante sensazione di non sapere più il modo in cui mi faceva sentire, essere vicino a lui. Sempre tesa e sempre in bilico, sempre con la paura di fare un passo troppo vicino o uno troppo lontano. Solo che mille volte peggiore era il modo in cui mi faceva sentire essere distanti. Lo sentivo addosso, il modo in cui mi mancava.

"Lo so, volevo dire … è solo questo?"

Il mio stomaco sprofondò, non appena quella domanda mi riportò ancora una volta alla sensazione delle labbra di Damon sulla pelle, di brividi lungo la spina dorsale e di una fitta colpevole mentre mi affrettavo a stroncare quel pensiero. Mi costrinsi a voltarmi verso di lui.

Matt mi stava guardando ansioso, con una tale incertezza sul volto, nella postura, nella voce, da farmi domandare da quanto si sentisse in questo modo senza avere il coraggio di chiederlo ad alta voce. Mi fece improvvisamente sentire malissimo, e tremendamente in colpa, per nessun motivo che riuscissi a spiegarmi. Non c'era mai davvero stato niente, tra me e Damon.

"Ma certo," dissi, forzando un sorriso. "Cosa ti fa pensare che …."

"Niente," rispose scuotendo la testa. Ricambiò il mio sorriso. "Niente, naturalmente. Solo … domanda stupida."

Mi sporsi sulle punte e lo baciai, prima che pensasse di fare altre domande stupide come quella. Mi baciò di rimando stringendomi le braccia attorno ai fianchi. Dolce e avvolgente e come sempre il mio Matt. Ma se lo sapeva, se lo sapeva che amavo lui, perché doveva metterlo in dubbio così? Non avrebbe dovuto. E non avrei dovuto neanche io.

"Voglio fare sesso," dissi, quando si separò da me.

Matt mi guardò confuso con le labbra ancora parzialmente socchiuse. "Tipo …  adesso?"

"No," dissi imbarazzata, facendo un passo indietro. "Non adesso. Cioè, c'è Jeremy di sopra e io probabilmente dovrei tornare al Grill e …"

"No, sì, ovvio," annuì subito, passandosi una mano sul collo. Era rosso pure quello.

"Voglio dire, presto," esalai, in un respiro nervoso. "Appena abbiamo l'occasione."

Sorrise, mi prese il volto tra le mani. "Quando vuoi. Ti amo, Elena."


"Farò sesso con Matt."

Jenna si rizzò con un tale scatto sorpreso da sbattere la testa contro lo scaffale della dispensa, mormorò un'imprecazione tra i denti e tutti i barattoli di salsa di pomodoro caddero dalle sue mani rotolando sul pavimento. Si voltò a guardarmi con gli occhi spalancati. Io mi piegai per raccoglierli e passarglieli di nuovo.

Avevo passato ore a parlarne con Bonnie e Caroline, ma nessuna delle due era stata davvero di aiuto sulla questione. Insomma, Bonnie era stata solo una profusione di ansiogeni "sei sicura?", e Caroline non aveva fatto che parlare di tutta la biancheria sexy di cui avrei assolutamente avuto bisogno, continuando a mettermi davanti pubblicità di modelle con un sacco di pizzi e un sacco di tette. Così avevo pensato che forse per rispondere a quella domanda ci voleva qualcuno con più esperienza, e Jenna era la cosa più vicina a ciò che potesse venirmi in mente, anche se la sua faccia smarrita per un attimo me ne fece seriamente dubitare.

"Tranquilla, Jenna," la rassicurai, "Volevo solo-"

"Oh dio. Questo è uno di quei momenti in cui dovrei comportarmi come un'adulta responsabile che ti dice di non farlo e non come una ventiduenne che si ubriaca di tequila tutti i venerdì sera, vero? Merda. Questo non avrei dovuto dirlo. E' che parlo troppo quando mi sento sotto pressione. Non ubriacarti di tequila, Elena, pessime decisioni vengono fuori dalla tequila," disse seria. "E non fare sesso." Increspò le sopracciglia. "Come sto andando?"

"Alla grande," risposi con un sorriso di incoraggiamento.

Non mi credette neanche lei, perché sospirò nel pulirsi le mani sul grembiule e alzarsi in piedi.

"Devo … " si guardò attorno incerta, "… farti il discorso? Lo sai, su come funziona, o …"

"No, no no," la bloccai prima che andasse di nuovo in crisi. "So … tutto ciò che c'è da sapere."

Jenna rilasciò un visibile sospiro di sollievo. "Bene. Perché sarei terribile a fare il discorso. Mia madre me lo ha fatto quando avevo dodici anni, e lo ricordo ancora come uno spaventoso racconto di lattice e irritazioni cutanee che mi ha traumatizzato almeno fino ai diciotto anni." Ci pensò su. "Forse lo scopo era proprio quello."

Scossi la testa. "No, stavo solo pensando che …" presi un profondo respiro, intrecciai tesa le dita tra loro, "… Matt è meraviglioso. E' così dolce e gentile. E mi ama. Ed io amo lui, naturalmente. E, beh, è un bel po' ormai che stiamo insieme. Quindi va bene, giusto? Direi che è ora, e che va bene, no?"

"Certo, tesoro," sorrise rassicurante. "Se senti che è il momento giusto."

Corrugai la fronte, la guardai da sotto in su. "Ok, ma … come faccio a saperlo per certo, quale è il momento giusto?"

Non sarebbe dovuta andare così. Avrebbe dovuto confermarmi che quando certe giuste condizioni sono soddisfatte, come in questo caso, sono sufficienti quelle per saperlo. Invece, Jenna mi rivolse un altro piccolo sorriso, e mi lasciò esattamente allo stesso punto di prima.

"Non credo ci sia una formula, sai? In certi casi, lo sai e basta."


***


Elijah, inginocchiato in equilibrio sui talloni, gratta piano dietro le orecchie di Louis, che sbatte la coda sul pavimento della cucina. Tutta la mia attenzione è invece concentrata sulla semplice operazione di preparare del caffè - metti il filtro, metti la polvere - e su quella parecchio più complessa di tenere sotto controllo il crescente nervosismo che mi agita dentro - chiudi lo scomparto, accendi il pulsante, respira. Il profumo dolciastro dei muffin mi riempie le narici.

"Li hai davvero fatti tu?" mi ha chiesto sorpreso Elijah poco dopo aver messo piede dentro casa, commento che io ho subito colto come la giusta scusa per scivolare via dalle sue braccia e andare a mostrarglieli, con un sorriso brioso talmente forzato da essere sicura che si sarebbe infranto in una brusca e impulsiva confessione ancora prima di aver raggiunto la cucina.

Non è successo. E' andata ancora peggio.

E' da quando ho aperto quella porta che non faccio altro che mettere su extra sorrisi ed extra allegria in ogni cosa che faccio, o dico.

Una farsa fragile che continua a peggiorare. Un "Non sapevo che fossi tornato!" più acuto del normale prima che mi racconti di aver sistemato le cose con qualche giorno di anticipo e di non poter più aspettare di tornare da me; un altro leggero e casuale "Oh, sì, l'ho tolto per cucinare" con cui anticipo ogni possibile domanda quando il suo sguardo è scivolato sull'anello mancante al mio anulare; la mia mente che continua freneticamente a ripercorrere ogni singola comunicazione che abbiamo scambiato negli ultimi giorni - sempre brevi, disconnesse dalla differenza di orario, menzogne su menzogne - per cercare di capire se mi sono lasciata sfuggire un dettaglio, o una qualsiasi cosa fuori posto, nella versione che gli ho venduto mentre passavo le notti tra le braccia di un altro uomo.

Non so cosa mi sia preso, non riesco a fermarmi. Mi detesto per questo, per quest'altra finta me stessa che ha preso completamente il sopravvento. Ma non riesco a fermarmi.

Con la coda dell'occhio, vedo adesso Elijah avvicinarsi a me. Posa le mani sulla mia vita, sull'orlo del mio top, e un bacio gentile nell'incavo del mio collo.

"Lo intendo davvero quando dico che mi sei mancata," mormora piano contro la mia spalla. Chiudo gli occhi mentre mi bacia ancora, fino alla spallina, il mio respiro si fa più corto. Mi accarezza i fianchi, la sua voce è roca contro il mio orecchio. "Dio, Elena, non hai idea di quanto."

Con uno scatto mi sposto di lato, via dalle sue labbra sulla mia pelle, via da tutto ciò che sa di vergogna e bugie.

Lui corruga appena la fronte. "Cosa c'è?"

"Cosa? Niente," si affretta a dire l'altra me stessa sempre più allegra e sempre più acuta. Devo dirglielo. Scosto una ciocca di capelli, il mio cuore batte più rapido. "E' solo che … Lo sai, è casa di mio padre, sarebbe a dir poco strano mettersi a … lo sai."

Elijah sorride e si appoggia contro il bancone. E' bello in questo momento. Con la stanchezza sotto agli occhi, le pieghe nella camicia e un po' di disordine tra i capelli, che il viaggio gli ha lasciato. Mi ritrovo a pensare che mi piace molto di più in questa versione, e subito dopo mi pento di averlo pensato, non so neanche per correttezza nei confronti di chi.

Il caffè è pronto, ed Elijah spegne la macchinetta e lo versa nelle due tazze già pronte sul bancone.

Me ne porge una. "Mi piace ciò che hai fatto ai capelli."

"Grazie," farfuglio. Un respiro profondo. "Elijah, dobbiamo parl …"

"Sai, volevo parlarti di una …"

Mi blocco quando mi rendo conto che stiamo parlando nello stesso momento. Lui abbozza un altro sorriso. Lo faccio anche io, ma il mio viene fuori molto più innaturale. Mi schiarisco la voce.

"Comincia tu," dico.

Posa il suo caffè, si avvicina e mi invita a posare anche il mio. Poi prende le mie mani tra le sue, le accarezza piano, e la mia agitazione cresce in ogni fibra e terminazione nervosa dove il suo tocco è caldo e familiare ed estraneo tutto di un colpo. Guarda in su verso di me, con quello sguardo scuro e intenso che è stato forse la prima cosa che ho amato di lui. Non posso dirglielo.

"Sai, ho pensato molto nelle ultime settimane. A te, a noi," inizia incerto. "Credo di averlo sentito che forse qualcosa non andava, ma ho continuato a ripetermi che tutto sarebbe andato a posto una volta cominciata la nostra vita insieme, finendo forse per perdere di vista ciò che era davvero importante. E per questo mi dispiace."

La sincera devozione che traspare dalla sua voce mi punge il cuore con particolare violenza.

"Elijah …"

"Fammi finire, per favore. Il punto è … che tu sei importante, Elena. L'unica cosa che per me conta davvero. Vederti felice, farti felice. E lo so che l'idea di cambiare città e lasciare il tuo locale ti ha dato così tanti pensieri, e che chiaramente non è ciò che vuoi, perciò … Non devi farlo. Mi trasferirò a Mystic Falls. Dovrò solo sistemare un po' le cose con il lavoro, ma lo faremo funzionare, prometto. Non mi importa dove viviamo. Basta che sia con te."

Elijah mi guarda, in attesa. Io sento le lacrime salirmi dietro agli occhi. Ma la mia gola è asciutta e graffiata, e nessuna parola, neanche il minimo suono, riesce a risalire e uscirne fuori.

Sobbalzo letteralmente quando il campanello suona e Louis ricomincia ad abbaiare.

Mi defilo mormorando un flebile "scusami" per precipitarmi verso la porta - respira, devo dirglielo, non posso dirglielo, nel breve tragitto dalla cucina all'ingresso.

Impiego qualche secondo confuso prima di realizzare che mi sono appena trovata davanti Caroline e Bonnie, in sorrisi abbinati, che mi fanno "ciao" con la mano in piedi sulla soglia. Istintivamente, la prima cosa che faccio è voltarmi nervosamente indietro verso la cucina, dove Elijah sta ancora sorseggiando il suo caffè. A proposito di diverse versioni ad un passo dall'entrare in catastrofica collisione l'una con l'altra.

Faccio un passo in avanti e socchiudo la porta alle mie spalle.

"Cosa diavolo ci fate qui?" sibilo a bassa voce.

I loro sorrisi abbinati si sfaldano, facendomi sentire uno schifo.

"Cosa diav …" comincia a ripetere Caroline, incrociando offesa le braccia sul petto. "Cosa diavolo ci fai tu qui! Sono giorni che cerco di chiamarti, e poi trovo tuo fratello e mi dice che siete tornati e tu non ci hai fatto sapere niente?!"

Dio, ha ragione. La lunga sequenza di messaggi vocali che mi ha lasciato giace ancora ascoltata ma non corrisposta sotto all'ammasso del mio senso di colpa ("Elena, mi richiami per favore? Ci sono un paio di dettagli di cui ti devo parlare. Per esempio, ti piacciono le peonie?"; "Farò un po' di assaggi di menu nei prossimi giorni, avete delle preferenze? Altrimenti scelgo io, ok? Ok."; "Oh, quasi dimenticavo. Martedì ci sono da ritirare le fedi in gioielleria. Vuoi che me ne occupi io?"; "Seriamente, lo devo sapere. Vanno bene le peonie?"), che torna immediatamente a pizzicarmi contro il fianco.

"Lo so, mi dispiace, è solo che …"

"E invece ti nascondi a casa di tuo padre?" prosegue.

"Non mi sto nascondendo, io …"

"Cosa succede?" domanda quindi Bonnie piegando la testa di lato per cercare di sbirciare all'interno.

"Niente. Niente, è solo che Elijah è qui ed eravamo nel mezzo di una disc-"

"Oh, è qui?" cinguetta Caroline, spingendo in avanti il portone socchiuso alle mie spalle e entrando prima che io abbia il tempo di replicare. "Grandioso! Ho così tante cose di cui parlare con voi due sposini!"


Non so cosa sia peggio. Se essere silenziosamente terrorizzata all'idea che uno dei due tra Elijah e Caroline si lasci sfuggire qualcosa che mandi all'aria le due diverse versioni che ho raccontato loro riguardo alla mia ultima settimana (pessima bugiarda, direbbe Damon con il suo sorriso storto, mezzo provocatorio mezzo compiaciuto, e odio che finisco per pensare a lui anche in questo momento) e continuare a pregare che la loro conversazione continui a concentrarsi su ogni più piccolo stupido dettaglio del matrimonio e nient'altro; oppure doverli ascoltare mentre passano in rassegna ogni più piccolo stupido dettaglio della cerimonia e sentire l'aria ridursi e farsi più soffocante ad ogni secondo che passa. Respira.

"Oh, i servizi di catering sono i peggiori!" sta adesso dicendo Caroline. "Sai quanti ne ho testati? E non uno, dico uno, che andasse bene. Voglio dire, quanto mai sarà difficile fare dei ravioli ripieni all'aragosta con crema di salsa allo zafferano come si deve? Ci riuscirebbe anche un bambino."

Elijah ride e mi rivolge un sorriso complice al di là della spalla di Caroline, che gli sta adesso mostrando tutte le diverse opzioni per i menu. Mi costringo a sorridere di rimando, poi mi scuso e velocemente mi alzo dalla sedia per uscire e andare sul portico. Respira.

Bonnie sta sorseggiando del the freddo seduta sul dondolo, che fa ondeggiare leggermente.

"Ehi," mi sorride. "Scusa se non sono rimasta. Ma ho dovuto ascoltare le stesse cose per giorni, conosco ogni dettaglio a memoria ormai."

"Tranquilla, lo capisco," dico mentre mi siedo accanto a lei. "Care ha davvero preso la cosa dei preparativi molto sul serio, non è vero?"

"Puoi scommetterci. Roba da far impallidire wedding planners professionisti."

Sento un vago colpevole malessere tornare a chiudermi la bocca dello stomaco, ma Bonnie continua sovrappensiero.

"Tipo, ti ricordi quando in seconda elementare ci diedero quel progetto artistico di costruire casette con i bastoncini del gelato e lei se ne uscì con una villa a tre piani che è ancora esibita lì nella teca della scuola? Questa è la versione matrimonio di quella villa."

Corrugo la fronte. In un attimo, vengo sopraffatta dal ricordo del comportamento strano di Caroline quella stessa mattina prima che partissi San Francisco, una stranezza che troppo presa da altro non mi sono più soffermata a considerare fino a questo momento.

"Bonnie …" dico, cercando improvvisamente preoccupata lo sguardo della mia amica. "Quello è stato quando i suoi genitori stavano divorziando."

Il momento in cui i nostri occhi si incrociano, so che stiamo pensando esattamente la stessa cosa. Qualcosa non va con Caroline.

Il portone si apre, lasciando uscire Elijah e Caroline. Mi alzo subito in piedi, mentre Elijah si avvicina.

"Avremmo dovuto assumerla prima. Avremmo risparmiato moltissimo tempo e moltissimi soldi," mi dice piano con lo stesso sorriso complice che mi fa male dentro. Poi, rivolto a tutte, "Beh, lascio voi ragazze alle vostre cose. A presto."

Non appena Elijah se ne va, lasciandomi un bacio veloce e la promessa di chiamarmi più tardi - respira - Caroline mi prende decisa per un gomito.

"Avanti, andiamo."

"Andiamo dove?" domando disorientata, divincolandomi.

"Abbiamo un appuntamento alle tre," mi fa sapere controllando velocemente il suo orologio. "E' per questo che siamo venute a prenderti. Dai, che siamo già un po' in ritardo sui tempi."

Mi fa cenno con la testa di seguirla, fissandomi impaziente. Rimango qualche secondo immobile, indecisa se sia più imprudente seguirla senza fare domande, oppure contraddirla e cercare di tirarmene fuori. Mi scambio uno sguardo con Bonnie. Forse la seconda.

Anche se chissà perché ho la vaga sensazione che me ne pentirò. Soprattutto quando, mentre chiudo a chiave il portone, Caroline si volta per gettarmi un'occhiata scettica.

"Hai cambiato i capelli? Oh beh. Adesso dovremmo iniziare a ripensare pure alle acconciature."


***


"Oh mio dio …" mormora Caroline, portandosi entrambe le mani sulle labbra. "Sei bellissima."

Le getto un rapido sguardo. Sotto alle luci piazzate strategicamente agli angoli della piccola boutique, vedo i suoi occhi luccicare di lacrime, un solo attimo prima che distolga lo sguardo. Bonnie sorride, accanto a lei.

Invece di commuovermi, un gusto amaro mi riempie lo stomaco. Deglutisco per scacciarlo, ma l'unico effetto che ottengo è accentuarlo ancora di più, quando infine prendo un respiro e mi volto verso lo specchio. L'immagine di una me stessa fasciata di bianco e seta che mi restituisce mi sembra più sconosciuta che mai.

Eravamo già a metà strada, quando Caroline si era casualmente degnata di informarmi che Pearl's Boutique ci stava aspettando per la mia prova vestito. La bocca mi si era seccata di colpo, ma il mio gracchiante "Non so se …" era stato rapidamente messo a tacere.

"Stiamo parlando di Pearl's Boutique, Elena! Hanno prenotazioni con mesi di anticipo, in tutte e tre i loro negozi, e io sono riuscita a trovarti un posto in quello più vicino. Hai idea di cosa ci voglia per trovare posto da Pearl? Ci vuole Caroline Forbes per trovare posto da Pearl. Per fortuna che tu ne hai una."

Per fortuna che ce l'ho.

Un altro profondo, lungo respiro, mentre passo le mani sul corpetto ricamato attorno al mio busto (chiudo gli occhi e sono le mani di Damon a correre sulla pelle nuda lungo lo stesso percorso, solo un attimo, svanito appena li riapro) e sento tutto sotto ai polpastrelli, i delicati intrecci del ricamo, il mio battito improvvisamente più accelerato del normale. Lo ignoro, mi concentro sul compito di respirare regolarmente.

Mi volto appena per controllare l'allacciatura sul retro composta da una fila di piccoli bottoncini madreperlati che sento tirarmi sulla schiena. Insicura, domando, "Non è un po' stretto?"

Pearl mi si avvicina, mi osserva attentamente da ogni angolazione con uno sguardo affinato da anni di esperienza, tocca il vestito in alcuni punti con movimenti esperti e misurati.

"E' perfetto," risponde alla fine del suo esame. "Sembra glielo abbiano cucito addosso."

L'ennesimo respiro più profondo degli altri mi riempie i polmoni, il mio seno ingabbiato in uno spazio troppo limitato si contrae in protesta sotto alla stoffa semirigida.

Più decisa, ripeto, "E’ troppo stretto."

Pearl mi mette le mani sui fianchi, controlla di nuovo la chiusura e scuote la testa.

"E' leggermente lento qui sul fianco," prende un centimetro di stoffa tra due dita, lo tira con delicatezza. "Ma possiamo senza dubbio adattarlo e restringerlo app-"

"Vi dico che è stretto," la fermo, facendole alzare sorpresa la testa per la nota acuta che mi attraversa la voce. "Non riesco a …" respirare, ma la parola mi muore in gola, perché il mio battito sta prendendo una velocità impazzita, l'aria non circola come dovrebbe, piccole macchie nere mi riempiono la testa. "Può slacciarmelo, per favore?"

Pearl sta adesso osservando confusa le mie amiche, che ricambiano il suo sguardo disorientato, ma nessuna si decide a fare niente, e invece di ascoltarmi perdono tempo stando lì a guardarsi, e io ho la precisa, chiara, terrificante sensazione che morirò asfissiata nel giro di tre secondi.

Allungo le mani all’indietro ed inizio a trafficare freneticamente con i bottoni, ma le dita mi tremano, non riescono ad aprirne mezzo, le macchie nere si moltiplicano, e il panico esplode annebbiandomi la vista.

"Non riesco a respirare, per favore, toglietemelo!"

Un paio di mani corrono veloci verso i piccoli bottoni madreperlati, li aprono in fretta ad uno ad uno, mentre la mia testa si fa via via più leggera e il mio fiato più affannoso, finché non sento cedere anche l'ultimo bottone ed io cedo con lui, crollando in ginocchio in una nuvola di seta e taffettà.

Chiudo gli occhi, con la stoffa liscia e scivolosa sotto ai miei palmi e il corpetto che pende lento e aperto dalle mie spalle. Sento il respiro che cerca di tornare normale, sento il sale in bocca e sento ancora il sapore residuo di quelle macchie scure e di quella sensazione - istintiva, orribile, irrazionale - di essere sul punto di morire da un secondo all'altro.

Mi riscuoto quando sento una mano posarsi sulla mia spalla.

"Elena," mormora Bonnie.

Sollevo la testa e apro gli occhi, trovandola nello specchio inginocchiata accanto a me. Caroline è in piedi alle sue spalle, lo sguardo spalancato e in apprensione.

"Sono stata a letto con Damon," dico in un soffio. La voce mi si incrina quando arrivo a pronunciare il suo nome. "Ero con lui. Tutto questo tempo … Non c'era nessuna Berkeley. C'era Damon. Solo lui."


***


"Ta-daan!"

Caroline compì un giro completo su se stessa, facendo frusciare la delicata seta del lungo vestito verde attorno alle sue gambe.

"Sei splendida," commentammo sia io che Bonnie. E lo era davvero.

Lei sorrise, si controllò i capelli che aveva appuntato di lato per poi farli cadere in morbide onde dorate sulle spalle, tastandoli piano con una mano, ed andò a sedersi davanti al proprio specchio. Iniziò a picchiettarsi del lucidalabbra sulla bocca con la punta delle dita, gettando nel mentre occhiate furtive verso il resto dell'ampia stanza di villa Lockwood riservata alle partecipanti a Miss Mystic Falls, che gironzolavano nei loro bei vestiti con tanto di madri al seguito intente ad assicurarsi di fermare le loro acconciature.

Caroline storse appena le labbra. "Lo sceriffo è troppo impegnata per farmi i capelli", aveva risposto asciutta all'organizzatrice e regina degli eventi mondani Carol Lockwood quando era passata a chiederle perché sua madre non fosse ancora arrivata.

Dal corridoio oltre la porta, vidi Matt sorridermi e chiedermi con un cenno della testa se volessi scendere di sotto insieme a lui. Sorrisi di rimando, mossi l'indice nell'aria, ti raggiungo tra un po'.

Caroline osservò il nostro scambio, mi lanciò una breve occhiata.

"Quel ragazzo," commentò, rimettendo a posto il lucidalabbra, "E' adorabile. E non vede l'ora di toglierti quel vestito di dosso. Perché lo stai facendo patire così tanto?"

"Non lo sto facendo patire!" replicai, sulla difensiva.

"Gli dici che vuoi farci sesso, e poi ti tiri indietro. Per me, questo è farlo patire."

"Non mi sono tirata indietro," dissi un po' arrossendo, un po' infastidita. "E' solo che non abbiamo ancora deciso quando lo faremo, tutto qui."

Lei sollevò gli occhi al soffitto. "Cosa c'è da decidere? Non devi scegliere una data, non è mica un matrimonio. E' solo sesso. Lo fai … e basta."

"Stiamo solo aspettando il momento perfetto, ok?" ribattei. "E' così sbagliato?"

"Non è sbagliato," disse Bonnie, lanciando un'occhiata di traverso a Caroline.

Caroline sbuffò, alzò le mani in segno di resa. Ma poi il suo sguardo si spostò al di là delle mie spalle, ed il suo volto prese immediatamente tutta una nuova e più vivace colorazione. Tornò di scatto a girarsi verso lo specchio, mentre io gettavo uno sguardo dietro di me.

Stefan stava guardando nella nostra direzione, prendendo quello che aveva tutta l'aria di essere un respiro piuttosto nervoso prima di iniziare ad avvicinarsi.

"C-ciao."

Si fermò a pochi passi dalla postazione di Caroline. Fece correre una mano tra i capelli, le infilò  entrambe nelle tasche del suo vestito scuro, cambiò idea, sembrò non sapere cosa farne. Io e Bonnie ci scambiammo uno sguardo.

"Ciao," rispose lei con una lieve tensione nella voce. Si sistemò di nuovo i capelli, riprese il lucidalabbra e lo riapplicò per quella che doveva essere ormai la terza volta in tre minuti, modulò il suo tono in un discreto sforzo di suonare indifferente. "Cosa … cosa ci fai qui?"

"Io …" Stefan si guardò attorno. "Niente, solo … ero nei paraggi, e … ti ho visto e … volevo solo dirti, buona fortuna. Cioè, non che tu ne abbia bisogno. Voglio dire, sei già così … "

Lentamente Caroline si voltò, inclinò la testa di lato. Lo guardò cautamente, come per cercare di decifrare se le stesse dicendo qualcosa di positivo oppure no. Stefan spostò l'attenzione sulla punta delle proprie scarpe, la rialzò un paio di secondi dopo.

"Insomma, stai già bene così, tipo i tuoi capelli, sono davvero …" sembrò pensarci intensamente, "… biondi."

Caroline increspò le sopracciglia, confusa. Stefan cambiò colore, e non uno molto lusinghiero.

Incrociai lo sguardo di Bonnie con la coda dell'occhio, e ci mordemmo entrambe le labbra per non iniziare a ridacchiare.

Stefan aprì di nuovo la bocca, ma sfortunatamente o fortunatamente per lui, Carol Lockwood fece il suo ingresso in quel momento, esortando tutti i presenti tranne le concorrenti a lasciare la stanza, ponendo fino alla sua pena. Ci mescolammo anche noi al rumoroso e vivace flusso di persone, confluendo tutti piuttosto disordinatamente verso le scale.

La voce frustrata di Stefan mi raggiunse quando fui quasi alla fine della scalinata, che avevo impiegato una vita a scendere nello sforzo di bilanciarmi su scarpe dal tacco decisamente più alto rispetto a quelle a cui ero di solito abituata.

"Quella cosa di fare complimenti non banali? Guarda che non funziona."

Mi girai in quella direzione e mi bloccai, non appena notai chi era il suo interlocutore.

Damon era lì, due gradini più in basso, in fondo alla scale, la sua figura di poco più bassa e più sottile di quella del fratello appoggiata con indolenza contro una colonna, l'accenno di un sorrisetto vagamente divertito a dare al suo viso quell'irritante espressione strafottente che, in un solo momento, spedì il mio cuore a piantarsi su nel bel mezzo della gola - di colpo estremamente indaffarato nel difficile compito di decidere se essere felice di vederlo o se prendere e correre da tutt'altra parte.

Stefan se ne andò, Damon si voltò appena, e i suoi occhi mi trovarono un secondo dopo. Strinsi più forte il corrimano nel vedere il modo in cui cambiarono, lo stupore, l'ammirazione e l'incertezza tutti mischiati insieme nello stesso azzurro chiaro, e quello in cui mi scivolarono addosso, e la tensione nel suo corpo sotto alla semplice ed elegante camicia bianca, e la forma delle sue labbra nell'attimo in cui si schiusero appena.

Il respiro successivo mi rimase intrappolato nei polmoni, insieme ad un palpito più frenetico degli altri e ad un nuovo nervosismo che mi piombarono addosso con una tale forza da farmi quasi dimenticare tutto il resto intorno a me - la musica delicata, il profumo forte dei fiori, il chiacchiericcio eccitato - improvvisamente spiazzata da un unico e destabilizzante pensiero: da quando mi sentivo così di fronte a Damon?

Poi qualcuno mi urtò il braccio dicendomi di muovermi e togliermi di mezzo, e in un momento tutto tornò a girare, il mio tacco vacillò, il mio equilibrio si perse, un altro volante "oh, scusami!" e una ragazza in un vestito rosa mi spinsero in avanti.

Damon mi sorresse per i gomiti. Il mio naso si schiacciò contro la sua camicia. Respirai per un breve secondo il suo odore familiare e fresco, qualche traccia di menta e qualche traccia di cuoio, e il mio petto si fece un po' più tiepido e un po' più liquido.

Le sue mani si scostarono, io mi raddrizzai, lui fece un passo indietro.

Istintivamente, andai a lisciare la gonna del vestito blu che Caroline stessa mi aveva prestato, sentendo l'aria condizionata soffiare piano su tutte le zone che lasciava scoperte - le gambe, l'allacciatura incrociata sulla schiena, la scollatura a cuore.

"Ciao," dissi, buttando fuori un respiro che mi sembrava di star trattenendo da un'eternità. "Io … non sapevi che saresti venuto."

"Neanche io." Scrollò le spalle, guardò altrove oltre la mia spalla, con palese indifferenza. "E' Enzo che mi ha trascinato qui, non resiste davanti alla prospettiva di cibo gratis e ragazze tutte in tiro."

Annuii per aggirare la punta di istantanea delusione. Non che avessi davvero pensato che fosse venuto sapendo di trovare me, ma …

"Ok. Io …"

"Dovrei andare," tagliò corto, corrugando le sopracciglia.

Vidi Matt farmi un cenno qualche metro più in là, e lo seppi istantaneamente dal modo in cui Damon strinse le labbra che doveva averlo visto anche lui. La punta di delusione di poco prima venne velocemente rimpiazzata da qualcosa di molto più indefinibile, molto più graffiante.

"Ci vediamo in giro."

"Ci vediamo," mormorai voltandomi a guardarlo allontanarsi, talmente piano che neanche mi sentì.


***


Entrambe le mie amiche mi osservano in silenzio. Hanno negli occhi uno strano miscuglio di cautela e affamata curiosità, come se stessero letteralmente morendo dalla voglia di inondarmi di domande ma avessero troppa paura di farlo e rischiare di far scattare una pericolosa bomba ad orologeria.

Ma, del resto, ciò che è successo poco fa nella boutique di una efficientissima Pearl (subito pronta ad aiutarmi con delicatezza ad uscire dal vestito, più preoccupata della sua incolumità che della mia, a portarmi un paio di bicchieri d'acqua per farmi smettere di tremare, e a metterci tutte e tre alla porta quando era stato chiaro che non avrei acquistato niente) non è stato certo uno dei miei momenti migliori.

Così restiamo tutte e tre in uno strano silenzio per alcuni secondi, attorno al tavolino circolare di un café all'ombra dei platani proprio di fronte a Pearl's Boutique, mentre il cameriere ci posa davanti le nostre ordinazioni. Del succo d'arancia per me, un caffè forte per Bonnie e un cosmopolitan per Caroline, ordinato dalla mia amica afferrando il ragazzo per l'orlo della maglietta con un implorante "E ti prego mettici parecchio alcol" in barba del fatto che siano appena le quattro del pomeriggio.

"Quindi …" dico tamburellando le dita sul tavolo.

"Quindi direi che adesso si spiegano parecchie cose," commenta Caroline buttando giù un generoso sorso del suo cocktail rosa.

Bonnie si sporge in avanti. "Come abbiamo fatto a non notarlo?"

"Beh, tu eri chiaramente troppo occupata ad amoreggiare con la tua ragazza, ed io …" Caroline si ferma quando vede Bonnie spalancare lo sguardo. "Cosa? Pensavi davvero che non lo sapessi? Oh, tesoro, lo so dal penultimo anno di liceo, prima ancora di te." Liquida la questione con un vago cenno della mano e poi torna velocemente a rivolgersi verso di me, mentre Bonnie nasconde un sorriso timido dentro una sorsata di caffè. "Da quanto va avanti?"

Giocherello con il bicchiere. "Da … la notte del Masquerade Ball. Io …"

"Aspetta un momento," mi interrompe. "Io ero a casa tua la mattina dop… Oh mio dio. Stavi facendo sesso con Damon quando sono venuta a casa tua?!" domanda in un sibilo acuto che fa  girare un paio di teste dai tavolini accanto.

Non dico niente, ma credo che il modo in cui guardo in aria e mi gratto distrattamente il retro della nuca sia già una risposta piuttosto chiara.

"Oh dio," prosegue tornando ad abbandonarsi contro lo schienale della sedia e a buttare giù il resto del cosmopolitan. Con il naso ancora arricciato dalla dose di alcol fa un cenno verso il cameriere di portargliene un altro. "Più forte questa volta, grazie. Quindi," mi esorta con lo sguardo. "Dicci!"

"Non lo so cosa dirvi," dico in un sospiro, posando il mento su una mano. "Dovrei probabilmente dire che non ne avevo davvero intenzione, che è successo e basta, che non so cosa mi sia preso, ma …" Faccio oscillare i cubetti di ghiaccio che stanno già annacquando il succo, e fisso lo sguardo sulle strisce di luce e ombra che striano le mie dita nude. Penso a quando Damon le aveva prese tra le sue per sfilarmi via l'anello di fidanzamento, quella prima notte insieme, al mio cuore che sbatteva impazzito di possibilità, alla vera linea dove ho smesso di essere solo la fidanzata di un uomo per essere anche l'amante di un altro. "… Ma la verità è … che io lo volevo. Dio, lo volevo così tanto. Forse inconsciamente mi sono detta che se lo avessi lasciato accadere, se fosse stato solo per una notte, allora avrei potuto smettere di volerlo, scrollarlo via, e non pensarci mai più … Ma non l'ho scrollato via, e non ho smesso di volerlo. Mi è solo entrato sotto la pelle ancora di più."

Prendo il bicchiere per dare un piccolo sorso. "Ma non ha importanza. E' finita adesso."

"Per via di Elijah?" domanda Bonnie.

"Per via di tutto. Perché lui è Damon, ed io sono io, e tutto deve sempre essere così …" Scuoto la testa e deglutisco una consapevolezza che brucia, si avviluppa su stessa, mi chiude tutto il petto. "In un modo o nell'altro finiamo sempre per farci del male. A quanto pare, siamo semplicemente terribili l'uno per l'altra."

"Sei innamorata di lui?"

Sollevo la testa di scatto, il mio battito si impenna. Caroline ringrazia tranquillamente il cameriere che le ha appena portato il suo secondo cosmopolitan, poi mi guarda in attesa da dietro il bordo del bicchiere. Scuoto decisa la testa.

"Non posso essere innamorata di lui. Voglio dire, è stato nei paraggi per quanto, tre mesi? E' tutto così affrettato ed un tale casino che …"

"Elena," mi taglia corto Bonnie. Piega la testa di lato e mi regala una delle sue occhiate da niente stronzate che ha l'effetto immediato di togliermi di bocca tutte le parole. "Andiamo. A me Damon non piace neanche, ma se c'è una cosa che io stessa ho capito di recente è che puoi raccontarti tutte le scuse che vuoi. Non cambiano quello che provi."

Mi mordo l'interno della guancia. Vorrei saperlo, quello che provo. Affondo un cubetto di ghiaccio con l'estremità della cannuccia.

"Non cambia neanche il fatto che io mi starei per sposare."

"Oh, ma per favore!" sbotta tutto d'un tratto Caroline, posando il suo bicchiere con un tale impeto che alcune goccioline saltano fuori macchiando la tovaglia bianca. "Sono mesi che trovi ogni scusa possibile per non pensare a questo matrimonio, o rimandare, o temporeggiare. E da parecchio prima che c'entrasse qualcosa Damon. Tu non sposerai Elijah. Lo so io. Lo sai tu. Per l'amor del cielo, c'è davvero ancora qualcuno che non lo sa?"

Alza gli occhi al cielo, si rituffa in una decisa sorsata del suo cosmopolitan, con la mano richiama il cameriere. Un altro.

La guardo stupefatta, presa in contropiede, con la mente che corre veloce a cercare di trovare una replica, una contraddizione, un'altra scusa - sapendo già che forse non ne ho più. E forse, non ne ho più da tempo. Corrugo appena la fronte, mentre il pensiero emerge piano, inevitabile e stranamente liberatorio, negli attimi di silenzio che seguono.

Il cameriere ritorna, prende il bicchiere a coppa dal suo vassoio e lo posa sul tavolo insieme al nostro conto. Bonnie si sporge per intercettare il drink dalle mani di Caroline appena prima che arrivi a toccare le sue labbra.

"Stai iniziando ad essere ubriaca."

"Non è vero!" replica piccata Caroline. "Questi sono a malapena acqua zuccherata."

"Che ti prende, Care?"

"Qui non stiamo parlando di me," si schermisce l'altra mettendosi sulla difensiva. "Stiamo parlando di Elena."

"No, Bonnie ha ragione," dico incrociando gli occhi ambrati della mia amica, che annuisce appena. Mi sporgo verso Caroline che serra appena più strette le labbra e prende un fazzolettino di carta per andare a tamponare le piccole macchie rosate che ha causato poco fa. Le sfioro leggermente le dita.

"So che sono stata con la testa da un'altra parte, forse lo siamo state un po' tutte, ma … c'è qualcosa che non va, vero?"

Caroline incontra il mio sguardo. Poi quello di Bonnie.

"C'entra per caso Stefan?"

"No. Non c'entra Stefan." Getta di lato il fazzolettino umido, sospira. Curva appena le labbra, ma c'è una vaga tristezza nel modo in cui lo fa, passandosi un dito sotto all'angolo esterno dell'occhio. "Eccetto per il fatto che le cose stanno andando così bene ultimamente, è anche il nostro anniversario domani, e lui sta lasciando tutti questi adorabili sottintesi di avermi preparato una sorpresa, ed io … Ed io non riesco a dirglielo."

Bonnie ammorbidisce la voce. "Dirgli cosa?"

Caroline increspa appena le sopracciglia, ci guarda da sotto in su con gli occhi grandi e lucidi. E poi inizia a piangere.

***


Caroline vinse, naturalmente.

Splendette senza sforzo su qualsiasi altra aspirante Miss Mystic Falls. Brillante nelle risposte, graziosa nel tradizionale ballo vecchio stile, arguta e commovente nel raccontare il suo attaccamento alla comunità e il suo modo per dimostrarlo. Ormai chiunque era perdutamente innamorato di lei quando, alla fine della giornata, Carol Lockwood piazzò sulla sua testa la sottile coroncina argentata, che Caroline prontamente risistemò a modo suo nell'attimo stesso in cui la signora Lockwood voltò le spalle.

La mano di Matt rimase quasi tutto il tempo attorno alla mia vita, le dita allacciate alle mie, naturale e confortevole e tutto il contrario dell'irrequietezza pronta a fremermi dentro ogni volta che gettavo occhiate furtive tra la folla per tenere traccia dei movimenti di Damon, nella forse impossibile speranza che potessimo avere l'occasione di parlare, far scomparire tutta questa stupida tensione e tornare semplicemente ad essere noi.

Ma Damon era in qualche modo sempre dal lato opposto del prato, o sempre con Enzo e le ragazze che giravano loro attorno, mezzi sorrisi e battute e un gusto amarognolo dentro la mia bocca, ed ogni volta che mi dicevo di prendere e semplicemente andare da lui finivo solo con lo stringere più forte la mano di Matt, e per non farlo mai.

Così la giornata passò e il pomeriggio cominciò a sbiadire e la gente ad andarsene, lasciando spazi vuoti sul prato e nel parcheggio all'ingresso della villa. Anche Matt se ne era dovuto andare poco dopo la proclamazione di Caroline per correre agli allenamenti della squadra, i primi in vista dell'inizio della stagione sportiva tra qualche settimana, promettendo di chiamarmi in serata.

Io stessa mi stavo domandando se fosse il caso di restare ancora un po' oppure tornare al Grill a dare una mano ("Sei pazza?" mi aveva detto Jenna quella stessa mattina. "Se non ci vai, ti ci trascino io stessa"), quando Caroline si avvicinò a me e Bonnie con tre calici frizzanti in cauto equilibrio tra le mani.

"E' champagne, shhh," ci disse porgendoceli. "Il ragazzo del catering me li ha passati di nascosto quando nessuno stava guardando in cambio del mio numero di telefono. Che potrei aver sbagliato di una cifra o due."

"Ne hai uno da parte anche per me, splendore?" domandò un accento inglese appena apparso al suo fianco.

Caroline quasi risputò tutto il sorso dentro al bicchiere, mentre Enzo proseguiva avvicinandosi al suo orecchio, "Lo sapevo che li avresti stesi tutti."

"Cosa ci fai qui?!" La mia amica si voltò bruscamente con un basso sibilo, si guardò attorno nervosa. "Ti avevo detto di non venire."

"Esatto, cosa ci fa qui?" mi sussurrò Bonnie, nascondendosi dietro al bicchiere.

"Ho una teoria," sussurrai di rimando.

Bonnie mi gettò un'occhiata interrogativa.

"Lui?" mimò disgustata con le labbra. "Non ci credo."

"… piaci quando sei tutta prepotente, te l'ho mai detto?"

"Te ne devi andare! E se …"

"… se il principe azzurro mi vede con te, vuoi dire?" Enzo fece scivolare un braccio attorno alle spalle della mia amica e le indicò con la testa un punto alla nostra destra. "Non vogliamo che diventi geloso, non è vero?"

Stefan aveva in effetti appena smesso di ascoltare la persona con cui stava parlando - qualcuno più grande, qualcuno che aveva tutta l'aria di essere una delle importanti conoscenze della famiglia Salvatore - per guardare nella loro direzione, con una faccia che sembrava essere in preda a del  terribile dolore fisico. Sotto al braccio di Enzo, Caroline si agitò a disagio, apparentemente molto combattuta tra l'aver ottenuto l'attenzione di Stefan e il pensiero che si stesse facendo un'idea sbagliata.

"Enzo, per favore," disse voltandosi con uno sguardo implorante verso il ragazzo appoggiato comodamente su di lei, "Io …"

Enzo si sporse per mormorarle qualcosa nell'orecchio. L'espressione di Caroline cambiò, un lampo di sorpresa ed interesse ad attraversarle gli occhi, un quasi impercettibile annuire con la testa, e, il momento dopo, Enzo la stava baciando con fervore.

Sia io che Bonnie spalancammo la bocca. E mentre Caroline era impegnata a dimenarsi e cercare di spingerlo via, ed Enzo era impegnato a non curarsene, ed entrambi erano impegnati a farlo fin troppo teatralmente, nessuno notò che Stefan si era rapidamente avvicinato, finché con un deciso spintone non spedì Enzo lontano da Caroline, appena prima di mollargli un destro dritto in faccia.

Il calice di Caroline cadde a terra schizzando champagne tutto intorno e il mio sussulto scioccato si mischiò con quelli delle mie amiche e con tutti gli altri sobbalzi e mormorii ed educati "oh mio dio" che si levarono tutto intorno, quando Enzo non perse tempo a replicare ed entrambi presero rotolarsi sull'erba sotto agli sguardi allibiti e sdegnati dei presenti.

Io e Bonnie prontamente accerchiammo Caroline.

"Ci esci insieme?"

"Ci vai a letto?"

"Da quando?"

"E' una cosa seria?"

"Oh mio dio, smettetela!" ribatté lei esasperata, gettando un'occhiata preoccupata verso Enzo che aveva ribaltato le posizioni placcando Stefan sulla schiena, e stava adesso cercando di scansare le dita dell'altro che tentavano di afferrargli e graffiargli la faccia. "E non siate ridicole! Enzo e io siamo solo … amici, ok? Credo. Non lo so. Diciamo che non è così irritante come potrebbe sembrare. Cioè, lo è, ma … può essere anche carino, se vuole. E no, non ci vado a letto. E' vero che ci sono stati alcuni … intensi incontri lingua a lingua all'inizio, ma … no!"

Con un'altra occhiata ai due contendenti, Caroline sussultò e si portò una mano sulla bocca intanto che Enzo schiacciava il palmo della mano contro il viso di Stefan, tirandogli i capelli, cosa che più di tutte sembrò farlo infuriare perché in un solo momento Stefan invertì di nuovo le posizioni gettando l'altro a terra.

Damon arrivò correndo, si avvicinò a suo fratello e lo tirò via prima che potesse sferrare un altro pugno. Il capannello di persone che nel frattempo si era radunato tutto attorno si separò per lasciar passare il signor Martin, capo della giuria, che utilizzò qualsiasi autorità quella carica potesse attribuirgli per gridare ai due attaccabrighe di lasciare immediatamente questo posto.

Enzo si alzò, con il dorso della mano si pulì un sottile rivolo di sangue sotto al naso, e senza alcuna fretta camminò verso Caroline. Le rivolse un sorriso sbieco.

"Mi ci voleva, una buona scazzottata," disse con un ghigno soddisfatto, pulendosi un angolo della bocca con il pollice. Indicò con un cenno della testa verso Stefan, che stava invece cercando di liberarsi della presa di Damon impegnato a dirgli di calmarsi. "Visto? Te l'ho detto. Dannato complesso del cavaliere bianco. E' cotto ed è tutto tuo, splendore."

Caroline sorrise. Si alzò sulle punte, lo baciò sulla guancia, corse verso Stefan.

"Cosa mi sono persa?" mi domandò perplessa Bonnie, guardandosi attorno.

Mi strinsi nelle spalle. La folla aveva già iniziato a disperdersi di nuovo, e fu cercando con lo sguardo tra di essa che vidi Stefan, che aveva già iniziato ad andarsene a capo basso, girarsi al richiamo di Caroline. Iniziò a parlare, scuotendo la testa e con lo sguardo abbattuto, ma si zittì quando la neo-eletta Miss Mystic Falls lo afferrò per la camicia macchiata e spiegazzata, lo tirò a sé e lo baciò.


***


Mi inginocchio per dare a Louis un'arruffata carezza di saluto sotto al collo, guadagnandomi in cambio una leccata appiccicosa sulla mano. Abbraccio mio padre quando mi rialzo in piedi.

"Grazie per avermi fatto restare qui un paio di giorni."

Stringe un po' più forte. "Non lo dire neanche."

"Vieni a trovarci, ok? Prima che Jeremy parta per il college." Lo sento irrigidirsi appena, così mi sbrigo ad aggiungere, "Ci parlo io."

"Per il momento, ragazzina," mi dice nel rilasciarmi, "Pensa a prenderti cura di te. Noi, il resto del mondo, ce la caviamo lo stesso."

Gli rivolgo un piccolo sorriso e un vago cenno di assenso con la testa, mentre alzo una mano per ripararmi dal sole forte della tarda mattinata e lo guardo richiamare Louis e salutarmi un'altra volta prima di tornare verso casa.

Ho impacchettato le mie cose dopo essere tornata dal mio pomeriggio di ieri con Caroline e Bonnie. Ho chiamato Jenna per dirle che sarei rientrata oggi. Ho chiesto ad Elijah di vederci stasera, a casa mia, per essere finalmente sincera con lui e con me stessa. Non ci sarà nessun matrimonio.

Elijah non si merita di vivere una bugia, è vero, ma forse, dopotutto, non me lo merito neanche io.

E fa comunque male, fare la cosa giusta. Ma questa volta più come un taglio disinfettato, che come uno nuovo che si apre. E' già qualcosa.

Il mio telefono suona non appena entro in auto. Guardo incerta il nome sul display.

"Stefan, ehi," rispondo esitante. Passo il cellulare nell'altra mano mentre mi sporgo per posare la borsa sul sedile del passeggero. Immediatamente penso a Caroline, il mio petto si stringe un po', e nella mia voce filtra una certa preoccupazione. "Cos'è successo, Caroline sta bene?"

Stefan sembra colto alla sprovvista. "Perché non dovrebbe?"

"Nessuna ragione," mi affretto a dire. "Solo … perché mi hai chiamato?"

"Ti volevo parlare."

Questa è strana. Stefan non è il tipo da chiamare tanto per fare due chiacchiere. Tantomeno se si tratta di parlare con me.

"Di cosa?"

"Sì, certo, mettili pure lì, li revisiono subito," dice a voce più bassa a immagino qualcuno del suo ufficio. Poi, rivolto a me. "Preferisco farlo di persona. Quando ci possiamo vedere?"

"Tra un paio d'ore?" dico. Un altro telefono suona in sottofondo dal suo lato della linea. "Mi trovi al Grill."

"Ok, ci vediamo lì. Scusami, devo andare."

Quando arrivo al locale, lo trovo già ad un tavolo in un angolo tranquillo.

E' un'ora pigra del primo pomeriggio, e ci sono pochi avventori nel locale sotto al magro sollievo delle pale del ventilatore. Il turno di Jenna inizia tra qualche ora, per cui c'è solo mio fratello che mi fa un cenno di saluto con la testa mentre finisce di pulire un tavolino.

Vado dritta verso Stefan, mi siedo di fronte a lui.

Ci ho pensato durante tutto il mio viaggio di ritorno. Perché se non si tratta di Caroline, se non è di lei che vuole parlare …. beh, c'è solo un'altra persona che io e Stefan abbiamo in comune, ed è una di cui, in un tacito accordo per mantenere le relazioni amichevoli ed equidistanti, tra noi non parliamo mai. E non so se questo sia davvero il momento più opportuno per venire meno al nostro silenzio di lunga data sull'argomento.

Stefan solleva gli occhi dai documenti che sta leggendo.

"Scusami, a quanto pare le scartoffie non finiscono mai." Li mette da parte, accanto alla brocca e al bicchiere d'acqua posati sul tavolo, e sorride, ma il suo sguardo racconta tutta un'altra storia. "Com'era San Francisco?"

Stringo le labbra, incasso il colpo.

Replico a voce bassa, "Hai parlato con Damon."

"Intendi mio fratello?" chiede di rimando, anche se la mia non era una domanda, gettandomi un'occhiata veloce mentre si versa dell'altra acqua. Al contrario di me, non si preoccupa di parlare più piano, e non è difficile intuire, dal suo asciutto tono sarcastico, che lo sta facendo di proposito. "No, non ci ho parlato. Perché, vuoi sapere come sta? Immagino uno schifo, dal momento che, lo sai, di solito è così che si riduce dopo che hai finito con lui, ma … ne so quanto te." Mi rivolge un altro sorriso tirato che è come un taglio freddo direttamente nel petto. Faccio per rispondere, ma mi anticipa. "Me lo ha detto Caroline."

Sospiro. "Naturalmente te l'ha detto. Senti, Stefan, io-"

"Ma ciao, Stefan."

Volto la testa verso la morbida voce femminile che è appena scivolata nella sedia accanto alla sua. Stefan chiude gli occhi per un paio di secondi, in quello che ha tutta l'aria di essere un appello mentale a tutta la pazienza che ha a disposizione.

"Ciao, Katherine."

Katherine posa il suo bicchiere colmo di succo scuro sopra il tavolo, con un gesto fluido sposta i lunghi riccioli bruni dei suoi capelli oltre la spalla, e non si preoccupa minimamente di registrare la mia presenza. Tira fuori un pezzo di carta dalla sua borsa di pelle nera.

"Ti cerco da stamattina. Cos'è questo?"

Stefan a malapena getta uno sguardo a ciò che Katherine gli sta mostrando. "E' l'avviso di un avvocato."

"Sì, grazie, questo lo vedo. Quello che intendevo dire è: cosa diavolo è questa storia che quello stronzo di tuo fratello non ha intenzione di darmi un centesimo? Ho dei diritti. Incluso quello ai suoi soldi."

"Dovresti chiederlo a lui."

"Ci ho provato, cosa credi? Non risponde alle mie chiamate. E … mio dio, questa roba fa schifo, che diavolo è?" esclama con fare disgustato mentre riposa il bicchiere sul tavolo.

"Quello è il nostro succo al mirtillo biologico," replico infastidita.

"No, mia cara, quello è ciò che io ho ordinato. Questa roba sa di fogna. Ad ogni modo," lo allontana da sé schifata, neanche potesse saltarne fuori un topo da un momento all'altro. Alzo gli occhi al cielo e faccio uno sforzo immenso per mordermi la lingua e non prendere il bicchiere e rovesciarglielo addosso. "Digli solo, Stefan, che finora sono stata ragionevole, molto ragionevole. Non vuole davvero vedermi incazzata. Lui sa cosa significa."

Katherine si riprende il suo avviso, la sua borsa e si allontana con una camminata da gatta che fa girare parecchie teste dentro al bar. Stefan affonda un po' di più nella sedia, si passa una mano tra i capelli con uno sbuffo frustrato.

"Che ci fa lei ancora qui?" domando indicando la direzione verso cui Katherine se ne è appena andata.

"Si aggiunge alla lista di tutte le cose per cui un giorno Damon dovrà ringraziarmi e ringraziarmi a dovere," sospira.

Rialza lo sguardo, mi osserva in silenzio alcuni secondi. Sembra combattuto.

"Ci tieni a lui?"

"Certo che ci tengo, Stefan!" rispondo senza esitazione. "Pensi davvero che-"

"Allora non dirlo ad Elijah."

Sbatto le palpebre confusa. Non sono certa di aver capito bene.

"Almeno non per un altro po'. E' un momento delicato per la nostra compagnia, abbiamo messo in moto un po' di cose e siamo nel bel mezzo di un'operazione rischiosa, e se Elijah viene a sapere o anche solo sospetta qualcosa su voi due e decide di rifarsela su Damon, potrebbe andare tutto a puttane. Non posso permettermi un tale rischio. E neanche Damon."

Lo guardo stupefatta. Non sta dicendo sul serio.

"Sono a conoscenza della vostra piccola macchinazione," dico, con una punta di fastidio. "Ma questa è la mia vita. Non sono una pedina nei vostri giochi di affari."

"Elena, per favore. Una settimana, è tutto quello che ti chiedo."

"E poi cosa, gli dico che sono andata a letto con colui che gli ha appena fatto perdere il lavoro? No, Stefan. Non posso farlo."

"Ok, allora."

Prende qualcosa dalla valigetta porta documenti che ha appoggiato distesa sopra il tavolo e me lo mette davanti. E' una cartelletta piuttosto anonima, con alcuni fogli al suo interno. La osservo con sospetto.

"Che cos'è?"

"E' il motivo per cui te lo sto chiedendo. Naturalmente puoi fare ciò che vuoi, e lo capisco, non te ne farei una colpa. Ma sono convinto che dopo aver visto questo mi farai questo piccolo favore, lasciandomi fare ciò che devo fare per riprenderci la compagnia di nostro padre."

"Stefan," ripeto. "Che cos'è?"

"E' il motivo per cui Damon non è più tornato a Mystic Falls. In caso te lo fossi mai chiesta."

Disorientata, scatto con lo sguardo verso di lui. Stefan mi fissa in attesa, aspettando una mia mossa o una mia replica.

Ma io non faccio niente. Non prendo ciò che mi sta davanti, non so cosa dovrei dire.

Allora Stefan si alza e raccoglie tutte le sue cose, tutte tranne quella. Beve l'ultimo sorso d'acqua, mi fa un cenno di saluto ed esce dal locale, lasciandomi sola con le mie improvvise mille domande e una risposta che non so se voglio avere.


***


Feci scorrere tra le dita la catenina d'argento attorno al mio collo fino a tirarla a segnarmi la pelle, avanti e indietro, avanti e indietro. Forse non avrei dovuto venire qui. Mi alzai e andai verso la finestra, per sbirciare verso l'ultimo stralcio di rosso nel cielo basso al di là della collinetta e l'avanzare della penombra violetta che precede la sera. Altri dieci minuti e me ne sarei andata.

I tacchi dei sandali iniziavano a farmi seriamente male, e non vedevo l'ora di uscire da quel vestito troppo stretto e troppo corto e tornare alle mie converse, ma era stata una decisione piuttosto impulsiva quella di venire fin qui dopo Miss Mystic Falls e un cambio di scarpe non lo avevo contemplato.

Dopo aver perso Caroline in favore delle braccia di Stefan, avevo declinato la proposta di Bonnie di tornare insieme a lei e a sua nonna, preferendo andare a piedi. Ma era stata solo una scusa per fare un altro giro attorno a villa Lockwood e cercare Damon in un tentativo dell'ultimo minuto di trovare quell'occasione per parlarci che mi ero lasciata sfuggire tra le dita durante tutto il giorno.

Solo che Damon se ne era già andato.

E mentre mi appoggiavo contro un albero a massaggiarmi una caviglia tormentata dalle scarpe, uno spaventoso pensiero mi aveva colpito. Era così che sarebbe stato d'ora in poi? Io e Damon intenti a gravitare a soli pochi metri di distanza stando attenti a non parlarsi e a non sfiorarsi, ancora e ancora e ancora, fino a che una parte così importante della mia vita non sarebbe diventato altro che un perfetto estraneo ed io lo avrei perso per sempre. Il buco nel mio petto mi era sembrato così abissale, così irrimediabile, che l'attimo dopo stavo risalendo la strada privata dei Salvatore con i tacchi in una mano e le punte dei piedi affondate nell'erba bassa e tiepida che costeggiava il bordo strada.

Non avevo davvero realizzato quanto mi fosse mancato uno spazio pieno di Damon fino a che non avevo aperto piano la porta - l'odore, la disposizione delle cose, alcuni nuovi cd aperti sopra il tavolo. Tutto sembrava così al posto giusto che, almeno per un momento, davvero pensai che sarebbe tornato al posto giusto anche tutto il resto.

(Crown of love, Arcade Fire) [1]

Mi voltai come sentii la chiave nella serratura e il leggero cigolio della porta, precipitandomi ad andargli incontro. Ma niente sembrava giusto e tantomeno al suo posto quando, avvicinandomi all'arco che si apriva sull'ingresso, lo sentii ancora prima di vederlo.

I respiri smorzati e il maldestro inciampare contro il mobilio, e la ragazza dai capelli biondo ramato che cadeva sul divano con Damon sopra di lei.

Un sapore orribile a metà tra nausea e rabbia irrazionale mi avviluppò lo stomaco. Quella stessa piccola, egoista, parte di me che solo qualche giorno prima aveva segretamente respirato di nuovo alla notizia che fosse finita tra lui e Michelle, non aveva pensato che l'altro lato della medaglia potesse schiaffeggiarla in faccia così presto e così crudelmente.

Era la stessa parte che avrebbe voluto gridare, quando Damon fece scivolare una mano sotto la maglietta della sconosciuta, e piangere, mentre lei offriva il collo che Damon leccò giù e giù e giù, ma imbottigliò tutte le lacrime, tutte le grida e tutta la furia che non avrebbe dovuto provare, troppo stordita per emettere un solo suono.

E poi la ragazza con il collo arcuato aprì gli occhi, incontrò i miei, si immobilizzò. Ed anche Damon si immobilizzò, alzando lo sguardo e la bocca dal seno della ragazza, più pallido tutto di un tratto. Si tirò su, guardandomi smarrito.

"Cosa diavolo ci fai qui?"

Deglutii altra rabbia e altre lacrime e corsi verso l'uscita. Ma Damon si alzò, mi afferrò per un polso e mi fermò, e l'unica cosa che io riuscii a fare per non cedere al putiferio dentro che mi aveva avvelenato lo stomaco fu riversarlo tutto nel tentativo di strattonarmi e svicolarmi, anche se lui mi riacciuffò tutte le volte.

Mi bloccò entrambe le mani, fece un passo avanti e fui costretta ad alzare lo sguardo sul suo volto. Fissò gli occhi nei miei. Non li avevo mai visti così furenti. Almeno, non con me.

"Non. Farlo," scandì lentamente.

"Seriamente?" sbuffò incazzata la ragazza che era con lui, tirando su una spallina del reggiseno e riprendendosi la borsa dal pavimento. "Non avevi detto di avere la ragazza, stronzo!"

Damon non distolse lo sguardo dal mio. Una mano mi tremò, stretta nella sua.

"Non ce l'ho."

"Come ti pare," replicò lei. Ci passò accanto e tirò violentemente a sé la porta. "Stronzo."

Il portone sbatté alle mie spalle abbastanza forte da farmi sussultare. Damon mi lasciò andare, in un moto amareggiato.

"Non le vai dietro?" domandai caricando la mia voce di sarcasmo, anche se venne fuori leggermente tremante della stessa rabbia impulsiva che ancora sentivo pomparmi nelle vene.

"Cosa ci fai qui?"

A quante altre aveva baciato la pelle come aveva fatto con me? Forse più dolcemente, forse più appassionatamente. Strinsi la mano fino a conficcarmi le unghie dentro al palmo.

"Forse, se ti sbrighi, riesci a trovare qualcun'altra. Tanto non la trovi sempre?"

La sua voce si fece meno paziente. "Cosa. Ci fai. Qui?"

Volevo piangere. Le lacrime mi bruciarono la gola.

"Vai al diavolo, Damon."

Mi voltai e posai la mano sulla maniglia. Ma Damon posò la sua sulla porta, ed io non ci provai neanche ad aprirla. Per alcuni secondi davvero molto lunghi, restammo entrambi immobili e in silenzio, il mio sguardo fisso sulle dita che tremavano sopra la maniglia, il suo braccio accanto alla mia testa, e il suo volto così vicino da sentire il suo respiro soffiarmi piano tra i capelli.

"Devi smetterla di fare così," disse piano, in un sussurro che sembrò costargli molta fatica. La sua mano scivolò più in basso lungo il legno della porta, lentamente, e sentii i suoi occhi sul mio volto. "Entrambi … dobbiamo smetterla di fare così."

"Fare cosa?" domandai, con le lacrime che premevano insistenti dietro agli occhi. "Parlarci? Vederci?"

"Questo," mormorò lui, sfiorandomi appena i capelli con le punta delle dita. "Tu che ti presenti qui. Io che te lo lascio fare."

"Mi hai sempre detto di venire quando voglio."

"E adesso non penso che dovresti farlo."

"Perché?"

"Cazzo, Elena."

Si allontanò da me con uno scatto frustrato. L'aria sembrò più fredda, lo spazio più vuoto. Lo cercai con lo sguardo.

"Perché è più importante portarti a letto ragazze a caso quando ti pare e piace?"

Alzò un angolo delle labbra in un mezzo sorriso amaro. "Pensi davvero che sia di quello che mi importi?"

"Non lo so, c'è qualcosa di cui ti importa?"

Qualcosa vulnerabile gli balenò negli occhi, e il mio cuore si contrasse. Si avvicinò, esitò un secondo. Posò piano entrambe le mani attorno al mio viso, cercandomi con lo stesso sguardo incerto e fragile. Io smisi di respirare.

"Te." Mosse appena i pollici per accarezzarmi il profilo del viso, con la delicatezza di chi ha davanti ad una creatura selvaggia pronta a balzare via al minimo gesto troppo brusco. "Mi importa di te."

Posai le mani sulle sue, le strinsi strette nelle mie.

"E a me di te," risposi con slancio. "Non ce la faccio a stare così, non lo capisci? Ho bisogno di averti nella mia vita."

Damon sfilò le mani dalle mie, sottraendosi al mio tentativo di impedirglielo aggrappandomici più forte.

"Come amico, giusto?"

Lo guardai senza capire. "E' quello che siamo."

"No, no che non lo è," ribatté con forza. "O non sarebbe così fottutamente doloroso ogni volta che ti vedo con Donovan. Non mi farebbe uscire di testa lo starti vicino e il non starti vicino e tutto ciò che diavolo ci sta nel mezzo. E tu non saresti qui, a scalciare e incazzarti ad ogni mio stupido, patetico tentativo di toglierti dalla mia testa." Abbassò la voce, più dolce, più roca, e tese una mano per scostarmi i capelli dal volto, "Non lo è, e lo sai anche tu. E io non posso continuare così, Elena, perché …" Prese un respiro. "Io-"

"Smettila," lo fermai con il battito troppo forte e la voce troppo acuta. "Non farlo, non …"

Il suo sguardo si frantumò. "Perché no?"

"Non possiamo semplicemente far tornare le cose a come erano?"

"No!" replicò. "E se non vuoi sentirmelo dire, va bene, ma ho smesso di far finta che mi stia bene, o che non sia così! Ho smesso di giocare a farti l'amico per starti attorno, quando fa solo un male cane. Ho chiuso."

Fu peggio di uno schiaffo. Lo fissai disorientata, cercando nel suo volto, nella sua espressione, un segno, uno solo, che non stesse dicendo sul serio, ma quando feci un passo verso di lui, Damon ne fece uno indietro, come se potesse ustionarsi con la mia sola presenza.

Il sale delle lacrime mi riempì la bocca.

"Damon, per favore, non farmi questo," lo implorai con un filo di voce.

Ci fu un lampo di sofferenza nel suo sguardo che quasi scambiai per incertezza. Ma poi serrò più stretta la mascella e allungò la mano verso la porta.

"Non cercarmi più, Elena," prima di sbattersela alle spalle


***


Mi era sempre piaciuto l'odore del giacchetto di Matt. Sapeva di bucato e pulito e semplicità, ed affondare il volto lì, tra il bavero e il suo collo, era una delle cose che amavo di più.

Ed era stato sempre lì che avevo affogato le lacrime e smesso di piangere appena una ventina di minuti prima, rannicchiata nello spazio tra i sedili del pick-up, con la leva del cambio sotto al ginocchio sinistro e il mascara sbavato a rovinare il colletto dall'odore di bucato, una lite con mio padre raccontata come scusa per coprire il vero motivo del mio stato, qualcosa che non avrei mai potuto raccontargli e che soprattutto non avrebbe mai potuto capire.

Avevo perso Damon. Davvero. Del tutto. Per sempre. Aveva dovuto rovinare tutto, ed io lo odiavo per questo, andando a parlare di …

No, ero io ad aver rovinato tutto. E lui ad odiarmi per questo.

Non ti odia. Tutto il contrario.

E non lo odi nemmeno tu.

Matt strinse il braccio attorno alle mie spalle, io chiusi gli occhi dentro alla sua pelle, ed il buio si fece quasi totale. Posò le labbra sulla mia testa ed io strofinai il naso nel suo collo. Un bacio nella parte più calda vicino al suo orecchio, solleticata dai suoi capelli. E lui sulla mia guancia. Ed io sulla sua mascella.

Era una bella sensazione. Calda e dolce e beatamente lontana da tutti i tagli che la nuova assenza di Damon aveva aperto, freschi, irregolari, e maledettamente dolorosi. Perché lo odiavo. E tutto il contrario.

Scivolai con le gambe su quelle di Matt, circondai la sua vita, infilai le dita tra i suoi capelli e la lingua nella sua bocca. Davvero una bella sensazione. Bastava perdersi nel modo in cui le sue mani risalivano accarezzandomi le cosce, nel calore crescente tra le gambe, e far scomparire la persona in grado di dilaniarmi il cuore e il cervello.

Ogni stupido e patetico tentativo di smettere di pensarti.

No, non era così. Io amavo questo ragazzo con il fiato corto e le mani sotto la mia gonna, questo ragazzo dolce e gentile che non mi avrebbe mai mandato il cuore in pezzi. Io non ero come lui. Che odiavo. E tutto il contrario.

Portai le mani tra i nostri corpi, gli slacciai la cintura. Matt tirò giù la zip del vestito blu, mi baciò lungo il collo.

"Hai i preservativi?" mormorai respirando più affannosamente.

Si fermò. Alzò il volto per cercare di scrutarmi al di là penombra scura, aggrottando la fronte. Sentii le guance farsi più calde, ma il buio era abbastanza da nasconderlo.

"Pensavo che volessi … " Fece scorrere una mano lungo il mio braccio. "Pensavo che volessi aspettare che i miei se ne andassero per quel weekend tra un paio di settimane, avevamo detto che avremmo potuto avere la notte e la mia camera tutta per noi … Ricordi?" sorrise. "La sera perfetta?"

"Non mi importa," dissi prendendogli il volto tra le mani. Abbassai lo sguardo e, solo per un momento, mi sentii sul punto di piangere di nuovo. "Non mi importa niente di tutto quello."


***


Ho perso il conto, di tutte le volte in cui l'ho fatto.

Prendere in mano ciò che mi ha dato Stefan, posarlo di nuovo sul tavolino di fronte a me. Intatto, neanche una sbirciata a ciò che contiene.

E' stato facile durante il giorno. Bene o male, ogni volta sono riuscita a distrarmi con un caffè da versare, un ordine da fare, un fornitore da chiamare. Lasciando l'anonima cartelletta lì a sbucare indiscreta dal bordo della mia borsa.

E' meno facile adesso, nel soggiorno di casa, quando c'è un limite al numero di volte in cui posso ripetere questo assurdo mordi e fuggi senza sembrare completamente pazza.

Non so cosa mi trattenga dall'aprirla e scoprire cos'è che Stefan è così sicuro possa convincermi a mentire deliberatamente al mio ignaro fidanzato e tradirlo in un modo forse ancora più crudele. Se si tratti solo di ciò che contiene (che cosa hai fatto, Damon?) o dell'idea che Stefan possa avere ragione, e che per Damon piegherei la mia morale ancora una volta.

Porto il volto tra le mani e cerco di pensare, anche se non è qualcosa su cui ci sia poi molto da ragionare.

E' solo un gran casino.

Il campanello suona. Getto un'occhiata all'ora, e vedo che Elijah è in anticipo di almeno una ventina di minuti. Velocemente, metto tutto via infilandolo in mezzo ad alcune riviste musicali di Jeremy lasciate disordinatamente sopra il tavolino e scatto in piedi.

Prendo un respiro profondo, mentre apro la porta.

Ma non è Elijah.

E' Caroline in un bel vestito rosso, con quel sorriso impacciato che le viene fuori quando non sa più come trattenere le lacrime, e scuote la testa, e si passa le mani tra i capelli, e scoppia in singhiozzi convulsi e sconnessi non appena la abbraccio.

"E' finita. Con Stefan, è finita."

——————————————————————————

Note:

[1] In uno dei primi capitoli, Damon dà un cd ad Elena, ed era per l'appunto Funeral degli Arcade Fire, che contiene anche questa canzone. A me fa male, quindi magari se non la conoscete ve la ascoltate e farà male anche a voi. You're welcome.


Spazio autrice

Mi perdonate il ritardo abissale?... Mi dispiace davvero tanto di averci messo così tanto ad aggiornare e a rispondervi (che farò, stasera e nelle prossime, intanto ci tenevo a fiondarmi a casa dopo lavoro e darvi in pasto questa cosa qua), e mi piacerebbe poter dire che impiegarci così tanto è stata una cosa una tantum, ma mi sono resa conto che questi capitoli, essendo quelli che portano alla fine, richiedono semplicemente più tempo per essere scritti, con tutti i pezzettini che ci sono da incastrare e far andare al loro posto.

Quindi mi appello alla vostra pazienza e alla vostra magnaminità anche per quelli che verranno.

Grazie a It's gonna be Damon per la pubblicazione delle anteprime; grazie alle mie adorabili "editrici" per revisionarmi i capitoli di tutte le sviste; e grazie, come sempre, il più commosso, a tutte voi, mai avrei sperato di trovare lettrici così appassionate. Grazie per avermi supportato fin qui e per continuare a farlo.

un bacio, e a presto

ever


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